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Coronavirus, il ruolo dell’Oms. Ecco com’è andata
CORONAVIRUS, IL RUOLO DELL’OMS ECCO COM’È ANDATA Le accuse di Trump sulla sudditanza alla Cina, la difesa dell’Onu L’allerta pandemia durerà ancora a lungo
Palazzo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Ginevra).
di Riccardo Mazzoni
La polemica sul ruolo dell’Oms nell’affrontare la pandemia del Coronavirus è destinata a durare per anni, tra i colpevolisti come Trump che la accusano di aver ritardato l’allarme per sudditanza al governo cinese, e chi invece, a livello internazionale, difende il suo operato. Cerchiamo di ricostruire i fatti con una ricostruzione il più possibile obiettiva, riepilogando la cronologia di questi mesi terribili.
Era partita bene l’Oms, quando a settembre aveva pubblicato un rapporto intitolato “Un mondo a rischio”, che parlava di una possibile, imminente epidemia su scala mondiale avvertendo i governi sulla possibilità di un’emergenza sanitaria globale. Il rapporto era chiaro: “C’è una minaccia molto reale di una pandemia in rapido movimento altamente letale, di un agente patogeno respiratorio che potrebbe uccidere da 50 a 80 milioni di persone e spazzare via quasi il 5 per cento dell’economia mondiale”. Allarme caduto purtroppo nel vuoto e nel mancato
A settembre scorso, l’Oms aveva avvertito i governi sulla possibilità di un’emergenza sanitaria globale
recepimento da parte di molti governi nazionali, ma poi è proprio l’Organizzazione mondiale della Sanità ad essere finita nel mirino per le falle, i ritardi e le opacità nella gestione del Covid-19. Il nove aprile, nel mezzo della bufera e mentre il contagio si diffondeva pericolosamente nel mondo, è dovuta scendere in campo la stessa Onu per difendere il direttore generale dell’Oms Ghebreyesus dall’accusa dell’amministrazione americana di essersi piegata agli interessi della Cina aiutando Pechino a insabbiare le prime notizie sulla pandemia. Accusa tutta da dimostrare, ma ci sono fatti e circostanze che fanno oggettivamente riflettere sul funzionamento della macchina dell’Oms: alcuni medici di Taiwan, ad esempio, la informarono – a loro volta inascoltati - di aver scoperto che il virus si trasmetteva da uomo a uomo. E’ ormai accertato, poi, che in Cina il primo caso clinicamente diagnosticato risale al 2 dicembre, ma che il governo di Pechino ha annunciato la prima morte solo l’11 gennaio, e resta dunque il motivato dubbio che in quel mese cruciale l’interlocuzione tra Oms e Cina sia stata, per usare un eufemismo, quantomeno lacunosa. Solo il 28 gennaio, inoltre, l’Oms si è decisa, dopo ben cinque rapporti tranquillizzanti, a correggere da “moderata” ad “elevata” la minaccia dell’epidemia cinese per il resto del mondo. E la definizione di “pandemia” per definire l’emergenza è stata data solo l’11 marzo, quando era noto ormai da settimane che l’ondata epidemica interessava tutto il globo.
Anche sull’uso dei test diagnostici, la posizione iniziale dell’Oms fu inizialmente quella di raccomandarli solo ai casi sintomatici conclamati, per poi correggersi consigliando ai governi di effettuare test generalizzati a tutta la popolazione, a partire dagli operatori sanitari. Ebbene: i Paesi come la Corea del Sud o Taiwan che sono andati per la propria strada con l’uso siste
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matico dei tamponi e il tracciamento dei contatti sono quelli che stanno uscendo meglio, e con i minori danni anche economici, dalla pandemia.
Infine, anche sull’uso delle mascherine le linee guida dell’Oms non sono state all’altezza di un’organizzazione che ha il compito istituzionale di tutelare la salute del mondo, sostenendo che in caso di persone senza sintomi non c’è il rischio di contagio e che le mascherine non deve portarle nessuno, se non gli operatori sanitari che hanno in cura malati di Coronavirus, ignorando così il tasso di trasmissione dagli asintomatici. Un altro passo falso, insomma. Ora Mike Ryan, capo del programma di emergenze sanitarie dell’Oms, durante uno dei briefing sul Coronavirus, ha avvertito che sarà necessario fare ancora un lungo cammino per arrivare alla cosiddetta “nuova normalità”. Non si parla ancora, dunque, di revocare l’allerta pandemia. L’Oms non abbasserà il livello di allarme fino a quando – ha detto - “non disporremo di un significativo controllo del virus, di solidi sistemi di sorveglianza e di sistemi sanitari più forti”.

Il governo di Pechino è sul banco degli imputati per il Coronavirus: 122 Stati membri dell’Onu si sono detti favorevoli a un’inchiesta per fare luce sulle circostanze e sulle modalità in cui la pandemia si è originata e diffusa dalla Cina al resto del mondo, non ritenendosi soddisfatti né delle indagini condotte dall’Organizzazione Mondiale della Sanità né delle dichiarazioni ufficiali del presidente Xu Jinping, che ha offerto due miliardi di dollari per la lotta mondiale contro la pandemia; promettendo di mettere a disposizione di tutti il vaccino, se saranno gli scienziati di Pechino i primi a svilupparlo. Ma se la Cina è sotto accusa, c’è un’enclave cinese in Italia, quella di Prato, che ha saputo invece dare il buon esempio. All’inizio della pandemia Prato, dove vive la seconda comunità cinese d’Europa, era considerata la città più esposta al rischio Covid a causa dei 2500 cinesi che dovevano rientrare proprio in quei giorni dal Capodanno celebrato in patria
Gli allarmi si sono moltiplicati di pari passo con le polemiche. Ebbene, Prato è stata finora uno dei capoluoghi che stanno uscendo meglio dall’emergenza sanitaria. Questo piccolo miracolo ha però una spiegazione empirica molto precisa, che deriva sia dai forti legami di solidarietà che caratterizzano le comunità cinesi sparse nel mondo, sia dall’antica vocazione all’obbedienza: c’è una catena di comando che ha funzionato alla perfezione e ha organizzato una ferrea cintura sanitaria per evitare i contagi. Quando il virus è arrivato in Italia la Chinatown pratese, che brulica sempre di gente dalle sei del mattino fino a mezzanotte, ha letteralmente chiuso i battenti, diventando d’improvviso, da un giorno all’altro, un quartiere fantasma. Questo perché c’è stata una regia tempestiva ed oculata dell’emergenza: decine di famiglie sono state spedite in quarantena sull’Appennino, in case prese in affitto all’Abetone e a Fiumalbo, e i cinesi rientrati dal Capodanno sono stati sottoposti a una doppia quarantena: la prima nello Zhejiang, dove il governo regionale aveva adottato misure rigorose che impedivano l’espatrio, e la seconda appena rientrati nelle abitazioni pratesi, applicando l’autoisolamento volontario.
Senza dunque aspettare le indicazioni delle autorità italiane, i cinesi di Prato hanno importato dalla madrepatria le rigide misure di sicurezza che laggiù hanno alla fine dimostrato di funzionare: quarantena generalizzata e a turno, ogni tre giorni, un condomino va a fare la spesa per gli altri nuclei familiari in isolamento. Non solo: si rientra in casa lasciando fuori scarpe e vestiti e si riducono al minimo i contatti col mondo esterno, comprese le visite ai parenti, sostituite dalle videochiamate su Wechat. I cinesi di Prato, insomma, hanno giocato d’anticipo sul virus attraverso sacrificio, disciplina, solidarietà, autoisolamento e igiene scrupolosa, un atteggiamento responsabile che ha contribuito a fugare tra i pratesi i timori sul fatto che le migliaia di rientri dalla Cina potessero trasformare la città laniera in una zona rossa come quelle lombarde. R.M.