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DESIGN THINKING IL FATTORE UMANO AL CENTRO DEL BUSINESS

IL FATTORE UMANO AL CENTRO DEL BUSINESS

IL DESIGN THINKING STA DIVENTANDO SEMPRE PIÙ IMPORTANTE PER LE AZIENDE. È IL MODO MIGLIORE DI DISEGNARE I PROCESSI A PARTIRE DALL’ESTERNO: NON DAL PRODOTTO O DAL SERVIZIO, MA DAI BISOGNI DEL PUBBLICO.

DI MAURIZIO ERMISINO

NELL’ERA DIGITAL O POST DIGITAL QUALE È ORMAI LA NOSTRA, IL DESIGN THINKING STA DIVENTANDO SEMPRE PIÙ IMPORTANTE PER LE AZIENDE ITALIANE. I MANAGER SEMBRANO APPREZZARLO. ED È UN MODO IN CUI IL FATTORE UMANO RIESCE A INTERVENIRE IN UN MONDO FATTO SEMPRE PIÙ DI BIG DATA E ALGORITMI.

Perché permette di cogliere il reale valore di un prodotto, o di un servizio; oppure, e questo è il tratto più importante, di intercettare un nuovo bisogno. In questo modo torna importante, nelle aziende, il ruolo dei creativi, degli umanisti. Ed è possibile far dialogare tra loro i vari comparti dell’azienda. Ne abbiamo parlato con Federico Giuntella, Chief Customer Experience Officer di Arkage, agenzia che ha fatto dei dati il proprio punto di forza, ma per cui questi vanno di pari passo con l’aspetto umanistico e creativo. “Il design thinking è il modo migliore di disegnare i processi a partire dall’esterno dell’azienda”, precisa. “E non dal prodotto o dal servizio: ma dai bisogni del pubblico che eventualmente vanno a soddisfare i prodotti e i servizi, ripensati e ridisegnati”. Fino ad oggi infatti le aziende che ottimizzavano, lo facevano per settori. “Il design thinking è: come faccio a ottimizzare quei processi che non fanno parte della mia azienda?”, spiega Giuntella. “Se mi occupo di vendere costumi da bagno e voglio fare un processo di design thinking devo partire non dalla mia capacità di fare il costume, ma dal bisogno dell’utente”. Prima di tutto c’è una fase di analisi. “Fino a ieri parlavamo di target, poi di persona, oggi parliamo di journey”, commenta Giuntella. “Ma spesso vedo journey che invece di mappare il cuore del cliente, il suo cervello, le sue percezioni, le sue emozioni, nei momenti di entusiasmo e delusione, mappano quello che succede in azienda. Che va fatto, ma a partire da tutte le fasi dell’esperienza del cliente. L’oggetto non è ‘com’è il mio costume?’, ma ‘cosa prova una signora over 50 che si vuole comprare un costume?’. Perché è fuori moda? Perché quello che ha è vecchio? Come faccio a saperlo? Glielo devo chiedere”. E questo si fa attraverso focus group, ascolto sui social interattivo, dialogo con le commesse del punto vendita.

L’IMPORTANZA DELLA PRIORITIZZAZIONE “Una volta si ottimizzava

il canale vendite”, ci spiega Giuntella. “Prendo tutti i miei venditori, li formo, rendo il processo perfetto e questo funziona”. Ma un approccio che parte dai bisogni è diverso. “Devi ottimizzare il percorso della signora over 50 che compra un costume”, continua. “E se prendo questa strada non prendo quella della ragazzina di 17 anni che ha pochi soldi e vuole un unico costume per la piscina e il mare. Ci sono tante persone che vogliono costumi, e che hanno esigenze diverse, possiamo trovare una cinquantina di customer journey possibili”. Per questo è importantissima la seconda fase. “È la prioritizzazione: dei vari customer journey quali dobbiamo scegliere?”, precisa Giuntella. “La prioritizzazione, se si hanno i dati, va fatta internamente all’azienda, mettendo a un tavolo i vari comparti, finance, legal, I.T. e così via, per valutare l’impatto di un journey”. Poi si mettono in atto delle scelte che hanno a che fare con l’impatto di business sull’azienda. “Si tratta di mettere insieme le persone e costruire un diagramma che dica, da una parte, quanto è forte l’impatto sul business, dall’altra quanto è forte l’impatto sulla percezione del cliente, e infine quanto è difficile la realizzazione”. “Deve funzionare da tutti e tre i lati”, aggiunge. “Così magari scelgo di fare il prodotto per la diciassettenne invece che per la cinquantenne. Quando parliamo di impatto sul business è proprio questo. Magari le cinquantenni non ci sono, potrebbero portarmi il 2% della clientela. La prioritizzazione è un mix tra impatto sul cliente e impatto sull’azienda”.

LE AZIENDE ITALIANE SONO PRONTE? Le aziende italiane sono pronte a fare un processo di questo tipo, o a farsi guidare da consulenti e agenzie? “È una questione di cultura”, ci risponde Giuntella. “Le aziende con la cultura outside-in non sono ancora molte. Ci sono spesso analisi che partono dal prodotto, dalle capacità aziendali, dagli obiettivi. E non viene mai nominata la parola cliente”. Anche perché

FEDERICO GIUNTELLA, CHIEF CUSTOMER EXPERIENCE OFFICER DI ARKAGE.

ALCUNI CASI DI SUCCESSO DI AZIENDE CHE HANNO FATTO TESORO DELLA CAPACITÀ DI MODULARE LE ESPERIENZE DEL CLIENTE IN BASE A UN BUON PROCESSO DI DESIGN THINKING: A DESTRA, NETFLIX CHE HA SOPPIANTATO BLOCKBUSTER; IN BASSO, IL PASSAGGIO DAL NOKIA ALL’IPHONE.

non è facile per le aziende mettersi in quest’ottica: è una sorta di rivoluzione copernicana, e sposarla vuol dire mettersi in gioco. “Quando apri queste scatole di customer journey design, di analisi del bisogno del cliente, apri scatole potenzialmente senza fine, dei progetti che creano grandissimi problemi all’azienda che li fa” ci spiega Giuntella. “Già mettere interlocutori di provenienza diversa sullo stesso tavolo è una cosa che in azienda è tanto necessaria quanto difficile. Alla fine la vera sfida imprenditoriale è superare questo ostacolo, avere un approccio che trovi una soluzione pratica e si porti a terra questo discorso. Si può pure fare tutto questo ma se non si porta il processo fino alla fine non serve a niente. Una volta fatta la prioritizzazione e scelto uno, due o tre journey da ridisegnare, a seconda di quanti si riesce ad affrontarne, si fa l’operazione di design del journey. E questa è pura attività imprenditoriale dell’azienda. Io non posso da consulente o agenzia dire a un’azienda che fa costumi ‘fai quello’, un consulente può aiutare a gestire le emozioni, un altro consulente di business analysis può aiutare a gestire come impatta sul processo di analisi: ma è l’azienda che deve decidere se fare un costume squamato, patinato, se mettere negli store personale più anziano per venire incontro a certe esigenze”.

DESIGN THINKING: COME SI FA? Ma come si fa a fare un design in cui le fonti di competenza sono così eterogenee? “Con il design thinking”, ci spiega Giuntella. “Si parte da una grande lavagna, con tanti post-it, che riassumono le informazioni e le emozioni, mettono in evidenza quello che prova il cliente, i punti di contatto con l’azienda. Con il pennarello si tirano delle righe, e si costruiscono, perpendicolarmente a ciascuno dei touchpoint del cliente, le interazioni che, a cascata, vanno a impattare su tutte le funzioni aziendali. Si costruisce la mappa di tutte le relazioni, tutte le risorse di asset aziendali. E quindi si fa il famoso discorso dei pallini rossi e verdi, che indicano lo stato emotivo del cliente e del personale. A partire dalle singole reazioni, si arriva a una visione d’insieme e si visualizzano i pattern di resistenza. E si ridisegna il processo, mettendolo su carta. E poi deve diventare tutto esecutivo. In genere se ne occupa il responsabile della customer experience: ai capi va dato il design per farlo diventare operativo. Qui la consulenza serve, l’agenzia oltre che da cerimoniere fa da testimone”. E a questo punto si fanno le scelte. “Devono essere misure che abbiano un impatto sul business”, precisa Giuntella. “Che facciano, ad esempio, aumentare le vendite o la brand reputation”.

BLOCKBUSTER VS. NETFLIX, NOKIA VS IPHONE Ci sono famosi casi

in cui il fattore determinante delle aziende è stata la capacità di modulare le esperienze, gestendone i momenti alti e i momenti bassi. Pensiamo al passaggio dal Nokia all’iPhone della Apple. Perché il secondo ha soppiantato il primo? “Tutti i prodotti hanno una criticità”, ragiona Giuntella. “Quella dell’iPhone è che lo devi caricare tutte le sere. I vecchi Nokia puntavano a durare quattro, cinque giorni. Apple ha fatto il design dell’iPhone e ha detto ‘facciamo uno schermo grande, facciamo vedere bene tutto’. Il rovescio della medaglia è che la batteria dura poco. Ma il design thinking ha portato a comprendere che l’emozione, in teoria negativa, di dover caricare il device tutte le sere, avrebbe prodotto alla lunga un risultato positivo, un rapporto quotidiano con l’oggetto, come quello dei nostri nonni con l’orologio a ricarica ogni sera”. Un altro caso è quello dell’avvicendamento tra Blockbuster e Netflix. “Gli utili di Blockbuster erano totalmente dettati dalle persone che portavano i dvd affittati in ritardo. E per le persone era uno stress tremendo”, commenta Giuntella. “È un design di journey in cui il momento di stress mi porta revenue, ma non è assolutamente tollerabile, è il senso di colpa come fonte di guadagni. Netflix, che nasceva come noleggio video su invio postale, ha liberato da questo senso di colpa: lo tieni quanto ti pare. Hai diritto di prendere dieci dvd e tenerli quanto vuoi”. MK

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