Birra Nostra Magazine 2_2021

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N. 2 | APRILE 2021

BIRRA NOSTRA

MAGAZINE

NOVITÀ, DEGUSTAZIONI, PRODUZIONI, ITINERARI NEL MONDO BIRRARIO

STORIA E IDENTITÀ MITI BIRRARI DA SFATARE:

LE RADICI DELLA BIRRA ITALIANA Dario Rosso

MATERIE PRIME KVEIK, SEMPLICEMENTE LIEVITO? Miro Sampino

FOCUS

Pane liquido La birra dentro e fuori dal piatto Eleni Pisano



BIRRA ARTIGIANALE ITALIANA DI QUALITÀ


Le guide

TECNICHE TRADIZIONALI DI BIRRIFICAZIONE di Lars Marius Garshol

La birra si produce da oltre 5.000 anni, ma ormai da secoli le tecniche produttive si sono progressivamente uniformate, in particolare nella brassazione commerciale. In alcune zone remote dei Paesi scandinavi e dell’Europa orientale, sopravvivono tuttavia pratiche rurali inusuali, tramandate nell’ambito delle locali famiglie contadine, che risultano in aromi e gusti molto lontani dalla birra che abbiamo conosciuto fino a oggi. In questo libro unico al mondo, l’autore indaga le materie prime utilizzate e le sfumature tecniche, ma anche antropologiche e storiche, che caratterizzano la produzione del mosto e la fermentazione di queste antiche “birre di fattoria”.

ISBN

9788868959104

TRA POCO NELLE MIGLIORI LIBRERIE seguici su www.edizionilswr.it

edizioniLSWR


Editoriale

Siamo tutti

PRINCIPIANTI!

U

n uomo che ha fatto dei suoi sogni una meta da raggiungere, Marc Benioff, imprenditore del settore tech, magnate dei media, suo il Time, per esempio, ha dichiarato “È necessario avere la mentalità di un principiante per realizzare un’audace innovazione”. Noi di Birra Nostra Magazine, redazione, lettori, amici e appassionati, ci sentiamo perennemente principianti davanti alla continua possibilità di imparare e migliorare ciò che già conosciamo, mossi dalla passione per un settore sommerso fino a pochi anni fa, quasi carbonaro, che oggi sta acquisendo sempre più consapevolezza del suo potenziale e del suo valore. Con l’attitudine e lo stesso entusiasmo di un principiante abbiamo confezionato un numero che contiene l’essenza stessa dell’essere principianti: Dario Rosso, nel suo studio alla ricerca delle radici della birra italiana, ha trovato una pagina tutt’altro che bianca, sfatando così il mito che vuole il nostro Paese escluso dalla narrazione sull’identità storica della birra. Certo risultiamo principianti rispetto a Sua Maestà la Gran Bretagna, ma abbiamo anche noi qualcosa da dire! Se parliamo di homebrewing, però, non potremo mai competere con le country house del Regno Unito, che Massimo Faraggi ci racconta e fotografa in questo numero!

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Per andare incontro ai birrai principianti, Norberto Capriata ha invece redatto il suo personale bignami, con indispensabili indicazioni per chi decide di mettersi in gioco tentando personali e audaci innovazioni. Eleni Pisano ci fa invece conoscere l’altra faccia della birra che, declinata in pane liquido, ci permette di sperimentarla in cucina scoprendone così una nuova e ricca personalità, all’insegna della qualità delle materie prime e dei prodotti. Infine, impossibile non porsi come principianti davanti alla nuova tendenza del momento, che vede la microdistillazione applicata anche al mondo birrario; una tradizione nuova che non può certo competere con quella antica della vite, ma che non ha meno da dire e che ha prodotto i primi ottimi esperimenti, come raccontato da Davide Bertinotti. Molti altri ancora sono i contenuti interessanti che meritano di essere letti e scoperti in un viaggio ideale verso la conoscenza di un mondo birrario sempre nuovo e in continua trasformazione; un mondo che, se continueremo a viverlo con gli occhi e l’entusiasmo dei principianti, continuerà a rivelarsi degno del viaggio che stiamo vivendo.

MIRKA TOLINI Professionista della scrittura e della comunicazione, collaboro da dieci anni al progetto Birra Nostra

Buona lettura e buona bevuta!

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BIRRA NOSTRA NOVITÀ, DEGUSTAZIONI, PRODUZIONI, ITINERARI NEL MONDO BIRRARIO

MAGAZINE

IN QUESTO NUMERO...

EDITORIALE Siamo tutti principianti!

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STORIA E IDENTITÀ Miti birrari da sfatare: le radici della birra italiana di Dario Rosso

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MONDO BIRRARIO Il Bignami del birraio principiante di Norberto Capriata

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IMPRENDITORIA BIRRARIA Guida galattica per publican – 3a parte

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di Francesco Donato

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HOMEBREWING “E ora qualcosa di completamente diverso” di Daniele Cogliati

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HOMEBREWING Birre in grande stile! di Massimo Faraggi

TENDENZE

36 SEGUICI SU

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La microdistillazione di Davide Bertinotti

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facebook.com/BirraNostraMagazine

BIRRA NOSTRA MAGAZINE

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NOME SEZIONE

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56 Birra Nostra Magazine - Bimestrale Pubblicazione registrata presso il Tribunale di Verona in data 22 novembre 2013 al n. 2001 del Registro della Stampa

MATERIE PRIME Kveik, semplicemente lievito? di Miro Sampino

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MATERIE PRIME Zuccheri e birra di Massimo Faraggi

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Direttore Responsabile Mirka Tolini

Impaginazione LIFE - LSWR Group

Comitato di Redazione Davide Bertinotti, Luca Grandi redazione@birranostra.it

Produzione Paolo Ficicchia

Hanno contribuito a questo numero Vanessa Alberti e Federico Viero, Norberto Capriata, Paolo Celoria, Daniele Cogliati, Francesco Donato, Massimo Faraggi, Matteo Malacaria, Eleni Pisano, Dario Rosso, Miro Sampino, Christian Schiavetti Quine Srl

Iscrizione al Registro degli Operatori di Comunicazione n. 12191

BIRRA IN CUCINA

Presidente Giorgio Albonetti

Pane liquido di Eleni Pisano

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MoBI tasting sessions: Le note torrefatte 52

TURISMO BIRRARIO Svezia – 1a parte di Vanessa Alberti e Federico Viero

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Coordinamento editoriale Marco Aleotti m.aleotti@lswr.it

Archivio immagini Shutterstock Foto di copertina di Sofie Delauw.

ABBONAMENTI Quine srl, Via G. Spadolini, 7 20141 Milano – Italy Tel. +39 02 88184.117 www.quine.it Rosaria Maiocchi e-mail: abbonamenti@quine.it PUBBLICITÀ commerciale@birranostra.it

Birra Nostra Magazine è frutto della collaborazione tra Birra Nostra e MoBI - Movimento Birrario Italiano www.birranostra.it - www.movimentobirra.it

FOCUS a cura del MoBI Tasting Team

Amministratore delegato Marco Zani

Stampa Grafica Veneta S.p.a.

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BIRRA ARTIGIANALE ITALIANA DI QUALITÀ

Tutto il materiale pubblicato dalla rivista (articoli e loro traduzioni, nonché immagini e illustrazioni) non può essere riprodotto da terzi senza espressa autorizzazione dell’Editore. Manoscritti, testi, foto e altri materiali inviati alla redazione, anche se non pubblicati, non verranno restituiti. Tutti i marchi sono registrati. INFORMATIVA AI SENSI DEL GDPR 2016/679 Si rende noto che i dati in nostro possesso liberamente ottenuti per poter effettuare i servizi relativi a spedizioni, abbonamenti e similari, sono utilizzati secondo quanto previsto dal GDPR 2016/679. Titolare del trattamento è Quine srl, via Spadolini, 7 - 20141 Milano (info@quine.it). Si comunica inoltre che i dati personali sono contenuti presso la nostra sede in apposita banca dati di cui è responsabile Quine srl e cui è possibile rivolgersi per l’eventuale esercizio dei diritti previsti dal D.Legs 196/2003. © Quine srl - Milano

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STORIA E IDENTITÀ

di Dario Rosso

Miti birrari da sfatare

LE RADICI DELLA BIRRA ITALIANA

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mmaginiamo la storia della birra come una cartina, una mappa su cui è rappresentato ogni Paese che ha contribuito alla sua evoluzione. In corrispon-

denza dell’Italia troveremmo un profilo vuoto, indefinito, una terra incognita. Una situazione surreale, se pensiamo al crescente interesse per il nostro set-

tore da parte dei media e dei consumatori e alle pubblicazioni a tema birrario, che si sono moltiplicate in questi ultimi anni (per quanto un numero risibile di queste si sia occupato di storia). Specularmente, sul versante accademico, anche gli storici si sono poco o punto occupati di birra, a dispetto delle numerose pubblicazioni di argomento storico industriale con un focus anche molto localizzato.

I limiti delle fonti disponibili In generale, le fonti bibliografiche disponibili afferiscono a due filoni principali: le storie d’impresa, commissionate da aziende in occasione di importanti anniversari, con l’obiettivo di ricostruire e comunicare il lungo cammino percorso – un fine che appare propagandistico e pubblicitario piuttosto che squisitamente storico; le opere di aficionados, esperti e amanti della birra, ma storici dilettanti. Ora, per quanto fondamentali nel mettere a disposizione di tutti documenti e informazioni, queste fonti sembrano peccare dello stesso difetto: decontestualizzano l’oggetto delle loro ricerche dal sostrato culturale, sociale ed economico in cui le fabbriche di birra operavano, presentandole come estranee a tutto ciò che le circondava. Inoltre, tutte le pubblicazioni hanno liquidato la prima metà dell’Ottocento – infanzia e adolescenza della birra italiana – in poche righe, lamentando una

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MONDO BIRRARIO

cronica mancanza di fonti e di notizie. Il rischio è di etichettare quell’epoca pionieristica come i cartografi medievali le terre inesplorate: hic sunt dracones, ultimo rifugio di miti e leggende.

d’industria, che la scienza e il progresso stavano facendo progredire rapidamente; proprio nelle Lezioni leggiamo di un precocissimo riferimento al test dello iodio in birrificazione.

Le Lezioni di Michele Buniva

Un’occasione mancata per fare concorrenza al vino

Tra le fonti bibliografiche disponibili sui primi passi mossi dall’industria birraria – quella piemontese in particolare – a inizio Ottocento, l’opera più significativa rimane Lezioni intorno alle principali bevande dell’uman genere e in ispecie alla birra, scritto da Michele Buniva ed edito a Torino nel 1832. Medico e scienziato di fama europea, interessato ad agricoltura e veterinaria, aveva vissuto e approfondito i suoi studi tra Parigi e Londra.1 Un multitasker ante litteram, instancabile divulgatore, strenuo fautore del progresso e del nuovo. Fu tra i primi, e certo la voce più autorevole, nel promuovere la nascita e lo sviluppo dell’industria birraria, con interventi sulle capacità organolettiche e nutraceutiche della birra, sul processo e sui mezzi di produzione, sulle materie prime. Un estimatore della nostra amata bevanda, dunque, non solo per le sue qualità e la sua salubrità, ma perché la considerava moderna e al contempo antica, prodotta con tecnologie e saperi all’avanguardia. Un prodotto, e un ramo

A noi può sembrare una questione futile e lontanissima, ma per due secoli una disputa aveva animato la dietetica: se vi era maggior beneficio nel consumo di bevande fredde o in quello di bevande calde. La birra sembra essere coinvolta proprio in questa disputa e gli effetti, almeno nel nostro Paese, sono sotto i nostri occhi. Venne fin dal principio presentata come una bevanda fresca e corroborante – ovviamente l’idea di fresco a inizio Ottocento doveva giocoforza essere ben diversa da quella che abbiamo oggi – stimolandone un consumo prettamente estivo e all’aperto. Non biasimo i birrai ottocenteschi: avevano a che fare con un prodotto nuovo, un mercato interamente da costruire e, soprattutto, con la concorrenza del vino. Mancò il coraggio di approfittare fino in fondo delle difficoltà dell’industria vinicola dovute a guerre e nuove malattie della vite, ritagliandosi quasi timidamente un posto che non arrecasse troppo disturbo ai nobili e potenti cugini.

Perché proprio il Piemonte?

MICHELE BUNIVA

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Ora, perché proprio in Piemonte e a Torino all’inizio del XIX secolo? Senza considerare il tessuto sociale ed economico su cui andava intrecciandosi la storia della manifattura birraria, o la cornice storica, riesce difficile trovare una spiegazione, a meno di considerare la nascita dell’industria brassicola come un accidente fortuito o, peggio, un evento miracoloso che non abbisogna di cause o ragioni. Che cosa ha reso appetibile l’investimento in un nuovo, almeno per il Regno di Sardegna, ramo di industria? Innanzitutto, l’aumento della domanda dovuto

alla presenza di eserciti provenienti da tutta Europa tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo. Il legame inscindibile tra guerra e alcol è antico quanto l’uomo. E ancora, le difficoltà dell’industria vinicola e il conseguente aumento dei prezzi del vino, mentre la birra soffriva in misura minore la stagionalità delle materie prime e ancora non era sottoposta a dazi. Una ragione fascinosa risiede nell’evoluzione tecnologica del processo di birrificazione. Un sapere sempre meno prerogativa delle corporazioni artigiane, eredità del medioevo, e sempre più diffuso e disponibile ai più, una tendenza iniziata con l’Encyclopédie e arricchita dalla pubblicazione di trattati sull’arte brassicola. Infine, ragioni squisitamente geografiche, da sussidiario elementare: il clima, l’ampia disponibilità di acqua, la vicinanza alle montagne, la facile reperibilità di neve e la sua conservazione nelle ghiacciaie cittadine.

L’affermazione delle Lager Ma ritorniamo al professor Buniva e alle sue Lezioni, dove, tratteggiando i primi passi dei birrifici torinesi, evidenziava, forse inconsapevolmente, gli elementi che caratterizzeranno l’evoluzione dell’industria birraria piemontese. In primis, la presenza di maestranze e investitori stranieri, alsaziani e svizzeri in particolar modo – il caso Metzger è il più celebre. Gli inglesi, d’altra parte, preferivano “del porter che fanno venire dalla loro patria per mare”;2 non consumavano birra locale né investivano in fabbriche sul posto, dunque. Una scelta che segnerà profondamente la storia a venire, in cui vedremo affermarsi l’arte brassicola tedesca e mitteleuropea e scomparire dal panorama birrario italiano gli stili inglesi. Si è costruito così il mito delle Lager, le Vienna lager in particolare, quale stile fondante e oramai archetipico della storia birraria italiana. La storia è, come sempre, più complessa e affascinante.

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MONDO BIRRARIO

Per gentile concessione www.metzger1848.com

L’esposizione nazionale di Torino del 1858 Una nitida immagine dei birrifici e della birra prodotta ci è restituita dalle esposizioni nazionali, organizzate a Torino fin dal 1805: una vetrina per le manifatture piemontesi, un’occasione di pubblicità dei propri prodotti e della propria filosofia aziendale. Il quadro che emerge dai rapporti della giuria è molto simile a quello odierno del settore artigianale, con birrifici che presentavano ai concorsi numerose referenze e diversissime tra loro, segno di una certa intraprendenza e creatività in sala cotta; e con una chiara identificazione di problemi ancora attuali. L’esposizione del 1858 fu senza dubbio la più rigorosa e, per certi aspetti, la prima veramente moderna, mostrando il livello di maturità raggiunto dall’industria piemontese: 57 fabbriche di birra per una produzione di 50.809,34 hl.3 Leggiamo nel dettaglio la scheda della Società anonima per la fabbricazione della birra in Torino, di cui era capo operaio Filippo Metzger, premiata con la medaglia d’argento. “La fabbrica della Società anonima ha mandato dieci qualità di birra. […] La birra da tavola della Società esponente trovata assai buona”. Nel catalogo di ogni

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birrificio troviamo un riferimento alla birra da tavola, birra comune o semplice: il prodotto più economico, meno alcolico e di più largo consumo. Richiama le birre prodotte con il secondo o terzo mosto ricavato dal risciacquo delle trebbie. “Quella di Baviera di gusto e qualità eccellente”. Altrove leggiamo anche birra di tipo Monaco e, se devo pensare a uno stile rappresentativo, quasi per antonomasia, della Baviera nella metà del XIX secolo, mi viene in mente lo stile Dunkel. Ma anche le Bock sembrano un’ipotesi sensata, in quanto vengono presentate come stile rilevante e approfondite in un trattato francese che ebbe una certa diffusione sia in lingua originale sia in traduzione nella prima metà del secolo: Nouveau manuel complet du brasseur di Vergnaud. “Quella Porter molto buona e spiritosa”. Per dare conto dell’autorevolezza che questo stile aveva ancora a metà del secolo ci viene in soccorso proprio il Nouveau manuel complet du brasseur, in una sua traduzione e ristampa del 1864: “Il Porter, che a Londra si chiama comunemente birra, dev’essere decisamente considerato come il migliore di tutti i liquori di malto. I processi di sua preparazione tutti si riuniscono per convertire la sostanza che produce questa specie di liquore nel liquido vinoso il più

perfetto che possa mai essere ottenuto dal grano”.4 “L’Ale fu riconosciuta identica all’inglese, molto ben conservata ancorché fatta nel 1855”. Sappiamo bene quanto sia onnicomprensivo il termine Ale, per cui diventa ostico ipotizzare a quale stile faccia riferimento la giuria nel testo. A metà del XIX secolo la Ale più prodotta, e di conseguenza consumata, era la Mild. Così descrive una Ale il Nouveau manuel complet du brasseur: “L’ala è una birra di consistenza più siropposa del porter; essa contiene una gran quantità di materia farinacea, non decomposta e di mucilaggine zuccherina, ciò che le ha dato una consistenza viscosa e un sapore dolcigno”.5 Una birra non particolarmente adatta all’invecchiamento, dunque. Potrebbe allora trattarsi di una Stock Ale, un prodotto agli antipodi della Mild? Purtroppo, la giuria che ha compilato il catalogo dei birrifici presenti all’esposizione non ha ritenuto utile o importante inserire una breve descrizione organolettica delle birre. “Lo stesso dicasi della birra così detta alla cannetta, quella uso San Salvatore, uso Lione, birra bianca ecc.”. Birra alla cannetta posso solo ipotizzare che, italianizzando il termine francese canette, si riferisca alla birra in bottiglia. La birra

Due giovani eleganti bevono una birra a Monaco, intorno al 1880.

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uso San Salvatore parrebbe richiamare la Salvator, una Doppelbock. Quella uso Lione merita una breve digressione (vedi box). Infine la birra bianca, che tosto richiama le birre di frumento, ma che potrebbe indicare semplicemente una birra più chiara rispetto alle altre presentate, tutte scure.

L’importanza di una filiera nazionale Nella relazione della giuria è l’introduzione alla sezione X, quella appunto riservata alla birra, a colpire per la maturità di analisi e la capacità di individuare problemi ancora attuali: uno su tutti l’urgenza di una filiera nazionale. Attuali perché li ritroviamo trattati nei Rapporti delle associazioni di categoria, nelle riviste di settore, in conferenze e webinar. Attuali perché, dopo 160 anni, sono ancora lontani dall’essere risolti. “Le materie che servono alla fabbricazione della birra, ancorché indigene e di facile coltura per il nostro Paese, stante la scarsità che se ne produce, vengono importate in gran parte dall’estero. L’orzo e il luppolo, due piante molto rustiche fra noi, e di coltura facilissima, non sono sufficientemente coltivate, il terreno cioè che si destina per queste piante è molto limitato, quindi la necessità di ricorrere all’estero con iscapito dell’agricoltura e del commercio interno. […] Alcuni fabbricanti di birra o proprietari di fondi già attesero con qualche esito a questa coltura ed i prodotti compenserebbero abbondantemente le spese, ove i guasti arrecati da rozza gente non portasse talvolta lo scoramento”.8

LA BIRRA USO LIONE

Lione, tra le città francesi, è quella con il legame più stretto con Torino e il Piemonte, per cui non ci stupisce leggerne il nome; non solo, “à cette époque […] les brasseries les plus réputées pour la qualité des leurs produits sont celles de Strasbourg et de Lyon”.6 Ma quale birra si produceva e si beveva a Lione nel XIX secolo? La Bière Noire de Lyon, una birra simile alla Porter. “Les bières brassées à Lyon étaient des bières dites “fortes” de fermentation haute. Elles étaient moelleuses et sucrées, maltées et très houblonnées. […] la Bière de Lyon était frabiquée avec plus de tout: plus de malt, un malt ambré […]. Plus de houblons […]. On se servait de plus de levures qu’ailleurs”.7

E il primo mito da sfatare è di non avere una tradizione birraria; questa tradizione c’è, o meglio c’è stato un tempo in cui stava mettendo radici robuste. Gli imprenditori di oggi – birrai artigianali del XXI secolo – si trovano ad affrontare problematiche affatto dissimili da quelle di inizio Ottocento: la necessità di creare e modellare un mercato posizionando il prodotto, immaginandone un’identità, inventando modi e luoghi di consumo, mettendosi in gioco sul mercato estero; di confrontarsi con il progresso tecnologico e la dialettica tra industria e artigianato, che proprio allora iniziava a muovere gli animi; di approntare una filiera agricola in grado di sostenere l’industria birraria nazionale. Queste erano le stesse problematiche e opportunità con cui si dovette confrontare anche il signor Operti,9 quando

ebbe la balzana idea di fondare una fabbrica di birra a Torino più di duecento anni fa. E l’eco delle scelte compiute allora riverbera ancora oggi nell’evoluzione della birra artigianale. ★

Note

1. Per una bibliografia si veda: http://www.treccani. it/enciclopedia/michele-francesco-buniva_ (Dizionario_Biografico)/. 2 M. Buniva, Lezioni intorno alle principali bevande dell’uman genere e in ispecie alla birra, Torino, 1832, p. 9. 3 Questo dato e le seguenti citazioni relative agli stili presentati sono tratte da: Camera di agricoltura e di commercio [Torino], Relazioni dei giurati e giudizio della R. Camera di agricoltura e commercio sulla Esposizione nazionale di prodotti delle industrie seguita nel 1858, Torino, 1858, pp. 350 e 354. 4 Riffault, Vergnaud, Malepeyre, Nuovo manuale completo del birrajo o l’arte di fare ogni sorta di birra, Trieste, 1864, p. 9. 5 Ibidem, p. 10. 6 Camera di agricoltura e di commercio [Torino], op. cit., pp. 353-354. 7 M. Buniva, op. cit., p. 7. 8 Camera di agricoltura e di commercio [Torino], op. cit., pp. 353-354. 9 M. Buniva, op. cit., p. 7.

Stesse problematiche, stesse opportunità È palese il giovamento che potremmo trarre dal trattare la storia della birra italiana da un punto di vista scientifico e rigoroso più che mitico, buono solo per un anodino storytelling.

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Prospetto laterale del birrificio BOSIO & CARATSCH di Torino (1907). I padiglioni furono progettati dall’architetto Pietro Fenoglio, tra i massimi esponenti del liberty in Italia.

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di Norberto Capriata

IL BIGNAMI

DEL BIRRAIO PRINCIPIANTE

Qualche suggerimento per partire con il piede giusto o raddrizzare la rotta

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l movimento artigianale italiano è ormai una certezza, con un migliaio di birrifici attivi molti dei quali di buona qualità e alcuni persino a livelli di eccellenza, in grado di giocarsela con i più importanti nomi mondiali.

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Che un Paese come il nostro, senza una vera tradizione brassicola, sia passato, in poco più di due decadi, dal nulla quasi assoluto alla Top 5 mondiale (tale ritengo essere la nostra posizione attuale) potrebbe sembrare un vero e proprio

miracolo. Tuttavia, se c’è un settore nel quale l’Italia non ha mai avuto rivali è proprio quello enogastronomico e le potenzialità per giungere, tutto sommato senza grandi sforzi, a questi risultati c’erano tutte.

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Secoli di educazione al gusto, alla biodiversità e alla creatività nell’ambito del buon cibo e del buon bere avevano edificato le basi per permetterci di affrontare anche questa sfida con grandi aspettative e oggi, grazie anche al grande impegno profuso da chi si è messo in gioco, possiamo già guardare dall’alto buona parte del resto del mondo brassicolo. Eppure, esistono ancora alcuni piccoli “errori” o, per meglio dire, alcune scelte infelici, che accomunano tanti produttori locali, quasi sempre alle prime armi, e che spesso invalidano il prodotto finale o ne limitano la qualità o l’efficacia. Talvolta si tratta di scelte produttive, dimostratesi già da tempo errate o perlomeno poco funzionali, piccole scorciatoie che magari sarebbe meglio evitare, convinzioni radicate e difficili da superare; in altri casi, invece, sono vere e proprie scelte strategiche che possono rivelarsi, alla lunga, controproducenti. A volte, basterebbe un piccolo ripensamento o cambio di direzione per ottenere miglioramenti abbastanza netti e permettere a un birrificio esordiente di partire in maniera da subito efficace oppure a un produttore già ben avviato ma un po’ anonimo o non del tutto convincente di fare un vero salto di qualità e passare al livello successivo per giocarsela con i migliori. In questo articolo ho provato a identificare alcuni punti sui quali, ho notato,

Acqua Tutti sanno che l’acqua è la componente principale della birra, perlomeno in termini di proporzioni. Eppure in tanti ne sottovalutano l’apporto sul risultato gustativo complessivo, ben più interessati a indagare minuziosamente altri aspetti, magari il mix di luppoli migliore possibile. Ma si tratta invece di un fattore fondamentale, soprattutto se si è interessati all’eccellenza. E infatti chi ha la fortuna di potersi avvalere di un’acqua “buona”

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molti neo-produttori, ma anche birrifici già avviati e anche validi, tendono ancora a incartarsi, evidenziando il tema e indicando qualche possibile alternativa per migliorare la situazione. I primi punti riguardano aspetti di produzione e gestione del prodotto, quindi in qualche modo la qualità stessa di quanto finisce nel bicchiere; i successivi si riferiscono invece a scelte strategiche o di mercato che influenzano

l’immagine del produttore agli occhi del cliente attuale o potenziale. Niente di rivoluzionario, intendiamoci, si tratta di argomenti che molti professionisti o esperti del settore hanno già ben sviscerato e che non stupiranno nessuno. Penso comunque che sia utile riesaminarli per fare il punto su alcuni equivoci ancora abbastanza ricorrenti nel mondo della birra artigianale, non solo italiana.

se la tiene ben stretta. Basti pensare a un birrificio di grande qualità e successo come Elvo, che alla leggerissima acqua di sorgente della sua zona deve moltissimo. Molti, invece, semplicemente non vi prestano attenzione e magari tutta la loro produzione ne risulta ridimensionata. Un birrificio del quale ho da poco assaggiato quasi tutto, per esempio, presentava praticamente lo stesso difetto su tutta la linea di birre: un finale amaro sgradevole, medicinale e astrin-

gente. Per il resto si intuiva una discreta tecnica ed era evidente l’impegno profuso nell’ambito comunicativo e commerciale. La mia tipica ritrosia a esprimere certezze assolute mi trattiene dal dire che il problema fosse proprio nell’acqua, ma tutto me lo fa pensare e, diciamocelo, è un po’ dilettantesco cascare proprio su questo ingrediente, soprattutto considerando che le possibilità tecniche per migliorare acque non ottimali esistono e sono alla portata di tutti.

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IPA e malti caramello Identificare come problema diffuso un’interpretazione specifica di un singolo stile potrebbe sembrare fuorviante. Ma le India Pale Ale, in tutte le loro declinazioni, rappresentano oggigiorno la fetta di gran lunga più ampia e importante della produzione craft italiana e mondiale. Fino a qualche anno fa gli esempi più comuni e tipici di questo stile presentavano, tra gli ingredienti standard, una certa quantità di malti caramello (crystal, cara-hell, cara-munich ecc.), ossia malti “speciali” che, grazie a un procedimento di tostatura più o meno lieve, assumono note tostate che donano alla birra aromi biscottati, di frutta secca e, appunto, caramello. L’evoluzione dello stile (e del gusto dei bevitori) ha portato a ridurre, fino spesso ad azzerare, l’utilizzo di questi malti. Il motivo è abbastanza evidente e condivisibile: dato che le IPA e affini basano tutto il loro peculiare equilibrio sul contributo dei luppoli e sui loro particolari e intensi sentori, perché allora inserire un elemento organolettico che va a coprirne il contributo? Non ha senso, in effetti. L’equivoco (o la consuetudine, a seconda dei punti di vista) nasce negli States. I primi esempi di riscoperta dello stile “India Pale Ale” e la successiva rielaborazione delle linee guida, con l’introduzione massiva di luppoli autoctoni, era-

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no effettivamente caratterizzati anche dall’uso di malti caramello. Si trattava di grandi birre, intendiamoci, ma anche di interpretazioni dello stile meno estreme di quelle attuali, che non puntavano così tanto sull’intensità aromatica del solo luppolo (fruttata, agrumata, tropicale), lasciando spazio a equilibri ora meno in voga; inoltre gli stessi luppoli erano all’epoca in numero e varietà minori, aromatici ma non così intensi come le super-varietà tanto di moda oggigiorno, quasi sempre virati verso il pompelmo e il “resinoso” e pertanto particolarmente adatti all’”appoggino” di caramello. Le Pale Ale del ventunesimo secolo sono birre luppolatissime con sentori estremamente fruttati e tropicaleggianti; i malti caramello, in queste tipologie di birre, risultano come minimo controproducenti, perché smorzano tali ormai indispensabili aromi con il rischio di renderli addirittura sgradevoli, non integrandosi bene con il fruttato e indirizzandoli verso accenni di medicinale, soprattutto quando la birra inizia ad avere qualche mese di vita. Riassumendo: nelle ricette delle IPA conviene evitare i malti caramello o perlomeno limitarli con dosaggi omeopatici e solo qualora l’aggiunta abbia un’attinenza sensoriale con le qualità di luppolo utilizzate.

Bottiglia o lattina? Si tratta di un tema relativamente nuovo, che interviene però, a gamba tesa, su una tematica relativamente vecchia. I bevitori consapevoli di lungo corso non possono non aver notato, nella loro storia di alcolismo più o meno controllato, che alcune tipologie di birra danno il loro meglio in bottiglia e altre in fusto (alla spina). E non si tratta di dettagli da poco, avvertibili solo da pochi fantomatici super-taster, ma di evidenze abbastanza palesi, che noi tutti abbiamo, o avremmo potuto, verificare facilmente con l’esperienza. Per entrare un minimo nel merito, possiamo sbilanciarci affermando che il consumo in fusto, in genere, è particolarmente indicato per le tipologie di birre che danno il loro meglio se estremamente fresche, appena brassate, e sono suscettibili di veloce obsolescenza col passare dei mesi: le Ale e le Lager a bassa gradazione, per esempio. Gli stili che, per loro natura, beneficiano di un periodo di affinamento e maturazione che ne accresca la complessità e ne smussi gli spigoli, tipo Belgian Strong Ale, Imperial Stout/Porter, Old Ale, Barley Wine, risultano invece generalmente preferibili in bottiglia (non a caso si parla di rifermentazione in bottiglia).

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Il recente avvento nel mondo craft della lattina, che nel suo piccolo, se ben gestita, ha gli stessi pregi di un fusto in miniatura (soprattutto sul contenimento di problemi importanti come ossidazione e luce), permette quindi, a chi sia munito di un macchinario apposito, di confezionare al meglio anche le tipologie di birra che finora risultavano un po’ penalizzate dall’imbottigliamento, con un ovvio vantaggio sia nella gestione del prodotto sia per quanto riguarda l’esperienza gustativa della clientela finale. Dato che si tratta di apparecchiature costose, la nuova spesa non è trascurabile e ultimamente stiamo addirittura assistendo alla nascita di birrifici che optano per il solo confezionamento in lattina, scelta resa sensata magari proprio dall’avere in listino soprattutto birre che si prestano particolarmente. Intendiamoci, una corretta gestione del processo completo, dalla macinazione dell’orzo alla bevuta, permette di usufruire di birre “a posto” qualunque sia il contenitore usato. La possibilità di optare per entrambe le scelte può però fornire al produttore un valore aggiunto che finora non aveva, contribuendo all’eccellenza del prodotto finale.

Scadenze È possibile che una birra ben fatta, da tutti i punti di vista, possa comunque deludere all’assaggio? Eccome se è possibile... Le ragioni possono essere tante, ma ce n’è una in particolare. Immaginate di comprare una bella bistecca e, invece di consumarla subito, lasciatela una settimana in frigorifero. Oppure, un ottimo Barolo... meglio berlo appena imbottigliato o lasciarlo affinare per anni? Non c’è nemmeno bisogno che risponda, vero? Anche la birra artigianale, a differenza della sorellastra industriale, da un punto di vista organolettico e quindi aromatico-gustativo è un prodotto in continua evoluzione: ogni stile, anzi ogni singola birra darà il meglio di sé se e solo se è

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consumata al momento giusto, né prima né dopo. Chiaramente questo “momento giusto” non è individuabile in un singolo istante ma in un periodo di tempo più o meno vicino alla data di produzione, in rapporto a quel particolare stile e a quella particolare interpretazione dello stesso. Data la moltitudine di tipologie esistenti, il discorso è molto ampio e non possiamo pensare di sviscerarlo in poche righe, ma chi sia interessato al settore, come cliente e soprattutto come produttore, dovrebbe approfondire questo aspetto e tenerne conto. E se qualche passo avanti, ultimamente, lo si nota nella gestione delle birre molto luppolate, per le quali la freschezza è tutto e la cui data di scadenza, effettivamente, quasi tutti stanno iniziando ad accorciare, molto meno interesse pare invece destare la necessità di un periodo di maturazione più prolungato per gli stili ai quali gioverebbe. Il rischio, in caso di scarsa attenzione a questo aspetto, è quello di non valorizzare appieno il proprio prodotto, talvolta addirittura di snaturarlo completamente. Ci vorrebbe quindi maggiore attenzione, da parte di chi produce, nell’incentivare il consumo di ogni birra nel suo periodo di picco gustativo, individuando chiara-

mente il range di tempo, proponendo le proprie birre al momento giusto e sottolineando chiaramente tali informazioni sia a eventuali distributori, tramite indicazioni precise, sia al cliente finale, avvalendosi degli appositi spazi sull’etichetta.

Distribuzione Fa il paio con il punto precedente. Non basta avere un buon prodotto per essere certi di riuscire a soddisfare il cliente. È necessario che la birra arrivi fino al bicchiere nelle condizioni ideali. Vale quanto detto, quindi, relativamente alla maturazione, ma più in generale occorre profondere molto impegno anche nella gestione della conservazione e del trasporto. Il tutto può essere a completo

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carico del birrificio stesso oppure di un distributore dedicato, l’importante è che ci sia la massima cura nel gestire al meglio un prodotto delicatissimo, molto sensibile, in particolare, al caldo e agli sbalzi di temperatura. Ma non finisce qui. Se birrificio e distributore possono, nella maggior parte dei casi, avvalersi di competenza e interesse nel trattare al meglio la birra, la stessa cosa non può sempre dirsi per quanto riguarda l’ultimo anello del canale di vendita, negozio o locale che sia.

Identità Passiamo ora a trattare alcuni aspetti meno tangibili dei precedenti ma altrettanto importanti, spostandoci da temi legati alla qualità del prodotto a considerazioni relative all’immagine (quindi alle potenzialità commerciali) del produttore. La riconoscibilità di un birrificio artigianale, tra i tantissimi ormai presenti sul mercato, è chiaramente un aspetto fondamentale nella lotta per la sopravvivenza e per il successo. Riuscire a delineare una propria identità chiara e riconoscibile che distingua immediatamente il birrificio agli occhi della clientela è quanto di più auspicabile.

La scelta degli esercizi ai quali destinare il proprio prodotto risulta quindi fondamentale. Noto che in molti casi, soprattutto per quanto riguarda produttori nuovi o meno affermati, si tende a lasciare le proprie birre ovunque vi sia un pizzico di interesse: beershop e pub quindi, ma anche bar e negozi per nulla specializzati, che raramente conoscono il prodotto e pertanto ben difficilmente sapranno gestirlo e proporlo come meriterebbe.

Capisco che alla fine la birra la si debba vendere, ma nel caso dell’artigianale è altrettanto fondamentale prendersene cura fino all’ultimo centimetro per non sprecare la fatica fatta nel creare un prodotto di qualità. Sconsiglierei pertanto un atteggiamento del genere e propenderei, per quanto possibile, a destinarla soltanto a chi sia disposto a gestirla accuratamente oppure, in alternativa, proporrei di dedicare un po’ di tempo alla formazione dei rivenditori ultimi. Più facile a dirsi che a farsi, ovviamente.

Ma come si ottiene un simile risultato? Formule magiche non ce ne sono... Il suggerimento che darei, alquanto personale e perciò sicuramente opinabile, è dedicarsi a un numero limitato di tipologie di birre che rispecchino i gusti e, possibilmente, anche la personalità di chi le produce. E di farle bene. Svariare da subito tra decine e decine di tipologie diverse, magari non particolarmente nelle corde del birraio stesso, solo perché lo fanno tutti, mi sembra controproducente: si finisce per competere con avversari più bravi e con prodotti pregevoli e consolidati, senza quel valore aggiunto necessario per uscirne vincitori.

Quindi, poche birre ben fatte, in stili che siano nelle corde e nel cuore di chi le brassa, che non si limitino a essere le brutte copie di tante altre produzioni ma che abbiano senso di esistere. Le one-shot, le edizioni speciali, le collaboration, rimangono oggetti di fascino per la clientela più appassionata, ma andrebbero centellinate, studiate bene e dedicate a occasioni davvero uniche. Suggerirei inoltre di puntare ad avere in listino un’ammiraglia inattaccabile che ben rappresenti, agli occhi del pubblico, il birrificio. Un listino con dieci NEIPA ti può conferire, per un breve periodo, un’immagine giovane e cool, ma una Tipopils, per dire, consolida la tua immagine per sempre.

Nomi Sembrerebbe un aspetto irrilevante, invece individuare un nome vincente (sia per il birrificio sia per le birre) è come vincere la lotteria: può fare la differenza. Si pensi a Birrificio Italiano... chiaro che un nome così va via subito; infatti, se l’è accaparrato uno dei pionieri del settore. Oppure ad alcune denominazioni geniali che, in questi decenni, hanno fatto stragi di cuori: Mummia, Zona Cesarini, Artigian-ale ecc. Se il nome del birrificio, giustamente, dovrebbe rappresentare la personalità, la storia, le passioni e gli amori dei fondatori, ed è pertanto più difficile e

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meno sensato provare a suggerire una formula vincente, qualche considerazione sui nomi delle birre, invece, si può provare a farla. Ce ne sono migliaia, ormai, tant’è che risulta difficile addirittura evitare di clonarne qualcuno già esistente, figuriamoci trovarne di originali e vincenti... Personalmente punterei comunque su nomi perlopiù semplici, facilmente ricordabili e pronunciabili. Troppo spesso i birrai si fanno prendere la mano da un pizzico di megalomania; eviterei quanto più possibile il facile ricorso all’inglese, che forse una volta era figo e ormai è solo abusato e, anche qui, propenderei per dare spazio alle passioni personali di chi produce. In mancanza di grandi idee, non disdegnerei di far semplicemente riferimento allo stile, come si faceva una volta. L’idea di usare nomi particolari per ogni prodotto è un’usanza abbastanza recente, in effetti. Chiamare una pilsner pilsner può sembrare sintomo di scarsa fantasia e di pigrizia, ma è un metodo usato da secoli un po’ ovunque (Germania e Belgio, per esempio) e di sicuro facilita la vita alla clientela, che spesso, nella vita, ha ben altre cose da tenere a mente rispetto ai nomi astrusi e incomprensibili delle birre artigianali.

Presenza locale Fino a 15-20 anni fa un birrificio artigianale rappresentava una vera e propria novità commerciale e il fatto che i pochi esistenti provassero a essere ovunque e a competere a livello nazionale aveva un suo senso, sia per arrivare ai pochi clienti dell’epoca, sia perché qualsiasi zona del Paese rappresentava un territorio vergine potenzialmente pronto per essere colonizzato. Ora che le cose sono decisamente cambiate e che moltitudini di produttori e beerfirm coprono capillarmente qualsiasi area dello Stivale, è ancora valida una strategia di questo genere? La risposta mi sembra piuttosto scontata: no.

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Si pensi, per esempio, a un piccolo artigiano intenzionato ad aprire un forno, una pasticceria, una pizzeria: il fatto che punti a radicarsi sul suo perimetro geografico, che punti alla clientela della zona e che possa considerare come potenziali competitori gli altri produttori locali non stupisce sicuramente nessuno. Con la birra non tutti ragionano nello stesso modo o, perlomeno, non considerano a priori una scelta di questo genere come la più conveniente e sensata. Dal paesotto di provincia, nel quale è quasi sempre situato il birrificio, si mira subito ai grandi capoluoghi o, perché no, alla distribuzione internazionale. Non dico che puntare in alto sia sbagliato, ma per partire immediatamente con un obiettivo del genere servirebbero grandi disponibilità economiche, un’esperienza consolidata e un nome già spendibile. Sono pochissimi a poter vantare, da subito, tali referenze. E gli altri, cioè quasi tutti? A mio parere è ormai il momento di consolidare definitivamente l’associazione tra il

concetto di microbirrificio e quello di birrificio locale. Anche in questo caso non c’è nulla da inventare; una simile associazione di idee, come dicevo, è già ben radicata nella testa della gente per quanto riguarda altre tipologie di prodotto e basta organizzare un viaggetto birrario in Germania, in Repubblica Ceca o in Gran Bretagna per rendersi conto che la stessa identificazione ben si presta anche al prodotto birra artigianale. Si punti quindi al proprio territorio, cercando di diventare un vero e proprio punto di riferimento per i bevitori del posto, come già fanno i migliori ristoranti, panifici ecc., e si inizi a identificare i più validi tra gli esercizi locali rendendoli l’oggetto principe delle proprie attenzioni, a discapito magari dai soliti grandi pub nazionali presso i quali bisogna mettersi in fila per anni per rimediare, forse, il più piccolo pertugio. Il prodotto stesso, caratterizzato da piccoli volumi ed evidenti criticità legate alla gestione e agli spostamenti, ben si presta a un approccio di questo tipo. E anche l’ambiente, sgravato un minimo da ulteriori necessità di trasporto su ruote, ce ne sarà senz’altro grato!

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di Francesco Donato

GUIDA GALATTICA

PER PUBLICAN

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el numero precedente abbiamo passato in rassegna le varie tipologie di locale che possono far leva sulla birra artigianale per attrarre nuovi clienti o che possono sposare l’idea di affiancare al loro cibo una buona selezione di birre di qualità. Se da un lato, infatti, il cibo può essere un buon motivo per spingere nuovi

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avventori a frequentare il nostro locale e a scoprirne l’inaspettata anima birraria, porci già come punto di riferimento birrario e affiancare il cibo alla nostra scelta può arricchire la nostra identità, aiutandoci a raggiungere un target ben preciso. L’identità di un locale è un fattore spesso trascurato, tant’è che in fase di

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progettazione ci preoccupiamo spesso di dove mettere un tavolo, un frigorifero, una lampada, senza però seguire un filo comune nelle azioni che compiamo e soprattutto senza immaginare il carattere che devono dimostrare tutte le componenti (ambiente, personale, offerta ecc.) agli occhi dell’avventore.

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Come progettare il locale: facilitare il lavoro e far emergere la nostra identità Per quanto riguarda la fase di progettazione, se si tratta di un locale nuovo che parte da zero, l’occhio di una persona che ha già lavorato nelle dinamiche della ristorazione diventa fondamentale per strutturarlo fisicamente. Capire come gestire al meglio gli spazi per garantire un lavoro snello e dinamico, collocare i punti di uscita dei vari centri di produzione (cucina, pizzeria, banco, per esempio) in modo tale da ottimizzare il servizio e la forza lavoro, rendere l’ambiente funzionale a quello che andiamo a offrire e all’esperienza del cliente, sono tutti elementi non sempre scontati per chi progetta tecnicamente un locale. Nei locali dove il lavoro si concentra in poche ore la gestione del tempo può essere un’arma vincente o un terribile limite. Pensiamo, per esempio, a un pub o a una pizzeria di provincia che presumibilmente concentreranno il loro carico di lavoro dalle 19 alle 22 di sera. In tre ore, gestire correttamente tutte le fasi, dall’ingresso del cliente alla sua uscita dal locale, i tempi di ordinazione, di produzione e di uscita delle pietanze, diventa essenziale per far scorrere correttamente il lavoro e soprattutto massimizzare lo sforzo, anche in termini di incasso. Le persone che avremo o che avremmo potuto avere nel locale di sabato non sono le stesse che presumibilmente avremo il lunedì e ogni cliente che quel giorno non siamo riusciti a servire per un disservizio qualsiasi rappresenta una vendita che quel giorno mancherà. Ovviamente ci sono locali che riescono a garantirsi numeri interessanti per tutta la settimana, ma potremmo scommettere che proprio quei locali si affidano a un sistema interno ben rodato. Senza entrare in ambiti specifici dell’architettura, dare al nostro locale una fisionomia strutturale “utile” alla

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nostra causa è un aspetto da tenere presente già in fase di progettazione. Pensate, per esempio, ai locali in cui la cella di stoccaggio dei fusti è distante dallo spillatore o dove la cucina e la pizzeria non riescono a “parlarsi” perché situate in aree separate. Per questo sarebbe bene affidarsi a persone che abbiamo idea di come funziona un locale, delle nostre esigenze e appunto dell’identità che deve emergere. Una volta strutturato il locale, un altro aspetto fondamentale sarà quello di lavorare all’offerta e alla formazione del nostro personale.

Sottolineare i tratti distintivi della nostra offerta di cibo L’offerta di cibo sarà ovviamente modellata in base alla tipologia di locale che vogliamo far nascere, quindi se siamo una pizzeria ci soffermeremo sul rendere speciali le nostre pizze, mentre se siamo una hamburgheria valuteremo quali punti di forza dovrà avere il nostro prodotto. Ragionare a tavolino su quali tratti distintivi caratterizzano il nostro cibo e lo differenziano da quello della concorrenza è un ottimo punto di partenza per farlo percepire dal cliente come qualcosa di diverso e presumibilmente buono e genuino.

Una pizzeria che comunica alla sua clientela di lavorare con farine particolari o di usare solo prodotti bio, oppure un ristorante di pesce che lavora con il pescato del giorno della pescheria di famiglia sono già punti distintivi che facilitano lo sviluppo di una certa identità. Affiancare una selezione di birre di qualità diventa a questo punto un ulteriore rinforzo e motivo di accrescimento positivo dell’identità e dell’offerta.

Non cercare di accontentare tutti Un altro consiglio che mi viene in mente è quello di non cercare di creare un’offerta larghissima con l’intenzione di accontentare tutti. I motivi sarebbero molti, ma li riduciamo a due. Primo, un’abbondante offerta food in menù non aiuta a dare una vera identità al locale. Se siamo una pizzeria, arrivare al tavolo del cliente con un menù stile catalogo anni ’80, con decine e decine di piatti diversi (primi, secondi, panini, insalate, piadine ecc.), non aiuta nella scelta e distrae il cliente dai reali punti di forza della nostra offerta. Secondo, un’ampia offerta food si traduce in un elevato numero di materie prime differenti in cucina, con il serio pericolo di sprechi o deterioramento. Immaginate una pizzeria che inserisca a menù piatti sia di carne sia di

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Perché, ricordiamolo sempre, il locale può diventare la nostra casa e la passione il nostro lavoro, ma pensare in termini imprenditoriali vuol dire prima di tutto vedere il locale come ­un’azienda.

Le diverse soluzioni per il menù delle birre

pesce e non abbia un flusso elevato di clienti. Che probabilità avrà di garantire un prodotto sempre al top ed evitare inutili sprechi? Inoltre, un vastissimo menù rallenta inesorabilmente i tempi di produzione, alimenta i disservizi (pensate a un locale di oltre 200 coperti che deve far arrivare al tavolo, nello stesso momento, prodotti dalla cucina e dalla pizzeria) e incide sul costo del personale in quanto, per ridurre i tempi e alleggerire il lavoro, dovremmo potenziare i vari settori del locale. Oggi fortunatamente la tendenza ad allargare l’offerta, fortissima fino agli anni ’90, sta lentamente scemando e i locali hanno iniziato a capire l’importanza di specializzarsi su singoli prodotti e di snellire notevolmente il menù.

La scienza del menù: far passare un messaggio e vendere di più Una volta definita l’essenza del nostro locale, si potrà passare allo studio e alla creazione del menù. Anche in questa fase, nulla è lasciato al caso: si parla di vera e propria ingegnerizzazione del

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menù, disciplina in base alla quale, sulla base di vari parametri (soprattutto il food cost) si “appronta” graficamente il menù in modo da renderlo uno strumento perfetto per far passare il nostro messaggio, dotarlo di un aspetto gradevole alla vista e, soprattutto, vendere di più.

Qualsiasi tipo di locale, che si tratti di una pizzeria, di un pub o di un ristorante, che pratichi un minimo di rotazione su bottiglie e fusti ha vissuto almeno una volta l’esperienza del cliente deluso: “perché la birra dell’altra volta non c’è più”. O, peggio ancora, del cliente che sceglie una birra presente nel nostro menù e al quale dobbiamo rispondere “no questa non l’abbiamo al momento”. E magari ne sceglie un’altra e dobbiamo, nell’imbarazzo, fornire la stessa risposta. Fino a dover consigliare noi un’alternativa simile. Creare menù statici con le birre, soprattutto se si porta avanti l’appassionata politica del ruotare continuo

IL BUON PUBLICAN È SEMPRE UMILE E CORDIALE

Il publican è un ruolo molto delicato: se da un lato devi avere le nozioni necessarie a spiegare, servire e vendere la birra, dall’altro devi manifestare cordialità, umiltà e semplicità nel rivolgerti al cliente, soprattutto neofita. Non bisogna mai apparire supponenti nel parlare di birra né giudicare in maniera sgarbata le richieste del cliente, anche le più improbabili. Il publican deve sempre dare spiegazioni convincenti, soddisfacenti e soprattutto farlo in modo gentile. Non dobbiamo mai rinchiuderci dentro le mura del nostro locale né pensare che tutti i nostri clienti debbano essere appassionati ed esperti come noi. Rispondere in maniera fredda, sgranando gli occhi, davanti alla richiesta di una fettina di limone dentro la weisse del birrificio artigianale che abbiamo appena collegato alla spina non fa altro (nel migliore dei casi) che alimentare un clima difficile. Nel peggiore, ci farà perdere il cliente. Dare spiegazioni gentili e convincenti sul perché nella nostra birreria neghiamo quel tipo di servizio ci farà invece guadagnare stima e punti in competenza agli occhi del cliente. Che probabilmente non esiterà a rivolgersi a noi per avere consigli e suggerimenti.

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di fusti e bottiglie, non è una grande idea. Circa una decina di anni fa, io stesso mi adoperavo nella creazione di veri e propri cataloghi da portare al tavolo, in cui per ogni birra allegavo foto o logo, descrizione delle caratteristiche sensoriali, gradazione, stile, colore, prezzo e chi più ne ha più ne metta. E le espressioni dei clienti, quando, insieme al menù del cibo, si vedevano consegnare questo malloppone sulle birre, non erano sempre specchio di entusiasmo. Nella maggior parte dei casi il cliente si ritrovava sommerso da informazioni, quasi disorientato, e molti si sentivano letteralmente spaesati reagendo con la chiusura immediata del plico. Nel peggiore dei casi il cameriere poteva perdere anche decine di preziosi minuti, perché il cliente aveva intenzione di leggere tutto o quasi. Con l’aggravante, ovviamente, di non poter garantire sempre la presenza di tutte quelle birre o, peggio ancora, di non aver inserito le novità appena arrivate. Insomma, un lavoro che, per essere svolto correttamente, avrebbe presupposto una mole non indifferente di tempo trascorso tra programmi di grafica, carta e fotocopiatrici. Anche la soluzione di un unico foglio di carta, con i soli nomi delle birre divise magari per stile, appare anacronistica e soprattutto poco funzionale nei confronti dei neofiti, presupponendo la solita caparbietà dello stare “sempre sul pezzo”. Le lavagne possono andare bene per le spine: conservano ancora un certo fascino e donano un po’ di colore, con il solo rischio di cadere nella poca originalità.

rie prime, degli stili birrari e delle tecniche base di abbinamento. Imprescindibile deve essere la cura del servizio, dalla gestione del prodotto al bicchiere da utilizzare, dalla spillatura alla gestione degli eventuali difetti. Per chi è un navigato appassionato, si tratta di mettere in pratica quanto appreso durante corsi, degustazioni, chiacchiere con birrai ed esperti: un percorso decisamente in discesa che non farà altro che arricchire di competenza e identità l’anima birraria del nostro locale. Sarà poi nostro interesse trasmettere la nostra cultura birraria (la passione non sempre è facile da trasferire) ai nostri collaboratori, favorendo la loro crescita professionale. Di contro, per chi ha già un locale ma ha iniziato da poco a lasciarsi contagiare dalla passione per la buona birra, l’obiettivo principale potrebbe essere, inizialmente, quello di non riempire frigoriferi e scaffali senza un senso preciso, ma addentrarsi sempre di più in questo mondo. Un percorso da mettere in atto attraverso l’accrescimento culturale personale e dei propri collaboratori, fre-

quentando corsi, eventi, degustazioni, ma soprattutto bevendo e assaggiando di tutto. Ovviamente non bisogna mancare di visitare i luoghi birrari più apprezzati nella propria zona (pub di riferimento e birrifici locali) e, quando possibile, spostarsi verso i luoghi sacri della birra come il Belgio, con il suo Pajottenland, o alcune zone della Germania, come la Franconia. Il confronto con colleghi publican più navigati può essere un ulteriore motivo di crescita, quindi frequenti visite ai locali di riferimento birrario nazionale sono sempre consigliabili.

Far star bene le persone con la birra Il publican, o comunque chi lavora in un locale birrario, ha il difficile ma piacevole compito di far star bene le persone attraverso la birra, diffondendone, quando possibile, la cultura attraverso la propria competenza e rendendo l’esperienza all’interno del locale la più appagante possibile. Quando il mondo della birra artigianale in Italia era ancora molto limitato, il lavoro del publican era paragonabile a una vera e propria missione:

L’importanza di una buona cultura birraria La soluzione funzionale su tutti i fronti non esiste, ma è fondamentale, anzi vitale, dotarsi (o dotare il nostro personale) di un minimo di cultura birraria, quantomeno la conoscenza delle mate-

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procurare birre di qualità, servirle bene, spiegarle al cliente e tramutarlo lentamente in un appassionato. Passaggi tutt’ora necessari, resi più semplici dalla crescita del movimento. Oggi il numero degli appassionati, in costante aumento, rende tutto sommato più facile e divertente questo aspetto, e lì dove era quasi un azzardo servire prodotti di nicchia, come per esempio un lambic, ora il mercato è decisamente più “istruito” e pronto ad accogliere ogni tipo di proposta. Questo, se da un lato facilità notevolmente il lavoro, dall’altro può essere un problema se noi, o il nostro personale, non siamo in grado di rivolgerci alla clientela parlando lo stesso linguaggio, manifestando un minimo di competenza.

Il briefing pre-servizio Se abbiamo un locale con altre persone dedite al servizio o alla gestione della

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sala e del cliente, i briefing pre-servizio sono fondamentali. Di cosa si parla nei briefing in un locale birrario? Innanzitutto si fa il punto della situazione generale della serata e si definiscono i ruoli (chi fa cosa). Si spiegano quindi i piatti del giorno, se la nostra offerta nutre questa dinamicità (eventualmente con la presenza dello chef o del pizza chef), e si danno consigli su che cosa proporre in via prioritaria (magari sono arrivati alla cucina frutti di mare freschissimi e non possiamo far perdere al nostro cliente la possibilità di assaggiarli).

Come spiegare le nuove birre ai collaboratori Dal punto di vista birrario, si ricapitolano le spine del giorno (compresi gli eventuali “cambi” di fusti previsti) e anche in questo caso le birre più indicate da suggerire alla clientela (per esempio, nel periodo natalizio agli amanti delle

Belgian Strong Ale si potrebbero proporre le birre natalizie). Le birre nuove vanno spiegate ai nostri collaboratori in modo molto semplice, utilizzando preferibilmente solo quattro parole di riferimento (stile, gradazione, birrificio ed eventuali ingredienti particolari) e un paio di aggettivi descrittivi riferiti in primis alla tendenza di gusto (è leggermente dolce, è abbastanza equilibrata, ha una piacevole speziatura ecc.). Se possibile, offrire la possibilità di assaggio ai collaboratori, durante il briefing, assieme alle spiegazioni. La “brevità” della descrizione di una birra va ovviamente riportata al cliente, diventando quasi un mantra durante la serata, in modo da rendere semplice, veloce ed efficace la scelta. Il cliente è ora nel nostro locale: come fare a rimanere in contatto con lui? Questo sarà l’argomento della prossima puntata! ★

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Le guide

I COLORI DELL’IDROMELE di Marco Parrini

L’idromele è la bevanda alcolica prodotta dalla fermentazione del miele ed è considerato il più antico fermentato al mondo. Questo volume vuole fornire alla sempre più ampia platea degli appassionati una guida pratica e completa per realizzare un ottimo idromele fatto in casa. Il libro ripercorre la storia dell’idromele, dalle origini fino al rinnovato interesse degli ultimi anni, ne descrive le varie tipologie e mostra come prepararlo con chiare indicazioni passo passo, corredate da trucchi, segreti e approfondimenti per ottenere sempre un prodotto di qualità. Completano il libro numerose ricette tratte dall’esperienza pluriennale dell’autore.

ISBN 9788868959203 Pagine 208 | A colori Prezzo 16,90 euro

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edizioniLSWR


HOMEBREWING

di Daniele Cogliati

“E ora qualcosa di

COMPLETAMENTE DIVERSO”

Ovvero, le ricette delle birre tradizionali britanniche e dove trovarle

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n questo articolo non parleremo dei Monty Python, nonostante la citazione presente nel titolo. Andremo invece alla ricerca di qualcosa di diverso, di qualcosa che non è esattamente all’ordine del giorno nei discorsi intorno alla birra. Parleremo di ricette di birre

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tradizionali britanniche, segnalando e comparando brevemente due libri che affrontano l’argomento. I testi di riferimento sono: ❱ An Introduction to Old British Beers and How to Make Them, di Dr. John Harrison e i membri del Durden Park

Beer Circle (1976, poi 1991, 1993, 2003, 2013); ❱ The Home Brewer’s Guide to Vintage Beer: Rediscovered Recipes for Classic Brews Dating from 1800 to 1965, di Ronald Pattinson (2014, poi 2017).

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Prima di addentrarci nell’analisi dei libri, è forse necessaria una piccola premessa che aiuti a inquadrare meglio il clima in cui venne fondato il Durden Park Beer Circle e, più in generale, la situazione birraria britannica, lato consumatori e lato homebrewer, nei decenni finali del secolo scorso.

Il panorama birrario inglese nella seconda metà del Novecento In Gran Bretagna la legalizzazione dell’homebrewing avvenne il 3 aprile 1963, quando l’allora cancelliere della Scacchiere Reginald Maudling abolì l’Inland Revenue Act del 1880, consentendo la produzione casalinga senza dover pagare alcunché allo Stato. All’epoca la situazione birraria era totalmente diversa da quella che viviamo noi oggi: la rivoluzione craft era ancora di là da venire e, anzi, si attraversava un periodo in cui – come un po’ in tutto il mondo occidentale – le tipologie di birra disponibili al consumo diminuivano, l’uniformità nell’offerta commerciale aumentava e i produttori e i prodotti storici sparivano o venivano inglobati da realtà industriali sempre più grandi e voraci. Uno stato delle cose che non soddisfaceva proprio tutti, evidentemente. Come reazione a questi fenomeni, nel 1963, a Epsom, venne fondata la Society for The Preservation of Beers from The Wood, che a tutt’oggi è la più vecchia associazione birraria di consuma-

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tori britannica. Nel 1971 fu la volta del CAMRA, altro baluardo del pubblico birrario tradizionalista, nato in anni in cui il passaggio dal cask al keg andava per la maggiore e le Lager internazionali prendevano sempre più piede tra i sudditi della Regina. L’interesse verso una birra “diversa” dall’offerta di massa era quindi ben presente. Né d’altro canto mancavano le pubblicazioni indirizzate agli homebrewer. Solo per citare un paio di esempi, si vedano Home Brewed Beers and Stouts, di C.J.J. Berry (1963), e Simple Guide to Home-Made Beer, di Bernard Charles Arthur Turner (1968).

Il Durden Park Beer Circle e la riscoperta delle birre storiche In mezzo a tutto questo fermento troviamo appunto il progetto editoriale di An Introduction to Old British Beers and How to Make Them, voluto dal dottor John Harrison e dal Durden Park Beer Circle, un ormai storico gruppo di homebrewer londinesi nato nel 1971. Il gruppo prende il nome dal primo luogo di incontro dei suoi membri: una capanna di lamiera che fungeva da padiglione di cricket sul campo di gioco di Durden Park a Southall, nel Middlesex. Si tratta di uno dei più antichi circoli legati all’homebrewing ancora attivi sul suolo britannico. An Introduction to Old British Beers and How to Make Them si inserisce in un clima di rinnovato interesse verso la produzione casalinga di birra, con una particolare attenzione alle tradizioni patrie. Fin dalle origini il Durden Park Beer Circle si era infatti interessato alle ricette storiche, soprattutto quelle formulate tra il 1840 e il 1914 circa. Ancora oggi si svolgono regolarmente incontri tra i soci, che si ritrovano al Perivale Community Centre, West London, e producono vecchie birre britanniche, ma anche stili emersi in anni più recenti e decisamente più in voga. Il sito web del gruppo (https://durdenparkbeer.org.uk/, sul quale è anche possibile acquistare il libro nelle varie edizioni) dichiara che il volumetto:

“ha lo scopo di aiutare e incoraggiare i birrai di tutti i livelli ad aspirare a produrre birre di prima qualità. […] Le ricette storiche nel nostro libro sono state estratte dagli archivi dei birrifici in tutto il Paese e sono state riformulate per la produzione di birra su piccola scala. Abbiamo dovuto prendere in considerazione la qualità degli ingredienti di oggi, come il contenuto di alfa acidi del luppolo moderno e la resa dei malti contemporanei e in alcuni casi abbiamo persino autoprodotto i nostri malti laddove non esisteva un equivalente moderno”. Ecco qui un primo punto di interesse, ossia la scelta delle fonti da cui trarre le ricette (vedremo che anche Ronald Pattinson adotta lo stesso approccio all’argomento): l’autore e il gruppo di supporto risalgono direttamente ai documenti conservati negli archivi dei birrifici e ai registri storici (brewing logs) dei produttori, dove un tempo si annotavano ingredienti, tempistiche, caratteristiche tecniche di mosti, fermentazioni e birre finite.

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An Introduction to Old British Beers and How to Make Them Passiamo ora a una breve analisi del libro. La prima edizione (1976) si manifesta in un piccolo opuscolo di 9 pagine. Una nota prefatoria, datata 2020, specifica che la pubblicazione originaria si collocava in un periodo – gli anni ’70 del secolo scorso – in cui l’homebrewer britannico medio aveva molte difficoltà nell’accesso alle materie prime di qualità; di conseguenza certe fasi del processo produttivo, come i tempi di ammostamento di alcune ricette, che originariamente erano stati calcolati in 3 ore, possono oggigiorno essere ridotti a 60 minuti grazie all’impiego di malti ben modificati. La prefazione si conclude con alcuni indici di conversione necessari per passare dal sistema imperiale britannico, in cui tutte le ricette sono formulate, al sistema metrico decimale. Il volumetto è diviso in due parti. Nella prima, intitolata A Potted History of Ale and Beer Brewing, si traccia per sommi capi la storia della birra nelle Isole Britanniche nel periodo incluso tra il XIV/ XV e il XX secolo; nella seconda ci sono 15 ricette. L’autore divide la storia della birra e delle tipologie birrarie in quattro grandi periodi: prima del luppolo (“prehop era”, parliamo quindi di ales fino al 1400), convivenza tra birre luppolate e non luppolate (“beers vs. ales”, 14001700), periodo di massimo sviluppo delle birre britanniche (1700-1914), periodo

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contemporaneo (dal 1918 al 1976). Si noti bene come in realtà nessuna ricetta riguardi davvero il XX secolo e a tale proposito è emblematica un’affermazione riportata a pagina 1: “The modern era runs from 1918 to the present day and the least said about this the better”. Una frase emblematica dei tempi e che molto probabilmente rinvia alle considerazioni fatte poco sopra: pensiamo anche che nel 1976 si era ancora nell’era pre-Michael Jackson e pre-riscoperta/ pre-comunicazione al pubblico della varietà del mondo delle birre. A fare da ponte tra la parte storica e le ricette c’è un breve paragrafo con alcune note preliminari, alcune delle quali abbastanza singolari: tutte le birre necessitano di dry hopping (1/5 oz per gallone); tutte le birre sono pensate per essere bevute senza imbottigliamento e dopo maturazioni significative; maturare le birre in bottiglia con tappo a vite fino al termine della fermentazione, aprendo il tappo se ci si accorge di un’eccessiva formazione di CO2 all’interno del contenitore. Ricordiamoci sempre che nel 1976 i rudimentali laboratori casalinghi degli homebrewer non erano ancora invasi dalla marea di attrezzatura, anche ad alto coefficiente tecnologico, che è stata resa disponibile a chiunque in anni recenti. Il cuore dell’opuscolo sono però le 15

ricette, estremamente sintetiche (poche righe ciascuna), che riguardano tipologie “generiche” di birra e non etichette specifiche e svariano tra Ales non luppolate, Porter del XVIII sec., Mild e Brown Ale di epoca vittoriana, Dorchester Ale e Original India Pale Ale. Conclude il tutto una paginetta pubblicitaria di un negozio di materie prime londinese. Fine.

L’ultima edizione, più ricca e completa L’edizione più recente di An Introduction to Old British Beers and How to Make Them, rivista nel 2003 e ripubblicata a stampa nel 2013, vede un sostanziale aumento nel numero di pagine, che arrivano a essere 71. La suddivisione dell’opera in due sezioni rimane immutata, ma entrambe le parti vengono ampliate. L’introduzione storica sfiora le 30 pagine, approfondendo la nomenclatura d’epoca e analizzando maggiormente gli ingredienti; un certo spazio è dedicato all’evoluzione della tecnica brassicola, mentre brevi paragrafi inquadrano i singoli stili di birra nei secoli passati. Interessante è anche la formulazione di un capitoletto metodologico che cerca di spiegare come e perché indagare e ricercare le fonti storiche, come leggere i brewing logs originali e come interpretare correttamente (ed eventualmente

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adattare) una ricetta storica per riuscire a riproporla. Sfiziosa è anche la bibliografia che chiude la prima parte. Nell’edizione 2013 le ricette diventano ben 131 e, pur rimanendo estremamente succinte nella stesura, sono almeno categorizzate a grandi linee in pale/ amber, light brown/brown/dark brown, Stout/Porter. A differenza dell’edizione 1976, praticamente tutte le ricette riguardano birre di specifici birrifici (per esempio, Adnam’s Tally-Ho, 1878; Courage’s London Ale, 1820; Barclay Perkin’s Imperial Brown Stout, 1856). Un’impostazione, quindi, che rispecchia quasi 30 anni di ricerche e approfondimenti e si presenta sicuramente più al passo con i nostri tempi rispetto alla prima edizione del 1976: più ricca e completa.

The Home Brewer’s Guide to Vintage Beer Un anno dopo la versione finale del Durden Park Beer Circle esce The Home Brewer’s Guide to Vintage Beer: Rediscovered Recipes for Classic Brews Dating from 1800 to 1965 (2014, ristampato nel 2017). L’autore è Ronald Pattinson, beer writer britannico e fondatore del celebre blog Shut Up About Barclay Perkins (http://barclayperkins.blogspot.com/), sul quale ormai da anni snocciola perle di storia brassicola, con particolare attenzione a Regno Unito, Germania e Paesi Bassi. Il libro che andiamo a sfogliare ha un’impostazione abbastanza diversa dal volume edito dal Durden Park Beer Circle. Innanzitutto parliamo di un’opera di 160 pagine, quindi la quantità di “ciccia” è maggiore. In secondo luogo, il libro di Pattinson non si concentra solo sulle ricette britanniche, ma nell’ultimo capitolo fornisce anche alcuni riferimenti al mondo delle birre tedesche/ polacche (Broyhan, Grodziskie, Salvator, Kottbuser). Diversa è anche la struttura generale del lavoro. Il primo capitolo si concentra sugli ingredienti, analizzandone brevemente la storia e l’impiego (per esempio l’utilizzo di riso, mais e zucchero invertito in

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determinate epoche). La seconda parte riguarda le tecniche di produzione: qui, oltre alle fasi canoniche, vengono messi in risalto alcuni procedimenti propri della tradizione storica britannica, per esempio parti-gyling, underlet mashing, fermentazioni condotte con pontoes/dropping systems/Yorkshire square/Burton union e maturazioni in cask/vat. Seguono 10 capitoli dedicati ciascuno a uno stile birrario. La struttura è la medesima per ciascun capitolo e prevede un inquadramento storico dello stile seguito da un numero variabile di ricette (in totale sono 103). Queste ultime sono tutte estratte – e adattate – da fonti di prima mano, come nel caso del libro del Durden Park Beer Circle, e offrono quindi al lettore la possibilità di replicare specifiche etichette storiche. Esse vengono inoltre presentate in forma tabellare, cosa che ne facilita la lettura. Prevedono anche l’indicazione di ingredienti “contemporanei” (per esempio, viene suggerito un ceppo di lievito tra quelli oggi disponibili commercialmente) e forniscono dati numerici precisi (temperature di mash/ sparge, tempi di bollitura, temperatura

di inoculo del lievito, OG, FG, IBU, SRM, ABV ecc.). Una presentazione, in definitiva, un po’ più amichevole e sicuramente più pronta all’uso per il lettore/birraio casalingo. Notevole, inoltre, il cappello storico introduttivo a ciascuno stile, che rende l’opera di Pattinson di grande interesse anche come testo di informazione storica slegato dalla pratica dell’homebrewing. Per intenderci, potreste leggerlo saltando le ricette e alla fine avreste un quadro abbastanza sintetico, ma al tempo stesso preciso, dell’evoluzione degli stili birrari britannici tra il XVI e il XX secolo.

Conclusioni Concludendo, entrambi i volumi, pur con approcci e risultati diversi, rappresentano interessanti serbatoi di ricette storiche e possono essere di grande attrattiva per tutti gli homebrewer che vogliano cimentarsi nella riproposizione di stili spesso ignorati dalla maggior parte dei birrifici commerciali. L’ideale sarebbe averli entrambi, per confrontarli e avere ancora più possibilità creative! ★

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di Massimo Faraggi

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IN GRANDE STILE! S

Lacock Abbey, antica abbazia trasformata in residenza nel XVI secolo.

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e la storiografia birraria è sempre più ricca di materiale e testi interessanti, non altrettanta attenzione è stata mai riposta sulla storia dell’homebrewing. Una storia non molto lunga se guardiamo all’homebrewing moderno, nato in pratica con la liberalizzazione USA negli anni ‘70 e con il primo, seminale testo di Charlie Papazian. Se vogliamo tornare indietro nel tempo - ben più indietro - la storia diventa in un certo senso banale: nei tempi antichi, farsi la birra in casa era relativamente comune, tanto quanto farsi il pane alcuni decenni fa, o semplicemente cucinarsi una torta oggi. Ci sono comunque un ambito e un periodo storico, concernenti la produzione birraria per consumo privato, che rivestono un particolare interesse: mi riferisco alle country house del Regno Unito, le sontuose dimore gentilizie fiorite tra il ‘500 e il ‘700, nelle quali non mancava mai un locale adibito alla produzione di birra. Il testo di riferimento sulle house breweries inglesi è indubbiamente quello di Pamela Sambrook [1] che, esaminando in modo certosino il materiale a disposizione, per esempio diari e rendiconti birrari e finanziari, espone ogni dettaglio tecnico sia degli impianti sia di tecniche di produzione, ricette, consumi e consuetudini che riguardano l’argomento. Homebrewing a tutti gli effetti, dicevamo, dato che la produzione non era destinata al commercio ma al consumo familiare, o più precisamente al consumo interno, includendo quindi non solo le varie generazioni e ramificazioni

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delle famiglie ma anche il numerosissimo personale lavorante. Sappiamo che chi era impiegato nei vari compiti nella casa, si trattava di decine di persone, era pagato anche in birra, e in quantità notevoli: diversi litri al giorno, sia pure di gradazione moderata. Il volume produttivo annuale, quindi, era paragonabile a quello di un odierno microbirrificio italiano di medie dimensioni: parliamo infatti di alcune centinaia di ettolitri.

Architettura e funzionamento L’architettura di queste birrerie si rifaceva a determinati standard che, nel corso dei decenni e nei secoli, ebbero alcune evoluzioni tecniche senza troppi stravolgimenti. Il locale di produzione era di dimensioni relativamente piccole, se paragonate a quelle della dimora principale e considerato il volume di produzione non trascurabile; le cotte erano quindi frequenti.

LE BIRRE

Era ubicato solitamente in un’ala laterale o in un edificio o complesso di edifici a parte, probabilmente per evitare che gli odori della produzione infastidissero gli ospiti. Con una soluzione logistica efficace e collaudata, la birreria era affiancata - quasi a essere un tutt’uno - con il forno per la produzione del pane e anche con i locali di lavanderia, in modo da sfruttare al meglio la fonte di calore (e di acqua) necessaria per le varie attività. Per quanto riguarda la struttura e il funzionamento dell’impianto, possiamo fare un paragone con i diversi metodi e attrezzature dell’homebrewing moderno, che a grandi linee potremmo suddividere in questo modo: 1. metodo “zapap”: pentola-bollitore per ammostamento e bollitura, filtro esterno, eventuale altra pentola-bollitore per l’acqua di sparge; 2. metodo: “frigo da picnic”: pentolabollitore per l’acqua calda (per mash e sparge) e per la bollitura, mash tun

Non è lo scopo di questo articolo esaminare in dettaglio i tipi di birre prodotte e le loro ricette, per le quali troviamo informazioni dettagliate nel già citato libro della Sambrook. Devo dire che le ricette di birre dell’epoca, anche come ricostruite in altri testi, non riservano particolari sorprese: escludendo porter e stout, si tratta di solito di un tipo di malto e uno di luppolo in quantità variabili. È interessante, tuttavia, fare alcune considerazioni generali: la tecnologia di queste birrerie non sempre era al passo con le innovazioni delle birrerie industriali; d’altro canto, un po’ come nell’homebrewing attuale, essere svincolati da esigenze commerciali permette di mettere in secondo piano le considerazioni economiche, impiegando ingredienti di prima qualità e, ove necessario, maturazioni adeguate. Da rimarcare il largo uso di malto chiaro, “pale (ale) malt”: un malto la cui produzione ha richiesto innovazioni e affinamenti tecnici e che, quindi, prima di essere più ampiamente diffuso industrialmente, era considerato un ingrediente di pregio. Si può dire che la moda delle ales di colore relativamente chiaro, dorato, derivi in buona parte proprio dalle birre prodotte nelle grandi ville inglesi, che in qualche modo “esportarono” questa

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separato coibentato con filtro incorporato; 3. metodo “bazooka”: pentola-bollitore per ammostamento e bollitura con filtro incorporato, tino di appoggio per il travaso, eventuale altra pentola-bollitore per l’acqua di sparge; 4. metodo BIAB: pentola-bollitore per ammostamento e bollitura, con sacco filtro. Ogni tipo di impianto ha un diverso grado di flessibilità rispetto alla possibilità di effettuare sparge tradizionale e batch sparge (o no-sparge) e alla facilità di effettuare step di temperatura. Le birrerie tradizionalmente inserite nelle country house inglesi seguono essenzialmente il modello 2), quello equivalente al “frigorifero portatile”: un bollitore provvede all’acqua calda, di cui è riempito un tino di ammostamento insieme ai grani; al termine dell’ammostamento il mosto viene pompato nuovamente nel bollitore. Eventuali bollito-

tendenza dalle campagne alla città e poi all’industria grazie alle visite dei gentlemen nella Capitale. Sappiamo inoltre che le birre venivano prodotte in differenti gradazioni, vuoi con il parti-gyle sopra descritto o con cotte specifiche: quelle per il consumo quotidiano della servitù erano particolarmente leggere, visto l’abbondante consumo giornaliero. All’estremo opposto, tralasciando le varie tipologie intermedie, vi erano le birre di alta gradazione, prodotte in primavera e in autunno, in particolare le cosiddette October Beer: in qualche caso la gradazione zuccherina elevata era ottenuta tramite la tecnica del double mashing, ossia impiegando il mosto di un primo ammostamento come liquido per uno successivo. Queste birre erano spesso anche fortemente luppolate, soprattutto se destinate a lunga maturazione: in pratica la quantità di luppolo era direttamente proporzionale agli anni di maturazione previsti. Birre come le October sono state di ispirazione di importanti stili dei decenni a venire, come Barley Wine e India Pale Ale, anche se secondo me in entrambi i casi non vi è una discendenza diretta vera e propria. Insomma, seppure rivolta al consumo interno, la produzione birraria di queste birrerie casalinghe ha avuto il suo ruolo nell’influenzare le tendenze birrarie dei tempi a seguire.

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ri extra e/o tini di appoggio permettono, nel caso, di effettuare uno sparge (esamineremo più in dettaglio i tipi di impianto durante la visita alle birrerie). Riguardo allo sparge, il metodo più tradizionale, non solo in queste piccole breweries, ma in generale all’epoca nel Regno Unito, si avvicina a quello che oggi chiameremmo batch sparge. Dopo il primo ammostamento, il primo batch o lotto di mosto veniva estratto del tutto, e il tino con i grani riempito nuovamente d’acqua per quello che all’epoca veniva considerato un secondo ammostamento, seguito da un eventuale terzo (oggi sappiamo che la conversione avviene quasi totalmente durante la prima fase e le successive aggiunte di acqua sono in realtà dei semplici risciacqui). I diversi lotti possono poi essere riuniti insieme prima della bollitura, ma a seconda delle possibilità dell’impianto e delle esigenze si potevano bollire separatamente per ottenere birre di diversa gradazione (metodo detto parti-gyle) oppure si potevano miscelare in diverse proporzioni allo stesso scopo. Da notare che in Inghilterra questo metodo rimase in auge fino al XIX secolo, mentre in Scozia già si era passati al più moderno ed efficiente metodo del fly sparging. L’altro aspetto importante di questo tipo di attrezzatura è l’impossibilità, o per lo meno la difficoltà, di effettuare step di temperatura nell’ammostamento: non per nulla le birre inglesi impiegano tradizionalmente l’infusione a temperatura unica.

La visita alle birrerie Le country house breweries sono una tradizione ormai passata: le ultime a produrre per il consumo interno arrivano agli anni ‘70 del ‘900. Alcune birrerie sono comunque ancora in buone condizioni e visitabili e mi hanno permesso di soddisfare più da vicino la mia curiosità. Le descrizioni e le foto che seguono fanno riferimento a visite personali nel corso degli ultimi anni.

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La birreria di Traquair House.

Traquair House Sebbene situata in Scozia, quindi non presente nel sopracitato volume della Sambrook, la birreria di Traquair House è certamente fra le più interessanti per la storia, la struttura e soprattutto perché è l’unica ancora in esercizio (anche se la sua attività non è stata continua, avendo ripreso in tempi moderni) [2]. Nel visitarla, si rimane sorpresi dalle sue piccole dimensioni e dalla limitata capacità produttiva, considerando che la Traquair House Ale è una birra tutto sommato facilmente reperibile per la quale si penserebbe a volumi produttivi ben maggiori... miracoli della distribuzione! Traquair House reclama il titolo dell’abitazione scozzese più antica abitata di continuo fino ai nostri giorni. Si trova nella bella campagna dei Borders scozzesi presso il villaggio di Innerleithen. Più che una classica villa è un maniero, un palazzo fortificato sede per secoli dei Conti di Traquair. L’antica birreria ha ripreso vita nel 1965 grazie a Peter Maxwell Stuart e successivamente l’attività è proseguita grazie alla figlia Catherine Maxwell Stuart. La birra più nota è la classica, iconica

Strong Scotch Ale denominata semplicemente Traquair House Ale, affiancata dalla meno diffusa Jacobite Ale, più forte e speziata. Diffusa solo localmente è la leggera, maltata, ambrata Bear Ale, che abbiamo potuto assaggiare in cask al Traquair Arms, sito nel villaggio a poca distanza. Traquair House è aperta al pubblico ed è un’importante destinazione turistica, anche se la nostra visita si è limitata alla birreria, per motivi non solo di interesse ma anche di orario. La struttura della piccola birreria, situata nei modesti spazi di un’ala laterale del complesso, è tipica, piuttosto minimale e utile a illustrare e comprendere conformazione e funzionamento di base di questo tipo di impianti. È munita di un unico bruciatore e bollitore (copper) e di un tino di ammostamento in legno (mash tun) leggermente svasato e con un rivestimento interno, probabilmente adattato in tempi moderni. Il copper ha una prima funzione di bollitore per scaldare l’acqua per l’ammostamento, da riversare tramite una canaletta in legno nel tino sottostante, in cui vengono inseriti i grani macinati.

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Al di sotto del mash tun, un tino più piccolo (detto underback) ha una funzione di appoggio, di buffer, per permettere al mosto filtrato proveniente dal tino di ammostamento di essere pompato nuovamente verso il copper per la bollitura insieme al luppolo. Non sembra presente un doppio fondo o un qualche sistema di filtraggio, se non una grata all’ingresso del rubinetto di uscita che ne impedisce l’intasamento.[3] Data la struttura dell’impianto, sembra improbabile che venisse effettuato un vero e proprio sparge, e forse nemmeno quello che oggi chiameremmo un batch sparge – che all’epoca veniva definito un doppio o triplo ammostamento - e che era la tecnica più usuale [4]: se il copper contenesse ancora l’acqua calda per lo sparge (o per il secondo batch), non sarebbe pronto a ricevere già il mosto filtrato nel frattempo. In teoria, se quello che ho indicato come underback avesse capacità sufficiente, potrebbe contenere il primo lotto di un batch sparge, in attesa di essere pompato una volta che

il copper avesse fatto defluire nel mash tun tutta l’acqua calda destinata al secondo lotto, rendendo questa tecnica possibile (in ogni caso escludendo un fly sparge, in generale non usato all’epoca). Non ho trovato però indicazione nel testo della Sambrook che in generale l’underback venisse usato in questo modo. Effettuata la bollitura, la canaletta in legno proveniente dal copper - prima orientata verso il tino di ammostamento - viene a questo punto spostata in modo da far scorrere il mosto luppolato verso i due cooler, ampi e poco profondi bacini di raffreddamento (che ricordano nella funzione quelli ancora in uso per la produzione di lambic). Con un tocco - si fa per dire - di modernità, in alternativa a questi è stato aggiunto all’impianto un sistema di raffreddamento a piastra, più efficace sebbene ricordi anch’esso un pezzo da antiquariato birrario. A differenza di altre birrerie, non è presente un tino di fermentazione all’estremità dell’impianto, a valle del cooler. La fermentazione avviene invece in ampi barili di legno, in una stanza adiacente. La rusticità, la struttura e il materiale della birreria fanno pensare alla produzione di lambic, anche se le infezioni in questo caso non sono cercate, ma pur sempre possibili. Per questo le birre prodotte vengono pastorizzate prima del confezionamento.

Lacock Abbey

L’underback, posto al di sotto del mash tun. Al muro una delle pompe originali, mentre al di sotto dell’underback si nota un sistema di pompaggio più moderno.

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Come nel caso di Traquair House, la visita a questa birreria presenta attrattive non solo birrarie, ma anche più generalmente turistiche. L’incantevole e ben preservato villaggio di Lacock, non per nulla, è stato il set di diversi film d’epoca o fantastici, dalle trasposizioni di Jane Austen alla serie di Harry Potter. Anche il complesso che comprende la birreria è di grande interesse, un’antica abbazia convertita nel XVI secolo in dimora patrizia, e anch’essa set di diverse scene di Harry Potter, tanto per rendere l’idea. Sia in un’abbazia sia in una country house non può certo mancare una birre-

Il sistema di raffreddamento, vecchio e nuovo.

La sala di fermentazione.

ria… e Lacock Abbey è stata entrambe le cose! La house brewery di Lacock è ben preservata, compatta e simile a quella di Traquair. Spicca, in aggiunta, la presenza di un tino molto ampio e poco profondo, quasi sicuramente per la fermentazione. Come si può vedere anche dalle foto, ci si accorge subito, però, di un’importante mancanza: dov’è il tino di ammostamento? La tavola esplicativa esposta nella birreria e curata dalla nota birreria Wadsworth offre un’indicazione per me non convincente, soprattutto a prima vista, e cioè che il bollitore abbia anche la funzione di mash tun. Ma allora come viene separato il mosto dai grani? Non è certo pensabile che i grani siano ancora presenti in bollitura. Notiamo però la presenza di uno spazio, per quanto limitato, sotto il copper, tra quest’ultimo

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Lacock Abbey brewery: dal copper al cooler...

e i cooler, che sembra adatto proprio a ospitare un tino, magari rimosso nel corso degli anni. È anche questa una delle ipotesi della Sambrook. [5] In questo caso sarebbe necessario, comunque, un piccolo underback di ap-

... dal cooler al fermentatore.

poggio per permettere il pompaggio del filtrato verso il copper, e appare difficile immaginare che possa anch’esso trovare posto nell’ipotetico alloggiamento. Possiamo tornare all’ipotesi iniziale (copper usato anche come mash tun) ipotizzando che nello spazio citato trovasse alloggio un tino usato semplicemente come recipiente di appoggio; sarebbe in ogni caso un tipo di funzionamento inconsueto per l’epoca e per il tipo di birreria. Una mia ipotesi più ardita (non del tutto esclusa anche dalla Sambrook) è quella che invece fosse usato per l’ammostamento il tino di fermentazione alla base del cooler facendo scorrere l’acqua proveniente dal copper lungo il cooler. Ipotesi forse fantasiosa, che lascia aperto il problema di riportare poi il filtrato al copper (sembra troppo distante per una pompa... a meno che il mosto non venga riportato manualmente!), per cui l’ipotesi del “mash tun mancante” rimane la più probabile.

plissimo parco i cui giardini meritano una visita non frettolosa. A poca distanza, poi, troviamo Stratford-upon-Avon, patria del Bardo e Warwick con il suo castello [6]. Ma anche se è solo la birreria a interessarci, non rimarremo delusi: quella di Charlecote è la house brewery meglio conservata e più attrezzata fra quelle ancora esistenti e visitabili. Spicca soprattutto il fatto che sono presenti ben due copper. Non mancano poi tutti vari elementi che abbiamo già visto nelle birrerie precedenti, compresi i vari tini, underback, pompe e ammennicoli vari. Il sistema ricalca quello delle altre birrerie, con le canalette che smistano

Charlecote House

Lo spazio in basso a destra potrebbe aver ospitato un tino di ammostamento.

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Se nel corso dello stesso viaggio avete già visitato Traquair o Lacock, è facile che ampi saloni, antiche cucine caratteristiche e curatissimi parchi e giardini comincino a venirvi a noia. Sarebbe un peccato, perché Charlecote è una delle dimore signorili più belle e interessanti del Regno Unito, e soprattutto un am-

Il tino di fermentazione.

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I due copper (bollitori) di Charlecote: davanti a quello di sinistra (parzialmente visibile), il tino di ammostamento (fonte: National Trust).

Tino di ammostamento (a destra), cooler e tino di fermentazione (fonte: Wikipedia)

i flussi dal bollitore verso cooler o mash tun, con l’underback a fare da buffer di appoggio per i pompaggi. Qui però il doppio bollitore rende la birreria più potente e versatile, potendo facilmente effettuare batch sparge, sparge veri e propri e/o doppie cotte. Se ci si sposta nel locale posto nel retro dei due copper, dove sono site le aperture dei due bruciatori, possiamo notare come questo fosse adibito a forno e a lavanderia, con tipica ed efficiente ottimizzazione delle risorse, in particolare calore e acqua calda. Il numero delle house breweries ben conservate e visitabili è limitato; alle tre già

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Visione parziale della birreria (fonte: Wikipedia).

descritte è possibile aggiungere forse solo Shugborough Hall, la quale tuttavia all’epoca dei miei ultimi giri nel Regno Unito (pre-pandemia) risultava con la birreria in ristrutturazione e non visitabile. È interessante notare come l’impianto, in tempi recenti, sia stato rimesso in funzione dalla locale e nota birreria Titanic per la produzione di una linea di birre; a quanto mi è stato riferito, questa produzione è stata sospesa o terminata. Quella delle house breweries, come già detto, è una tradizione non più attiva, ma le strutture ancora esistenti rimangono una testimonianza importante della storia birraria della Gran Bretagna. ★

Note

1. Sambrook, P. (1996), Country House Brewing in England, 1500-1900, Ediz. Bloomsbury. 2. Non contando Shugborough Hall, vedi più avanti. 3. Da notare che, tranne nel caso di un fly sparge, che, come vedremo, è da escludere, non vi sono svantaggi dal punto di vista dell’efficienza. 4. Come già evidenziato nel paragrafo precedente. 5. Sambrook, op cit. pagg 53-54. 6. Volendo trovare un’altra attrazione birraria, a circa mezz’ora di auto vi è Mount St. Bernard, unica birreria abbaziale trappista inglese.

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TENDENZE

di Davide Bertinotti

LA MICRODISTILLAZIONE

IL NUOVO FENOMENO DEL MONDO BIRRARIO?

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ssegniamo, magari impropriamente ma con fondate ragioni, al 1996 l’anno di nascita del fenomeno dei microbirrifici artigianali in Italia. Negli Stati Uniti si tende a indicare la medesima data di partenza del fenomeno delle craft breweries esattamente 20 anni prima, al 1976, con un cambio di legislazione federale che favorisce fiscalmente i piccoli produttori e la nascita del birrificio New Albion Brewing a Sonoma, in California; forse non il primo in assoluto, ma importante per essere diventato un fondamentale riferimento per tantissimi altri precursori apparsi negli anni successivi. Se in Italia i birrifici artigianali sono passati in 25 anni da una manciata a 1000 unità (parliamo di impianti attivi), negli

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Stati Uniti il numero ha superato quota 8000, con circa 240 di questi cresciuti a dimensioni produttive talmente grandi da essere difficilmente considerati, almeno per noi europei, artigianali. Ma il mondo craft americano è stato anticipatore, nei nostri confronti, anche di numerose mode e fenomeni (alcuni magari trascurabili) che hanno influenzato birrai, mercato e consumatori. Dalle nuove varietà di luppolo alle imperializzazioni (ossia versioni muscolari in alcool e amaro) degli stili birrari, alle più recenti juicy beers, forse più vicine a succhi di frutta che a birre vere e proprie. Guardare agli USA può essere quindi un modo di ipotizzare – con qualche approssimazione – ciò che potrebbe succedere qui da noi, a breve o nel pros-

simo futuro. Al momento, per esempio, oltreoceano si parla molto di Hard Seltzer, una bevanda gasata a base di acqua, alcool e aromatizzanti alla frutta che molti birrifici stanno producendo in un’ottica di ampliamento dell’offerta alla clientela. Qualcosa di già visto (chi si ricorda gli alcopops degli anni ’90?) che dubito possa (ri)prendere piede in Italia, ma mai dire mai!

La crescita del craft distilling negli Stati Uniti e in Italia Un altro fenomeno non strettamente legato alla birra, ma che ricorda molto da vicino quanto accaduto nel settore, è quello del craft distilling, la piccola distillazione artigianale. Il nuovo successo del gin e di altri distillati degli ultimi anni ha

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TENDENZE

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2014-2019 CAGR 19,4%

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uno dei primi esempi italiani di distillato di birra. Ancora oggi in produzione, si tratta di una distillazione effettuata da una base di “doppio malto ad alta fermentazione, poco luppolata” (sic!). I piccoli birrifici, che hanno fatto della fantasia e della creatività il loro modo di essere, hanno saltuariamente esplorato il mondo della distillazione, sempre appoggiandosi ad aziende specializzate, sovente della propria zona. Tra i primi esempi, annoveriamo Barchessa di Villa Pola in provincia di Treviso con la “Anima”, frutto di distillazione di proprie produzioni birrarie (siamo intorno al 2004).

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Numero di produttori di distillati artigianali negli Stati Uniti dal 2014 al 2019 (fonte: americancraftspirits.org).

certamente trascinato il mercato, portando i nuovi distillatori statunitensi a superare recentemente le 2200 unità produttive e la crescita non sembra rallentare. Anche in Italia si vede “fermento” in questo ambito. Data per scontata la nostra lunga tradizione di distillazione collegata al mondo del vino con grappe e acqueviti, sono gli altri distillati a essere protagonisti delle nuove realtà produttive: gin, whisky, vodka. Il portale distillerie.it, attivo dal 2019, dettaglia oltre 200 produttori italiani (includendo anche i liquorifici) e ci mostra la fotografia attuale del settore, in crescita nonostante il periodo problematico. I promotori di distillerie.it, Claudio Riva e Davide Terziotti, già noti tra gli appassionati come fondatori di Whisky Club Italia, hanno anche organizzato lo scorso ottobre la prima conferenza italiana sulla distillazione artigianale Craft Distilling Italy 2020, un evento online dedicato al settore con interventi dedicati a spiegare l’evoluzione del fenomeno, ma anche workshop utili per fornire informazioni e spunti pratici ai potenziali nuovi attori del mercato.

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Microdistillazione e mondo della birra A questo punto ci si può chiedere quale rapporto possa avere il fenomeno del craft distilling con la nostra birra. In realtà, un rapporto più stretto di quello che ci si potrebbe aspettare! È noto che la base del whisky non è altro che un fermentato di malto d’orzo (chiamato wash) poi sottoposto a distillazione e maturazione in legno. Una sorta di birra senza luppolo, insomma, pur con varietà di orzo e di lieviti selezionate allo scopo, generalmente differenti da quelle scelte dai birrifici. A parte questa parziale sovrapposizione di ingredienti, è evidente che ogni fermentato può essere sottoposto a distillazione e la birra non fa eccezione, anche se in Italia il prodotto non gode (ancora) di una denominazione specifica: alcuni lo chiamano distillato di birra, altri acquavite di birra. Ancora prima della nascita del fenomeno dei microbirrifici artigianali, a metà anni ’90, il birrificio Theresianer realizzava, con la collaborazione del distillatore veneto Capovilla, il Bierbrand, forse

Non si può non citare, tra gli esempi di distillazioni birrarie, Baladin. Il poliedrico birrificio di Piozzo (CN), dopo avere esplorato ogni possibile connessione con la birra, il sidro e le bibite, propone nel 2011 il proprio Esprit de Noël, frutto della distillazione della birra natalizia della casa, al quale segue, un paio d’anni dopo, un’ulteriore proposta di distillato chiamato semplicemente Esprit in cui si esegue, prima dell’imbottigliamento, un “dry hopping” di luppolo in fiore.

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TENDENZE

Dai primi esperimenti alla distillazione “in casa” Si possono fare diversi altri esempi di distillazione di birra a opera di microbirrifici artigianali, come l’Acquavite del birrificio siciliano Tarì oppure il Majoris del trevigiano Birra Follina. Ma l’impressione generale è che, rispetto ai primi prodotti apparsi all’inizio degli anni 2000, l’asticella si sia alzata e sia aumentata la consapevolezza delle potenzialità dell’arte della distillazione della birra: le distillazioni saltuarie di un tempo lasciavano, onestamente, al consumatore il dubbio di scelte legate al riutilizzo di lotti di birra probabilmente non del tutto soddisfacenti, piuttosto che l’idea di consapevoli esplorazioni di nuove e interessanti produzioni. Col passare degli anni, le nuove proposte hanno assunto contorni maggiormente definiti e le basi di distillazione diventano “costruite” appositamente allo scopo: l’alessandrino Birrificio Civale realizza infatti il proprio Beer Soul da una birra creata espressamente per essere distillata dagli impianti dell’astigiano Beccaris. ★

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Rispetto a quanto accaduto sinora, cerchiamo di intuire i possibili sviluppi del prossimo futuro, che ci riserverà, con ogni probabilità, la nascita di nuove realtà e nuovi prodotti. Non più birrifici che distillano presso terzi ma birrai che diventano mastri distillatori, portando “in casa” anche questa fase produttiva per aumentare le possibilità di sperimentazione e creare nuovi e intriganti distillati di birra. È il caso del birrificio

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TENDENZE

sassarese EXMU, che da un anno ha immesso sul mercato il Malt Spirit, frutto integrale della propria attività produttiva: EXMU è infatti prima di tutto un’azienda agricola e coltiva in proprio l’orzo che viene utilizzato per la produzione di birre e distillati.

Creatività, esplorazione di nuove strade e di nuovi prodotti sono stati gli elementi fondanti della grande crescita del settore dei microbirrifici artigianali italiani negli ultimi 25 anni. Con ogni probabilità assisteremo a un’analoga crescita anche nella microdistillazione artigianale e siamo certi che di questo sviluppo faranno parte integrante numerosi birrai e birrifici. ★

Strada Ferrata: nasce il “Whisky Artigianale Italiano” Da pochi giorni è partito ufficialmente il progetto lombardo Strada Ferrata, con le prime distillazioni avvenute nel febbraio 2021 dopo infinite lungaggini burocratiche. Strada Ferrata è una joint venture tra il comasco Birrificio Italiano e il brianzolo Railroad Brewery: Agostino Arioli, dopo essere stato tra gli artefici della nascita del

Agostino Arioli di Birrificio Italiano

movimento dei microbirrifici italiani, si propone in questa nuova veste di distillatore, assieme al collega di Railroad Benedetto Cannatelli. Strada Ferrata punta a “creare il Whisky Artigianale Italiano”, come naturale prosecuzione ed evoluzione della birra artigianale, analogamente a quanto sta succedendo negli Stati Uniti.

Benedetto Cannatelli di Railroad


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di Miro Sampino

KVEIK, SEMPLICEMENTE LIEVITO? DALLE FARMHOUSE NORVEGESI UN’ANTICA E IMPORTANTE RISORSA PER I BIRRAI

I

l termine Kveik, in uno dei vari dialetti rurali norvegesi, indica il lievito per la produzione di birra. A essere precisi, Kveik non si riferisce al lievito selezionato in laboratorio a fini commerciali, che in norvegese prende il nome di gjær, ma richiama le colture di lievito a uso prettamente domestico adoperate per produrre birra tra le mura di casa. No, non stiamo parlando di homebrewing o, meglio, non solo di quello.

I Kveik sono tradizionalmente utilizzati nelle farmhouse norvegesi, ovvero nelle aziende rurali, prevalentemente agricole, che producono birre tipiche con il nome di maltøl e che si inseriscono nell’ampia famiglia delle farmhouse ale. La produzione di queste birre è spesso per il consumo familiare o per il commercio a filiera corta che si svolge prevalentemente nei tipici ristoranti annessi all’azienda. Le birre vengono utilizzate

sia per cucinare sia per essere servite ai clienti, accompagnando piatti tipici della tradizione culinaria locale come lo smalahove natalizio, una testa di capra affumicata e bollita, servita con patate e salsa di latte acido e birra, oppure piatti meno impegnativi come il prosciutto crudo tagliato a fette molto spesse e affumicato con vari tipi di legno e aromi. Come si può vedere dalla mappa, questi birrifici a conduzione familiare sono

Da Oslo, in treno, si può tranquillamente arrivare a Voss per poi proseguire verso Bergen e godere di alcuni paesaggi mozzafiato durante il tragitto.

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prevalentemente concentrati nella zona ovest della Norvegia, in una piccola area che comprende una manciata di comuni nella contea di Vestland. Siamo in una delle zone più affascinanti del paese, dove le montagne circondano piccoli comuni sperduti tra i fiordi e dove, per la latitudine (siamo a nord di Bergen), la notte e il giorno a volte si scambiano. La diffusione dei lieviti Kveik fuori dai confini norvegesi è stata spinta, negli ultimi anni, dal movimento homebrewer, che ha contribuito fortemente alla condivisione di colture originali Kveik, sia in Europa sia negli Stati Uniti. Infatti, tramite una rete di scambio che si è sviluppata attraverso Facebook, colture essiccate sono arrivate anche in Italia. Ma è stata la generosità dei birrai norvegesi, custodi di una tradizione antica, ad avere aperto la strada alla conoscenza di questi lieviti.

Tutta colpa di Lars Marius Garshol Siamo nel 2014, quando Lars Marius Garshol, ingegnere informatico appassionato di birra, inizia a documentare quel modo anacronistico di produrre birra a opera di alcuni birrai norvegesi, tra i quali Sigmund Gjernes e Ivar Løne. Inizia così a far luce su stili birrari definibili come ancestrali, quali Stjørdalsøl, Kornøl e Vossaøl.

Garshol descrive le tecniche tradizionali utilizzate nella produzione di queste farmhouse ale, che spesso vedono l’impiego di vecchie attrezzature che hanno attraversato generazioni, così come quei lieviti di casa che a ogni fermentazione si rigenerano e attraversano i secoli, in una sorta di memoria storica genetica. Garshol documenta tutto nel suo Larsblog (garshol.priv.no/blog) e, durante i suoi viaggi, recupera lieviti da vari birrifici, per poi inviarli ad alcuni laboratori di analisi. Nello stesso periodo un altro blogger, Martin Thibault, inizia a parlare di farmhouse ale norvegesi. Thibault, nella sua ricerca, è meno sistematico di Lars, ma la qualità delle sue indagini birrarie è sempre molto elevata.

Non solo Kveik Non tutte le farmhouse ale norvegesi sono realizzate con i lieviti Kveik e non tutte utilizzano per forza il ginepro come ingrediente speciale. Nella produzione della Stjørdalsøl si utilizzano lieviti commerciali e non viene impiegato ginepro (o meglio si è smesso di usarlo). In compenso, per questa birra è impiegata una tipologia di orzo coltivato in Norvegia, la varietà Domen, che i birrai maltano e poi essiccano con legno di ontano in strutture chiamate “såinnhus”, che sono vere e proprie case del malto. Nel comune di Stjørdal se ne contano più di una cinquantina. Alcune produzioni possono rientrare nella tipologia delle cosiddette raw ale, ovvero birre in cui il mosto, dopo la fase di filtrazione, non viene bollito ma subito fermentato. Altre birre seguono invece un procedimento di bollitura tradizionale. La scelta di quale metodologia seguire è quasi sempre dipendente dal tipo di attrezzatura di cui il birraio dispone.

I luoghi di utilizzo dei lieviti Kveik (fonte: Google).

a questa tipologia di birre, forse anche più dei lieviti Kveik. Prima che il luppolo diventasse l’amaricante de facto della birra, si utilizzavano fiori, piante e spezie (semi, radici o estratti). Il Gruyt è stato il primo mix della storia studiato per aromatizzare la birra, il luppolo arriverà dopo. Il ginepro, come ingrediente nella birra, ha origini lontane e sembrerebbe essere una prerogativa dei paesi nordici. In Nor-

La magia del ginepro Lars Marius Garshol.

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L’utilizzo del ginepro come ingrediente è sicuramente una delle cose che più colpiscono l’immaginario di chi si avvicina

Martin Thibault.

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forma di slide, si può reperire un documento redatto da Lars Marius Garshol, molto interessante, che descrive le fasi del processo di produzione delle maltøl (per accedere si può usare il QR code a destra).

Essiccazione del malto in una “såinnhus” (fonte: Lars Marius Garshol Tecniche tradizionali di birrificazione).

vegia questa abitudine potrebbe essere stata importata dai cugini Finlandesi. In realtà è nei paesi baltici che da sempre si fa un largo uso di questa pianta, che ancora adesso compare come ingrediente in alcune farmhouse ale estoni e lituane. Nella tradizione finlandese, si produce ancora una birra antichissima che risponde al nome di Sahti. Questa farmhouse ale viene realizzata con alte percentuali di segale e fermentata con lievito da panificazione. Il ginepro viene impiegato per ottenere un infuso con cui effettuare il mash dei grani. In fase di filtrazione, si utilizzano rami freschi di

ginepro, che vengono adagiati sulla tradizionale kuurna, un tronco di quercia scavato. La birra non viene bollita ma subito fermentata. Il Sahti rappresenta la raw ale (birra cruda) per eccellenza. Kornøl e Vossaøl norvegesi condividono con il Sahti la tecnica dell’utilizzo dell’infuso di ginepro. La Kornøl è una raw ale, mentre la Vossaøl viene bollita per parecchie ore. Non tutte le piante di ginepro sono commestibili e occorre fare attenzione a scegliere la varietà corretta, poiché si rischia l’avvelenamento. Sul sito web Slideshare, che è un contenitore di presentazioni multimediali in

L’utilizzo del ginepro nel Sahti finlandese è documentato già dal 1300, ma le origini di questa birra sono forse più antiche. A sinistra vediamo la tradizionale infusione del ginepro in pentola, mentre a destra è mostrato l’utilizzo della kuurna, un tronco di legno scavato su cui vengono adagiati rami di ginepro per creare un letto filtrante (fonte: Lars Marius Garshol Tecniche tradizionali di birrificazione)

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Le tecniche di produzione delle farmhouse ale norvegesi In un’interessante mappa realizzata da Garshol vengono raggruppate per area geografica le principali tecniche di produzione delle farmhouse ale norvegesi: lo schema mette in evidenza come l’isolamento geografico di alcune comunità abbia portato a sviluppare metodi diversi per produrre maltøl. Di seguito, la descrizione delle tecniche in sintesi. Bollitura del mosto dopo la filtrazione (boiled wort): il mosto filtrato viene bollito con eventuali spezie o luppoli (in pratica, come si fa per una birra tradizionale). Bollitura del mash (boiled mash): finita la fase di mash, i grani non vengono rimossi e si effettua una breve bollitura. Poi seguono una filtrazione e un’ulteriore bollitura per sterilizzare il mosto. Non è chiaro perché si effettui una bollitura dei grani; personalmente credo ci siano vari motivi, tra i quali l’esigenza di estrarre tannini al fine di compensare l’assenza di prodotti amaricanti e la necessità di mantenere l’impasto ad alte temperature per facilitare la filtrazione. I tannini, poi, hanno un ruolo conservante e stabilizzante per la birra. No-boil o birra cruda (raw ale): dopo avere separato il mosto dai grani, non viene effettuata la bollitura ma si inocula il lievito. Mixed: tra le varie tecniche sopra indicate, si sceglie quella più adatta alla tipologia di birra da produrre.

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IL MIO INCONTRO CON LE FARMHOUSE ALE DEL NORD EUROPA

La mia personale esperienza con le farmhouse ale del nord Europa inizia nel 2015, in tempi non sospetti, quando sul gruppo Facebook “Accademia delle birre” l’amico Andrea Brazzoli, stimato homebrewer conosciuto per le sue birre acide, condivide un documento dedicato alle farmhouse ale Lituane dal titolo Lithuanian Beer: A Rough Guide (per accedervi si può usare il QR code a sinistra). Il documento, a cura di Lars Marius Garshol, racconta le tradizionali birre della Lituania e in particolare le raw ale. Da lì a poco, fulminato da quanto letto, partivo per un viaggio birrario di quattro mesi, in giro per il mondo alla ricerca di stili birrari antichi e tradizioni ancestrali.

“TI VIENE DATA SOLO UNA PICCOLA SCINTILLA DI FOLLIA. NON DEVI PERDERLA.” Robin Williams

A prescindere dalla tecnica di produzione utilizzata, è fondamentale che la fermentazione inizi subito dopo l’inoculo e che sia vigorosa, in modo da contrastare la competizione microbiologica contro batteri e lieviti selvaggi antagonisti. Inol-

tre, non è semplice abbattere la temperatura del mosto se si utilizzano vecchie attrezzature, soprattutto di legno. Questo è uno dei motivi per cui questi lieviti si sono adattati alle alte temperature. I lieviti Kveik, per le loro caratteristiche, diventano quindi i più grandi alleati di questi birrai d’altri tempi. Per capire quanto importante sia questa forza dei lieviti Kveik, basti pensare che alcune farmhouse ale lituane, rientranti tra le raw ale (la Lituania vanta una tradizione di farmhouse ale chiamate Kaimiškas, che include alcune no-boil), spesso non riescono a durare oltre la settimana, per via delle contaminazioni da batteri lattici.

Caratteristiche delle colture Kveik

Distribuzione geografica delle tecniche di produzione (fonte: garshol.priv.no/blog).

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Oggi sappiamo con certezza che i Kveik non sono colture a singolo ceppo, ma multi-ceppo. I lieviti Kveik appartengono alla famiglia dei Saccharomyces cerevisiae e rappresentano un interessante caso di studio di come questo microrganismo sappia adattarsi e mutare. L’addomesticamento di questi lieviti è frutto delle pratiche birrarie che si sono susseguite nei secoli. Una lunga atti-

Lieviti di Jovaru Alus, recuperati in birrificio nel 2015. Non avendo provette vuote con me, l’unico contenitore più o meno sicuro per conservarli era una boccettina di 999 Zalios Devynerios da 35% alc. Fuori dal birrificio c’era la neve e la temperatura era -6 °C. Oggi i lieviti di Jovaru Alus sono protetti da un accordo di esclusiva con il marchio di Omega Yeast.

vità fatta di gesti antichi e lenti rituali dove è in un pezzo di legno, che va dalla semplice corteccia d’albero a una corona di legnetti intrecciati, che si cerca la magia per innescare la fermentazione. Infatti i lieviti Kveik sono tradizionalmente essiccati per essere conservati su questi media. I ceppi di Kveik sono altamente resistenti agli stress osmotici e altamente termotolleranti. Presentano caratteristiche genetiche POF- (Phenolic-OffFlavor-Negative) e perciò non producono fenoli, ovvero i metaboliti secondari che apportano alla birra sentori speziati, come nelle birre Saison, ma che in percentuali elevate o in legame con altre sostanze presenti nella birra possono determinare pesanti difetti organolettici. Sono inoltre caratterizzati da una capacità di flocculazione medioalta e una medio-alta attenuazione. Hanno un’ottima resistenza all’alcool. Gli esteri prodotti in fermentazione sono da moderati a bassi, con note agrumate e fruttate che variano in base alla temperatura, al tasso di inoculo e al fatto che si stiano utilizzando colture originali, quindi miste, oppure quelle di laboratorio, quindi singoli ceppi.

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L’utilizzo di legno o stoffa per conservare le colture in forma disidratata sfrutta la caratteristica dei lieviti Kveik di resistere allo stress di questa operazione. L’essiccazione avviene intorno ai 35 gradi (fonte: Lars Marius Garshol Tecniche tradizionali di birrificazione).

Una cosa importante da dire è che, sebbene le colture miste riescano a donare una complessità maggiore alla birra, spesso la loro gestione non è semplice. La resistenza dei Kveik non deve ingannare: sono lieviti tosti ma pur sempre microrganismi vulnerabili ed è comune che le colture possano presentare contaminazioni da lieviti selvaggi o batteri. Questo avveniva anche in passato ed è per questa ragione che i birrai norvegesi tradizionalmente si scambiavano le colture, specie tra vicini di casa. La fermentazione con i Kveik dovrebbe

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essere condotta tra i 30 e i 35 gradi. Se si sta nel range basso dei 20-25 gradi, le fermentazioni possono essere lente e comportare problemi a livello organolettico. Idem se si lavora oltre il range consigliato, perché allora i lieviti iniziano a stressarsi. Valgono le regole base legate a un buon pitching rate (tasso di inoculo) e all’utilizzo di nutrienti per aiutare il lievito. I Kveik abbassano il pH più di altri lieviti commerciali per Ale e Lager; di questo si deve tenere conto nel caso si lavori su stili luppolati e per regolare il corpo della birra.

Lieviti sempre più apprezzati dai birrai professionisti Un’ultima riflessione va sicuramente fatta su come questi lieviti stiano oggi diventando sempre più apprezzati dai birrai professionisti, fuori dai confini norvegesi e addirittura oltreoceano. La velocità di fermentazione, il profilo spesso pulito e la resistenza a condizioni di stress, ma soprattutto la stabilità che i laboratori che commercializzano lieviti sono riusciti a impartire alle loro referenze, hanno aperto tutta una serie di possibilità con la diffusione sul mer-

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cato di vari singoli ceppi, privi di agenti contaminanti. Se si impara a gestire i Kveik, questi diventano compagni di lavoro importanti. Non tutti i ceppi ovviamente hanno la stessa resa aromatica e quindi un profilo organolettico prevedibile e controllabile. Sebbene infatti i laboratori facciano di tutto per garantire una resa standard, la differenza è sempre fatta dall’equilibrio tra scelta del ceppo, temperatura di fermentazione e scelta/ combinazione delle varietà di luppoli (specie in aroma e dry hopping). Negli Stati Uniti, questi lieviti sono oramai diventati un must e la loro versatilità li porta a essere una valida alternativa addirittura ai lieviti lager, nelle birre che prendono il nome di pseudo-lager. Anche in Italia, diversi birrifici hanno iniziato a lavorare con i lieviti Kveik. Gli abruzzesi di Opperbacco li hanno utilizzati all’interno del loro progetto Abruxensis, realizzando

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una birra chiamata Kveik Abruxensis in cui, nella fermentazione, sono però coinvolti anche lieviti Brattanomyces. Un birraio che esplora da tempo questi lieviti è sicuramente il campano Vincenzo Serra, del Birrificio dell’Aspide. Infatti, quando ancora i Kveik non erano così diffusi in ambito pro, Aspide già lavorava alle sue colture, con una forte attenzione all’aspetto tecnico legato al mantenimento microbiologico. I Kveik commerciali sicuramente si allontanano, per molti aspetti, dalle colture tradizionali e il dibattito sul fatto che possano mantenere questo nome è molto acceso. Di contro, il lavoro fatto dai laboratori che commercializzano lieviti e dalle università ci sta permettendo di conoscere meglio questa straordinaria famiglia di Saccharomyces e di mapparne al meglio le caratteristiche. Ancora una volta, questi lieviti vengono addomesticati dall’uomo. ★

Kveik Abruxensis di Opperbacco.

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di Massimo Faraggi

ZUCCHERI E BIRRA

EQUIVOCI E TABÙ

Quando si può e si deve usare lo zucchero

Un calice di Westvleteren 12.

L

’impiego dello zucchero nella produzione della birra non gode in genere di buona fama. L’homebrewer esordiente, che muove i primi passi con gli estratti luppolati, per le sue prime birre spesso (seguendo le istruzioni) impiega grandi quantità di zucchero da tavola. Poi, leggendo libri e frequentando forum e social, impara a sostituirlo con estratto di malto e spesso finisce per considerarlo un tabù. I birrai di scuola tedesca inorridiscono al solo pensiero di impiegare zucchero e contraddire così il venerato Reinheitsgebot. Questa scarsa considerazione è dovuta a diverse ragioni. Lo zucchero è un

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succedaneo e il suo impiego è spesso giustificato da ragioni di costo e comodità. Essendo del tutto fermentabile, non apporta alcun corpo ma alza solamente il grado alcolico e per questo il suo utilizzo non aggiunge alcunché alla birra: anzi, ne compromette il bilanciamento tra alcool e corpo, senza d’altra parte dare alcun contributo in termini di gusto e aroma. Tutto questo ha una sua base di verità, molto concreta soprattutto riguardo all’impiego esagerato raccomandato da alcuni produttori di estratti luppolati. Ragionando più in generale, però, le cose non sono così scontate.

Partiamo dall’attenuazione, senza addentrarci troppo nella chimica. Lo zucchero da tavola è saccarosio, fermentabile al 100%. Si tratta di un disaccaride: il lievito, prima della fermentazione, scinde il saccarosio nei due monosaccaridi che lo compongono, fruttosio e glucosio. L’impiego diretto di questi ultimi non cambia praticamente nulla, salvo risparmiare al lievito il primo passo del suo lavoro. Lo zucchero prodotto dalla saccarificazione dell’amido del malto è invece il maltosio, anch’esso un disaccaride e anch’esso fermentabile al 100%. Quello che dà corpo e residuo zuccherino a una birra sono le destrine, che per la quasi totalità non vengono fermentate dal lievito (anche il lattosio non è normalmente fermentabile). Insomma, il concetto della maggiore attenuazione è reale, ma è da stabilire se ciò sia da considerare come un difetto oppure se possa essere un fatto positivo per alcuni stili di birra. Il mancato apporto di gusto e aroma è vero nel caso di zucchero raffinato; al contrario, per gli zuccheri non raffinati gli apporti organolettici e visivi non sono trascurabili. Anche sull’economicità dello zucchero rispetto al malto si potrebbe discutere: è vero in generale e lo è stato soprattutto in certe epoche e situazioni, ma se consideriamo il costo di alcuni zuccheri speciali il confronto rispetto al malto acquistato all’ingrosso viene ribaltato. In realtà l’impiego dello zucchero ha fatto e fa parte della tradizione per diversi stili di birra, in particolare nel Regno Unito e soprattutto in Belgio. Non è detto che

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questo sia sempre significativo - esistono anche tradizioni discutibili! - ma per certi stili lo zucchero ha la sua ragione di impiego ed è a volte imprescindibile per produrre una birra in stile. Nel Regno Unito lo zucchero è stato spesso impiegato nella birra, soprattutto nei periodi in cui grandi quantità provenienti dalle colonie erano disponibili a prezzo contenuto, quindi principalmente per ragioni economiche. In genere non è da considerare un ingrediente importante nelle birre inglesi, per le quali un mosto al 100% di malto rimane solitamente la scelta migliore. Spulciando il Real Ale Almanac di Roger Protz vediamo comunque che lo zucchero, per esempio sotto forma di sciroppo di glucosio, viene impiegato talvolta anche in birre di buona qualità. Per alcune birre la presenza di zuccheri aggiunti di tipo particolare è più significativa anche dal punto di vista organolettico: secondo Michael Jackson la scura e pregiata Old Peculier impiega tre varietà di zuccheri; possiamo intuire che fra di essi possa essercene una varietà caramellata e forse del lattosio, mentre per la mitica Courage Imperial Stout veniva utilizzata la scura e densa melassa, che io stesso ho impiegato nel realizzare le mie Imperial Stout casalinghe.

Una bottiglia di Old Peculier.

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Più significativo è l’utilizzo degli zuccheri nelle birre belghe. In questo caso l’inconveniente della completa fermentabilità con conseguente alleggerimento del corpo diventa un aspetto positivo e voluto, in modo da ottenere birre ad alta gradazione alcolica che tuttavia risultino non troppo pesanti e più bevibili, digeribili è il termine usato da alcuni birrai. Lo zucchero in questo caso è un ingrediente quasi indispensabile per riprodurre fedelmente diversi stili birrari belgi, come per esempio una Tripel, ottenendo un’attenuazione adeguata. In alcuni casi gli zuccheri, oltre ad alzare il grado alcolico senza appesantire il corpo, hanno anche un certo ruolo nell’aroma e nel gusto: un esempio importante è dato dalla mitica Westvleteren 12, per la quale sia il colore bruno intenso sia i toni scuri, caramellati e da rum non deriverebbero da malti scuri e speciali, bensì dall’uso di zuccheri scuri, non raffinati e/o caramellati.

L’uso degli zuccheri nelle birre belghe Parlando delle birre belghe, bisogna sgombrare subito il campo da un equivoco - almeno, questo è quello che sostengono alcuni autori, in particolare Stan Hieronymus nel suo celebrato libro Le birre del Belgio I. Per queste birre è noto l’impiego di zucchero candito, chiaro o scuro, spesso identificato con il rock candi sugar in grossi cristalli. In realtà le birrerie belghe che indicano candi sugar fra gli ingredienti intendono con questo termine lo sciroppo di zucchero (in genere glucosio). Sia lo sciroppo sia il più costoso zucchero candito chiaro (saccarosio raffinato al 100%), in termini di resa saccarometrica e organolettica, sono del tutto equivalenti allo zucchero bianco “da tavola”, che si può quindi tranquillamente usare nell’homebrewing. Anche nel caso del rock candi scuro esisterebbe un equivoco simile, in quanto le birrerie, per le loro birre più scure, impiegano in realtà altri prodotti: zuccheri

non raffinati (cassonade o sirop de candi, vedi più avanti) o caramellati. Il dark rock candi, pur avendo un apporto non trascurabile in termini di colore e gusto, è insufficiente da solo a ricreare gli aromi caramellati e liquorosi presenti in una Westvleteren o Rochefort - cosa di cui mi sono potuto rendere conto personalmente in alcuni tentativi di “clonazione casalinga”. Quali zuccheri usare, allora, per queste birre? Rimanendo nel campo degli zuccheri derivati da barbabietola, quelli normalmente usati in Belgio, e lasciando al momento da parte quelli caramellati, interessante è la sopra descritta vergeoise, disponibile quasi solo nel Nord Est francese e in Belgio dove è chiamata cassonade. È usata spesso nella produzione di dolci e torte, che impreziosisce con il suo aroma intenso e piacevole; cosa per noi più interessante, è usata nella preparazione di diverse ale scure forti (trappiste e non), come per esempio la Rochefort e l’ottima Struise S. Amatus, come mi ha detto il birraio stesso chiamandola efficacemente bastard sugar. Ho provato a birrificare una Dubbel usando malti caramellati e scuri in quantità molto ridotta e affidandomi alla cassonade prodotta da Candico e acquistata in un supermarket in Belgio. Il risultato è stato buono, anche se ancora di intensità un po’ al di sotto delle aspettative. Un altro prodotto interessante è lo sirop de candi, anch’esso prodotto da Candico. Si tratta di uno sciroppo di vergeoise in forma ancora più concentrata quanto a presenza di residui di raffinazione. Il suo potenziale di colore è infatti più elevato (vedi più avanti) e, pur non essendo uno zucchero caramellato, il gusto e l’aroma sono ancora più intensi, sconfinando anche nel tostato. Questo potrebbe avvicinarsi a quanto usato effettivamente (in tutto o in parte) nelle più intense e scure birre trappiste e di abbazia - insieme forse all’uso di zuccheri caramellati.

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C’È ZUCCHERO E ZUCCHERO

Faremo ora una breve panoramica delle varie tipologie di zuccheri, non tanto dal punto di vista chimico quanto produttivo. Chimicamente, infatti, stiamo parlando sempre della stessa sostanza: saccarosio o al più glucosio che, come abbiamo visto, non è che un suo componente. Dal punto di vista produttivo le varianti e le relative combinazioni sono invece molteplici. Lo zucchero può essere caramellato più o meno intensamente e può presentarsi in forme diverse: cristalli fini (come lo zucchero da tavola), grossi cristalli (rock candi o zucchero candito), sciroppo (per esempio, sciroppo di glucosio, che è la forma più spesso impiegata industrialmente). La provenienza può essere diversa (canna, barbabietola...) e lo zucchero può essere o meno raffinato, nel qual caso la provenienza è ininfluente. Se esaminiamo il processo di raffinazione, scopriamo l’esistenza di altri prodotti interessanti. Lo sciroppo zuccheroso viene dapprima estratto e separato dalla polpa, poi sottoposto a un complesso processo di purificazione che prevede l’eliminazione delle scorie con procedimenti chimici e/o filtrazioni meccaniche. Alla fine di queste operazioni lo sciroppo ha un contenuto zuccherino del 10-15% ed è

La melassa è uno sciroppo scuro e denso.

tutt’altro che puro, contenendo ancora diverse altre sostanze oltre al saccarosio. Per evaporazione lo sciroppo viene poi concentrato fino al massimo possibile. A questo punto si procede alla cristallizzazione: lo sciroppo viene portato a ebollizione, in genere sottovuoto, quindi a temperature non eccessive, fino ad arrivare alla formazione di cristalli, che vengono separati per centrifugazione e dai quali si otterrà poi lo zucchero bianco al massimo della purezza. Lo sciroppo residuo contiene altro zucchero che non si è cristallizzato, insieme a una concentrazione ancora maggiore di impurità. Questo sciroppo può essere sottoposto a un altro ciclo di cristallizzazione, ottenendo uno zucchero in cristalli, meno puro, ambrato e aromatico detto vergeoise (in Belgio viene chiamata cassonade; in Francia il termine cassonade indica un’altra cosa, attenzione quindi negli acquisti!). Lo sciroppo residuo, ancora più scuro e ricco di impurità, dalla produzione della vergeoise può ulteriormente essere sottoposto a un altro ciclo, dal quale si ottengono cristalli di scura e aromatica vergeoise brune e uno sciroppo residuo scuro e denso, la melassa. Un confronto fra la composizione di zucchero bianco e vergeoise brune è mostrato nella Tabella A.

Tabella A (Alfa Arzate, Centre Acer, Quebec)

Una confezione di cassonade.

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Zucchero

Vergeoise brune

Saccarosio (%)

99,80

96,40

Acqua (%)

0,05

1,40

Fibre (mg/100 g)

-

0,20

Minerali tot. (%)

0,04

0,80

Calcio (mg/100 g)

0,60

8,50

Ferro (mg/100 g)

0,30

6,00

Potassio (mg/100 g)

2,00

240,00

Sodio (mg/100 g)

0,30

35,00

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Il potenziale saccarometrico e di colore dei diversi zuccheri Per non procedere esclusivamente a tentativi nella formulazione delle ricette con questi tipi di zuccheri, ho proceduto a una misurazione del loro potenziale saccarometrico e di colore (espresso in EBC). La prima misurazione è piuttosto semplice: per esempio, per esprimere il potenziale zuccherino di un ingrediente in gradi Plato (o punti di densità) per kg per 10 litri (come spesso di usa), basta diluire l’ingrediente nella stessa proporzione ed effettuare la misura con il rifrattometro o densimetro. I risultati (vedi Tabella B) riservano poche sorprese: quasi tutti gli zuccheri raggiungono i 10 Plato, ovvero risultano effettivamente zucchero al 100% o quasi, compresa la cassonade; fanno eccezione lo zucchero di canna grezzo e lo sirop de candi, che contiene una percentuale di acqua. La misurazione degli EBC è un po’ più complessa. L’argomento del colore della birra in generale e dei relativi metodi di misurazione richiederebbe un articolo a parte, vista la complessità della materia! Esistono varie metodologie e scale basate su procedimenti diversi, spettrografici o per confronto e parametri diversi. Anche quando si specifica il potenziale di colore di uno zucchero o malto è necessario (par-

Tabella B N.

Plato

EBC

Descrizione

1

10,0

30

Rock dark candi (Candico)

2

9,3

5

Zucchero di canna grezzo

3

10,0

5

Cassonade ambrata (Graeffe)

4

10,0

50

Cassonade brune (Candico)

5

8,4

200

Sirop de candi (Candico)

6

-

-

Rochefort 8

ticolare a volte trascurato) chiarire a quale diluizione ci si riferisce: un malto specificato a 200 EBC non vuol dire che abbia intrinsecamente quel colore, ma che utilizzato per TOT grammi in TOT litri di mosto conferisce al mosto stesso 200 EBC. Sia per praticità sia per una sufficiente aderenza ai metodi standard ho utilizzato la stessa diluizione sopra riportata per la misura del potenziale zuccherino. I vari campioni diluiti nella proporzione di cui sopra sono stati messi a confronto assieme a una Rochefort 8, sacrificata per l’occasione, non diluita, da usare come riferimento. Il suo colore, secondo il libro Le birre del Belgio I, è di 63 EBC. A questo punto, per ottenere i valori di EBC dei campioni ho proceduto per successive diluizioni e per comparazione con il riferimento: un metodo empirico ma affine a quello

usato in alcuni standard. Ho cominciato con il campione più scuro (candi sirup), diluendolo con quantità misurate di acqua fino a che il colore non fosse visivamente uguale a quello della Rochefort 8; a questo punto, mediante una semplice proporzione con la diluizione effettuata, ho potuto stimare gli EBC del candi sirup. Per quanto riguarda i campioni più chiari rispetto alla Rochefort di riferimento, ho proceduto in modo simile, in questo caso diluendo progressivamente il riferimento e confrontandolo successivamente con i campioni via via più chiari. I risultati sono riportati in Tabella B. È opportuno specificare che la misurazione degli EBC segue in realtà una legge non lineare. I risultati qui riportati, sebbene puramente indicativi, sono comunque molto utili per capire l’effetto dei vari zuccheri sulla colorazione della birra. ★

Soluzioni zuccherine di eguale concentrazione, ottenute dai vari tipi di zuccheri.

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BIRRA IN CUCINA

di Eleni Pisano

PANE LIQUIDO

LA BIRRA DENTRO E FUORI DAL PIATTO

L

’uso della birra come ingrediente nella preparazione dei piatti è la naturale conseguenza del desiderio di valorizzare un elemento ricco, poliedrico e interessante, fatto di creatività, alchimia e lunga tradizione. La base di partenza per un uso ottimale della birra in cucina è la volontà di sotto-

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lineare le specificità dei vari stili e le varie fragranze delle ricette brassicole, per poterle poi unire, in fase di abbinamento, anche a birre di stili differenti. Spesso in cucina gli apparenti contrasti o gli abbinamenti che paiono azzardati concedono grande armonia al palato e introducono a nuovi sapori. Se è vero che

siamo quello che mangiamo, in questo articolo cercherò di essere audace, innovativa ma anche fedele alla tradizione e alla selezione di prodotti stagionali e di filiere di qualità. Per introdurre al meglio il concetto dell’uso della birra in cucina parto dal citare uno dei suoi più noti e antichi si-

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nonimi: pane liquido. La birra è composta dagli stessi ingredienti utilizzati per fare il pane e come il pane nasce da una trasformazione e una lievitazione. Da qui il suo grande apporto nutritivo (da non confondere con apporto calorico) e anche una serie di preconcetti, spesso infondati, legati al suo consumo.

Unica regola: essere curiosi e aperti alla sperimentazione Per utilizzare al meglio e in modo versatile la birra in cucina e nel piatto si deve essere curiosi e aperti alla sperimentazione, non solo nella ristorazione professionale ma anche in ambito domestico: la curiosità è alla base della definizione di nuovi gusti e combinazioni. Inoltre, per bilanciare nel piatto l’uso della birra, in particolare a crudo, occorre dare spazio al proprio palato e accostare in base ai sapori, i colori e le consistenze. Non mancano, nella storia gastronomica mondiale, numerosi esempi di piatti nati da errori o variazioni di ricette che erano pensate in un modo diverso da quello con cui poi si sono realizzate. Tra le più note: la pizza, la crema pasticcera, il ghiacciolo, il panettone e molte altre. Non dovrebbero esistere regole fisse per l’uso della birra in cucina, anche se vi sono alcune consuetudini. Io in realtà mi sono sempre basata sull’istinto e sull’assaggio. Parto solitamente dall’analizzare attentamente le fragranze di una birra, quindi ne osservo la consistenza e la limpidezza, infine passo all’assaggio. La birra, quando viene unita ad altri ingredienti e messa a crudo nel piatto, assume inevitabilmente, con l’incontro di altri sapori e consistenze, un gusto differente e spesso sorprendente rispetto a quello immaginato. Tra le prime sperimentazioni fatte in ambito di birra in cucina c’è stata quella di un suo utilizzo a crudo, senza partire dai tradizionali piatti di carne o dolci, bensì con piatti vegetariani (anche se io sono un’onnivora convinta). Un altro approccio interessante è usare la birra con i componenti di cui è fatta:

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sempre più spesso, per esempio, si adoperano erbe aromatiche o spezie nelle ricette delle alchimie brassicole. Le spezie in particolare sono un terreno fertile e straordinario da cui attingere: strutture e sapori che esaltano i piatti, parlano dei territori e contribuiscono, grazie alle loro note proprietà antimicotiche e quindi conservative, a rendere più sicuro l’uso della birra in piatti a crudo o in macerazione.

Concetti di base sull’uso della birra a crudo in cucina La tecnica della cucina a crudo viene spesso, erroneamente, associata a qualcosa di poco saporito e creativo. Si tratta invece di un approccio molto interessante e versatile, che non prevede l’uso di alte temperature: il piatto raggiunge al massimo i 40 °C. La cucina a crudo, quindi, non è fredda, come molti pensano erroneamente. Alla base di un approccio crudista, altamente consigliato con la consumazione di almeno un piatto al giorno, che aiuta la digestione e favorisce il funzionamento del metabolismo regalando grandi sapori e consistenze per tutti i palati e

i tipi di diete alimentari, ci sono i condimenti. Da qui il mio approccio all’uso della birra a crudo per condire, emulsionare creme e salse e infine marinare. La questione degli abbinamenti, ossia il pairing tra cibo e birra, è un tema sempre più centrale e interessante per chi si occupa del mondo brassicolo artigianale e non solo. Esistono diverse scuole di pensiero e sinceramente non credo di abbracciarne una in toto, ma verifico e valuto ogni volta quale sia il migliore abbinamento partendo dall’iniziale contrasto in bocca che poi, alla degustazione, si bilancia e si completa, dando sapore e carattere al piatto e alla birra che lo accompagna. Secondo un approccio più classico e tradizionale, gli abbinamenti tra birre e cibo vanno per affinità: birre acide con piatti a base acida, birre dolci con piatti prevalentemente dolci e così anche per gli altri tipi di gusto. Questo approccio si adatta molto bene, in particolare, a ricette di media e lunga preparazione, tradizionalmente tipiche dei paesi del nord Europa, in cui la birra aiuta ad ammorbidire, in prevalenza, la carne e a di-

LA BIRRA IN CUCINA, UNA STORIA ANTICA

In realtà la birra si usa nelle preparazioni dei piatti da molti secoli per due motivi principali. Il primo è la parte alcolica, che aiutava a conservare gli alimenti e a impedire il proliferare di varie contaminazioni; in passato, infatti, non esistevano sistemi adeguati di conservazione degli alimenti e si preferiva trasformarli subito per poterli poi conservare più a lungo. Il secondo motivo è legato all’alto potere nutritivo della birra e al suo impatto sul sapore di un piatto; inizialmente era usata quasi esclusivamente per trattare la carne e il pesce. Prima dell’introduzione del luppolo, di cui si ha notizia in epoca carolingia (750-987 d.C.), la pianta spontanea che conferisce alla birra il suo inconfondibile sentore amaro e possiede notevoli proprietà antibatteriche e antiossidanti, si utilizzava fino al medioevo una mistura di erbe medicinali e spontanee con aggiunta di spezie, chiamata gruit, in sostanza un aromatizzatore naturale, molto usato anche in cucina. Gli antichi egizi erano soliti unire la produzione dei cibi con quella della birra sostituendo l’orzo con pane raffermo, una grande innovazione e un esempio di sostenibilità alimentare e riduzione degli sprechi: modificare la destinazione d’uso per produrre un altro alimento o una bevanda.

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ventare un legante al liquido di cottura del piatto. Nell’usare le birre a crudo ho imparato che azzardare contrasti di birre con stili diversi in realtà aiuta a valorizzare un piatto e anche la birra che si associa. All’inizio il mio approccio era molto provocatorio e non è stato facile invitare all’assaggio grandi degustato-

ri che si dimostravano scettici a tanto azzardo; dopo le degustazioni, però, si sono sempre ricreduti e spesso sono stati preziosi nel fornirmi punti di vista integrativi che hanno arricchito il mio lavoro. Una delle primissime sperimentazioni che ho fatto è stata sostituire, nella vinaigrette, la parte acida con la birra. La

famosa salsa francese è tecnicamente composta da una parte grassa, solitamente olio, una parte acida, solitamente citrica o aceto o vino, una parte che conferisce sapidità con il sale e una aromatica con le spezie. Se la parte acida si sostituisce con la birra si ottiene un condimento saporito, versatile e adatto a varie materie prime.

Le ricette Le combinazioni che propongo di seguito sono pensate per circa quattro persone.

Insalata spontanea Ingredienti Per l’insalata: ❱ 200 g di tarassaco, una pianta spontanea chiamata anche dente di leone, reperibile da aprile a giugno ❱ 500 g di mozzarella di bufala affumicata ❱ 60 g di noci che, volendo, si possono sostituire con nocciole o arachidi non salate ❱ 10 g di semi di papavero, che danno consistenza e croccantezza e possono anche essere sostituiti con semi di sesamo o di chia

Pere ubriache Una preparazione con frutta e spezie da accompagnare sia con creme dolci sia con formaggi alla goccia intensi come il gorgonzola. Ottime servite con una buona Imperial Stout. Ingredienti ❱ 4 pere coscia, le più adatte per dimensione, consistenza e sapore ❱ 2 stecche di cannella ❱ 2 cucchiaini di pepe rosa ❱ 5 chiodi di garofano ❱ Birra porter Dal momento che le pere sono frutti altamente zuccherini e che la cannel-

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Per la vinaigrette: ❱ 2/3 di olio extravergine di oliva ❱ 1/3 di birra tipo Apa, per un gusto più intenso, oppure una Helles/Pils per un approccio più delicato ❱ Sale Per la vinaigrette si uniscono insieme tutti gli ingredienti e si emulsionano finché non sono ben uniti tra loro. Si condiscono le foglie di tarassaco e dopo un paio di minuti si aggiungono gli altri ingredienti dell’insalata. Consiglio di servire con una Porter e pane nero tostato.

la è considerata una spezia “dolce”, ho optato per una birra scura ma non troppo alcolica e dolce, per trovare poi una consistenza in bocca che mantenga una parte croccante della pera. Si lavano bene le pere, non si sbucciano (le bucce sono importantissime perché contengono il maggiore quantitativo di nutrienti e sono commestibili e digeribili), si mettono in un contenitore con il tappo; si aggiungono le spezie e si copre con la birra. Si chiude il coperchio e si lascia in frigo per una notte. Si servono le pere ben scolate o con della crema pasticcera, al limone o al caffè, oppure con un ottimo gorgonzola alla goccia.

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Birrabrusca La birra a crudo è molto interessante anche come componente in emulsione per preparare delle creme. In questo caso è importante aggiungerla a piccole dosi fino a ottenere il gusto desiderato, prestando molta attenzione alla consistenza, soprattutto perché la parte alcolica della birra può favorire la scomposizione della crema e renderla quindi più liquida. Sono partita dalla classica crema di ceci mediterranea; non esattamente l’hummus, perché prevede tutti i classici ingredienti ma non la pasta grassa fatta da semi di sesamo, la tahina. Questa ricetta molto fresca parte da un elemento tipico della nostra tradizione mediterranea, la bruschetta. Dunque, fondamentale è la selezione di un pane lievitato in modo naturale, preferibilmente con farine non raffinate; non per questioni di moda, ma perché i cibi molto raffinati non fanno bene al nostro organismo e non favoriscono la corretta assimilazione dei nutrienti. La bruschetta è una base comune che si può differenziare per palati diversi e con colori e forme variegate: non si deve mai dimenticare che si comincia a mangiare con gli occhi! Consiglio di servire queste bruschette con una Saison. Ingredienti ❱ 4 fette di pane casereccio con lievito madre leggermente tostato in padella o in forno ❱ 300 g di zucchine, meglio se di medie e piccole dimensioni ❱ Erbe aromatiche (menta, timo e origano fresco) ❱ 50 g di olive nere non denocciolate ❱ 50 g di pomodorini secchi ❱ 50 g di sgombro sottolio o al naturale, secondo le preferenze Per la crema di ceci: ❱ 150 g di ceci lessati ❱ 1 spicchio d’aglio ❱ Birra tipo Weizen

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❱ ❱ ❱ ❱

Olio di semi di girasole Sale Polvere di cumino Limone da agricoltura biologica

Si lavano bene le zucchine e, con l’uso di una mandolina, si tagliano per il lungo creando strisce sottili e uniformi (la dimensione uniforme del taglio è importantissima per cuocere e marinare l’ingrediente allo stesso punto), poi si condisce con olio e sale. Per la crema, si scolano bene i ceci, si unisce lo spicchio d’aglio, sale, 1/2 cucchiaino di polvere di semi di cumino, succo di mezzo limone a filo e l’olio di girasole sino a ottenere una consistenza cremosa e compatta. Si aggiunge a filo la birra fino a ottenere una consistenza morbida. Per comporre il piatto basta aggiungere alla base del pane leggermente tostato la crema di ceci alla birra, le zucchine condite e completare come meglio si preferisce. Alla fine ho aggiunto anche dei fiori perché, oltre a dare colore e movimento al piatto, sono buoni da mangiare e hanno molte proprietà benefiche.

Arance in agrobirra Come le pere, anche le arance si possono unire come condimento aggiuntivo a carne stufata a lenta cottura, oppure a una bruschetta con ricotta vaccina. Sarebbe meglio usare arance da agricoltura biologica (non trattate): è possibile così mangiare anche la buccia. Si lavano bene e si tagliano a fette sottili e regolari. Si condiscono quindi con: ❱ Rosmarino (erba aromatica ottima per dare consistenza e sentore erbaceo, che diminuisce la parte naturalmente acida dell’arancia) ❱ Sei grani di pepe rosa ❱ Olio extravergine ❱ Sale ❱ Birra tipo IPA Si lasciano in macerazione per almeno 4 ore in frigo coperte. Prima di servirle si scolano bene. Ottime anche su dei taglieri in abbinamento a una selezione di formaggi.

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Involtini di zucca, cavolo rosso e riduzione in birra Una delle mie primissime sperimentazioni che aveva colto letteralmente di sorpresa i clienti! Non solo per l’uso della birra nell’emulsione, ma anche per la zucca a crudo. Ingredienti ❱ 12 fette molto sottili di zucca butternut ❱ 200 g di cavolo cappuccio rosso ❱ 1 cucchiaino di semi di senape bianca ❱ 1 cucchiaino di miele millefiori o fiori d’arancio ❱ Olio extravergine di oliva ❱ Sale ❱ Birra Helles o Pils

Pane bagnato con birra Per l’emulsione: ❱ Curcuma in polvere ❱ Birra Saison ❱ Olio extravergine di oliva ❱ Sale ❱ 70 g di feta greca

Si lava la zucca, si taglia a fette regolari e sottili e la si mette a marinare per circa 30 minuti con olio, sale e birra. Nel frattempo si taglia sottile il cavolo cappuccio rosso e si condisce con olio, sale, semi di senape e il miele, lasciando a riposo almeno 30 minuti. In un frullatore a immersione si unisce la feta greca, la birra a filo, il sale (molto poco perché la feta è un formaggio con elevata sapidità), la curcuma e l’olio e si frulla sino a ottenere una consistenza leggera e uniforme. Si stendono le fette di zucca e si aggiunge il cavolo cappuccio condito, richiudendo la zucca a mo’ di involtino. Alla base del piatto si aggiungono due cucchiai di emulsione. SI completa il piatto con un po’ di paprika affumicata.

Una ricetta che mi ricordo essere nata da un gioco e che mi ha dato grandi soddisfazioni: il pane cunzato o bagnato o ammorbidito o frisa (ogni luogo ha la sua definizione anche dialettale). Si aggiunge al pane secco, per ravvivarlo, 2/3 di acqua e 1/3 di birra (in questo caso una bitter che ha dato leggerezza al piatto). Qui è presentato in modo tradizionale con l’aggiunta di un po’ di tonno cotto e spezzettato.

Solo ingredienti di qualità Ogni volta che pensate a un piatto e mettete qualcosa in tavola il mio unico consiglio è quello di selezionare ingredienti di qualità: ciò non significa necessariamente costosi, ma di filiera riconosciuta, magari dal proprio orto, dall’azienda agricola di zona o da un rivenditore di fiducia. Perché siamo quello che mangiamo! *Tutte le foto di questo articolo, tranne quella di apertura, sono di Eleni Pisano.

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FOCUS TORREFAZIONE

A cura del MoBI Tasting Team

MoBI TASTING SESSIONS: Le note torrefatte Birre italiane e straniere, artigianali e (semi)industriali degustate e giudicate dal “MoBI Tasting Team”

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n principio fu la Porter. Il mito racconta che lo stile fu inventato all’inizio del diciottesimo secolo nell’area londinese e divenne immediatamente la bevanda favorita dei facchini portuali (porters, appunto). La caratteristica birra scura con note torrefatte venne subito apprezzata anche altrove, prima esportata e poi riprodotta (e reinterpre-

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tata) in diversi paesi: Irlanda, Stati Uniti, Russia, Africa e Oriente. La Porter originaria “generò” Porter e Stout di vario tenore alcolico (Irish, extra, imperial), di diverso boccato (sweet, milk, tropical) e luppolatura, con ingredienti inusuali (oatmeal, oyster, chocolate, coffee) e anche con lieviti a bassa fermentazione (Baltic). Un universo (o)scuro!

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membri del MoBI Tasting Team sono rinomati degustatori, giurati a concorsi BJCP, appassionati, talvolta anche birrai. Puoi trovare altre degustazioni e recensioni sul blog del sito MoBI. Inquadra il QRCode e segui il link!

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FOCUS TORREFAZIONE

Silente SBAM! Brewing

Cabossa Croce di Malto

Blacksmith Luppoleto Camuno

Stile: Robust Porter

Stile: Chocolate Stout

Stile: American Stout

Formato: bottiglia 33 cl

Formato: bottiglia 33 cl

Formato: bottiglia 50 cl

Alc.: 6,2% vol.

Alc.: 4,3%

Alc.: 5,0% vol.

Lotto: L130220

Lotto: 11120

Lotto: L1/20

Acquistata da: birrificio

Scadenza: novembre 2021

Acquistata da: brewpub

Aspetto: un tuffo nei meandri più scuri del rubino; apparentemente impenetrabile, tuttavia diafano se posto in controluce. Schiuma fine e compatta colore nocciola, poco persistente. Olfatto: egemonia delle tostature: cioccolato - fondente - caffè verde di caffè in chicchi. Infrastruttura di malti robusta e morbida al tempo stesso: note di toffee e brownie, pane tostato, biscotto leggermente bruciacchiato e principi di salamoia. Nocciole e noci completano l’impianto tostato, l’uvetta incornicia il tutto. Gusto: corpo medio, carbonazione medio/ leggera, sensazione tattile arrotondata dall’avena, pur nel suo ammiccante vedo-non-vedo di tostature. Insieme all’amaro possiede una rinfrescante acidità da caffè, oltre che di frutti rossi. Sullo sfondo il warming, a indulgere alle sue coccole alcoliche. Chiude relativamente secca, leggermente etilica eppure rinfrescante. Retronasale di brownie e miele di melata, pellicina di noce; retrogusto di cioccolato fondente ubriaco (amaretto). Conclusioni: possente, e nonostante la corporatura robusta si regge egregiamente in funambolico equilibrio, senza cadere in deludenti arsure etiliche o sgradevoli astringenze; come gelato al cioccolato, dolce e un po’ ubriaco.

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Acquistata da: produttore La Cabossa è la chocolate stout di Croce di Malto, che dichiara fin dal nome quale sia l’ingrediente caratterizzante (la cabossa è il frutto del cacao). Alla vista è tutto ciò che ci si aspetta da una stout: scura, quasi del tutto impenetrabile e con una bella schiuma nocciola. Anche al naso non si esce dai binari previsti, presentando con eleganza e pulizia note di caffè, cacao, cioccolato e uno sfumato accenno di liquirizia e frutta a guscio. Quello che ci stupisce di più è l’impatto gustativo o, ancora meglio, l’aspetto delle sensazioni boccali: anche grazie all’apporto dell’avena, una birra da soli 4,3 gradi alcolici e con corpo leggero rimane comunque morbidissima in bocca, permettendo di cogliere e apprezzare al meglio l’apporto del cacao e dei classici sentori dei malti tostati, evitando derive acidule. La carbonazione fine e una lievissima nota amara finale completano il lavoro valorizzando la bevibilità e la personalità. In sintesi, una gran bella birra che, insieme alla Piedi neri, colloca Croce di Malto ai piani alti tra i produttori di birre scure di impronta anglosassone.

Aspetto: colore ebano tagliato da riflessi cola, aspetto limpido. Cappello di schiuma nocciola esageratamente pronunciato, che riflette una carbonazione piuttosto spinta. Olfatto: il ventaglio olfattivo si muove tra due frange. Le tostature da un lato, con decisi sentori di cioccolato, fave di cacao e cold brew coffee; dall’altro i luppoli, resinosi, con suggestioni di pino. La base maltata muove dal toffee al miele di melata, sublimando le tostature verso la frutta secca (nocciola). Frutti rossi (fragoline, susine) a incorniciare. Gusto: corpo medio, carbonazione medio/ alta, sensazione tattile che, parimenti al naso, possiede le canoniche due facce della stessa medaglia: voluttuosa morbidezza e snella acidità. Ne risulta una birra tostata che non raschia il palato, vivacizzata dai luppoli. Lo stesso caffè risulta rinfrescante, privo di spigoli; l’amaro arriva piuttosto dal cioccolato fondente, con un leggero vischioso di resina che tuttavia non inficia la beva. Retrogusto di cioccolato, retronasale di toffee. Come prima, più di prima, frutti rossi e frutta secca a corredo. Conclusioni: ottima interpretazione di uno stile dalle indubbie difficoltà tecniche; nonostante la generosa luppolatura e l’impronta torrefatta propria di una Stout, risulta godibile e ruffiana quanto una Porter.

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FOCUS TORREFAZIONE

Cuvée Alex Le Rouge Batch 2016 BFM Brasserie des Franches-Montagnes

Regal Porter Draco’s Cave

Delta Colt Alder Beer

Stile: Whisky Barrel Aged Porter

Stile: Milk Stout

Formato: bottiglia 33 cl

Formato: lattina 40 cl

Stile: Imperial Russian Stout

Alc.: 7,1% vol.

Alc.: 5,9% vol.

Alc.: 10,276% vol.

Millesimo: 2019

Lotto: scadenza 01/10/20

Acquistata da: beer shop, Belgio

Acquistata da: birrificio

Acquistata da: beershop

La Cuvée Alex Le Rouge Batch 2016 è una birra che ho amato fin dal primo assaggio, fin dalla mia prima visita in birrificio da Jerome Rebetez della Brasserie des Franches-Montagnes, in quel contesto magico quale è il paese di Saignelegier nel Canton Jura. Una volta versata nel bicchiere, questa Russian Imperial Stout si mostra nel suo color ebano, ornata da una schiuma molto densa marrone chiaro a grana grossa e persistente. Al naso presenta gli aromi caratteristici di questo stile, oltre a note di liquirizia, cioccolato, nocciola, caffè, pepe, vaniglia, tabacco, malto tostato, con una fresca presenza luppolata. In bocca è cremosa e ritroviamo quanto percepito al naso: malti tostati, cioccolato e liquirizia, ma anche spezie, vedi il pepe; a mano a mano che si scalda emergono note dolci, delicate di vaniglia. Nel finale è acidula, il che le permette di raggiungere un equilibrio perfetto con il forte gusto amaro, che si percepisce sempre sul finale, delicata. Una birra da meditazione, si accompagna con dolci al cioccolato, pasticceria secca e con alcuni formaggi erborinati. Creata in onore del rivoluzionario Alex Le Rouge.

Aspetto: mogano, ma rivela un ardente colore rosso rubino, sotto una coltre di schiuma color cappuccino, poco persistente. Olfatto: la botte è evidente sin dalla prima olfazione, che ricorda il suo precedente ospite: il bouquet adduce al nobile mondo degli spirits. Melassa, zucchero candito bruno, miele di castagno, toffee, cioccolato fondente. I malti scuri spuntano senza varcare il confine della torrefazione; semmai, all’orizzonte, si intravede la nocciola. Frutta rossa a incorniciare: ciliegia e amarena sotto spirito. Gusto: corpo medio/leggero, carbonazione flebile e carezze maltate alternate a sferzate alcoliche, foriere di spezie. L’etilico è elegante: melata e biancospino. Nel retronasale lo scotch whisky echeggia nei meandri di una voragine tostata. Acidità da frutti rossi (amarene, ciliegie) e un vago cold brew coffee, di presunta varietà arabica. Chiusura secca con nocciolo di pesca e mandorla; retrogusto tostato, persistente, di cioccolato fondente e fave di cacao. Conclusioni: interpretazione originale da parte di un birrificio la cui firma è l’affinamento in botte: ricercata, fine e di buon gusto. La birra rimane tale e, a dispetto della sua complessità produttiva, di facile e sfiziosa fruizione.

Aspetto: scura come la pece, impenetrabile con infiltrazioni rubino; schiuma che rimane sottesa, un dito abbondante, pannosa di colore nocciola. Aroma: lattosio (panna) come benvenuto, seguito torrefatto (cacao amaro, cioccolato fondente, caffè d’orzo, moka). Liquirizia e suggestioni mentolate si abbracciano ai luppoli, speziati. I malti speciali offrono note di brownie e toffee, biscotto al cacao, pane nero, nocciola, caramello salato. Frutti rossi a margine (susine), con una vaga allusione al salmastro della salsa Worcester. Gusto: corpo medio, carbonazione media, setosa. Il primo sorso è crema che prosegue, arricchendo l’esperienza con tutto il suo ricco corredo da colazione dei campioni. Chiude zuccherina, ma la dolcezza è bilanciata dall’acidità del caffè, dai frutti rossi e dall’incipit etilico. Piacevole sottofondo tostato, frutta secca e torrefazioni, che lascia - letteralmente - l’amaro in bocca. Retronasale di toffee, retrogusto di cioccolato al latte. Conclusioni: una birra che interpreta a modo il concept di colazione liquida; ha il merito di rendere piacevole e divertente un esercizio stilistico opulento e, in molti casi, stancante. Ricetta azzeccata, non perfetta, ma forse proprio per questo sfiziosa e appagante.

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TURISMO BIRRARIO

SVEZIA

di Vanessa Alberti e Federico Viero

1a parte

LA REGINA SCANDINAVA DELLA BIRRA ARTIGIANALE

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n un anno particolare e incerto come il 2020 abbiamo cercato una via di fuga per le vacanze estive e la Svezia si è rivelata una scelta vincente. Questo paese dall’atmosfera rilassata e dal design famoso in tutto il mondo offre migliaia di isole lungo le coste, laghi e foreste nell’entroterra oltre a zone glaciali nel nord. Inoltre, la presenza di un nutrito numero di birrifici rende la Svezia la migliore meta birraria tra i paesi scandinavi.

Un paese dall’antica tradizione birraria

Stoccolma e i suoi ponti.

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La produzione di birra in Svezia ha radici antiche: una recente scoperta dell’Università di Lund indica che era già attiva fin dall’età del ferro. Come in altri paesi europei la birra era diffusa tra la popolazione e prima dell’utilizzo del luppolo venivano aggiunte erbe medicinali e aromatiche per conferire sapore alla bevanda. La coltivazione del luppolo fu introdotta in Svezia intorno al 1100 e pare che anche i vichinghi lo avessero importato come bottino delle varie spedizioni. Il notevole consumo di birra dei primi anni del 1400 obbligò il governo a imporre ai contadini di piantare filari di luppolo, ma questa legge fu poi abolita. Nel diciannovesimo secolo il movimento proibizionista crebbe d’importanza influenzando e limitando il mercato delle bevande alcoliche: le birre vennero classificate in base al contenuto alcolico e si definì che solo quelle con 3,5% di gradazione massima potessero essere vendute nei normali negozi di alimentari e quindi nei supermercati. Considerando che questa

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TURISMO BIRRARIO

regola è ancora valida, per acquistare birre con una gradazione maggiore dovrete recarvi nei Systembolaget, letteralmente “aziende del sistema”, istituiti nel 1955, dove si possono trovare birre di diversa provenienza a prezzi calmierati. E qui si tocca il punto dolente di un viaggio in Svezia: la vita è cara e le birre non sono da meno, dato che il prezzo medio di una bottiglia è di circa 80-90 corone, 8-9 euro: i Systembolaget rappresentano quindi un’ottima soluzione per assecondare la nostra passione senza ritrovarci il conto in rosso.

Birre anticonformiste all’Omnipollos Hatt Il nostro viaggio nella zona centrale della Svezia inizia da Stoccolma dove arriviamo nel tardo pomeriggio. La capitale svedese è una città elegante i cui magnifici edifici sono distribuiti su diverse isole collegate da ponti. Il nostro alloggio si trova a Södermalm, la più grande tra le isole cittadine dove sono situati molti locali in cui trovare birra artigianale. La nostra prima tappa è l’Omnipollos Hatt, una pizzeria che la beer-firm Omnipollo ha aperto in città. Omnipollo è un birrificio che divide il pubblico con le sue birre stravaganti e anticonformiste, che cambiano la concezione della birra classica; il marketing aggressivo e accattivante ha sicuramente contribuito al loro successo. Accompagniamo le buone pizze con la Perikles, una lager da 4,3% prodotta con frumento e avena dal gusto citrico e amaro, e con la Zodiak, una IPA da 6,2 % con aspetto dorato opalescente e un bouquet floreale e tropicale dal finale decisamente amaro, realizzata con luppoli Simcoe, Citra e Centennial.

Lo Stigbergets Fot, per chi ama l’America Poco lontano si trova lo Stigbergets Fot, dove un neon giallo a forma di piede (fot) ci accoglie all’ingresso di un pub moderno, che rappresenta appieno il design minimal svedese. Il birrificio Stigbergets di Göteborg ha iniziato la

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L’Omnipollo Flora a Stoccolma.

produzione nel 2013 e in pochi anni ha vinto diversi premi affermandosi sul mercato svedese e internazionale. Il suo stile richiama l’America e, per quanto ci riguarda, le birre sono tutte ben eseguite. La Amazing Haze è una buona IPA dai toni juicy prodotta con Mosaic e aggiunta di avena, una birra che ci regala sia al gusto sia all’olfatto un’esplosione di luppolo con forti note agrumate e tropicali. Stessa valutazione per la Double Headed DDH West Coast IPA, dall’aroma e gusto fruttato dove spiccano pesca, mango e ananas. Ci conquista anche la Never Lose A Feather, una Coffee Stout da 8% prodotta in collaborazione con il birrificio americano Modern Times, dai toni avvolgenti di malto tostato, caffè, cioccolato e caramello.

Birrifici locali all’Oliver Twist Concludiamo la serata all’Oliver Twist, uno dei pub storici della città aperto nel 1993. L’atmosfera accogliente e le proposte ben assortite tra spine e frigo ci danno modo di conoscere altri birrifici locali. Partiamo dalle birre di Nynäshamns Ångbryggery, un microbirrificio situato sulla costa a sud di Stoccolma che dai primi anni Novanta produce birre che prendono il nome dei luoghi presenti nell’arcipelago di Nynäshamn. La Spinnaker Session Ale da soli 3,5% è stata un’ottima partenza con le sue note leggermente luppolate, mentre la Stenstrand Sommar Ale, una Pale Ale da 6,9%, ci è piaciuta molto con le sue fragranze erbacee e agrumate. Vista la qualità delle birre continuiamo le

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TURISMO BIRRARIO

Tanta Germania allo Zum Franziskaner

Gli originali bicchieri dell’Omnipollo Flora.

Lo Zum Franziskaner è il locale che Stene Isaksson ha aperto dopo aver lasciato l’Akkurat, storico pub di Stoccolma. Un pub dagli interni in legno molto curato anche nei dettagli e nelle decorazioni, dove la proposta si concentra sulla Germania con la presenza di qualche birrificio svedese. Scegliamo la Zumen Schwarz che Nynäshamns produce in collaborazione con Gänstaller Braumanufaktur, noto birrificio francone. L’unione di questi due produttori non delude: la Schwarzbier da 5%, dalle note tostate con un tocco di crosta di pane e dal finale secco e amaro, è un’ottima birra. Terminiamo le bevute con la Gamla Stans Porter che il microbirrificio Skebo Bruksbryggeri produce per questo locale, una buona Porter da 5,9% dai sentori di liquerizia.

Akkurat, dal 1995 nostre bevute con il loro cavallo di battaglia, nonché prima birra prodotta, la Bedarö Bitter: fatta con luppoli Chinook e Cascade, ha un aroma floreale e il gusto fruttato dalle sfumature maltate. Terminiamo la serata con le birre di Oppigårds Bryggeri. Fondato nel 2003 a Hedemora, nella Svezia Centrale a nord di Stoccolma, è un birrificio a conduzione familiare che produce birra nell’azienda agricola che la famiglia possiede da quasi 300 anni. Beviamo la New Sweden IPA da 6,2% con luppoli Citra, Equanot e Mosaic, con note resinose e un perfetto mix di pesca e frutta tropicale. Passiamo all’Amarillo, una Pale Ale da 5,9% prodotta per il settimo anniversario del birrificio, una birra ben eseguita dall’amaro piacevolmente persistente, e concludiamo con la Thurbo Stout, una Imperial Stout da 8,7%. Le complesse note tostate evolvono nel bicchiere insieme ai sentori di caffè e cioccolato, regalandoci un’ottima bevuta. Torniamo in albergo soddisfatti e il giorno seguente iniziamo la scoperta della città.

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Torniamo a Södermalm e terminiamo la giornata all’Akkurat, che dal 1995 serve birra nella capitale svedese. Accompagniamo la terrina da 1 kg di cozze con

diverse birre di Oppigårds, tra cui la Harlequin Brewmance, una classica American Pale Ale da 5,4%, e la Everyday IPA, dove i luppoli Columbus, Citra e Simcoe donano un aroma luppolato molto intenso. Non poteva mancare il birrificio Nynäshamns, che si conferma un ottimo produttore con la Ankarudden Aussie Pale Ale, dal sapore fruttato con ananas e frutto della passione in evidenza e dall’amaro bilanciato. Ottimo giudizio anche per la Guldgränd, una Golden Ale da 4,5% dal corpo rotondo e dalle note luppolate con una piacevole amarezza finale.

Il birrificio Närke a Örebro È ora di lasciare Stoccolma. Ritiriamo la macchina a noleggio e ci dirigiamo verso Örebro, che raggiungiamo dopo un paio d’ore di viaggio. Nonostante la piccola cittadina di Örebro sia piacevole, con un bel castello e diversi parchi nei dintorni, siamo qui principalmente per visitare il birrificio Närke, che prende il nome dalla provincia della Svezia centrale dove è situato. Il birrificio si trova in un ex insediamento militare

ALLA SCOPERTA DI STOCCOLMA

Partiamo dalla piccola isoletta Riddarholmen, dove la Riddarholmen kyrkan domina la terrazza sul mare. Costruita nel 1270 dai francescani e luogo di sepoltura dei sovrani svedesi, fu colpita nel 1835 da un fulmine che distrusse la guglia originale, poi sostituita con quella attuale di metallo traforato alta 90 metri. La terrazza su cui si affaccia la chiesa è uno dei migliori punti panoramici della città: la vista spazia sulle altre isole e sul municipio di Stoccolma, dove vengono consegnati i premi Nobel con una cerimonia dalle tradizioni centenarie. Ci spostiamo nella vicina isola di Gamla Stan, cuore storico della capitale svedese. La nostra prima tappa è il Kungliga Slottet, il palazzo reale dove assistiamo al cambio della guardia che si svolge quotidianamente a mezzogiorno. Poco lontano si trova la Storkyrkan, la cattedrale dove un tempo venivano celebrati i matrimoni reali ed erano incoronati i sovrani svedesi, molto interessante per i suoi tesori artistici, e visitiamo infine il vicino museo dei premi Nobel. Percorriamo la Mårten Trotzigs gränd, la via più stretta di Stoccolma i cui gradini si restringono fino a soli novanta centimetri di larghezza e poi la fame si fa sentire. Uno dei posti più economici per mangiare a Stoccolma è lo Nystekt Stromming, un piccolo chiosco che serve ottime aringhe che potrete scegliere tra marinate, fritte o in umido.

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TURISMO BIRRARIO

ed è nato nel 2003 dalla passione birraria di Hans-Göran Withorsson e della moglie Berith, che in pochi anni hanno raggiunto un livello qualitativo ottimo e vinto premi davvero meritati. Arriviamo davanti all’ingresso del birrificio dove un piccolo corridoio porta nel locale adibito a impianto e alla taproom recentemente annessa. HansGoran e la moglie sono in compagnia di amici e ci dicono che la taproom è chiusa, ma che possiamo rimanere a vedere la mostra fotografica di Hans, birraio poliedrico con molte passioni. Gli amici se ne vanno e rimaniamo soli con la coppia, chiacchieriamo un sacco e sono molto felici di sapere che siamo lì per loro e che veniamo dall’Italia dove hanno tanti amici. Hans ci racconta i retroscena delle foto che rappresentano bene lo spirito alternativo dei due coniugi, dopodiché ci mostra il piccolo impianto, esempio di vera artigianalità. Il birrificio Närke è votato al recupero e al riciclo di materiali e Hans si costruisce da solo i serbatoi di fermentazione riadattando serbatoi destinati ad altro uso. Questo incontro è stato davvero indimenticabile, due persone squisite dall’ospitalità eccezionale, anche in un periodo non propriamente felice a causa di un grave problema di salute di Hans, che purtroppo ci ha lasciato, a 68 anni, circa un mese dopo la nostra visita.

Il bancone dell’Oliver Twist.

L’Örebro Ölhall, pub moderno con vista sul castello

Birre e luce soffusa all’Oliver Twist.

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Con una camminata arriviamo allo Svampen, una torre dell’acqua alta 58 metri dove si gode della magnifica vista sulla contea, poi torniamo in città dove visitiamo il castello che domina la piazza di Örebro dal 1200. Costruito inizialmente come fortezza e prigione militare diventò una delle residenze preferite dei reali svedesi, che lo usarono per importanti eventi e celebrazioni. Girovaghiamo nel parco del castello e pranziamo nei dintorni, ma è ora di bere qualcosa. L’Örebro Ölhall è un pub

dagli interni moderni, con un ampio patio con vista sul castello, dove ci dissetiamo con alcune birre di Närke, tra cui la Örebro Bitter, una bitter inglese da 5,9% prodotta con EKG e Cascade, aromi fruttati e maltati sorretti da un buon corpo con un finale leggermente amaro: una birra rinfrescante perfetta in ogni occasione, un “must drink” del birrificio. Proseguiamo con la Slättöl, un Pale Ale da 4,9% prodotta con luppolo Chinook dove predominano aromi erbacei e citrici uniti a un corpo snello e a un finale secco e amaro: terribilmente easy drinkable.

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TURISMO BIRRARIO

La migliore birra del mondo, nel 2009 Terminiamo la nostra serata a Örebro al Dannes, luogo demodé ma piacevole dall’atmosfera familiare, con selezione delle spine non entusiasmante ma sicuramente compensata dalle lattine e dalle bottiglie presenti nei frigoriferi dietro al bancone. Non abbiamo dubbi sulla nostra scelta e assaporiamo parecchie birre di Närke. La Näipa, a dispetto del nome, ci è parsa più una English IPA, da 6,7%, dove il buon carattere maltato con note di biscotto si sposa con aromi di arancia e frutta tropicale: una classica IPA old school ben eseguita, sicuramente più di certe birre moderne. Continuiamo con una Single Hop IPA, la Rainbow Warrior, che deve il suo nome alla nave ammiraglia della flotta di Greenpeace affondata nel 1985 dai francesi in Nuova Zelanda in seguito alle proteste contro i test nucleari a Mururoa. È ottenuta con luppolo neozelandese Green Bullet e ancora una volta si ha di fronte una birra

La New Sweden IPA di Oppigårds all’Oliver Twist.

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L’impianto di Närke Kulturbryggeri a Örebro.

pulita, dai toni di resina e luppolo perfettamente bilanciati con i sentori fruttati. Arriviamo infine alla birra più attesa, decretata nel 2009 da RateBeer come la migliore al mondo: la Kaggen! Stormaktsporter è un’Imperial Stout da 12,2% prodotta con miele di erica e maturata per tre mesi in botti di bourbon e rappresenta il cavallo di battaglia del birrificio. Birra complessa ed elegante che sprigiona note tostate e di frutta secca, legnose con miele e liquerizia: eccellente. Infine beviamo la Tors Stormaktsporter 2015, un’Imperial Stout da 9% con la medesima base della Kaggen, ma in questo caso maturata per quattro mesi in botti di rovere svedese nuove. Al naso presenta profumi di tabacco e frutti di bosco, il corpo è pieno con l’aggiunta di tannini e note legnose. Närke per noi è un birrificio speciale gestito da persone stupende, che sanno produrre birre che ti conquistano una dopo l’altra, assolutamente da non perdere. ★

Le birre di Nynäshamns Ångbryggery e Narke al Dannes, a Örebro.

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Le guide

IL MANUALE DEL BIRRAIO Il testo più completo e autorevole a livello mondiale sulla scienza e la pratica della birrificazione, riferimento indispensabile per tutti i birrai e per gli studiosi della materia. Illustra nel dettaglio i principi alla base del processo di produzione della birra, dalla maltazione all’ammostamento, all’utilizzo del luppolo e del lievito. Il volume approfondisce inoltre le fasi della fermentazione, i pericoli di contaminazione, la maturazione, l’imbottigliamento e le diverse influenze sul gusto finale della birra. Particolare attenzione è dedicata anche agli aspetti ingegneristici e tecnologici, per offrire soluzioni teoriche e pratiche all’azienda birraria di grandi e piccole dimensioni.

ISBN 978-88-6895-767-4 Pagine 392 | 2 Colori Prezzo 59,90 euro

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