N.4| LUGLIO-AGOSTO 2021
BIRRA NOSTRA
MAGAZINE
NOVITÀ, DEGUSTAZIONI, PRODUZIONI, ITINERARI NEL MONDO BIRRARIO
SPECIALE CIBUS OPINIONI INTERVISTA A RICCARDO CARAVITA E VITTORIO FERRARIS di Mirka Tolini
STILI BIRRARI A QUALCUNO PIACE BIANCA.
BREVE ELOGIO DELLA BIRRA WEISS di Daniele Cogliati
FOCUS New beers
a cura del MoBI Tasting Team
BIRRA ARTIGIANALE ITALIANA DI QUALITÀ
Editoriale
Noi ci mettiamo
LA FACCIA!
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i sono eventi considerati imperdibili dove esserci diventa l’imperativo. Per noi di Birra Nostra Magazine questo evento è certamente Cibus! E non solo per la decennale collaborazione con il marchio Birra Nostra ma anche perché rappresenta l’occasione per mostrarci ai nostri lettori, incontrarli e confrontarci. E poi come si fa a lasciarsi sfuggire l’occasione di trovare uniti, in un unico padiglione, un centinaio di micro birrifici, ognuno con la sua storia e i suoi prodotti! Un numero speciale che inizialmente avevamo deciso di vestire a festa per sottolinearne l’importanza ma che alla fine, invece, ci vede uscire e mostrarci per quello che siamo, con i nostri contenuti e i collaboratori di sempre che vi presentiamo nelle ultime pagine del numero. La copertina è un doveroso tributo alla città che ospita l’evento, a testimonianza dell’importanza del legame con il territorio e della necessità di stare con i piedi per terra, ancorati sempre alle realtà produttive locali, motore dell’economia! Questo numero si apre con l’intervista al padrone di casa, Riccardo Caravita Cibus and Food brand manager ed una a Vittorio Ferraris, direttore generale
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Unionbirrai e partner d’eccezione dell’evento con cui ci siamo confrontati sullo stato di salute dei microbirrifici. Daniele Risi ha chiacchierato invece con Mr B Brewery sulle nuove tendenze dell’imbottigliamento e sull’uso delle lattine al posto del vetro; di ecologia e impatto ambientale ne parlano invece Luca Pretti ed Eleni Pisano mentre le materie prime come il lievito, il luppolo ed anche i spent grain sono i protagonisti degli articoli di Flavio Boero, Tommaso Ganino e Margherita Rodolfi. Luca Iaccarino firma invece un pezzo che mette insieme due delle sue passioni: la letteratura e la birra! Ampio spazio è dedicato, come sempre all’home brewing dove Massimo Faraggi analizza la tecnica del double mashing la cui conoscenza è indispensabile per produrre birre di alta gradazione; nelle pagine dedicate alla degustazione, curata da MoBI, spazio invece alle novità birrarie. A conclusione del ciclo di articoli dedicati all’imprenditoria birraria, Francesco Donato analizza gli aspetti legati alla comunicazione e al marketing perché si, la pubblicità è l’anima del commercio! Ci vediamo e leggiamo a Cibus! Buona lettura e buona bevuta!
MIRKA TOLINI Professionista della scrittura e della comunicazione, collaboro da dieci anni al progetto Birra Nostra
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BIRRA NOSTRA NOVITÀ, DEGUSTAZIONI, PRODUZIONI, ITINERARI NEL MONDO BIRRARIO
MAGAZINE
IN QUESTO NUMERO... EDITORIALE Noi ci mettiamo la faccia!
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L’INTERVISTA Birra dell’anno 2021 di Mirka Tolini
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L’INTERVISTA Cibus e l’importanza del legame con il territorio di Mirka Tolini
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TENDENZE Mobile canning: moda, opportunità o new wave? di Daniele Risi
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BIRRA E LETTERATURA Otto montagne e una birra
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di Luca Iaccarino
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BIRRA E TERRITORIO A ognuno il suo luppolo di Tommaso Ganino
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BIRRA E SOSTENIBILITÀ La sostenibilità non è solo una parola di Luca Pretti
BIRRA E SOSTENIBILITÀ
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Agrimondo di Eleni Pisano
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facebook.com/BirraNostraMagazine
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40 MATERIE PRIME Il lievito, questo conosciuto di Flavio Boero
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MATERIE PRIME Non si butta via nulla! di Margherita Rodolfi
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STILI BIRRARI A qualcuno piace bianca di Daniele Cogliati
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HOMEBREWING Il mashing reiterato di Massimo Faraggi
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Direttore Responsabile Mirka Tolini
Eleni Pisano, Luca Pretti, Daniele Risi, Margherita Rodolfi
Comitato di Redazione Davide Bertinotti, Luca Grandi redazione@birranostra.it
Impaginazione LIFE - LSWR Group
Hanno contribuito a questo numero Alessandra Agrestini, Flavio Boero, Andrea Camaschella, Paolo Celoria, Daniele Cogliati, Francesco Donato, Tommaso Ganino, Massimo Faraggi, Luca Iaccarino, Matteo Malacaria,
FOCUS MoBI tasting sessions: Le novità birrarie a cura del MoBI Tasting Team
Birra Nostra Magazine - Bimestrale Pubblicazione registrata presso il Tribunale di Verona in data 22 novembre 2013 al n. 2001 del Registro della Stampa
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Quine Srl
Iscrizione al Registro degli Operatori di Comunicazione n. 12191 Presidente Giorgio Albonetti
IMPRENDITORIA BIRRARIA
Amministratore delegato Marco Zani
Guida galattica per publican – 5a parte di Francesco Donato
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NOVITÀ DAL MONDO BIRRARIO SCRIVONO PER NOI
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Stampa Grafica Veneta S.p.a. Archivio immagini Shutterstock Foto di copertina di Luca Grandi ABBONAMENTI Quine srl, Via G. Spadolini, 7 20141 Milano – Italy Tel. +39 02 88184.117 www.quine.it Rosaria Maiocchi abbonamenti@quine.it PUBBLICITÀ commerciale@birranostra.it
Birra Nostra Magazine è frutto della collaborazione tra Birra Nostra e MoBI - Movimento Birrario Italiano www.birranostra.it - www.movimentobirra.it
BIRRA ARTIGIANALE ITALIANA DI QUALITÀ
Tutto il materiale pubblicato dalla rivista (articoli e loro traduzioni, nonché immagini e illustrazioni) non può essere riprodotto da terzi senza espressa autorizzazione dell’Editore. Manoscritti, testi, foto e altri materiali inviati alla redazione, anche se non pubblicati, non verranno restituiti. Tutti i marchi sono registrati.
DALLE AZIENDE “Artigianale da Filiera Agricola Italiana”, il marchio del Consorzio Birra Italiana Il brand Birra Nostra
Coordinamento editoriale Marco Aleotti m.aleotti@lswr.it
Produzione Paolo Ficicchia
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INFORMATIVA AI SENSI DEL GDPR 2016/679 Si rende noto che i dati in nostro possesso liberamente ottenuti per poter effettuare i servizi relativi a spedizioni, abbonamenti e similari, sono utilizzati secondo quanto previsto dal GDPR 2016/679. Titolare del trattamento è Quine srl, via Spadolini, 7 - 20141 Milano (info@quine.it). Si comunica inoltre che i dati personali sono contenuti presso la nostra sede in apposita banca dati di cui è responsabile Quine srl e cui è possibile rivolgersi per l’eventuale esercizio dei diritti previsti dal D.Legs 196/2003. © Quine srl - Milano
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L’INTERVISTA
di Mirka Tolini
BIRRA DELL’ANNO 2021
Una chiacchierata con Vittorio Ferraris sullo stato di salute dei microbirrifici
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ittorio Ferraris, oggi direttore generale Unionbirrai, ha alle sue spalle trascorsi professionali in ambito di consulenza amministrativa aziendale e numerosi viaggi, che lo hanno visto visitare gli Stati Uniti, l’Inghilterra e la Germania. La passione per i viaggi e il territorio gli ha permesso di approfondire e radicare la sua già fortissima passione per la birra, che lo ha portato ad affacciarsi nel mondo
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dell’homebrewing e, nel 2010, a fondare il Birrificio Sant’Andrea (BSA) a Vercelli. Di lunga data è la sua collaborazione con Unionbirrai, dove ha messo a disposizione le sue competenze in ambito aziendale e doganale fino ad arrivare alla costituzione dell’associazione di categoria nel 2017, che ha di fatto sancito il suo ingresso nel consiglio direttivo e il conferimento dell’incarico di direttore generale.
Assobirra, nel suo report annuale, parla di un centinaio di microbirrifici chiusi. Dal suo particolare osservatorio, qual è lo stato di salute dei microbirrifici e della birra artigianale in Italia dopo un anno e mezzo di pandemia? Non abbiamo un riscontro certo della chiusura di un numero così elevato di microbirrifici. È vero però che la presenza di molte aziende di piccolissime
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L’INTERVISTA
dimensioni (nel 2019 circa 300 birrifici italiani avevano una produzione inferiore ai 500 HL/anno, quindi un volume di fatturato inferiore ai 100 K€) può aver causato uno stato di crisi per l’impossibilità a sostenere anche solo i costi fissi, senza alcun sbocco commerciale, durante il periodo di lockdown. Aziende più strutturate, con una maggiore visibilità sul mercato e con la capacità di adottare nuove strategie commerciali (e-commerce, delivery, micro-GDO...) sono state invece in grado di superare la pandemia, seppur con fortissime contrazioni di fatturato e purtroppo, questo preme dirlo, ancora oggi senza alcuna attenzione e supporto da parte delle istituzioni. In qualità di presidente del Consiglio direttivo di Unionbirrai, Associazione di Categoria dei Piccoli Birrifici Indipendenti Italiani, quali sono le richieste che presenterebbe al legislatore per supportare il settore? Unionbirrai ha sempre mantenuto una linea molto precisa durante la pandemia, evidenziando le caratteristiche peculiari del nostro settore, duramente colpito dai lockdown che hanno bloccato tutto l’ambito HO.RE.CA. Il nostro prodotto, fresco e non pastorizzato, ha subito danni commerciali enormi a causa di deperimento o svalutazione. Per questo ci siamo da sempre battuti per una forma di sostegno alla filiera brassicola artigianale che potesse risarcire queste perdite. Proposte serie e documentate sono tuttora al vaglio delle istituzioni in sede sia parlamentare sia ministeriale.
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La questione accisa è davvero così importante per i piccoli birrifici? Lo sgravio del 40% ottenuto con la legge finanziaria 2019 ha dato grande respiro ai microbirrifici italiani, per cui possiamo confermare che resta un tema fondamentale nell’economia della filiera.
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Vittorio Ferraris, direttore generale Unionbirrai.
Riconosciamo però che la soglia dei 10.000 HL di produzione annua per poter usufruire dell’agevolazione sia un limite troppo basso, tant’è che fin dalle prime proposte del 2016 avevamo ipotizzato uno sconto proporzionale al volume di produzione almeno fino a 50.000 HL, così come avviene nella maggioranza dei Paesi membri UE che hanno adottato le direttive comunitarie. Abbiamo quindi già una proposta consolidata che riteniamo indispensabile esaminare con le altre associazioni di categoria e con le istituzioni nella prossima legge finanziaria.
Qual è, o quale potenzialmente potrebbe essere, il punto di forza dei microbirrifici? Sicuramente indipendenza, diversificazione dei prodotti, innovazione e vicinanza al consumatore. I microbirrifici italiani hanno raggiunto uno standard qualitativo elevatissimo riconosciuto anche a livello internazionale; questo successo è stato possibile grazie all’attenta scelta delle materie prime, alla cura dei processi produttivi e all’incremento dei volumi, che hanno permesso maggiore efficienza, costanza qualitativa del prodotto e reperibilità sul merca-
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L’INTERVISTA
to. Il tutto mantenendo un’offerta molto ampia di stili birrari, spesso reinterpretati con grande professionalità dai produttori artigianali italiani. Perché il consumatore dovrebbe prediligere il consumo di birra artigianale? Il nostro compito più importante è avvicinare, informare e formare un numero sempre più elevato di consumatori che ancora oggi non conoscono questo mondo. Chi si avvicina alla birra artigianale difficilmente torna verso il prodotto standardizzato tipico del panorama industriale. Ma questa resta una grande responsabilità per Unionbirrai: comunicare, fare cultura, trasmettere quanta passione e professionalità vivono all’interno di un prodotto di questo tipo è la missione della nostra associazione, che da 20 anni si impegna, con tutti i mezzi,
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per promuovere e tutelare la birra artigianale italiana.
e ritengo lo saranno ancora per molto tempo.
Come vede i birrifici artigianali tra dieci anni in Italia? Seguiranno il modello USA, con pochi birrifici di grandi dimensioni, o c’è la possibilità dello sviluppo di una “via italiana”? Parliamo di mercati differenti per storia, volumi di consumo, caratteristiche di impresa e tipologia di consumatori. Un segnale importante ci arriva dalle acquisizioni di piccole imprese artigianali sul mercato italiano da parte dei big player multinazionali. Dopo un primo exploit del 2017 il processo si è arrestato, a dimostrazione che il mercato italiano ha caratteristiche completamente differenti da quello USA. Territorialità, mercati di prossimità e filiera corta rappresentano ancora oggi un punto di forza del nostro comparto
In che cosa si differenzia il premio Birra dell’anno 2021 rispetto agli anni precedenti? La pandemia e le conseguenti restrizioni nella mobilità e nell’accoglienza ci hanno costretti a rivedere alcuni aspetti nel modello organizzativo, ma direi che sostanzialmente non cambia nulla nello svolgimento del concorso, a parte la sua collocazione temporale che è diversa rispetto agli altri anni. La risposta dei birrai è stata comunque fantastica e i numeri delle adesioni a oggi ci dicono che questo comparto giovane e determinato è pronto a ripartire con tutto l’entusiasmo che lo contraddistingue. Sarà sicuramente un grande successo e una grande vetrina per la birra artigianale italiana!★
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INFORMAZIONE PUBBLICITARIA
“ARTIGIANALE DA FILIERA AGRICOLA ITALIANA”, IL MARCHIO DEL CONSORZIO BIRRA ITALIANA Marco Farchioni di Mastri Birrai Umbri:
“UNITI PER CRESCERE”
Marco Farchioni, general manager di Mastri Birrai Umbri e fondatore del Consorzio Birra Italiana.
“Artigianale da filiera Agricola Italiana”: recita così il marchio che il Consorzio per la tutela e la promozione della birra artigianale italiana ha lanciato sul mercato ormai da un anno, con la collaborazione di Coldiretti e con il coinvolgimento di produttori di birra e di malto e coltivatori di orzo e luppolo. Tra gli obiettivi del Consorzio c’è, infatti, quello di collegare in una filiera tutta italiana i vari passaggi della produzione, dal campo dove si coltivano le materie prime fino alla bottiglia che arriva al consumatore finale. Il marchio mira a garantire e tracciare la prevalenza di materia prima da filiera agricola italiana. Il tutto ponendo attenzione alla remunerazione etica della filiera e di tutti i suoi attori. “Investiamo tutti i giorni – spiega Marco Farchioni, general manager di Mastri Birrai Umbri e socio fondatore del Consorzio – perché crediamo che la materia prima italiana, grazie alla biodiversità del nostro territorio, rappresenti una grande ricchezza. Il luppolo, per esempio, rappresenta il legame con il
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terroir. Come la vite, assume le caratteristiche aromatiche del territorio”. In Italia si producono 19,5 milioni di ettolitri di birra, 7 dei quali provenienti da altri Paesi. Dei 14-15 milioni di ettolitri prodotti esclusivamente in Italia, ben 2,5 milioni sono quelli utilizzati per la realizzazione di birre speciali, ad alto valore aggiunto. Secondo i dati del Consorzio, la produzione di birra artigianale ammonta a 550 mila ettolitri. Un terzo di questa produzione proviene da una filiera italiana. Come ricorda anche il disciplinare del Consorzio per la tutela e la promozione della birra artigianale italiana – nato il 28 marzo 2019 – per produrre “Birra Artigianale” secondo le disposizioni di legge, ciascun birrificio deve rispettare alcuni criteri: indipendenza del birrificio, limite di produzione stabilito in un massimo di 200.000 ettolitri all’anno e integrità del prodotto, che non deve essere sottoposto a processi di pastorizzazione o di microfiltrazione.
Il Consorzio rappresenta il 10-11% della birra artigianale prodotta in Italia (58 mila ettolitri) e il 50% del malto da birra prodotto nel Paese. In Italia ci sono 964 microbirrifici, con una produzione media di 600 ettolitri. Il Consorzio si impegna a valorizzare i produttori artigianali che usano il 51% di materia nazionale, a creare un legame sempre più stretto tra coltivatori di orzo, di luppolo e di birra, a sviluppare sempre più una genetica italiana, a tutelare la birra artigianale made in Italy. “Grazie al Consorzio aumenteremo la condivisione tra i produttori a tutti i livelli della filiera”, conclude Farchioni. “Abbiamo una grandissima voglia di fare gruppo: riusciamo a crescere solo se ci uniamo e se condividiamo le nostre conoscenze. Unire domanda e offerta è l’unica speranza per crescere. Inoltre, per fare un prodotto artigianale agricolo – dunque un prodotto ‘vivo’ – servono grande attenzione, serietà e conoscenze tecniche”.
Il mastro birraio di Mastri Birrai Umbri analizza la birra.
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L’INTERVISTA
di Mirka Tolini
CIBUS E L’IMPORTANZA
DEL LEGAME CON IL TERRITORIO Intervista a Riccardo Caravita, Cibus and Food brand manager Come e quando nasce la partnership tra Cibus e Birra Nostra? La partnership tra Cibus e Birra Nostra ha basi solide; ricordo che le prime riunioni risalgono a quasi 10 anni fa. La volontà era quella di inserire, all’interno di una manifestazione internazionale, un nuovo segmento di mercato che negli anni potesse evolversi e svilupparsi.
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La produzione di birra artigianale, allora di nicchia, per la prima volta si affacciava verso una fiera alimentare esclusivamente rivolta al comparto B2B. A che cosa è dovuta l’importante apertura nei confronti dei birrifici indipendenti, inizialmente presenti nell’area MicroMalto all’in-
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terno di Cibus e oggi protagonisti dell’evento con un’area espositiva dedicata? Il sistema brassicolo italiano è cresciuto negli ultimi anni in maniera esponenziale, così come la domanda di birra a livello nazionale e internazionale. Una filiera sempre più rilevante su cui Cibus ha deciso di investire per l’edizione del
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L’INTERVISTA
2021, così da completare l’offerta assortimentale con le birre artigianali, che corrispondono al core business della fiera, ovvero l’Authentic Made in Italy. Partecipando a Cibus, i birrifici artigianali hanno l’occasione di prendere contatto con il network B2B e far conoscere
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i propri prodotti all’estero, grazie al riconosciuto ruolo di Cibus quale booster verso l’export. Qual è stato il ruolo di Birra Nostra in questi anni di collaborazione con Fiere Parma e quale il ruolo che le spetta in futuro? Birra Nostra, grazie al prezioso ruolo di Luca Grandi, ha sempre lavorato per lo sviluppo e la crescita di MicroMalto all’interno di Cibus. Lanciata nel 2012, l’area ha ospitato microbirrifici e produttori di birra italiana, dando così la possibilità al pubblico professionale di Cibus di toccare con mano e conoscere la complessità e l’eccellenza della produzione artigianale italiana di birra.
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Quanto vale la birra artigianale all’interno della filiera dell’agroalimentare presente a Cibus? Per l’edizione del 2021, su circa 2000 espositori che parteciperanno a Cibus, l’area dedicata alla birra artigianale costituisce una realtà consolidata, grazie anche all’entusiasmo degli attori della filiera che hanno aderito al progetto. Ospiterà un centinaio di birrifici artigianali disposti su 800 metri quadrati, in una posizione centrale del Padiglione 7 dedicato alle aree speciali. Inoltre, Cibus sarà il palcoscenico della premiazione del concorso Birra dell’Anno 2021, che valorizza le eccellenze della birra indipendente artigianale italiana.
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L’INTERVISTA
mentare le opportunità di business e di relazione dei clienti che partecipano a una fiera. Nel lungo periodo quali sono le prospettive di Cibus? Alla luce della nostra esperienza, la fiera rappresenta un momento imprescindibile di networking e contatto, non facilmente replicabile virtualmente. Nel lungo periodo il nostro obiettivo è affermare sempre più il ruolo di Cibus come un’opportunità per il tessuto produttivo agroalimentare italiano al fine di sviluppare attività di export; di qui il nostro costante impegno a una profilazione sempre più accurata dei visitatori nazionali e internazionali, per garantire l’ottimizzazione degli investimenti di tutte le aziende espositrici. Inoltre, abbiamo una forte volontà di portare avanti e potenziare gli importanti progetti collaterali sviluppati nell’ultimo anno, come My Business Cibus, la piattaforma online di matching, e Cibus Lab, i workshop organizzati in collaborazione con Gdo news, per ribadire l’intenzione di accompagnare tutto l’anno gli operatori del settore con occasioni di business, spunti e contenuti.
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Negli ultimi anni, importanti poli fieristici sono stati al centro di fusioni. Come si pone al riguardo Fiere di Parma? Il tema delle fusioni è strategico e in molti settori rappresenta l’unica vera soluzione per consolidarsi sui mercati e sviluppare new business. Il modello adottato da Fiere di Parma è “policentrico”: stringiamo sinergie con fiere e manifestazioni fornendo il nostro know-how per sviluppare il business sul proprio territorio di origine. Cito, per esempio, la recente collaborazione con la Fiera di Padova per la manifestazione florovivaistica Flormart, a Padova. Si tratta della 71a edizione di un salone storico, in cui abbiamo deciso di impegnarci, fedeli al nostro principio che le fiere debbano rimanere ancorate, per quanto possibile, al territorio che le ha espresse. ★
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Riccardo Caravita, Cibus and Food brand manager.
Oltre a importanti occasioni di business e di visibilità di fronte a un pubblico strettamente professionale, abbiamo voluto dare alla birra artigianale la possibilità di farsi conoscere anche da un pubblico più generico, con un’area dedicata in città dal 29 agosto al 5 settembre nella cornice del Cibus Off Portici del Grano e dal 3 al 5 settembre per Cibus Off Village.
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Per gestire la più importante fiera internazionale nel food & beverage in Italia quali caratteristiche, ma soprattutto quale visione, deve avere un brand manager? La visione è collettiva. Il brand manager rappresenta solo la punta di un grande iceberg, che coralmente deve lavorare in sinergia per elaborare, sviluppare e proporre la migliore strategia per imple-
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IL BRAND BIRRA NOSTRA
PROMUOVE LA BIRRA ARTIGIANALE ITALIANA DAL 2007, ANNO DELLA SUA FONDAZIONE
Lo ha fatto e lo fa attraverso fiere e consulenze per i principali enti fiera italiani (Fiere Parma, Verona Fiere, Fiera di Milano, Fiera di Padova, Pordenone Fiere, Bologna Fiere, Lingotto di Torino, Expo Venezia), organizzando progetti legati al mondo brassicolo (fra gli altri, è presente in sei cofanetti del circuito Smartbox, per il quale ha creato un network di birrifici visitabili) e sviluppando competenze nella gestione della comunicazione per i birrifici e nel turismo esperienziale brassicolo. Inoltre, ha organizzato degustazioni e promozioni di prodotto per Unione
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Italiana Vini, per il Salone del Mobile di Milano, per Food&Book a Montecatini Terme e per decine di locali italiani. Nel 2013 ha creato il web magazine Birra Nostra Magazine, divenuto cartaceo nel 2019 (Quine Ed.) in collaborazione con MoBi e per il quale collaborano le più autorevoli firme del panorama brassicolo e gastronomico italiano. Dal 2016 è partner ufficiale per la Terza Missione del Dipartimento di Scienza degli Alimenti e del Farmaco dell’Università di Parma.
Negli anni ha collaborato attivamente con Unionbirrai e con Slow Food, condividendone la mission. Dal 2016 è consulente per Fiere Parma a CIBUS. Birra Nostra Promozione Birra Artigianale Italiana Via Verga 4 44124 Ferrara www.birranostra.it birra nostra birra nostra magazine birranostramag
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TENDENZE
di Daniele Risi
MOBILE CANNING: MODA, OPPORTUNITÀ O NEW WAVE?
Riflessioni sparse con Mister B Brewery
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n questa lunga fase di letargo forzato dei nostri amati pub, e con il drastico cambio delle nostre abitudini di vita e di consumo, anche i birrifici hanno dovuto adattarsi e trovare nuove soluzioni per sopravvivere. La variazione principale riguarda il confezionamento, che è cambiato così da intercettare una domanda isterica e stressata che andava modificandosi a più riprese. In questa fase di reclusione, abbiamo quindi visto una maggiore disponibilità di formati e contenitori più o meno innovativi e stravaganti.
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Tralasciando gli aberranti growler di cartone e in generale i tipi di confezioni da asporto che si possono fare dalle spine, ci concentreremo su ciò che può essere gestito direttamente dai produttori. Oltre a contenitori più da consumo condiviso, come possono essere, per esempio, fustini a caduta e minikeg, abbiamo assistito soprattutto a un’enorme proliferazione di lattine. Vale quindi la pena di porsi alcune domande riguardo alle caratteristiche di questo contenitore e su come sia possibile che così tanti birrifici in poco tempo lo abbiano adottato.
Rispetto a qualche anno fa, quando era impensabile reperire prodotti artigianali in lattina, ora si può dire che la situazione si sia quasi invertita. Il mio primo ricordo è legato a un Pianeta birra del 2010 con le primissime lattine mai viste di un produttore craft di piccole dimensioni: quella fu un’intuizione di Bad Attitude che presentò la Kurt in lattina. Certamente in questi anni la base culturale per cui l’alluminio era associato a prodotti di bassa qualità è venuta meno, ma prima di prendere una posizione proviamo a valutare i suoi vantaggi e svantaggi rispetto al sempre verde vetro... Ovviamente stavo scherzando: il vetro deve essere marrone! I pro e i contro che andremo a soppesare sono in relazione al vetro, dal momento che alluminio e vetro sono di fatto i due materiali più utilizzati per la birra. Tra i vantaggi dell’alluminio figura in modo incontrovertibile la totale impenetrabilità da parte dei raggi solari, che di fatto annulla il rischio del cosiddetto colpo di luce. Un altro aspetto riguarda la velocità di raffreddamento, anche se in questo caso l’argomentazione potrebbe essere più dibattuta: se da un lato infatti è vero che la velocità di raffreddamento è maggiore, è anche vero che lo stesso vale per il riscaldamento. La motivazione risiede nella migliore conducibilità termica, che nel caso del freddo è molto positiva mentre nel caso del caldo potrebbe favorire shock termici e rappresentare quindi una criticità negativa. Un altro vantaggio compete al minore peso e spazio, che si traduce in un rispar-
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TENDENZE
mio su due livelli: quello del trasporto e quello logistico dello stoccaggio. Un altro pregio della lattina è lo spazio più ampio a disposizione in etichetta, quindi un enorme plus per il marketing che ha modo di sfruttare il colpo d’occhio con mirabolanti grafiche che stanno colorando i nostri scaffali, senza dover rinunciare a informazioni dettagliate che vengono sempre più richieste dai consumatori. In ultimo, considerato il tema ambientale, la riciclabilità tende all’infinito per l’alluminio, anche se non ci perderemo in valutazione sui costi di estrazione e produzione dei due materiali.
Il mobile canning Veniamo dunque al mobile canning che di fatto consiste in un servizio di confezionamento in conto terzi che viene eseguito presso il birrificio produttore da un altro professionista. Per quale motivo un birrificio dovrebbe affidarsi a qualcun altro piuttosto che provvedere direttamente all’acquisto di una lattinatrice e al confezionamento stesso? I pro che concorrono all’evoluzione/ presenza del mobile canning sono: l’elevato costo della macchina lattinatrice, il risparmio degli spazi in birrificio, l’affidabilità del fornitore, che ha conoscenze specifiche e in alcuni casi offre servizi di analisi legati soprattutto alle componenti ossidative, l’opportunità di aumentare la gamma dei prodotti facendo anche batch piccoli di birre stagionali e la possibilità di fare release particolari senza rinunciare per forza alla bottiglia, presentando novità ai clienti o sempli-
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Riempimento delle lattine.
cemente una nuova veste per un tempo limitato. Nessun costo di revisione o riparazione dell’impianto di confezionamento e risparmi in termini di tempo e prodotti per la sanificazione. Gli svantaggi: rispetto a una gestione autonoma del processo, i tempi di confezionamento devono essere legati alla disponibilità di chi fornisce il servizio; la scarsa conoscenza del processo e della macchina, inoltre, rende difficile il controllo sulla qualità; in ultimo, il costo del servizio è più elevato rispetto all’ammortamento di un macchinario.
L’esperienza di uno tra i maggiori fornitori del servizio in Italia Cerchiamo ora di capirne qualcosa di più parlando con Mauro Bertoletti del Teatro delle Birre e di Mister B Brewery, il primo produttore che ha scommesso tutto sulla lattina in Italia e che di fatto è uno dei tre principali attori che si stanno occupando ora di mobile canning nel paese Come e quando hai iniziato ? DR: l’attività di mobile canning? È stata una tua idea fornire questo servizio ad altri oppure, visto il recente boom di richiesta di prodotti in lattina, sono stati i birrifici a contattarti?
Mr. B: Facemmo i primi tentativi di spostare la nostra prima linea Cask nella primavera del 2018 per delle collaborazioni con altri birrifici. In tutto 6-7 tentativi. Ma rimandammo il progetto vero e proprio per varie cose da perfezionare e sicuramente serviva una macchina più performante e adatta agli spostamenti. Occorreva inoltre una strumentazione di misura attendibile per perfezionare la tecnica, oltre a una doppia strumentazione di supporto che fosse dedicata al servizio. Nel 2020 abbiamo acquistato tutto quanto, compresa una nuova linea concepita e modificata ad hoc per diventare mobile, interamente costruita e progettata in Italia. Le prime richieste arrivarono da birrifici conoscenti come favori retribuiti, per poi capire che potevamo offrire realmente un servizio di qualità e una consulenza specifica per il settore. Da lì fu un crescendo, dovuto anche alla situazione di emergenza sanitaria e alle chiusure dei canali distributivi; la lattina sembrava il veicolo ideale per arrivare più facilmente ai consumatori e magari rinnovare l’immagine dei birrifici stessi. Come funziona una lattina? DR: trice e quali sono i passaggi tecnici più delicati nell’operazione di confezionamento?
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TENDENZE
Deposito del coperchio.
Mr. B: Una linea di riempimento è un passaggio delicato del processo produttivo in un birrificio, forse il più delicato, dove ci si gioca la shelf life dei prodotti. Il riempimento di una lattina deve seguire 4 passaggi fondamentali, ovvero: ❱ evacuazione del contenitore; ❱ riempimento; ❱ deposito coperchio; ❱ aggraffatura. Il tutto deve essere veloce e protetto dal nemico numero uno, ovvero l’ossigeno. L’aggraffatura deve essere precisa perché pochi micron di differenza ne possono compromettere la tenuta. Che tipo di servizio fornisci ? DR: presso i birrifici? Ti limiti ad arrivare sul posto e confezionare le lattine o il confezionamento è solo l’ultima fase di un processo di consulenza che parte molto prima? Mr. B: Nella nostra informativa di presentazione diamo dei parametri standard sul prodotto che lo rendono confezionabile o non confezionabile. Ovviamente elenchiamo costi e servizi accessori, come etichettatura, fornitura del materiale di packaging, etichette, scatole, lattine e tappi… poi, per chi vuole proseguire facciamo compilare una checklist pre-operativa in modo da esse-
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re preparati per eventuali problematiche, che analizziamo con il birraio cliente. Decise la fattibilità e la data del servizio, facciamo una recall pochi giorni prima per accertarci di condizioni del prodotto, carbonazione e temperature. Dopodiché si parte. Ovviamente è tutta consulenza che poi si sviluppa nella prima giornata di confezionamento, dove anche il cliente si tara sui parametri ottimali per confezionare con noi. Che tipo di servizi accessori ? DR: fornisci? Per esempio, vendi anche le lattine? Mr. B: Forniamo tutto, dalla lattina al packaging necessario, sino alla macchina di riempimento se qualcuno poi volesse fare il passo. Forniamo anche un servizio grafico con i miei professionisti di fiducia fino al rebrand, nel caso qualcuno ne avesse la necessità. All’estero il servizio di mo? DR: bile canning viene già utilizzato anche da produttori di bibite gassate e vino. Vedi una possibilità di mercato in questo senso anche in Italia? Mr. B: C’è stato un boom negli ultimi dodici mesi e molti in Italia, nonostante abbiamo soprattutto birrifici medio piccoli, si sono buttati sulla lattina. Credo che
se io avessi avuto la possibilità di disporre di questo tipo di servizio, almeno per l’avviamento, l’avrei sfruttato e credo sia importante non partire allo sbaraglio ma cercare sempre la qualità. Tutto lascia pensare che il nostro servizio possa avere seguito e lo dimostra la concorrenza che sta spuntando, anche con compagnie estere interessate a fare mobile canning in Italia. Ma credo che sia una bolla e che chi troverà nella lattina il contenitore ideale acquisterà la macchina, anche per merito dei vari contributi che agevolano gli investimenti. In ogni caso, prima di fare il passo, consiglio di avere un approccio cauto e di affidarsi a qualche test e soprattutto a consulenze. Quali sono le principali diffi? DR: coltà che incontri nei birrifici nel fornire il servizio di mobile canning? Mr. B: L’Italia è vasta, ora l’abbiamo scoperto sulla nostra pelle, abbiamo lavorato in birrifici grandi e alcuni molto “compatti” con richieste tra le più disparate. Ma sul prodotto vedo che la professionalità sta crescendo e le problematiche maggiori per noi sono nell’avere parametri di riferimento omogenei, come sulla carbonazione (essenziale per un riempimento con una schiuma ottimale). Ora ci siamo attrezzati con una strumentazione specifica e precisa, incluso per esempio un carbossimetro.
Mauro Bertoletti di Mister B Brewery.
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TENDENZE
DR: Ti va di raccontarci la storia più strana legata a un confezionamento? Non devi farexxxxx per forza i nomi… Mr. B: Preferisco essere discreto nei confronti dei colleghi ma, come in qualsiasi lavoro, non mancano le richieste più strane. La professionalità sta proprio nella completa flessibilità e nell’immediato problem solving. Come vedi la “crisi” di repe? DR: ribilità del contenitore lattina? Mr. B: Diciamo che non ha precedenti nemmeno per i fornitori. Non dipende dal consumo di lattine per la birra artigianale ovviamente, in quanto noi non siamo sicuramente un settore core per i giganti delle lattine come Ball o Crown. Il problema grosso che abbiamo in Italia per la birra artigianale è che siamo un popolo fashion-forward: cerchiamo di stupire il pubblico con il formato del contenitore differente e ora ci troviamo con difficoltà di approvvigionamento
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su formati limitati, stagionali o provenienti dall’estero. All’estero vanno due formati per la birra artigianale (33 cl e 44 cl), il che permette di ottimizzare i costi e il lavoro dei fornitori; in realtà è perché inizialmente il mobile canner di turno in UK non poteva avere che uno o due formati, quindi quelli c’erano. Già l’anno scorso a maggio ho avvertito una sorta di crisi di alta stagione, ma quest’anno c’è stata da inizio anno. Le cause sono molteplici, dalle difficoltà produttive, di magazzino, fino alla scarsità di lattine neutre. Analizzando la situazione rispetto ai formati, possiamo dire che: ❱ il 40 cl è a bassissimo tiraggio e destinato ad andare fuori produzione; ❱ il 44 cl ha avuto difficoltà di approvvigionamento legate alla Brexit; ❱ il 50 cl non è stato disponibile per mesi, nonostante sia l’unico che si riesce a reperire se si hanno contratti annuali.
In sostanza, si tratta per lo più di una crisi delle materie prime, sommata all’aumento dei costi di trasporto dovuti a coincidenze macroeconomiche che conosciamo. È molto importante affrontare questo discorso prima di decidere di fare il passo verso la lattina. Che lattine posso avere a disposizione ora? Dove producono quel formato? Avrò continuità? Cambiare il formato dopo il secondo o terzo batch non sarebbe ideale economicamente, per problemi di adattabilità di materiale e attrezzature di packaging, oltre al fatto che l’immagine del birrificio non ne gioverebbe. In un’intervista del 2017 Mauro dichiarava: “…trovano a mio avviso nella lattina il contenitore ideale, così come le pilsner, del resto, o le classiche lager. Ma, se fosse per me, metterei in lattina tutto o quasi”. A giudicare da come si è evoluto il mercato in questi anni è stato a dir poco profetico.★
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BIRRA E LETTERATURA
di Luca Iaccarino
Otto montagne E UNA BIRRA
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osì mi trovo sulle montagne di Paolo Cognetti. Estate 2021: i figli in colonia in Val d’Aosta, con mia moglie decidiamo di ritagliarci qualche giorno in beata solitudo non distanti dal loro rifugio. Guardo la mappa. C’è Brusson. Mi dice qualcosa Brusson. Ma certo! È il piccolo comune montano in cui sta Paolo Cognetti, l’autore de Le otto montagne, vincitore del Premio Strega nel 2017. Allora gli
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scrivo: “Paolo, dove andiamo a dormire? Mangiare? Bere?” Lui che è gentile e innamorato delle sue terre d’elezione – è nato a Milano, ma qui ha trovato se stesso – ci dà tutte le risposte di cui necessitiamo e in un amen eccoci in questa montagna vera, ruspante, senza negozi di griffe o signore ingioiellate ma con le scarpe da trekking. Brusson è uno spruzzo di case, 883 abitanti che si fanno i fatti propri e la
partita, la sera, la vediamo dal benzinaio dove si ritrovano tutti. C’è pure la troupe del film che stanno traendo dal libro di Cognetti. “Ma non è Filippo Timi, quello?” dico a mia moglie addentando il panino con mocetta e fontina. Nei giorni di Brusson il nostro obiettivo sono le passeggiate: boschi, pace, conifere, alpeggi. E polenta concia. Tutte le volte è la stessa liturgia: salita, fatica, sudore, rifugio, riposo, salumi, formag-
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BIRRA E LETTERATURA
pre peggiore della peggior birra. E visto che qui in rifugio non siamo dalle parti del Sassicaia, confido che, per quanto la birra potrà essere mediocre, sarà comunque più inoffensiva di una barberaccia. Così il ragazzone ci porta due medie, una lager chiara e un’ambrata e noi, che siamo in credito di liquidi dopo la sudata dell’ascesa, diamo due bei sorsi. Guardo mia moglie. Lei mi guarda. “Ehi, è buona.” Eravamo rassegnati a un pareggio e invece qui siamo sul due a zero. “È proprio molto buona.” Guardiamo i boccali. C’è scritto Les Bières du Grand St. Bernard. Non conosco, sono ignorante in materia, chiediamo al ragazzone. “È di qui, mi piace, ma costa cara” è il suo commento sintetico, lontano anni luce dallo storytelling dei locali fighetti. La narrazione ci toglie troppo spesso il piacere della scoperta. Ti arriva un prodotto che non conosci; nessuna aspettativa; lo provi; pensi: “che buo-
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gi, polenta. E vino. Sfuso della casa. Di solito: barbera. La prima volta, nel primo rifugio penso: certo che questo vino è proprio gramo. La seconda volta: anche questo è veramente gramo. La terza: è fortissimamente gramo. Così alla quarta sosta, come Oscar Luigi Scalfaro dico: “non ci sto!” Lo so che, nella prassi montana, la polenta e la fontina e la mocetta chiamano il vino rosso, ma diamine non c’è frase che trovi più desolante del s’è sempre fatto così, normalmente utilizzata per difendere le peggio nefandezze. Così, al Rifugio Arp, 2.446 metri sul livello del mare, al ragazzone grande e grosso che ci prende l’ordine mia moglie dice: “due polente conce e due... birre.” Ah, un respiro di sollievo. La birra dà sicurezze che il vino non sa dare. Un mio vecchio motto – da enofilo, lo ammetto, non vogliatemene – è il miglior vino sarà sempre migliore della miglior birra; il peggior vino sarà sem-
no!” Nei tempi della comunicazione onnipresente è una sensazione che si prova sempre più di rado. Prendo la seconda, che poi è quello che dovrebbe succedere con tutte le cose che ci piacciono davvero: volerne ancora. Tornato a Brusson nell’alimentari del paese le hanno in frigo. Acquisto una bottiglietta: stanno a Chambavaz, una frazione di Gignod. Li googlo con il telefonino: hanno belle referenze, una Tripel al genepy, una di segale, una Oatmeal Stout, una Marzen Rauch, una Barely Wine... Mi viene una gran voglia di assaggiarle. Lo farò! Andando via da Brusson – diretti a Saint Jacques, dove recupereremo i bambini – ci portiamo dietro un senso di libertà, di verità, di nitore. È un buon sapore, un misto di paesaggi, fragore di ruscelli, scampanare di mucche, profumi di prati in fiore, di formaggi… e di una birra sconosciuta, incontrata per caso, ordinata per evitare un vino scadente in un rifugio a 2.446 metri.★
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BIRRA E TERRITORIO
di Tommaso Ganino
A OGNUNO il suo luppolo!
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he il territorio influisca sulla produzione primaria è un fatto ormai assodato. Ne sono la dimostrazione le numerose produzioni alimentari lungo la penisola che si fregiano di marchi come DOP, IGT, DOCG e tutte quelle varie sigle pensate per la differenziazione e tutela di un determinato prodotto, spesso cresciuto e trasformato in un preciso areale. Questo è accaduto perché si è notato che lo stesso prodotto cambia la sua composizione a seconda di molteplici fattori.
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Il latte, per esempio, varia in funzione dell’alimentazione della vacca: tipologia (alimento fresco trasformato), forma, composizione, epoca di pascolo o di raccolta delle essenze vegetali, altitudine e latitudine di produzione delle materie prime ecc. Anche i formaggi prodotti da quel latte avranno diverse componenti aromatiche in relazione alle condizioni ambientali di lavorazione e conservazione o alla componente microbica del luogo di stagionatura. Lo stesso avviene anche per altri prodotti derivati da diver-
si vegetali. Per esempio, un olio prodotto con olive di varietà Frantoio ha caratteristiche molto diverse a seconda del luogo di produzione. Questi esempi introducono un concetto molto preciso: il terroir.
Il concetto di terroir Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza e di capire qualcosa di più su un concetto tanto complesso quanto semplice come quello del terroir. Semplice perché è abbastanza intuitivo che, per esempio, un qualsiasi prodotto vegetale abbia carat-
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teristiche diverse a seconda che cresca in alta montagna o in pianura. Nella migliore delle ipotesi una specie modifica le proprie caratteristiche compositive al variare delle condizioni ambientali; nella peggiore, la stessa specie non riuscirà a crescere e a svilupparsi se l’ambiente in cui si trova diventa non favorevole. La complessità deriva dal fatto che è molto difficile isolare il singolo fattore che può alterare il metabolismo delle piante (o degli animali). Il concetto di terroir comprende più fattori che si concatenano interagendo tra loro: la morfologia, i caratteri pedologici e la composizione del terreno di coltivazione, la composizione del bioma del terreno, altitudine, esposizione, clima, ma anche le pratiche agronomiche che si applicano. Questi fattori influenzano in modo univoco il prodotto agrario. Le condizioni che caratterizzano un certo terroir, inoltre, non sono replicabili ma sono legate in modo esclusivo a quel determinato e specifico territorio, intendendo con tale termine l’insieme dei fattori naturali e del fattore umano. I primi a utilizzare questo strano termine sono stati i francesi, i quali lo hanno coniato per identificare le differenze esistenti in diversi areali viticoli della Francia, per differenziarli rispetto ad altri. Il termine terroir è di difficile traduzione: letteralmente si può tradurre in territorialità, ma in senso più specifico possiamo dire che vuole indicare una terra tipica o un luogo tipico. Anche in questo caso, la terminologia non ci aiuta, perché il terroir è qualcosa di ancora più complesso. Secondo l’OIV (Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino): Il Terroir viticolo è un concetto che si riferisce a un’area nella quale la conoscenza collettiva delle interazioni tra caratteri fisici e biologici dell’ambiente permette la sua evoluzione attraverso l’applicazione di pratiche colturali. Questa interazione crea caratteristiche distintive per i prodotti che hanno origine in quest’area. Il Terroir comprende una specificità di suolo, di topografia, di clima, di paesaggio e di biodiversità.
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Questo concetto può naturalmente essere esteso ad altre produzioni diverse dal vino, quindi significa che il territorio modifica la qualità di un dato prodotto.
Tutto dipende dal metabolismo secondario Quali sono i motivi biologici per cui un organismo modifica il suo comportamento in ambienti diversi? La risposta è l’esistenza del metabolismo secondario. Infatti, se il metabolismo primario consiste in tutti quei complessi di reazioni che sono strettamente necessarie alla vita della pianta e alla sua costituzione, quindi le reazioni di sintesi di proteine strutturali, carboidrati, lipidi e acidi nucleici, senza le quali la pianta non sopravvivrebbe, il metabolismo secondario si attiva e produce metaboliti per permettere una migliore sopravvivenza e un migliore adattamento. Il metabolismo secondario, infatti, si attiva spesso in risposta allo stress: in alcuni vegetali, per esempio, se sottoposti a raggi UV, si assiste a un aumento della produzione di antociani per la protezione del ve-
getale stesso, non indispensabili alla pianta in grandi quantità, ma che se più presenti la preservano maggiormente. Lo stesso avviene per i deficit nutrizionali: per esempio, quando il pomodoro è sottoposto a una dieta dimagrante in cui vengono razionati azoto e fosforo, esso tenderà a lignificare alcuni dei suoi tessuti e a produrre fenil propanoidi e antocianine. Queste modifiche permetteranno al pomodoro affamato di poter maggiormente resistere in quel determinato ambiente. In che cosa si traduce questo? In una diversa composizione chimica e nutrizionale dei frutti prodotti da questa pianta. Fanno parte dei metaboliti secondari anche gli oli essenziali e i tannini; la composizione dei primi cambia a seconda delle condizioni della pianta, mentre la concentrazione dei secondi è fortemente legata alla strategia di difesa della pianta stessa: maggiore quantità nelle piante arrabbiate e minore nelle piante rilassate. Non dimentichiamoci, poi, di tutte quelle strategie che la pianta attua, per esempio, per attirare impollinatori o
Tutti i prodotti agricoli (qui l'olio) hanno un terroir.
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INNOVAZIONI E BIOTECNOLOGIE AGROALIMENTARI
BIRRE ACIDE PRODOTTE CON BATTERI LATTICI SENSIBILI AL LUPPOLO, APPLICANDO UNO SPECIALE PROTOCOLLO SICURO
FACILE
VELOCE
Per la prima volta in assoluto, la possibilità di realizzare birre acide senza nessun rischio di contaminazione crociata. Questo grazie a ceppi selezionati SENSIBILI al LUPPOLO abbinati ad un processo di produzione denominato "SOUR WORTING".
Estremamente semplice l’utilizzo, che prevede l’inoculo diretto dei fermenti liofilizzati in caldaia di bollitura, dopo aver raffreddato il mosto a 30-35°C.
I batteri lattici, senza venire a contatto con il Luppolo acidificano in sole 12-24h, questo perchè non trovano inibizioni per la crescita.
BATTERI LATTICI
PROTOCOLLO DI PRODUZIONE “SOUR WORTING”
12 - 24 h 100° C AMMOSTAMENTO
FILTRAZIONE
Costituito da una miscela di Lactobacillus plantarum al 70% e Pediococcus pentosaceus al 30%. È una combinazione particolarmente interessante in grado di conferire alla birra note lattiche ed una gradevole acidità.
È un ceppo la cui acidità percepita nella birra è molto elevata, fortemente lattica, l’aroma ricorda gli agrumi (limone, cedro). Consigliato per le birre in cui l’acidità è una caratteristica fondamentale.
Stili indicati: Berliner Weisse, Gose, Lichtenhainer.
Stili indicati: Berliner Weisse.
Stili indicati: Berliner Weisse, Gose.
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Stili indicati: Berliner Weisse, Gose, Sour Ale, Lambic.
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LCT 100 Leuconostoc citreum
È un ceppo davvero piacevole che apporta al prodotto finito freschezza ed aromi lattici (yogurt, latte) caratterizzato da un’acidità percepita molto lieve. Adatto per una grande varietà di birre, anche non necessariamente in stile acido.
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FERMENTAZIONE
È un ceppo che dona alla birra una acidità percepita molto elevata, fortemente lattica-citrica, che ricorda gli agrumi. Consigliato per le birre in cui l’acidità è una caratteristica rilevante.
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nei luppoli e nelle birre prodotti in Germania e anche una maggiore presenza di linalolo, sia nel luppolo sia nella birra. Il linalolo è una molecola aromatica molto interessante contenuta nel luppolo dai sentori floreali, citrici e di legno di rosa. Però, in questo caso, dall’analisi sensoriale condotta da panelisti esperti non sono state riscontrate particolari differenze tra le birre prodotte con gli stessi luppoli, anche se provenienti da territori diversi.
L’influenza del clima sulla cultivar Aurora
animali o repellere insetti, come la produzione di particolari sostanze volatili. Ecco, tutte queste sostanze, che andranno poi a caratterizzare in modo unico il nostro prodotto, fanno parte del metabolismo secondario della pianta.
l’Amarillo dell’Idaho è risultato più citrico e floreale. Questo ha portato prove concrete a conferma del fatto che l’area di produzione influenza in modo significativo la qualità del luppolo e, in questo caso, anche della birra.
Il terroir nel luppolo
Cascade e Comet: Yakima vs Hallertau
Arriviamo ora alla nostra domanda principale: esiste il terroir anche nel luppolo? E, se sì, come influisce sul prodotto finito? Alla prima domanda, possiamo rispondere con una discreta certezza che sì, esiste il terroir anche nel luppolo. Diversi studi sono stati fatti recentemente per determinarne gli effetti. In particolare, alcuni ricercatori nello stato di Washington hanno cercato di determinare se ci fossero differenze qualitative riscontrabili sull’olio essenziale e sulla birra prodotta con il luppolo della varietà Amarillo coltivato in Idaho e nello stato di Washington. Le distanze tra le due coltivazioni, essendo i due Stati confinanti, non sono enormi, ma le differenze sono tangibili. Dall’analisi sensoriale sulle birre, infatti, si sono riscontrate differenze che hanno permesso a un panel di esperti di differenziare nettamente i due prodotti. Dall’analisi strumentale sull’olio, invece, l’Amarillo coltivato a Washington è risultato più fruttato, speziato e resinoso, mentre
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Un altro studio ha osservato le differenze che si andavano a sviluppare nei coni di luppolo delle cultivar Cascade e Comet coltivate nelle due regioni a maggior produzione luppolicola: Yakima (USA) e Hallertau (Germania). Anche in questo caso gli studiosi si sono concentrati sull’influenza del terroir sui coni di luppolo e sulla birra da essi derivata. In questo studio gli autori hanno osservato un maggior contenuto di antiossidanti
È noto che il clima, soprattutto temperatura e piovosità, influenza il contenuto in alfa e beta acidi. Un gruppo di ricercatori (Pavlovic e collaboratori) di un’altra nota zona di grande tradizione luppolicola, la Slovenia, ha monitorato lo sviluppo di acidi amari della cultivar Aurora dal 1994 al 2009, osservando un’importante correlazione tra la quantità di alfa acidi e temperatura, insolazione, piovosità e umidità. Questi parametri avevano una diversa rilevanza nel favorire o sfavorire la sintesi di alfa acidi a seconda del momento di sviluppo della pianta. Gli studiosi hanno osservato, per esempio, che il contenuto di alfa acidi è influenzato dalla temperatura durante le fasi comprese tra il taglio del rizoma e la fioritura. I ricercatori hanno però sottolineato come questi dati siano reali per la cultivar in studio, ma probabilmente per altre varietà le variabili in gioco potrebbero avere pesi molto diversi.
Il caso “US Tettnanger”: fake terroir?
Un caso importante e forse poco noto di finto terroir (fake terroir) sembra poter essere attribuito al Tettnanger coltivato e commercializzato negli USA, conosciuto come US Tettnanger. Infatti test genetici recenti hanno osservato come il US Tettnanger sia molto più simile al Fuggle rispetto al vero Tettnang Tettnanger. Da questo deriva che, probabilmente, il genotipo statunitense deriva dall’impollinazione del Fuggle con la varietà Tettnanger in tempi non recenti e si è poi diffuso negli Stati Uniti con il nome di Tettnanger.
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Il caso Cascade: un confronto tra coltivazioni italiane, europee e americane Uno dei primi studi condotti in Italia è stato eseguito nel 2016 sulla cultivar Cascade da un gruppo di lavoro dell’Università di Parma. In questo caso sono state messe a confronto le caratteristiche qualitative di coni di Cascade provenienti da nove regioni italiane, con caratteristiche climatiche e pedologiche molto diverse, e di coni provenienti da quattro Stati in cui la coltivazione di luppolo è ormai una tradizione: USA (con un campione dall’Oregon e uno dal Michigan), Germania e Slovenia. Sono state riscontrate differenze in tutti i caratteri presi in considerazione: nel contenuto in olio, nel quantitativo di alfa e beta acidi e nella composizione del profilo aromatico. Nel nostro caso specifico, non abbiamo visto correlazioni particolari tra clima e qualità del prodotto, ma forse questo è dovuto al fatto che molti più fattori, diversificati per ambiente, hanno contribuito alla qualità del cono, non per ultima la composizione del terreno. Germania, Puglia e Liguria sono state le zone in cui si è riscontrato il maggior contenuto in alfa acidi, mentre il Cascade tedesco è risultato anche quel-
Matracci di estrazione degli alfa e beta acidi.
lo contenente la maggiore quantità di xantumolo, l’antiossidante del luppolo per eccellenza. Anche la quantità di olio posseduta dai luppoli è stata singolare, con picchi fino al 2% nel campione ligure. Tenendo conto che lo standard della cultivar è compreso tra lo 0,7 e l’1,4%, l’ottenimento di un 2% mostra quanto si possa differenziare la produzione. Il profilo aromatico dei campioni di coni provenienti dalle diverse zone ha evidenziato tantissime differenze. Infatti,
Luppolo Cascade proveniente dall’Emilia Romagna.
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nei campioni provenienti da Slovenia e Michigan sono risultati prevalenti le note speziate e terrose, mentre gli altri campioni erano contraddistinti da note agrumate e floreali, soprattutto il campione di Cascade proveniente dalla Campania. Il campione ligure, invece, ha mostrato il profilo aromatico più sovrapponibile al campione di Cascade tipico e originale dell’Oregon, dotato di tutte quelle note caratteristiche che vengono poi trasferite alle birre in stile APA. Questa scoperta può essere vista come un problema, avendo dimostrato che se un birraio vuole ottenere un prodotto dalle qualità organolettiche costanti deve rifornirsi di luppoli che provengano sempre dalle stesse zone, ma può essere considerata anche come una grande opportunità. Difatti, avere un luppolo che modifica le sue caratteristiche a seconda della provenienza rende forse più semplice progettare prima, e riconoscere poi, una birra prodotta con materie prime legate al territorio di produzione. Questo può anche far sì che un birraio possa differenziare la sua produzione dalle altre attingendo semplicemente da areali di produzione diversi e fornendo alla propria birra connotazioni uniche e, chissà, magari prettamente italiane. ★
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di Luca Pretti
BIRRA E SOSTENIBILITÀ
LA SOSTENIBILITÀ
non è solo una parola L
a sostenibilità ambientale può essere intesa come l’esatto opposto del degrado ambientale. Se non fosse che ogni singola parola di queste definizioni cela comportamenti, interazioni ed effetti sulla vita di ogni singolo abitante del pianeta e per la collettività, sarebbero entrambe da ritenere, senza timore di smentita, di una banalità imbarazzante. E a proposito di ovvietà, giova ricordare anche che il principio di sostenibilità ambientale risiede nella semplice osservazione che, nel nostro pianeta, non sia possibile avere
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una crescita infinita dai confini finiti, in quanto la terra presenta risorse naturali non rinnovabili. Secondo quanto espresso da diversi studiosi, le condizioni attraverso le quali è possibile attuare azioni a sostegno della sostenibilità ambientale sono fondamentalmente tre e hanno la possibilità di realizzarsi se la velocità con cui si sfruttano le risorse rinnovabili è inferiore a quella con cui si rigenerano, se l’immissione di particelle inquinanti nell’ambiente non supera la sua capacità di assimilarle e, infine, se
l’esaurimento di risorse non rinnovabili si compensa con il passaggio a risorse sostitutive. Tutti i processi produttivi hanno un impatto sulle risorse rinnovabili, concorrono intrinsecamente alla produzione e immissione nell’ambiente di sostanze potenzialmente nocive, anche sotto forma di scarti, e imprimono un loro specifico ritmo nell’utilizzo delle risorse non rinnovabili. Neanche la tecnologia brassicola sfugge a queste dinamiche. Non è un caso che ultimamente si osservi una particolare attenzione a tutte quelle at-
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tività connesse alla produzione, cui dà anche sostegno il mondo della ricerca. Nell’ambito delle birre artigianali, il reperimento di materie prime capaci di caratterizzarle e distinguerle sensorialmente è stato il pretesto per marcare un’appartenenza al territorio che la scarsa presenza di malterie e la pressoché nulla produzione di luppoli non poteva e non può, almeno per il momento, garantire. È anche vero che tutto il movimento birrario italiano si è evoluto nella replica degli stili birrari conclamati e che in alcuni casi fosse imprescindibile, per una buona riuscita di un determinato stile, omettere ingredienti precisi coltivati e sviluppati in un determinato areale geografico. Il che è l’essenza stessa della definizione di stile birrario passando attraverso indicazioni di tipo storico, geografico, in alcuni casi anche attraverso denominazioni di una zona o di una città, ma fondamentalmente attraverso il legame indissolubile con le produzioni agricole locali. Secondo uno studio recente, le voci che maggiormente incidono, in ambito brassicolo, dal punto di vista dell’emissione di sostanze inquinanti e del dispendio energetico riguardano il trasporto delle materie prime, la tecnologia di maltazione e la birrificazione in senso stretto. Il primo fattore è una logica conseguenza di quanto sopra esposto ed è verosimilmente, per tutti gli ingredienti utilizzati in birrificio a eccezione dell’acqua (che merita ragionamenti a parte), quello avente il peso maggiore alla voce trasporto, sia in termini energetici sia di inquinamento, stante la struttura del sistema di movimentazione delle merci in Italia. In questo senso la coltivazione e la trasformazione in loco rappresentano forse la soluzione che più di ogni altra garantisce, almeno in parte, il rispetto dei principi della sostenibilità ambientale. Le recenti ricerche scientifiche applicate al mondo brassicolo sono focalizzate anche sulla valorizzazione di varietà di cereali tra i più diversi, con lo scopo di caratterizzarli
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in chiave birraria, valutandone prima l’attitudine alla coltivazione, quindi le performance qualitative in fase di maltazione e i profili sensoriali delle birre da essi ottenute. Gli scenari che possono aprirsi in tal senso hanno potenzialità particolarmente interessanti. Attingere alla biodiversità locale e, parafrasando una celebre canzone, anzi localissima, garantisce di rendere reale il legame della birra con il territorio di produzione e di caratterizzarla con profili sensoriali che possano essere avvertiti con un carattere di esclusività e novità. Lo sforzo necessario per raggiungere questo obiettivo è decisamente notevole, ma i tempi sembrano ormai essere maturi per un nuovo scatto in avanti anche in questa direzione. Ovviamente non sarebbe che un primo tassello all’interno delle azioni necessarie per rimodulare
il sistema produttivo nei binari della sostenibilità ambientale. Anche le tecnologie di trasformazione del malto sono state messe sotto la lente di ingrandimento. In questo caso si condensano almeno tre comportamenti nemici del green deal: elevati consumi energetici, rilascio eccessivo di anidride carbonica, la grande quantità utilizzata di una delle risorse non rinnovabili per eccellenza, ossia l’acqua. Anche l’utilizzo di cereali non maltati in percentuali non marginali all’interno della ricetta è sotto osservazione. In alcuni casi i risultati, seppure per il momento incompleti e limitati ad alcuni stili birrari, si sono rivelati per certi versi sorprendenti. Tuttavia, un conto è la sperimentazione in fase di laboratorio e un conto è il responso in birrificio e dei consumatori, nelle mani dei quali rimane il giudizio finale. ★
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di Eleni Pisano
AGRIMONDO:
birra e turismo esperienziale a metà tra nuove tendenze e rivoluzione
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n questi ultimi mesi, complice anche un periodo che ha necessariamente rivoluzionato ritmi e punti di vista, si è sentito sempre di più parlare di concetti legati all’agrimondo e alla sostenibilità: agrifood, agriturismo, agribirra, agriparco, agrieventi solo per citarne alcuni. Come tutti i nuovi concetti è sempre importante cercare di definirne bene il significato, per non farsi pren-
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dere dall’entusiasmo e chiamare quasi ogni cosa con lo stesso nome. Il termine agri nasce per indicare il luogo in cui si svolge un’attività, solitamente di piccole e medie dimensioni, in uno specifico contesto culturale agricolo fatto di radicamento territoriale e rispetto delle tradizioni, con un approccio molto attento alla sostenibilità ambientale e con la massima valo-
rizzazione delle risorse naturali locali. La selezione e la produzione di materie prime di qualità sono un altro elemento importante, anche se agri non definisce per forza un unico modello di coltivazione. In questo flusso di nuovo sviluppo dell’ambito dell’agri si collocano anche molti nuovi microbirrifici italiani, che hanno deciso di unire tradizione e inno-
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vazione dei luoghi e degli spazi: spesso infatti vengono recuperati antichi casolari o case di campagne resi più sostenibili attraverso sistemi di efficientamento energetico e interventi di bioedilizia.
Un paese dalle grandi potenzialità …Con un valore aggiunto dell’agricoltura pari a 31,4 miliardi di euro correnti, l’Italia mantiene il primo posto della classifica europea anche nel 2020, seguita dalla Francia (30,2 miliardi). In terza posizione la Spagna (29,3 miliardi), che ha ridotto notevolmente, rispetto al 2019, il divario dalla Francia mentre ha perso terreno la Germania, che si conferma in quarta posizione (20,3 miliardi). Su un totale di valore aggiunto pari a circa 177 miliardi di euro per l’intero sistema agricolo della Ue27, l’Italia ha
Che cos’è la biodiversità? Il termine biodiversità deriva dal greco bios che significa vita e dal latino diversitas che significa differenza o diversità; la parola biodiversità indica quindi la diversità della vita all’interno di un certo luogo. Esistono tre diversi livelli di biodiversità: • diversità genetica, ossia la complessità e la varietà degli esseri viventi che vivono sul pianeta; • diversità di specie, che indica l’abbondanza e la diversità tassonomica, ossia la varietà delle specie e le relazioni tra di esse; • diversità di ecosistemi, che indica l’insieme di tutti gli ambienti naturali presenti sul pianeta.
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contribuito per il 17,8%, la Francia per il 17,1%, la Spagna per il 16,5% e la Germania per l’11,4%... (Rif Istat21 maggio 2021, report su Economia Agricola.) L’Italia non solo è una grande potenza agricola a livello europeo (vedo sopra), ma emerge anche tra i paesi con i maggiori livelli di biodiversità ambientale, culturale e climatica al mondo, in proporzione all’estensione del suo territorio. Questa caratteristica la rende un paese di straordinaria potenzialità e varietà, che consente non solo itinerari turistici di vario tipo, ma anche la possibilità di avere filiere agroalimentari molto variegate, che offrono prodotti di grande carattere definiti dalla specificità del contesto locale. Negli ultimi decenni in Italia si è assistito a un continuo flusso di persone giovani che lasciavano le aree agricole per trasferirsi nelle aree urbane italiane ed estere. In questo modo in
campagna sono rimaste, prevalentemente, le generazioni più anziane, che negli anni poi sono fisiologicamente diminuite, ponendo l’attenzione su come recuperare terreni, coltivazioni e strutture. Il recente ricambio generazionale ha portato nei giovani la volontà di ritornare alla terra. È così iniziata una riconversione di aree di produzione e abitative, accompagnata dalla realizzazione di nuovi progetti imprenditoriali in ambito agricolo che uniscono tradizione e innovazione, favorendo un nuovo florido mercato che, pur essendo ancora agli inizi, presenta ottimi livelli di crescita; soprattutto, è fiorito il turismo esperienziale in ambito agri. In questo clima di cambiamento lo sviluppo della filiera brassicola è in continua evoluzione anche se, ancora troppo spesso, manca una reale volontà di condivisione e collaborazione finalizzata a creare
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agricola; vale a dire che sia prodotta in loco. Visto che per produrre birra gli ingredienti necessari di base sono luppolo, acqua, orzo e malto, e considerato che, in proporzione, la quantità di luppolo da inserire in ricetta è una percentuale minima, i birrifici agricoli producono prevalentemente orzo distico o frumento. In realtà in questi ultimi cinque anni sono aumentate notevolmente le creazioni di nuovi luppoleti e nuove coltivazioni agricole a sostegno della produzione di birra agricola. Secondo i dati forniti da Assobirra, i birrifici agricoli in Italia sono stimati in 126 e sono distribuiti a macchia di leopardo sul territorio nazionale, elemento che rafforza il trend di crescita e interesse di questo settore. Secondo la Coldiretti, gli agribirrifici producono circa un terzo della birra prodotta dai birrifici artigia-
un settore forte e riconoscibile come quelli legati alle filiere dell’olio e del vino.
Agribirra: nuova moda o nuovo settore di produzione? Il temine agribirra da qualche tempo ha iniziato a entrare nel vocabolario comune del mondo brassicolo, non solo tra dagli esperti di settore ma, timidamente, anche tra i consumatori. Spesso ancora non si capisce bene che cosa significhi bere una birra agricola o che cosa succede all’interno di un agribirrificio. Secondo la normativa italiana, per l’opportunità di avviare un birrificio agricolo si rimanda al decreto ministeriale 212 del 2010, che ha inserito la birra e il malto fra le attività agricole connesse (decreto poi confermato con il dm 13 febbraio 2015). Un birrificio, per poter essere definito e classificato come agricolo, così come per le aziende agricole tradizionali, deve utilizzare il 51% della materia prima che provenga dalla stessa azienda
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Agenda 2030 e retail per sostenere le aziende Nei prossimi anni sentiremo parlare sempre di più degli obiettivi dell’Agenda 2030, ma questo non significa che tutti sappiano esattamente di che cosa si tratta. Ciclicamente, ogni cinque o dieci anni, la comunità internazionale (in questo caso le Nazioni Unite) decide di valutare lo stato di salute del mondo e di capire che tipo
di politiche e azioni adottare per migliorare la situazione. La nuova Agenda 2030, avviata ufficialmente all’inizio del 2016, si focalizza sullo sviluppo sostenibile e lo fa attraverso la declinazione in 17 obiettivi. Alcuni sono molto ottimistici, ma già avvicinarsi a quello che si pongono come risultato finale comporterebbe un grande miglioramento per tutti.
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nali in Italia. Un mercato decisamente in fermento. Gli obiettivi di sviluppo sostenibile indicati dall’Agenda 2030 sono un modello che sarebbe giusto poter diffondere nei comportamenti quotidiani di ognuno di noi nonché in ambito produttivo e imprenditoriale. Nello specifico, il mondo brassicolo italiano ha fatto e sta facendo moltissimo. Infatti, per creare un buon prodotto artigianale occorrono sempre di più la tecnica, la passione ma anche il rispetto di tutte le fasi di produzione, nel caso di tap room o locali di somministrazione nelle varie fasi del servizio.
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Per passare dalla teoria alla pratica gli input sarebbero moltissimi, ma cerco di racchiuderli in cinque piccoli gesti che, personalmente, ritengo i principali da cui partire per poi sviluppare modelli vincenti. ❱ Un prodotto artigianale è davvero di qualità se rispetta in modo sostenibile la filiera produttiva. La coerenza ripaga sempre in ambito commerciale. ❱ Coinvolgere i vari soggetti del territorio per sostenere il lavoro reciproco e creare accordi di collaborazione. Per esempio, voi fate la birra e qualcuno a voi vicino un prodotto
alimentare d’eccellenza da abbinare alle birre in degustazione o in vendita, come pacchetto. ❱ Usare sempre un packaging riciclabile e il meno ingombrante possibile. ❱ Inserire sistemi innovativi per il monitoraggio dei consumi e tecniche per l’efficientamento energetico. ❱ Creare un team di lavoro costa fatica, ma valorizza e migliora il vostro lavoro e il vostro livello di produttività. Per le aziende si parla di finanza sostenibile, il cui scopo è indirizzare le risor-
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Il punto di vista di Laura Nolfi Ho chiesto alla produttrice di birra alla canapa Laura Nolfi, del birrificio SeminaMenti, nelle Marche, che cosa pensa del tema degli agribirrifici. Laura non ha solo passione e molta tecnica per la realizzazione delle sue birre, ma in lei sono sempre forti i principi della coerenza e del rispetto. Laura, che cosa ne pensi di questo trend in crescita degli agribirrifici? Sono contenta che ci sia questo trend positivo e che aumentino i microbirrifici e gli agribirrifici, perché questo tipo di azienda fa subito, giustamente, pensare a una realtà legata al territorio. Realizzare un agribirrificio non è facile: produrre almeno il 51% delle materie prime non è per nulla banale; si basa tutto sulla qualità degli ingredienti utilizzati e sulla collaborazione con le varie realtà che si trovano sul territorio.
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Credo davvero che l’agribusiness possa rappresentare il futuro della birra artigianale, soprattutto se vogliamo essere coerenti con questa definizione ed essere realmente artigianali. La mia azienda si è fatta conoscere con le birre alla canapa, ma non è mai stato facile trovare collaborazione, soprattutto perché quello che manca in Italia è la presenza di maltifici e, visto che il malto d’orzo è il principale ingrediente nella birra e la caratterizza, non è una mancanza da poco. Che nesso trovi tra agribusiness e maltificio? Noi aziende agricole possiamo coltivare l’orzo, ma poi non ci sono maltifici e dunque dobbiamo investire su nuovi maltifici, così come è successo per l’olio extravergine di oliva dove si sono creati dei frantoi comunitari per le piccole produzioni, che consento-
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no di poter chiudere il cerchio produttivo nell’ottica della qualità e della sostenibilità. I maltifici sono pochi e spesso è molto complicato, almeno per la mia esperienza personale, trovare un giusto interlocutore. Come si potrebbe fare? Bisognerebbe creare un sistema di piccole realtà locali che si uniscano come distretto e che creino contatti e accordi con le università locali, così da avere tutta la parte della consulenza e dell’innovazione agronomica. Una filiera attiva, riconosciuta e variegata creerebbe poi anche molti posti di lavoro e soprattutto un lavoro che rispetti la natura (nel mio caso la produzione è tutta biologica) e le persone, e offra un prodotto eccezionale come la birra artigianale. È un modello di business di cui abbiamo bisogno ora più che mai.
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Laura Nolfi e, a destra, la birra Fiorile, del birrificio SeminaMenti.
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se finanziarie pubbliche e private verso settori, progetti e iniziative funzionali alla transizione dell’economia verso modelli più inclusivi e a ridotto impatto sull’ambiente. Dunque, i prossimi mesi saranno il momento migliore per investire anche nella nascita di nuove realtà in ambito agribrassicolo, con le caratteristiche indicate nell’Agenda 2030.
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Da un’idea a una nuova struttura agri ed esperienziale ❱ Il primo step per aprire un’azienda agricola è la scelta del terreno; una scelta non facile, perché richiede uno studio incrociato tra carotaggi (prelievi) di terreno per conoscerne la qualità e la composizione, la col-
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locazione e l’esposizione al sole in base alle colture da introdurre. Privilegiare interventi di riqualificazione architettonica, in caso di strutture già presenti, per riconvertirle al loro utilizzo da abitativo (come spesso accade) o produttivo a locale per la ricezione di ospiti e per l’eventuale somministrazione di cibo e bevande. Affidarsi a un consulente del settore per seguire tutto l’iter burocratico e le eventuali agevolazioni possibili da utilizzare su più fronti, dalla riqualificazione del terreno alla ristrutturazione. Credere nel proprio progetto e costruirlo con un sistema di collaborazioni e scambi sul territorio. Non perdere mai il livello di qualità per l’illusione di un maggior gua-
dagno, perché i consumatori sono, giustamente, sempre più attenti a quello che consumano e per cui spendono.
Come definire al meglio una proposta agrifood Il modo migliore è usare ciò che cresce in ogni stagione e in prossimità del luogo in cui ci si trova, poi ci sono spezie ed erbe aromatiche che possono definire un piatto e trasformarlo. La cultura contadina insegna, cosa che non dimentico mai da nipote di un cuoco di cucina tradizionale veneta, di usare tutto quello che il territorio offre e soprattutto di non buttare nulla, ma di trasformare il più possibile! ★
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di Flavio Boero
IL LIEVITO,
QUESTO CONOSCIUTO I
l birraio affronta l’argomento lievito sempre in modo pragmatico, per cui prende in considerazione principalmente le caratteristiche tecniche e spesso si disinteressa degli aspetti storici e scientifici. In fondo è giusto così, per lui è sufficiente sapere quanto basta per ottenere un’ottima birra, perfetta nel suo stile e il resto è di pertinenza di quei topi di laboratorio o di
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biblioteca che studiano come ottenere nuovi ceppi, più vigorosi e performanti. Non spetta al birraio approfondire le caratteristiche peculiari di ogni ceppo. Saranno gli scienziati a studiarne la genetica, mentre i divulgatori si occuperanno delle origini e della storia e i tecnologi dell’eventuale applicabilità alla produzione. Per il birraio, oggi come un tempo, sono sufficienti le istruzioni per l’uso.
Ma la piccola cellula del lievito rappresenta un mondo tutto suo, veramente interessante e sbalorditivo, che travalica la produzione delle bevande fermentate e forse vale la pena di conoscere più intimamente.
Un antico amico dell’uomo I lieviti erano già presenti sul nostro pianeta un miliardo di anni prima che
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i nostri antenati calpestassero la crosta terrestre e saranno ancora presenti dopo che ci saremo estinti. Senza farsi notare troppo ci hanno accompagnato in tutta la nostra storia, in modo così discreto che ci siamo accorti della loro presenza come esseri viventi solo nel 1857, quando Louis Pasteur dimostrò la loro esistenza e vitalità accertando che il lievito è l’agente della fermentazione alcolica. È incredibile che per innumerevoli generazioni sia stato possibile produrre birra, vino, idromele, sidro, pane ecc. senza sapere nulla del lievito. Semplicemente, il lievito non ha bisogno di noi per colonizzare qualsiasi alimento che contiene zuccheri, lo fa da sé senza nessun aiuto, ma nei secoli l’uomo lo ha manipolato senza neanche sapere che cosa stesse facendo. Per prima cosa si è scoperto che alla fine di ogni fermentazione la feccia che si depositava sul fondo del recipiente poteva essere usata per accelerare la fermentazione successiva. Si è dovuti arrivare al 1680 perché l’inventore del microscopio Antonie Van Leeuwenhoek lo osservasse per la prima volta anche se, a quei tempi, non si riteneva possibile l’esistenza di forme di vita così piccole. Quasi cento anni dopo Antoine Lavoisier enunciò la legge di conservazione della massa, che stabiliva come la materia presente nei reagenti conservasse la sua massa nei prodotti delle reazioni chimiche. Lavoisier però era un chimico, anche se si occupava di biologia, e riteneva che le reazioni che avvenivano nelle fermentazioni fossero fenomeni chimici; ancora resisteva l’idea che i depositi che si formavano alla fine della fermentazione non fossero di origine biologica, ma chimica. Oggi ci meravigliamo di come fosse possibile che i birrai riuscissero a manipolare il lievito senza nemmeno conoscerne l’esistenza; in realtà le fermentazioni erano trattate come una scatola nera di cui si conoscevano gli elementi in ingresso, vale a dire mosto e un po’ di deposito ottenuto da una fermentazio-
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ne precedente, e l’elemento in uscita, la birra. Cosa fosse accaduto nel mezzo era un mistero. Per aprire quella scatola nera abbiamo dovuto attendere Pasteur che, alla metà del XIX secolo, dimostrò che gli organismi anche microscopici non sorgono spontaneamente dalla materia inanimata, ma sono generati da altri organismi simili; inoltre il lievito, anche quando viene lisato, è in grado di fermentare. Nel lievito, infatti, come ha dimostrato E. Buchner, sono contenute le sostanze responsabili della fermentazione: gli enzimi, parola derivante dal greco “enzymé” il cui significato è dentro al lievito. Da quel momento in poi è stata una cavalcata iperbolica in cui in poco più di un secolo si è venuti a conoscenza anche
dei particolari più intimi di questo organismo vivente, passando dalle scoperte di Emil Hansen e N.H. Claussen fino ai nostri giorni, con la conoscenza della sua mappa genetica completa.
Come abbiamo imparato ad addomesticare il lievito Andiamo per ordine cercando di capire come abbiamo potuto addomesticare un organismo senza sapere nulla di lui, neanche della sua esistenza. I birrai avevano imparato dalle loro esperienze che i depositi ottenuti dalla fermentazione potevano essere utilizzati come acceleranti nelle produzioni successive. La temperatura aveva un’influenza importante: se ne accorsero i tedeschi e i cechi che, abbassando sempre
ANTONIE VAN LEEUWENHOEK IL PADRE DELLA MICROBIOLOGIA
Lo scienziato olandese Antonie Van Leeuwenhoek, inventore del microscopio.
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di più le temperature di fermentazione e introducendo la lagerizzazione, andavano sempre più spesso a raccogliere il lievito sul fondo. Se ne accorsero anche gli inglesi che, mantenendo più alte le temperature di fermentazione, capirono che il lievito migliore si poteva raccogliere quando ancora galleggiava in superficie. Senza saperlo queste abitudini portarono alla separazione dei ceppi che chiamiamo di alta fermentazione da quelli di che oggi definiamo di bassa fermentazione. Le conoscenze odierne ci permettono di sapere che cosa è accaduto. In Germania l’introduzione delle basse temperature e la raccolta operata dal fondo delle vasche di fermentazione hanno permesso di selezionare geneticamente solo i ceppi che potevano resistere a temperature più basse, limitando lo sviluppo di quelli che amavano un clima più tiepido. Viceversa nel Regno Unito e in Belgio si raccoglieva il lievito scremandolo dalla superficie prima che si depositasse. Oggi sappiamo che
tutto ciò è legato a proprietà specifiche dei ceppi di lievito di alta fermentazione che sono stati classificati dagli scienziati come Saccharomyces Cerevisiae. Osservando questi lieviti al microscopio durante la propagazione per gemmazione, possiamo vedere che la cellula figlia rimane legata alla cellula madre e a sua volta verrà legata anche la successiva cellula figlia e così via, dando luogo a lunghe catene di cellule ramificate. Cosa che non avviene con le cellule dei lieviti di bassa fermentazione, dove la cellula figlia si stacca quasi subito dalla cellula madre. Durante la fermentazione lo sviluppo di anidride carbonica provoca un effetto kite-surf, che trasporta quegli ammassi di cellule in superficie. Quando si esaurisce la spinta dell’anidride carbonica il lievito si deposita, ma se la raccolta avviene in superficie, prima che i lieviti scendano sul fondo, si ottiene una discreta separazione tra le due tipologie. È curioso apprendere che forse questo processo di domesticazione sia avve-
Il professor Emil Hansel in un francobollo commemorativo realizzato per il centenario della fondazione della birreria Carlsberg.
nuto senza che il birraio neanche si rendesse conto della manipolazione che stava operando.
Lievito ad alta e a bassa fermentazione
Propagazione per gemmazione delle cellule di lievito.
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Con il tempo è stato necessario classificare con termini appropriati le due tipologie di lievito. Con Saccharomyces Cerevisiae si identificava infatti il lievito di alta fermentazione, mentre per quello di bassa fermentazione bisogna aspettare il 1882, quando Emil Hansen, il microbiologo dei Laboratori Carlsberg, mise a punto un metodo per isolare un ceppo di lievito partendo da una sola cellula. Il metodo prevedeva di operare per diluizioni successive. Il ceppo che Hansen aveva ottenuto era un ceppo puro di bassa fermentazione. Fino a quel momento i birrai, non essendo in grado di separare i vari ceppi, fermentavano le loro birre con miscele di ceppi diversi, spesso contaminate da lieviti selvatici. Hansen chiamò il primo ceppo isolato Unterhefe No. 1,
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in seguito denominato Saccharomyces Carlsbergensis. Il nuovo ceppo era in grado di fornire birre lager più stabili migliorando notevolmente la qualità di un prodotto che, dopo appena quaranta anni dalla produzione delle prime Helles e dalle prime Pils, stava perdendo le sue migliori caratteristiche a causa delle contaminazioni microbiologiche e delle mutazioni genetiche. Jakob Jakobsen, il proprietario di Carlsberg, non impose alcun brevetto a questa ricerca, ritenendo che il miglioramento della qualità della birra fosse un bene che doveva appartenere a tutto il mondo birrario. Forse, come dicono i maligni, voleva ripagare i colleghi tedeschi e in particolare l’amico Gabriel Sedlmayr, a cui aveva sottratto, come la leggenda narra, il primo lievito di bassa fermentazione, nascondendolo nel suo cappello a cilindro. Visto il buon rapporto di amicizia molto probabilmente il lievito gli era stato regalato dallo stesso Sedlmayr, però la narrazione della
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fuga con il lievito nascosto sotto il cappello risulta più romantica.
La tassonomia La tassonomia non è una legge della natura, ma un sistema inventato dagli scienziati per ordinare e comprendere meglio l’oggetto dei loro studi. Così ogni nuova scoperta sconvolge completamente gli schemi creati in precedenza. L’ordine naturale degli esseri viventi segue l’evoluzione della specie e si apre contemporaneamente a innumerevoli vie che la mente umana non è in grado di seguire contemporaneamente; da qui l’esigenza di creare schemi che consentano di catalogare le nuove scoperte come appunto fa la tassonomia. Quando andavamo a scuola ci spiegavano la separazione del regno animale dal regno vegetale: i lieviti erano considerati dei funghi, ma erano assegnati al regno vegetale. Solo di recente per i funghi è stato creato un regno a parte. La parete cellulare dei funghi, lievi-
ti compresi, è formata da chitina, una sostanza presente anche negli insetti, per esempio nell’esoscheletro dei coleotteri; per distinguerla dalla chitina del regno animale, quella dei funghi è chiamata micosina. I lieviti respirano e fermentano. Ma non hanno clorofilla e non possono sintetizzare gli zuccheri come fanno le piante
La cellula del lievito Per capire meglio il funzionamento di una cellula di lievito dobbiamo entrarci dentro per sapere come e di che cosa è fatta. Prendiamo un uovo. Non c’entra nulla con il lievito, ma per forma e struttura è la rappresentazione macroscopica degli elementi principali di una cellula. All’esterno abbiamo un guscio fragile di materiale calcareo; se scendiamo alle dimensioni della cellula di lievito dobbiamo rimpicciolire il nostro uovo 100 000 volte per passare dalle dimensioni dei centimetri a quelle dei micron. Nel
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Lievito in una capsula di Petri.
lievito troviamo una parete dura come quella del guscio d’uovo, ma molto più resistente ed elastica perché formata da chitina. Proseguendo verso l’interno dell’uovo troviamo la cuticola, una membrana molto più elastica del guscio; nella cellula di lievito questa membrana diventa particolarmente elastica in fase di gemmazione. Nella cellula di lievito parete e membrana hanno la funzione di filtrare tutto ciò che può entrare o uscire dalla cellula, esercitando anche una funzione protettiva. All’interno della cuticola dell’uovo troviamo l’albume, che noi paragoneremo al citoplasma della cellula di lievito. Entrambi, albume e citoplasma, sono composti in gran parte da acqua, ma dobbiamo considerare le dimensioni. Infatti, le dimensioni microscopiche della cellula di lievito non permettono alle molecole di acqua di muoversi liberamente come accade alle nostre grandezze. Le molecole d’acqua rimangono imprigionate come nei cristalli solidi (le dinamiche che accadono lì dentro sono state svelate solo in piccola parte, c’è ancora molto da scoprire…).
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In questo piccolo mare immobile navigano i mitocondri, che si pensa siano i residui di batteri fagocitati dai lieviti in tempi remotissimi. I mitocondri conservano un patrimonio genetico fondamentale per la creazione di proteine e per il risparmio energetico; inoltre,
nei mitocondri avviene la respirazione, una funzione esclusiva ad appannaggio dei soli organismi superiori. Le cellule che posseggono questa facoltà sono chiamate eucariote. Il termine eucariote è una parola che deriva dal greco e significa provviste di vero nucleo. Il nucleo è situato al centro della cellula, esattamente come il tuorlo lo è nell’uovo. Gli organismi superiori, come i lieviti, le piante e gli animali uomo compreso, hanno organizzato la cellula in modo che tutti i cromosomi, eccetto quelli mitocondriali, siano presenti in un unico sito, il nucleo appunto. Nel viaggio che abbiamo intrapreso dalla parete cellulare al citoplasma incontriamo tanti organelli con funzioni importanti e interessanti come l’apparato del Golgi, i lisosomi, il reticolo endoplasmatico, i vacuoli dove si svolgono tutte le operazioni per rendere disponibili le proteine sintetizzate dal lievito stesso. Nel nucleo delle cellule il DNA è organizzato in sedici coppie di cromosomi e questo è il caso delle cellule diploidi; in
S. Cerevisiae e S. Carlsbergensis: quanto sono differenti a livello genetico? La genetica ha svelato molti misteri, ma non ci ha ancora detto tutto. Hansen, che era il pupillo di Pasteur, era convinto di aver isolato una nuova specie. In realtà Max Rees nel 1870 aveva già dato un nome ai lieviti di bassa fermentazione e aveva definito quella che credeva una nuova specie S. Pastorianus. Solo nel secolo scorso si è arrivati alla conclusione che il S. Pastorianus o Carlsbergensis che dir si voglia non erano affatto una nuova specie, ma erano ibridi tra S. Cerevisiae e altri lieviti di specie
diversa come il S. Uvarum e i suoi ibridi, per esempio il S. Bayanus. A mano a mano che la genetica permetteva di approfondire gli studi sul genoma del lievito, cresceva la confusione sulla tassonomia. Un lievito criofilo scoperto in Patagonia molto simile all’ibrido S. Bayanus, ma di pura specie, è salito agli onori delle cronache con il nome di Saccharomyces Eubayanus. Le ultime ipotesi tendono a sostenere la tesi che i lieviti di bassa fermentazione, compreso il S. Bayanus, siano ibridi di questo nuovo lievito.
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Schema semplificato della struttura cellulare del lievito
alcuni casi il lievito si presenta in sedici cromosomi formati da un’unica catena di DNA e questo è il caso delle cellule aploidi. Se paragoniamo il corredo cromosomico del lievito all’uomo o ai batteri scopriamo che le cellule umane sono
Rappresentazione tridimensionale di una cellula di lievito.
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generalmente diploidi e che le coppie di cromosomi sono 23. I batteri, invece, presentano un unico cromosoma neanche organizzato in un nucleo. Inoltre, i batteri sono anche senza mitocondri. Così ci rendiamo conto che il lievito è molto più vicino a noi nella scala evolutiva che non a microrganismi più semplici come i batteri. Quando il genoma del lievito e quello umano sono stati completamente svelati ci siamo accorti di avere molto in comune: più del 30 per cento dei geni del lievito fa parte anche del nostro patrimonio genetico. Tanto che l’Area Science Park di Padriciano (TS) ha scelto il S. Cerevisiae tra gli esseri viventi da inviare nello spazio, per studiare gli effetti di una prolungata permanenza fuori dall’ambito terrestre sui geni che il lievito condivide con gli umani. Un altro punto che ci accomuna in parte al lievito è quanto avviene nei mitocondri con la respirazione. Sia nel lievito sia
nell’uomo il metabolismo degli zuccheri porta alla formazione di acqua, anidride carbonica ed energia. Questo succede solo se nelle cellule entra ossigeno, ma nell’uomo, in assenza di ossigeno, il metabolismo si ferma ad acido lattico, mentre nel lievito produce alcol. Però i lieviti ci riservano molte sorprese, per esempio possono formare degli ibridi con tre o più catene di DNA: è il caso dei lieviti triploidi, tetraploidi o più in generale poliploidi. La capacità di formare ibridi con la poliploidia è il principio che ha dato vita alla bassa fermentazione. La prossima volta prenderemo in considerazione la riproduzione del lievito, la sua capacità di formare degli ibridi e come si sono evolute le due grandi famiglie di lieviti di bassa fermentazione, il tipo I/Saaz-type, a cui appartiene il primo ceppo di lievito S. Carlsbergensis Unterhefe No. 1, e il tipo II/Frohberg-type, come il ceppo Weihenstephan Strain WS34/70. Continuate a seguirci!★
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di Margherita Rodolfi
NON SI BUTTA VIA NULLA! Nuova vita ai sottoprodotti di lavorazione della birra La filiera brassicola produce sottoprodotti? Dopo essere entrati in punta di piedi nel mondo della birra attraverso la ricerca sul luppolo con il Prof. Tommaso Ganino dell’Università di Parma, la deformazione professionale da tecnologi alimentari ha portato me altri due ricercatori, Mariella Paciulli e Giovanni Sogari, a guardare oltre il luppolo e a osservare da vicino la produzione della birra e tutto quello che ci gira intorno.
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In un momento storico nel quale il riciclo degli scarti è diventato quasi un obbligo morale e materiale, anche il mondo brassicolo può dare il suo contributo. Il settore, infatti, produce grandi quantità di trebbie e di luppolo esausto. Questo scarto misto in inglese prende il nome di Brewers Spent Grain (BSG). Nello specifico, la produzione media annua mondiale di BSG è stimata intorno ai 39 milioni di tonnellate, con circa 3,4 milioni di tonnellate prodotti
nell’Unione Europea, di cui 2 milioni di tonnellate solo in Germania. In Italia, la produzione di BSG si aggira intorno alle 188.000 tonnellate (Assobirra, 2015). Va fatta però una premessa al concetto di rifiuto, scarto o sottoprodotto. A tale proposito, ci viene in aiuto Federalimentare che definisce sottoprodotto il prodotto dell’impresa che, pur non costituendo l’oggetto dell’attività principale, scaturisce in via continuativa dal processo industriale ed è destinato a un ul-
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teriore impiego o al consumo. Il Decreto legislativo 205 del 3 dicembre 2010 spiega più chiaramente il concetto stabilendo la definizione generale di rifiuto come “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi”. Lo stesso Decreto definisce invece il sottoprodotto come: “Una sostanza od oggetto derivante da un processo di produzione il cui scopo primario non è la produzione di tale articolo; può non essere considerato rifiuto, bensì sottoprodotto, soltanto se sono soddisfatte le seguenti condizioni: a. È certo che la sostanza o l’oggetto sarà ulteriormente utilizzata/o; b. La sostanza o l’oggetto può essere utilizzata/o direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale; c. La sostanza o l’oggetto è prodotta/o come parte integrante di un processo di produzione; d. L’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’am-
biente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana”. Quindi, assodato che le trebbie esauste non recano danno alla salute umana se trattate nei giusti modi e tempi, possia-
mo tranquillamente definirle sottoprodotti, degne quindi di un nuovo ciclo di vita e in grado di entrare pienamente in quel concetto di economia circolare che è sempre più oggetto di interesse, non solo in Italia, ma anche nel resto del mondo.
I BSG possono diventare un ingrediente nel settore food? Le trebbie (vedi box) hanno tutte le carte in regola per tornare nella produzione di alimenti come ingrediente dall’alto valore nutrizionale. Certo, qualche pecca ce l’hanno: l’alto contenuto di fibre non le rende facilmente utilizzabili da sole, ma bisogna studiare il modo per renderle tecnologicamente fruibili per la produzione di cibi. In questo caso l’esercizio scientifico, con i colleghi tecnologi ed economisti, è stato quello di trovare una valida soluzione per consentirne l’utilizzo. Abbiamo pensato di produrre un prototipo di un alimento molto consumato dai giovani: una barretta energetica. Comoda da portare con sé e soprattutto una merenda che dà l’idea di essere sana. Così abbiamo iniziato con le prove di realizzazione, scontrandoci
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però con la fibrosità delle trebbie che, nelle prime prove di assaggio, ci ha fatto sentire tutti un po’ ruminanti. Sono stati fatti diversi passaggi per ottenere un ingrediente ideale, tra essiccazioni, triturazioni, scelta dei più disparati ingredienti per ottenere un buon impasto e un colore attraente e mai repulsivo. Sono state inizialmente sperimentate varie soluzioni contenenti diverse quantità di trebbie; la determinazione della giusta quantità di sottoprodotto è stata il passo più complicato per ottenere un prodotto alimentare di buon gradimento. Durante la sperimentazione è emerso chiaramente come, all’aumentare della quantità di trebbie, diminuiscano la fratturabilità e la durezza nel tempo. Questo comportamento può essere proprio dovuto al contenuto in fibra, che rende la barretta più flessibile e la porta quindi a fratturarsi con meno facilità rispetto a un campione di controllo ottenuto senza l’aggiunta di Spent Grain. La vincitrice è stata una barretta dolce, contenente il 12% di Spent Grain, con l’aggiunta di riso soffiato, cioccolato bianco e frutta secca. Da questa esperienza di lavoro sono nati un progetto dal nome BREWREUSE e un articolo scientifico pubblicato su una rivista internazionale (https://onlinelibrary.wiley.com/doi/ full/10.1111/1750-3841.15601). Nello studio pubblicato, in particolare, sono state valutate alcune caratteristiche fisiche della barretta per determinare la propensione di acquisto da parte del consumatore. Inoltre, è stato fatto un test sensoriale sul gradimento della barretta di nostra formulazione confrontata con una barretta commerciale, privata della marca. Il test è stato condotto su 173 persone, di entrambi i sessi, di età compresa tra i 20 e i 25 anni, prive di allergie o intolleranze agli ingredienti presenti nella barretta. L’aggiunta di Spent Grain, o trebbie esauste che dir si voglia, ha portato all’ottenimento di un prodotto più morbido rispetto al controllo commerciale
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e a una minore croccantezza per l’alto contenuto in fibra. Inoltre, visto che anche l’occhio vuole la sua parte, è stato analizzato il colore attraverso uno strumento che determina i componenti colorati, assegnando valori specifici per diversi parametri misurati; nel nostro caso, anche il colore è risultato influenzato dall’aggiunta dell’ingrediente birrario, mostrando una maggiore presen-
za di rosso e giallo rispetto al controllo, ma una minore luminosità. Dalla prova di assaggio sui consumatori, invece, abbiamo avuto successo a metà… La nostra barretta, per adesso solo un prototipo, ha convinto tantissimo la tirocinante che in quel momento si è occupata della sua realizzazione, dandoci molta soddisfazione e un po’ di lavoro in più per sopperire alle per-
Che cosa troviamo nei Brewers Spent Grain? I Brewers Spent Grain corrispondono a circa l’85% del totale degli scarti prodotti da un birrificio e al momento vengono utilizzati per il consumo animale o come ammendante per il terreno. Ma c’è un bellissimo ma… questi BSG sono in realtà un sottoprodotto molto interessante dal punto di vista nutrizionale! Basti pensare che contengono, oltre a una grande quantità di fibra, almeno il 20 per cento di proteine di cui il 30 per cento sono amminoacidi essenziali, cioè quei mattoncini indispensabili al funzionamento del nostro corpo che però non ci autoproduciamo e che quindi siamo “costretti” a introdurre con la dieta. Inoltre, contengono polifenoli, i famosi antiossidanti che, come il nero nella moda, stanno bene con tutto, vitamine e minerali. Questi sottoprodotti hanno anche un basso indice glicemico, visto che gli zuccheri solubili presenti sono stati estratti durante la birrificazione. Il basso indice glicemico è una caratteristica di non poco conto dato che il diabete è uno dei mali del nostro secolo e il consumo di cibi altamente glicemizzanti è correlato con la comparsa di obesità, diabete e problemi cardiovascolari. Analizzando la frazione polifenolica, troviamo in particolar modo una famiglia di composti con un
nome piuttosto astruso ma dalle innumerevoli qualità, gli acidi idrossicinnamici; di questi, le trebbie derivanti dalla birrificazione sono piuttosto ricche, in particolar modo di acido ferulico (con potere antiossidante, antinfiammatorio e conservante) e acido cumarico (antiossidante). Tutte queste sostanze sono coinvolte nei meccanismi di prevenzione delle malattie e invecchiamento cellulare. Tra le vitamine, troviamo la vitamina E (o tocoferolo), antiossidante e neuroprotettiva (e chi non ne ha bisogno?) e diverse vitamine del gruppo B (biotina, colina, acido folico, niacina, riboflavina e tiamina) coinvolte in varie funzioni del nostro organismo. Tra i minerali, invece, si annoverano il calcio, alleato delle ossa, fosforo, magnesio, sodio e potassio, importanti per un corretto equilibrio salino e per il funzionamento muscolare, e ferro, coinvolto nella formazione dell’emoglobina; questi sono tutti elementi importantissimi per la nostra salute. I BSG, inoltre, hanno un basso contenuto lipidico, quindi pochi grassi, mentre tra le fibre dobbiamo menzionare la presenza di arabinoxilani e β-glucani, i quali, tra i tanti effetti positivi, hanno anche un’importante azione prebiotica.
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MATERIE PRIME
dite! Ogni mattina, con grande senso del dovere e abnegazione, ne doveva assaggiare diverse per testarne la qualità... anche questo è stato un successo, perché la tirocinante in questione si è appassionata all’argomento e si è sentita parte integrante del progetto.
Il giudizio degli esperti: gli studenti mangiatori di snack e la loro… coscienza Per poter valutare il prototipo è stato necessario convocare dei panelisti esperti: gli studenti universitari. Chi è
A sinistra, le barrette con Spent Grain realizzate da UNIPR nella versione finale; a destra, le barrette in corso di preparazione, ancora in teglia dopo il taglio.
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più addestrato di uno studente universitario che ogni giorno studia e valuta tutti i prodotti contenuti nelle macchinette erogatrici di snack? Ebbene, il prototipo non è riuscito a convincerli completamente. Dalle risposte date al questionario di valutazione del prodotto, infatti, si è osservato come sia l’aspetto più “rustico”, sia il colore e la croccantezza delle barrette prototipo non abbiano vinto il confronto con la barretta commerciale e come anche l’odore non sia stato gradito. Il sapore è risultato invece piuttosto apprezzato dalla maggior parte dei partecipanti al test. Nonostante questo, dal questionario somministrato, i nostri panelisti hanno mostrato di essere ipoteticamente disposti a pagare ben 1,01 € a barretta, contro 1,04 € per la barretta commerciale, come per dire: non mi convince pienamente, ma la comprerei. Abbiamo poi constatato che nello spirito di
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questi ragazzi vi è una buona coscienza civica e ambientale e che, una volta informati del fatto che le barrette erano realizzate con sottoprodotti di lavorazione della birra, il loro giudizio sul prototipo non è peggiorato. Anzi, l’informazione è stata spesso apprezzata, portando a un’ipotetica maggiore disponibilità a spendere per comprare quel prodotto. I ragazzi, inoltre, si sono dimostrati molto interessati al contenuto in vitamine e fibre, segno di una buona cultura ed educazione alimentare.
Concludendo Come ricercatori, tecnologi e curiosi delle materie prime, ci siamo applicati per dare una nuova vita a un sottoprodotto degno di rientrare nel ciclo alimentare. Ci sono state alcune criticità legate alle caratteristiche tecnologiche del sottoprodotto e del prodotto
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ottenuto, che però si possono risolvere abbastanza agevolmente. Siamo consci che la barretta possa essere ancora migliorata, ma il nostro è stato un esercizio per dimostrare che i BSG non sono un problema, ma rappresentano anzi un’opportunità per l’industria alimentare ed è possibile sviluppare nuove idee per la realizzazione di prodotti sostenibili. Questa non è solo immaginazione, ma è una realtà già esistente negli USA; “ReGrain” è infatti una società che produce barrette e altri prodotti alimentari ottenuti dall’utilizzo di trebbie; distribuisce in tutto il mondo e nella sua produzione troviamo anche snack croccanti estrusi, tipo patatine per intenderci, ottenuti da un particolare preparato a base di trebbie. Vendono addirittura proprio il preparato a base di trebbie, con cui poi gli acquirenti possono prodursi
pizze, focacce e tanti altri prodotti da panificazione. Insomma, gli Spent Grain sono un sottoprodotto ricco di opportunità. E poi, chi non prenderebbe una buona birra artigianale accompagnata da un panino ottenuto con l’aggiunta di trebbie, oppure focacce, grissini e cracker alle trebbie? Le idee non mancano e qualcuno in Italia già le sta realizzando con successo: il Pub 19.28 a Noceto (PR) produce grissini, cracker, ma anche un crumble dolce alle mandorle, parte fondamentale della loro cheesecake, utilizzando negli ingredienti le trebbie derivanti dalla birrificazione; si possono citare ancora il Piccolo Birrificio Clandestino a Livorno e la tap room Terminal 1 del Birrificio Brewfist di Codogno con le loro focacce alle trebbie. Non ci resta che aspettare e vedere cosa ci riserva il futuro, intanto... buon riciclo a tutti! ★
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STILI BIRRARI
di Daniele Cogliati
A QUALCUNO PIACE BIANCA Breve elogio della birra Weiss
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e c’è uno stile che viene costantemente ignorato, quando va bene, se non addirittura bistrattato – soprattutto se chiedete a qualche vostro amico esperto – ebbene questo è proprio lo stile Weissbier. Non ho mai capito bene il perché di questo simpatico ostracismo, eppure, se provo a fare mente locale e penso ai locali specializzati o ai beershop che frequento, fatico a trovarne uno che ospiti con costanza
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una Weiss alla spina o tra le etichette in vendita. Questo a parer mio è un grande peccato, perché un prodotto del genere potrebbe realmente essere una gateway beer per molte persone, in grado di farle avvicinare a un consumo regolare di birre diverse rispetto alla proposta standard della grande industria contemporanea. Una Weiss ha infatti due caratteristiche che, potenzialmente, potrebbero es-
sere attrattive anche per chi non è abituato a bere birre molto caratterizzate organoletticamente o non è avvezzo a consumare birra in generale: mancanza di amaro e gradazione alcolica mediobassa. Due tormentoni tra i neofiti e gli estranei al mondo della birra sono infatti il non mi piace perché è amara e il non la bevo perché è troppo forte. È chiaro che si tratta di generalizzazioni, ma forse varrebbe la pena di rifletterci
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un attimo. Certo, la Weiss in questione deve essere eccellente e non bisogna fermarsi alle referenze da battaglia che possiamo incontrare sugli scaffali della grande distribuzione. E poi bisogna considerare quel chiodo di garofano un po’ invadente e quella banana matura così importante che non a tutti piacciono e, anzi, infastidiscono più d’uno. Ma adesso facciamo un passo indietro.
Partiamo dalle basi Una Weissbier è una birra tedesca (più precisamente bavarese) ad alta fermentazione, con un profilo aromatico fortemente caratterizzato dal ceppo di lievito impiegato nella fermentazione e dall’utilizzo del frumento maltato. Sono proprio questi due ingredienti, uniti a un particolare processo produttivo, a conferire la tipica torbidità al prodotto finito. Proseguiamo con i nomi. Weiß in tedesco significa bianco: Weißbier (o Weissbier o anche Weiss) andrebbe quindi tradotto come birra bianca. Il colore non è da intendersi in senso letterale, poiché normalmente le Weiss sono dorate o ambrate, ma va pensato in opposizione al genere di birra più diffuso nei secoli passati in Baviera: Braunbier, birra marrone. Una Weiss viene spesso denominata Weizenbier (Weizen vuol dire frumento): il frumento maltato costituisce per l’appunto almeno il 50% del grist di cereali. Hefe in lingua tedesca è il lievito, altro elemento principe nelle Weiss: HefeWeissbier (o Hefeweizen) sarà quindi un altro modo di definire una Weissbier con lievito in sospensione al momento della mescita, quindi velata/torbida alla vista. Se incontriamo invece una Kristallweizen aspettiamoci una birra filtrata, limpida, cristallina, in quanto tutto il lievito e ogni altro elemento che può dare torbidità (in particolare proteine complesse) è stato rimosso prima del confezionamento. Bernsteinfarbenes Weissbier significa Weiss ambrata, mentre dunkles Weissbier significa Weiss scura: dei begli ossimori! Una Weiss a bassa gradazione
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alcolica è chiamata leichtes Weissbier; una Weiss particolarmente alcolica viene indicata come Weizenbock, cioè una Weizenbier prodotta a partire da un grado Plato tipico di una Bockbier (>16 °P). Esistono anche rare versioni di Weiss crioconcentrate (parte dell’acqua viene eliminata tramite congelamento parziale), che sono denominate Weizeneisbock.
Quali sono, quindi, le tre caratteristiche salienti che definiscono una Weissbier? Prima di tutto il profilo aromatico così particolare, dato dal ceppo di Saccharomyces cerevisiae – sarebbe meglio dire i ceppi, perché non ne esiste soltanto uno al mondo – tipicamente utilizzato, che durante la fermentazione sprigiona note fenoliche di chiodo di garofano, ma anche noce moscata e vaniglia ed esteri fruttati, in primis banana matura. In secondo luogo, una schiuma abbondantissima, che richiede l’apposito Weissbierglas per contenerla, unita a una carbonazione elevata e spesso effervescente e a un corpo esile o tutt’al più medio, che rendono la bevuta facile e poco impegnativa. In terzo luogo, l’assenza pressoché totale di amaro e aromi derivati dal luppolo, che consente ai malti di sbucare sotto la coltre lievitosa e manifestarsi come farina, cracker, panificato bianco nelle Weiss chiare, pane biscottato e crosta di pane nelle ambrate, biscotti, crosta di pane tostata, frutta secca ed essiccata e cioccolato nelle scure.
Veniamo agli stili Ho usato il plurale appositamente, perché il primo peccato di ingenuità che possiamo commettere quando parliamo di Weiss è non considerare che in realtà ci troviamo di fronte non a una singola tipologia, ma a una famiglia di stili abbastanza ramificata e complessa. Il BJCP (Beer Judge Certification Program) è abbastanza sbrigativo e identifica solamente Weissbier, dunkles Weissbier e Weizenbock. Le linee guida della Brewers
Wessbier chiara e scura.
Association sono invece particolareggiate e classificano tutte le varietà che abbiamo visto in precedenza con l’aggiunta delle Weiss affumicate alla maniera di Bamberga: South German-Style Hefeweizen, South German-Style Kristal Weizen, German-Style Leichtes Weizen, South German-Style Bernsteinfarbenes Weizen, South German-Style Dunkel Weizen, South German-Style Weizenbock, Bamberg-Style Weiss Rauchbier. L’importante concorso di matrice teutonica European Beer Star ricalca l’impostazione della Brewers Association, con l’interessante aggiunta delle New-Style Hefeweizen (nelle quali è ammesso l’impiego e la messa in evidenza di qualsiasi varietà di luppolo – anche in dry hopping): 48 South German-Style Leichtes Weizen, 49 South German-Style Hefeweizen Hell, 50 South German-Style Hefeweizen Bernsteinfarben, 51 South German-Style Hefeweizen Dunkel, 52 South German-Style Kristallweizen, 53 South German-Style Weizenbock Hell, 54 South German-Style Weizenbock Dunkel, 55 New-Style Hefeweizen, 56 Smoke beer (qui possono essere iscritte le Weiss affumicate). Riassumendo, possiamo classificare le Weiss in questo modo:
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STILE
COLORE
German-Style Leichtes Weizen South German-Style Leichtes Weizen
Paglierino/dorato/ambrato Molto basso/basso chiaro
Una Weiss in miniatura, corpo esile, profilo aromatico canonico ma di minore intensità
Weissbier South German-Style Hefeweizen South German-Style Hefeweizen Hell
Paglierino/dorato
Moderato
La Weiss “normale” che tutti abbiamo in mente. Opalescente, schiuma abbondante, chiodo di garofano e banana in evidenza
South German-Style Kristal Weizen South German-Style Kristallweizen
Paglierino/dorato
Moderato
Una Weiss filtrata, cristallina, per il resto simile alla versione “normale”
South German-Style Bernsteinfarbenes Weizen South German-Style Hefeweizen Bernsteinfarben
Ambrato
Moderato
Weiss ambrata con note di crosta di pane/biscotto che si affiancano a esteri e fenoli. A volte ha un nome che contiene il prefisso “Ur-” (cioè “originario”)
Dunkles Weissbier South German-Style Dunkel Weizen South German-Style Hefeweizen Dunkel
Ambrato intenso/ramato/ bruno/marrone
Moderato
Malto d’orzo e di frumento conferiscono sentori leggermente tostati, che variano dalla crosta di pane alla frutta secca ed essiccata fino al cioccolato. Esteri e fenoli sempre presenti, ma più in equilibrio con i cereali
South German-Style Dorato/ambrato chiaro Weizenbock Hell
Medio-alto/alto
Weiss ‘pompata’, esteri e fenoli intensi, cereali ben evidenti (note da malto chiaro), alcol percepibile e mai eccessivo
South German-Style Ambrato intenso/bruno/ Weizenbock Dunkel marrone
Medio-alto/alto
Weiss ‘palestrata’, esteri e fenoli intensi, cereali ben evidenti (note da malto scuro), alcol percepibile e mai eccessivo
Weizenbock South German-Style Weizenbock
GRADO ALCOLICO
NOTE
New-Style Hefeweizen
Da dorato a marrone
Da basso ad alto
Una Weiss con luppoli di qualsiasi varietà bene in evidenza, anche utilizzati in dry-hopping
Bamberg-Style Weiss Rauchbier
Da dorato ad ambrato/ bruno
Moderato
Una Weiss con sentori affumicati, sempre in equilibro con esteri e fenoli
La Weissbier oggi Oggi la birra di frumento, dopo un periodo di crisi nei consumi durato fino agli anni Sessanta del secolo scorso, che ne ha minacciato nuovamente l’esistenza, gode di ottima salute e negli anni Novanta è diventata la tipologia più prodotta in Baviera, superando sia Helles sia Pilsner. Se a metà del XX sec. andavano per la maggiore le Weiss filtrate, ai giorni nostri, come abbiamo visto, l’offerta è ampia e variegata. L’ultima novità risale al 2019, quando i tre storici birrifici specializzati nella produzione di birra di frumento Georg Schneider & Sohn, Brauerei Meisel e Privatbrauerei Erdinger Weißbräu Werner Brombach GmbH hanno creato il marchio “Bayerische Edelreifung – zweifach kultiviert”, che indica una Hefe-Weissbier prodotta in modo tradi-
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zionale. Se in etichetta vediamo questo piccolo bollo bianco e blu, sappiamo con certezza che quel prodotto è rifermentato in bottiglia grazie all’aggiunta dello stesso lievito della fermentazione primaria e mosto di birra (Speise), non è pastorizzato e viene lasciato maturare per tre settimane prima di essere commercializzato. Molti produttori pongono l’accento anche sulla fermentazione primaria da svolgersi in vasca aperta, un passaggio produttivo che porterebbe a sviluppare un giusto mix di esteri e fenoli e un profilo organolettico più complesso e aderente alla tradizione.
Il test del bicchiere: i classiconi Moltissimi birrifici bavaresi producono almeno una versione di Weissbier.
Alcuni, inoltre, sono dediti esclusivamente alle birre di frumento. Pochi, infine, sfornano esempi dello stile che sono diventati ormai dei classici. Certo, il rischio di dare dei consigli di bevuta in questo stile è quello di fare una lista da campionato monomarca. Perdonate quindi se c’è uno stesso birrificio che compare più di una volta. D’altronde se non le sanno fare loro le Weiss… !
LEICHTES WEISSBIER Schneider Weisse Leichte Weisse TAP11 (ABV 3,3%)
Una Weiss in miniatura, depotenziata, meno intensa aromaticamente (più evidente il chiodo di garofano e meno la banana), con retrolfatto di cereale e lievito. Corpo esile e carbonazione molto elevata la rendono una bevuta davvero poco impegnativa. Rinfrescante.
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UN UNPO’ PO’DI DISTORIA STORIA Siamo in Baviera, terra d’origine della Weissbier. Il 3 agosto 1548, il duca Wilhelm IV von Wittelsbach (la medesima persona a cui dobbiamo il Reinheitsgebot del 1516) conferì al Landhofmeister della Bassa Baviera, Hans VI von Degenberg, il privilegio esclusivo di brassare e vendere la birra di frumento. Grazie a questo Weissbierregal, la famiglia Degenberg divenne l’unica a poter ricavare un guadagno commercializzando questo tipo di birra così diverso dalla allora più diffusa birra bruna (Braunbier). La cittadina di Schwarzach divenne il centro della produzione di Weissbier, ma i Degenberg erano attivi anche a Zwiesel e a Linden. L’attività fu fin da subito redditizia, tanto da infastidire non poco la casa regnante dei Wittelsbach: il duca Albrecht V nel 1567 mise addirittura al bando la produzione di Weissbier in tutto il ducato di Baviera, sostenendo che essa fosse inutile e dannosa, poiché distraeva troppo grano dai forni dei panificatori. Ovviamente i Degenberg erano scudati dal loro privilegio.
La celebre Hofbräuhaus a Monaco di Baviera.
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Mutatis mutandis, il 14 giugno 1586 Wilhelm V, nipote di Wilhelm IV (sempre quello del Reinheitsgebot), concesse un ulteriore privilegio a Ottheinrich von Schwarzenberg, affinché costui potesse brassare birra di frumento nel suo birrificio in Winzer an der Donau. La situazione mutò solamente nel 1602, quando Hans Sigmund von Degenberg morì senza eredi maschi. Maximilian I, il pronipote di Wilhelm IV (quello di prima…), non perse tempo e revocò immediatamente il Weissbierregal (fece la stessa cosa l’anno seguente con gli Schwarzenberg). La birra di frumento era un business troppo redditizio e la casa regnante aveva assoluta necessità di incamerarne i proventi. I Wittelsbach instaurarono quindi un monopolio sulla sua produzione. Il giro di soldi era così enorme che una fetta non indifferente del bilancio ducale si reggeva proprio sulla vendita della Weissbier: nel XVII sec. una parte delle spese militari sostenute nel corso della Guerra dei trent’anni venne finanziata con denaro proveniente dal commercio della
birra di frumento. Lo stesso Maximilian I promosse l’edificazione di molti birrifici appositamente dedicati alla Weissbier: il più famoso fu sicuramente il nuovo weißes Hofbräuhaus di Monaco di Baviera (sì, è proprio il famoso “HB”), ultimato nel 1607 per produrre birra di frumento sotto la guida prima di Hans Amman e poi di Wolf Peter, già mastro birraio per i Degenberg a Schwarzach. La domanda di Weissbier crebbe costantemente e nuovi birrifici elettorali (Hofbrauhäuser) vennero messi in funzione. Nel 1610 i Wittelsbach permisero ai locandieri di vendere birra di frumento, che però doveva per forza di cose essere acquistata in uno dei birrifici sotto il controllo della casa regnante. Un bell’affare senza dubbio. Come se non bastasse, fin dal 1553 in tutta la Baviera era vietato produrre birra a bassa fermentazione nel periodo più caldo dell’anno, tra la festa di San Giorgio (23 aprile) e quella di San Michele (29 settembre). Questo limite non si applicava alle birre di frumento. Il monopolio ducale andò avanti fino al periodo napoleonico: nel 1798 Karl Theodor von der Pfalz, principe elettore di Baviera e Palatinato, avviò una prima liberalizzazione della produzione di Weissbier e nei primi anni del XIX sec. tutti i birrifici ducali vennero alienati. La domanda di birra di frumento diminuì fortemente e la tipologia sembrò destinata a sparire. Nel 1872 Georg I Schneider negoziò con l’apparato statale dei Wittelsbach la possibilità di produrre Weissbier e rilevò il birrificio in disuso Zum Maderbräu a Monaco. Il mastro birraio bavarese costituì la società Georg Schneider & Sohn insieme al figlio Georg II: da quel momento chiunque poté mettersi a brassare Weiss e la famiglia Schnei-
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der legò indissolubilmente il suo nome alle birre di frumento. A testimonianza dell’importanza della Weissbier nella storia bavarese e tedesca c’è l’evoluzione della normativa birraria, che in un modo o nell’altro ha sempre consentito l’esistenza delle birre di frumento come eccezione alla regola generale. Il Reinheitsgebot del 1516, che limitava gli ingredienti ammessi nella birra ad acqua, malto d’orzo, luppolo e lievito, venne incluso a più riprese nella legislazione bavarese prima e tedesca poi. In particolare,
HEFE-WEISSBIER
KRISTALLWEIZEN
Ayinger Bräuweisse (ABV 5,1%)
Maisel’s Weisse Kristall Weissbier (ABV 5,0%)
Weiss color dorato chiaro, evidentemente velata, schiuma abbondantissima, soffice, persistenza infinita. Aroma elegante con componente fenolica (chiodo di garofano e vaniglia) ben amalgamata e di pari intensità rispetto agli esteri (banana matura, ma anche mela gialla). Sottofondo di pane bianco, tenue. Corpo medio-basso, bolla fine e carbonazione medio-alta. Grande bevibilità. Classica.
Dorata e cristallina, schiuma bianca abbondante e soffice. Aroma tenue ma sfaccettato: esteri (banana) e un debole svolazzo citrico mettono le note speziate e lievitose in secondo piano, insieme al cereale. Corpo esile e carbonazione elevata bilanciano bene il gusto dolce, altrimenti prevalente. Snella.
esso fu incorporato nell’articolo 9 del Vorläufigen Biergesetzes del 1993, laddove si affermava (art. 9, c. 1-2) che la birra a bassa fermentazione dovesse contenere solamente orzo maltato, luppolo, lievito e acqua, mentre per la birra ad alta fermentazione si potevano impiegare anche altri cereali maltati. Questa situazione venne ripresa dal Verordnung zur Durchführung des Vorläufigen Biergesetzes del 2005, che confermò (art. 17, c. 4) la possibilità di impiegare malti differenti dall’orzo nelle birre ad alta fermentazione.
BERNSTEINFARBENES HEFE-WEISSBIER Schneider Weisse Original Weissbier TAP07 (ABV 5,4%)
Weissbier ambrata prodotta secondo la ricetta originale del 1872. In etichetta campeggia il logo “Bayerische Edelreifung”: la TAP07 è rifermentata in bottiglia e non pastorizzata. Molto velata, produce una gran quantità di schiuma eburnea, fine e dalla tenuta eccellente. Aroma elegante con la classica accoppiata chiodo di garofano/banana, che si esprimono con pari intensità (medioelevata), seguiti da vaniglia e pane in cassetta in secondo piano. Imbocco dolce, corpo medio-basso, chiusura che grazie a un lontano sussurro quasi asprigno e alla carbonazione elevata ed elegante risulta agile e piacevole. Retrolfatto quasi biscottato, vanigliato, con pasticceria alla mela e toni di miele. Archetipica.
DUNKLES HEFE-WEISSBIER Gutmann Dunkles Hefeweizen (ABV 5,2%)
Fermentazione della birra in vasca aperta.
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Si presenta di un bel colore tra il rame e il mogano, velata alla vista e con una schiuma abbondante, eburnea. Naso mediamente intenso, con evidenti sentori fenolici (chiodo di garofano, noce
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moscata) seguiti da una bella crosta di pane tostato e dagli esteri fruttati sullo sfondo. In bocca la carbonazione è alta, il corpo medio e il retrolfatto regala bei toni cerealosi di pane tostato, biscotto natalizio speziato, vaniglia e banana caramellata. Gustosa.
HELLES WEIZENBOCK Weihenstephaner Vitus (ABV 7,7%)
La nemesi dell’Aventinus, nonché emblema delle Weizenbock “chiare”. Dorata e quasi torbida, è sormontata da un morbido e candido cappello di schiuma fine, che rimane nel bicchiere molto a lungo. Aroma intenso, fenolico, ma anche ricco di esteri (frutta a pasta gialla e note citriche) e spunti lievitosi. In bocca il dolce è stemperato da una leggera sensazione alcolica e da una carbonazione medioalta. Il retrolfatto rimanda al cereale, alla vaniglia, al pane bianco e alla mela candita. Confortevole.
DUNKLES WEIZENBOCK Schneider Weisse Aventinus TAP06 (ABV 8,2%)
La mamma di tutte le Weizenbock scure (o Weizendoppelbock). Prodotta per la prima volta nel 1907 per volere di Mathilde Schneider, vedova di Georg
III Schneider. Birra dal color rame intenso, riposa sotto una schiuma abbondante, color nocciola, fine, soffice, lungamente persistente. Molto velata. In bocca il corpo è quasi pieno, ma al tempo stesso il sorso, decisamente orientato al dolce, è snellito dall’alcol (intensità medio-bassa, caldo, avvolgente) e dalla carbonazione elevata. Aroma e retrolfatto presentano caratteristiche simili: frutta matura, frutta essiccata, chiodo di garofano, noce moscata, pane biscottato, uvetta sotto spirito, noci, toni che rimandano al toffee e ai biscotti di frolla al cioccolato. Sontuosa.
NEW-STYLE HEFEWEIZEN Schneider Weisse Mein Hopfenweisse TAP05 (ABV 8,2%)
Nata nel 2007 come collaborazione tra Hans-Peter Drexler (Georg Schneider & Sohn) e Garrett Oliver (Brooklyn Brewery), questa Weizendoppelbock chiara, che nel bicchiere sembra avere un aspetto canonico e inoffensivo, al naso esplode armoniosamente in un’intensa amalgama di esteri e note fruttate/agrumate/citriche/erbacee conferite dai luppoli (Hallertauer Tradition, Hallertauer Saphir anche aggiunti a freddo), sostenute da una base di pane e puntellate da un lieve alcol profumato e speziato. Entra dolce sul palato, il corpo è mediopieno e serve nuovamente l’intervento magistrale dell’alcol, della carbonazione (medio-alta) e addirittura di un debole accenno amaro per evitare che il sorso si areni. Retrolfatto complesso: frutta matura, marmellata di frutta, pane in cassetta, leggerissimo toffee, torta di mele. Sinfonica.
BAMBERG-STYLE WEISS RAUCHBIER Spezialbräu Weisse (ABV 5,3%)
Color oro, schiuma abbondante, molto velata. Aroma mediamente intenso che amalgama alla perfezione le note fenoliche del lievito con gli spunti derivanti
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dal malto affumicato. Gli esteri sono invece sottotono in questa Weiss così particolare. In bocca il corpo è esile, la carbonazione fine ed elevata. Scorre veloce sul palato, lasciando un tenue retrolfatto di fumo e pane bianco. Elegante.
Per approfondire Bayerisches Bier: https://www.bayerischesbier.de/bier-wissen/geschichte-desweissbieres/ https://www.bayerisches-bier. de/bier-wissen/weiss-und-weizenbier/ Bayerische Edelreifung: https://www. bayerische-edelreifung.com BJCP: https://dev.bjcp.org/ Brewers Association: https://www.brewersassociation.org/edu/ brewers-association-beer-style-guidelines/ European Beer Star: https://www.europeanbeer-star.com Intervista Georg Schneider & Sohn: https:// www.youtube.com/watch?v=D7MdfDZUySE Stan Hieronymus, Le tue birre di frumento: Edizioni LSWR, 2018. Neufassung des Vorläufigen Biergesetzes: https://www.bgbl.de/xaver/bgbl/start. xav?start=%2F%2F*%5B%40attr_ id%3D%27bgbl193s1399.pdf%27%5D#__ bgbl__%2F%2F*%5B%40attr_ id%3D%27bgbl193s1399. pdf%27%5D__1625542160580 Verordnung zur Durchführung des Vorläufigen Biergesetzes: https://www. gesetze-im-internet.de/bierstdb/__17.html
Eric Warner, German Wheat Beer, Boulder: Brewers Publications, 1998. ★
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Le guide
TECNICHE TRADIZIONALI DI BIRRIFICAZIONE di Lars Marius Garshol
La birra si fa da oltre 5.000 anni, ma ormai da secoli le tecniche produttive si sono progressivamente uniformate, in particolare nel brassaggio commerciale. In alcune zone remote dei Paesi scandinavi e dell’Europa orientale sopravvivono tuttavia pratiche rurali inusuali, tramandate nell’ambito delle locali famiglie contadine, che risultano in aromi e gusti molto lontani dalla birra che abbiamo conosciuto fino a oggi. In questo libro unico al mondo l’autore indaga le materie prime utilizzate e le sfumature tecniche, ma anche antropologiche e storiche, che caratterizzano la produzione del mosto e la fermentazione di queste antiche “birre di fattoria”.
ISBN 9788868959104 Pagine 536 | A colori Prezzo 34,90 euro
seguici su www.edizionilswr.it
edizioniLSWR
HOMEBREWING
di Massimo Faraggi
IL MASHING REITERATO
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l double mashing, o mashing reiterato, o remashing, è una tecnica efficace per produrre birre di alta gradazione, ovvero mosti ad alto contenuto zuccherino, con buona efficienza ed economia di attrezzatura. Escludendo l’uso di estratti e zuccheri o di tecniche di concentrazione per congelamento come nelle eisbock, le strade sono essenzialmente tre: effettuare un mashing e sparging normale, con le usuali quantità̀ di acqua (o ridotte di poco), per poi effettuare una bollitura prolungata, anche di diverse ore; oppure, quella di effettuare uno sparging ridotto o anche inesistente, a vantaggio della praticità̀ ma a scapito dell’efficienza, a causa della grande quantità di zuccheri rimasti nelle trebbie. Una variante interessante anche dal punto di vista storico di questa seconda opzione (parti-gyle) è quella di usare solo il mosto così ottenuto per una birra forte, poi effettuare comunque un risciacquo e destinare il secondo mosto più debole
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e acquoso alla produzione separata di una birra più leggera. La terza opzione è quella del mashing ripetuto. In sintesi la tecnica consiste nel: ❱ impiegare metà dei grani previsti, effettuando un mashing e uno sparging (con le tecniche preferite) con le proporzioni di acqua abituali; ❱ riutilizzare il mosto così ottenuto al posto dell’acqua per il successivo mashing e sparging della seconda metà del malto. In questo modo si otterrà un mosto più concentrato, senza la perdita di efficienza di un metodo no-sparge.
Analisi Una sorta di esperimento mentale ci dimostra che il metodo reiterato, pur non riuscendo probabilmente a conseguire contemporaneamente la stessa concentrazione di un no-sparge e la medesima efficienza di uno sparge classico, riesce a far ottenere un risultato non conseguibile con gli altri due metodi. Per avere un’idea dell’efficienza di una tecnica di sparge, basti considerare che l’efficienza stessa dipende essenzialmente dagli zuccheri lasciati nelle trebbie: per esempio, se si perdono nelle trebbie il 20% degli zuccheri, l’efficienza è dell’80%; poiché la quantità di mosto perso non cambia a parità di trebbie, il risultato è che l’efficienza dipende dalla densità di zuccheri del mosto rimasto nelle trebbie. Per questo esperimento mentale, supponiamo per semplicità di operare in ogni caso con un no-sparge, nel senso di applicare comunque le quantità di acqua previste, ma aggiungendo, subito dopo il mash, tutta l’acqua prevista dallo sparge. Per semplificare, consideriamo il processo come una sem-
plice infusione e diluizione nel mosto degli zuccheri ottenuti dal malto, e di voler produrre 20 litri di birra a una OG (pre-bollitura) di 1100 partendo da 10 kg circa di malto. Esaminiamo le tre situazioni (le cifre sono solo un’approssimazione): ❱ mash/sparge tradizionale: 10 kg di malto impiegando 50 litri totali di acqua; si otterranno circa 40 litri prodotti a OG “bassa” (1050); volendo ottenere una OG “alta” dovrò poi bollire per diverse ore, fino a ridurre i litri a 20 con gradazione raddoppiata (1100); ❱ mash/sparge “ristretto” (in pratica senza aggiunta di acqua dopo il mash): per esempio 10 kg (nota 1) di malto, 30 litri di acqua; si ottengono subito 20 litri a gravità “alta” desiderata (circa 1100); ❱ mash reiterato: primo mash con acqua, con malto e acqua dimezzati rispetto al caso 1), quindi stesse proporzioni (nota 2). 5 kg di malto, 30 litri di acqua usata, 25 litri di mosto ottenuto a gravità bassa; utilizzo questo mosto totalmente per fare il mash degli altri 5 kg (quindi anche in questo con una diluizione standard) ottenendo alla fine i 20 litri di mosto di gradazione alta. Calcoliamo ora gli zuccheri persi nelle trebbie. Nel primo caso tutti i 10 kg di trebbie contengono mosto a gradazione bassa. Nel caso 2) tutte le trebbie sono invece inzuppate di mosto a densità alta, circa doppia, quindi l’efficienza è decisamente minore. Nel caso 3), invece, metà delle trebbie (quelle del primo mash) contengono mosto a bassa gradazione, e solo l’altra metà mosto ad alta gradazione. È quindi evidente che, pur non raggiungendo l’efficienza del metodo 1), essa è
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senz’altro maggiore rispetto al 2), con il vantaggio rispetto all’1) di non avere la necessità di una interminabile bollitura – a spese naturalmente del tempo impiegato per effettuare due mash consecutivi. Oltre a poter rappresentare, come abbiamo visto, un buon compromesso per quanto riguarda l’efficienza, un aspetto forse ancor più interessante di questa tecnica è la possibilità di superare le limitazioni nella capienza del proprio mash tun: tornando al nostro esempio, infatti, se la capacità del nostro tino di ammostamento o di filtro non permette di utilizzare più di 5 o 6 kg di malto, i metodi 1) e 2) non sono possibili! In questa analisi abbiamo considerato solo gli aspetti di semplice diluizione degli zuccheri e risciacquo delle trebbie, dando per scontato che la saccarificazione avvenga allo stesso modo sia che il malto sia infuso in acqua sia in un mosto già zuccherino. In realtà, da una parte si può ipotizzare che il secondo ammostamento possa essere in parte inibito dall’alta gradazione; viceversa, si possono fare considerazioni sugli enzimi (più concentrati nel
CENNI STORICI
Primo ammostamento.
secondo mash, visto che si sommano i residui del primo con quelli del malto impiegato per il secondo) e sul pH, effetti che potrebbero invece addirittura favorire la saccarificazione stessa.
Considerazioni pratiche La tecnica si può adattare a qualsiasi metodo di raccolta (sparge classico,
Di questa tecnica esistono riferimenti in epoche e ambiti diversi. Fra le birre più note, ho trovato cenni in proposito per quanto riguarda la Samichlaus (storica lager fra le più forti in assoluto, circa 14% di alcool), per la quale si utilizzerebbe durante il mashing non acqua, ma mosto preparato da un’infusione precedente. Ma è fra le birre inglesi dei secoli scorsi che troviamo i riferimenti più interessanti. Leggendo, per esempio, alcune ricette storiche nel Practical Brewing di Amsinck (1868), riportate anche nei libri editi da CAMRA relativi a Porter e India Pale Ale, vediamo che in diverse di esse ricorre la tecnica di riutilizzare il debole mosto proveniente dal secondo risciacquo delle trebbie quale liquor, cioè liquido per il mashing di una birra successiva, un concetto che quindi riprende un po’ sia quello del parti-gyle che quello del mashing reiterato. Nel suo interessantissimo Radical Brewing Randy Mosher
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Raccolta del primo mosto.
Secondo ammostamento.
batch sparge...): il concetto base è semplicemente quello di riutilizzare tutto il mosto raccolto per un successivo ciclo mash/sparge con l’altra metà dei grani. Un batch sparge, inoltre, permette varie possibilità e combinazioni, come riutilizzare separatamente i due volumi ottenuti, uno come acqua per il secondo mash e l’altro per il secondo sparge.
riporta ricetta e procedimento della cosiddetta Dobledoble, termine con il quale si denotavano per l’appunto birre prodotte con un doppio mashing, il secondo dei quali utilizzava non acqua bensì il mosto proveniente dal primo mash. A quanto pare la potenza di questa birra era tale da essere ritenuta pericolosa e addirittura vietata dalla legge! Riferimenti alla Doble-doble e al relativo procedimento produttivo del mashing ripetuto sono presenti nel ben documentato e approfondito libro di Martyn Cornell Amber Gold & Black, dove viene proposta anche una distinzione fra le Double prodotte con questa tecnica e le Doble-doble che ne sarebbero una variante ancor più potente, letale e in certi periodi illegale. Altra menzione di rilievo si trova nell’interessante Country House Brewing in England di Pamela Sambrook, che descrive con ampia documentazione storica la produzione birraria privata delle grandi tenute nobiliari di campagna nell’Inghilterra tra la fine del ’500 e l’inizio del ’900.
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Il mashing reiterato prevede alcune accortezze che permettono di ottimizzare il procedimento o di velocizzarlo. ❱ Il primo ammostamento può essere effettuato rapidamente senza neppure arrivare a una perfetta conversione: è solo necessario il discioglimento dell’amido, la cui conversione potrà terminare durante il mashing successivo. ❱ Nella prima fase di ammostamento va omesso il mash out, non solo per velocizzare il processo, ma soprattutto allo scopo di non disattivare gli enzimi, che potrebbero essere utili per il secondo mash. ❱ Il primo sparge non necessita di ricircolo, dato che anche se il mosto non è limpido verrà poi rifiltrato dopo il secondo ammostamento. ❱ La durata del secondo mash dovrà invece essere prolungata, a causa di una saccarificazione che potrebbe essere più lenta.
Volume finale desiderato:
lt. 12,0+
Report: tempi e parametri (N.b. tempi a partire dall’inizio cotta.) 00.00
Inizio riscaldamento lt. 10 di acqua.
00.25
Temp. acqua 72 °C, mash in di 3,6 kg di grani e aggiunta 1,5 cucchiaini di gypsum. Temp. stabilizzata a 67 °C, pH 5,5. Inizio sosta di saccarificazione, temp. 65-67 °C. Inizio riscaldamento acqua per sparge.
01.10
Fine sosta saccarificazione. Test iodio negativo (conversione). Misurati 19,5 Brix. Nonostante quanto riportato più sopra circa il fatto che la sosta poteva essere abbreviata e non fosse necessaria la conversione completa, essa si è prolungata per motivi pratici (per esempio misurazioni). A scopo sperimentale è stata verificata la conversione, pur non essendo necessaria. Aggiunti lt. 4,5 di acqua per arrivare alla quantità ottimale per il primo batch. Misurati 15 Brix dopo la diluizione. Inizio primo batch dello sparge, senza ricircolo.
01.25
Fine primo batch. Aggiunti gli altri 9 lt e inizio secondo batch.
01.45
Fine batch sparge. Ottenuti 19 lt circa a poco più di 11 Brix. Travaso di ca. 10 lt del mosto ottenuto nuovamente in tino di ammostamento. Travaso dei restanti ca. 9 lt. di mosto necessari per sparge nelle pentole predisposte.
02.05
Temp. discesa a 55 °C, inizio riscaldamento per riportare a temp. di saccarificazione.
02.15
Temp. mosto 66 °C, mash in di 3,6 kg di grani e aggiunta di 1 cucchiaino di gypsum. Temp. stabilizzata a 60 °C, pH 5,6. Inizio step di saccarificazione (15 min). Inizio anche riscaldamento mosto da utilizzare per sparge.
02.30
Inizio riscaldamento mosto+grani per successivo step.
02.35
Temp. 66 °C, inizio altra sosta di saccarificazione.
02.50
Misurati 24,8 Brix.
03.05
Misurati 25,6 Brix.
03.20
Misurati 28,5 Brix.
Evaporazione stimata+perdite:
2,5=
03.35
Misurati 28,5 Brix. Test iodio negativo, conversione completata. Inizio riscaldamento verso la temperatura di mash-out.
Volume pre-bollitura:
lt. 14,5+
03.50
Temp. 76 °C, aggiunti lt. 4 di mosto per arrivare alla quantità ottimale per il primo batch.
03.55 Mosto perso nelle trebbie, mash/ sparge n. 2:
lt. 4,5=
A questo punto si è verificata la disavventura più temuta dall’homebrewer: sparge bloccato! Dopo numerosi tentativi di sbloccaggio cercando di agire sul filtro del bazooka o soffiando nel tubo di uscita, mi sono dovuto rassegnare a utilizzare un’attrezzatura di back-up, ovvero il mio vecchio tino filtro “zapap”. Dopo averlo recuperato e lavato, ho dovuto trasferire i grani e il mosto nello stesso. A questo punto ho deciso di passare alla tecnica di fly-sparge…
04.25
Nuovo inizio di ricircolo+fly sparge con attrezzatura di riserva. Pur avendo una certa tendenza a bloccarsi nuovamente, son riuscito a portarlo a termine.
04.55
Fine sparge. Ottenuti 14-14,5 lt a 23,7 Brix. Travaso del mosto nella pentola di bollitura e inizio riscaldamento mosto. Anche se di minor interesse per l’argomento trattato, riporto anche il seguito della cotta.
05.20
Temp. 100 °C, inizio bollitura.
Mosto da ricavare da mash/sparge lt. 19,0+ n. l e da utilizzare nel mash/sparge n. 2: Mosto perso nelle trebbie, mash n. 1: lt. 4,5= Acqua totale necessaria:
lt. 23,5-
05.30
Inserimento luppolo e bollitura 60 min. (Sanitizzazione attrezzatura per fermentazione.)
di cui in mash n. 1:
lt. 10,0=
06.35
Fine bollitura. Inizio raffreddamento, reidratazione lievito secco. Ossigenazione mosto e inseminazione del lievito.
di cui in sparge n. 1:
lt. 13,5
07.25
Ottenuti lt. 11,8 circa. Misurata OG 1109-1110 e 26,4 Brix.
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Impostazione della cotta
Conclusioni
La ricetta scelta per esemplificare il procedimento è quella di una October Beer, storica strong ale inglese. Ricordo che non sono stati previsti zuccheri né estratti aggiunti, con l’obiettivo di pervenire a una gradazione ragguardevole (OG 1110) con solo malto in grani. Non ho effettuato calcoli precisi né ricavato formule per prevedere le gradazioni ottenute in ogni singolo passaggio, limitandomi a prevedere quella finale e a prender nota a posteriori dei parametri in ogni passaggio del processo. Le quantità di acqua da utilizzare sono state stimate nel modo seguente: È stata scelta un’acqua leggermente mineralizzata (100 ppm HCO3) con aggiunta di solfato di calcio (gypsum). La tecnica utilizzata per ciascuno dei mashing è stata quella del batch sparge.
Le quantità ottenute e la gradazione prevista sono state in buona approssimazione in linea con le previsioni. L’efficienza è stata solo leggermente inferiore rispetto a quella ottenibile con birre di gradazione decisamente minore. La saccarificazione nel secondo ammostamento ha richiesto tempi un po’ più lunghi, ma la conversione degli amidi è avvenuta senza problemi e in modo completo, con un grado saccarometrico più che raddoppiato rispetto a quello ottenuto dopo il primo ammostamento. I tempi di preparazione sono risultati piuttosto lunghi. Va però considerata la possibilità di ottimizzare ancora i tempi, in particolare accorciando la durata del primo ammostamento. In conclusione, nella realizzazione di birre forti, all-grain, chiare e poco caramellate, la tecnica dell’ammostamento
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reiterato rappresenta una valida alternativa al parti-gyle ed è insostituibile nel caso si voglia ricavare una quantità adeguata di birra extra-strong e non si sia interessati a ottenere anche una small beer dalla stessa cotta. Considerata l’efficacia della tecnica, è possibile e consigliabile puntare a gradazioni ancora maggiori, per esempio OG di 1130-1140, fatta salva la selezione di un lievito adeguato per portare a conclusione la fermentazione. ★
Note
1. In realtà, in questo caso, visto che a conti fatti l’efficienza risulterà minore, la quantità di grani da impiegare dovrà essere ancora maggiore per ottenere la stessa gradazione. 2. In realtà le proporzioni sono simili ma non identiche, in quanto la quantità da ottenere durante il primo ammostamento è maggiore di quella che si ricaverà dal secondo.
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FOCUS NEW BEERS
A cura del MoBI Tasting Team
MoBI TASTING SESSIONS: Le novità birrarie Birre italiane e straniere, artigianali e (semi)industriali degustate e giudicate dal “MoBI Tasting Team”
L
a pandemia ha colpito duramente, commercialmente e finanziariamente, tutto il settore birrario e in particolare i birrifici. Ma i birrai non possono essere bloccati nel loro impulso creativo: appena ne hanno la possibilità raccolgono la loro personale tavoloz-
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za di “colori” rappresentati da acqua, malto, luppolo e lievito (e molto altro) e accendono la sala cottura per dare vita a nuove invenzioni brassicole. Il MoBI Tasting Team non attendeva altro che riprendere la caccia delle recenti produzioni nazionali e internazionali!
I
membri del MoBI Tasting Team sono rinomati degustatori, giurati a concorsi BJCP, appassionati, talvolta anche birrai. Puoi trovare altre degustazioni e recensioni sul blog del sito MoBI. Inquadra il QRCode e segui il link!
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Mit Musik Alder Beer Co.
Super Verguenza Menaresta
Bad Boys Malcantone Brewery
Stile: Gose
Stile: Imperial IPA
Stile: West Coast Lager
Alc.: 4,6%
Alc.: 9%
Alc.: 5,5%
Formato: lattina 40 cl
Formato: lattina 33 cl
Lotto: 001-21
Lotto: 125C- Scadenza: 10/12/2021
Lotto: 05/21 L95 - Scadenza: 02/2022
Acquistata da: produttore
Acquistata da: birrificio
Acquistata da: Beershop
L’esplorazione del mondo teutonico da parte di Alder esce dal binario delle basse fermentazioni classiche per approdare al mondo più alternativo e, tra le ultimissime creazioni, ci offre questa Gose molto fedele allo stile classico. Birra di colore giallo paglierino con una schiuma inizialmente abbondante ma destinata a svanire molto in fretta come quasi sempre accade nello stile. L’olfatto ci propone un’accentuata nota di coriandolo, combinata con lievi note di yogurt, pasta madre e sfumature salmastre e di cereale. In bocca il corpo è leggerissimo, come è giusto che sia, ed è sostenuto da una carbonazione sottile, mentre la parte gustativa propone in evidenza l’elemento della sapidità ben bilanciato con la speziatura, per una birra che, pur ben caratterizzata, si fa bere con estrema facilità grazie anche alla nota lattica non invadente ma presente quanto basta per rendere il sorso rinfrescante e pulito. Birra piacevolmente estiva, impeccabile come quasi tutte quelle dello stesso produttore e decisamente ben costruita.
Non una novità assoluta, in quanto il nome Super Verguenza apparve già tre anni fa, ma sicuramente una birra rivista nella ricetta che ci propone l’elemento ormai diffusissimo tra le luppolate moderne e cioè il Double Dry hopping, che va a depositarsi su un prodotto con base alcolica importante. In questa birra di colore dorato e con una schiuma un po’ timida, il naso si offre con arroganza, riuscendo a evitare totalmente il rischio di note vegetali e accennando solo in lontananza l’effetto pellet; emerge invece un fruttato tropicale che lascia poi spazio a toni resinosi decisi. Sicuramente d’impatto. In bocca il corpo è sorprendentemente leggero e il bilanciamento tra la base maltata e la decisa luppolatura va a virare in maniera forse un po’ troppo decisa sulle note amare che, non trovando neanche il contrasto del corpo, rischiano di essere leggermente eccessive pur in un prodotto che nei primi quattro sorsi si beve a una rapidità insospettabile. Birra con personalità e sicuramente perfetta per certi tipi di pubblico, ma che necessita di fare un passo avanti in termini di eleganza ed equilibrio per essere al livello top.
84/100 PC
75/100 PC
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Birrificio specializzato nelle produzioni a bassa fermentazione di stampo prettamente mitteleuropeo ma che, con alcune produzioni, sta iniziando a strizzare l’occhio anche agli amanti delle luppolature più spinte. Di colore giallo dorato, praticamente brillante, con una schiuma di colore bianco, fine, molto presente e altrettanto persistente. Al naso dominano in prima battuta sentori erbacei e resinosi a cui fa seguito un fruttato a pasta gialla che rimanda alla pesca. Nelle retrovie delicate note di cereale per un profilo olfattivo abbastanza complesso e ben definito. In bocca un delicato ingresso dolce che viene presto soppiantato dalla parte amaricante, intensa e persistente, abbinata a una buona secchezza. Il corpo è esile e la carbonazione è media; tornano sul finale sentori erbacei che rimandano alla radice di liquirizia. Sul lungo periodo si avverte una lievissima astringenza che non penalizza, nel complesso, la bevuta. Il formato da mezzo litro ben si abbina a questa birra, a bassa fermentazione e a lunga lagerizzazione, ben bilanciata nonostante la luppolatura massiccia a base di Cascade, Chinook e Columbus.
84/100 AA
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FOCUS NEW BEERS
Mia Farro Birra Bellazzi e Birrificio del Vulture
Chimay 150 Brasserie de Chimay
Garten Alder Beer Co.
Stile: Belgian Golden Strong Ale
Stile: Sommer Lager
Stile: Gose
Alc.: 10%
Alc.: 4,4%
Alc.: 4,5%
Lotto: L21-279
Formato: spina al brewpub
Lotto: L21017
Formato: bottiglia 33 cl
Acquistata da: produttore
Acquistato da: pub
Lotto: primo lotto prodotto (giugno 2021?)
Una collaborazione nata per celebrare l’amicizia tra i due birrifici, utilizzando ingredienti propri delle regioni di provenienza: farro lucano e sale di Cervia. Colore giallo paglierino scarico, poco velata, schiuma di colore bianco, fine, presente e con una buona persistenza. Al naso, di media intensità, compaiono in primis gradevoli note agrumate, seguite a ruota da sentori lattici e un lieve speziato di pepe bianco, molto piacevole e fresco. In bocca, ingresso dolce più marcato, a cui subentra un’acidità gentile che convive con le note dolci, senza soverchiarle. Altrettanto delicata è la componente salata, presente ma al tempo stesso poco definita. Il corpo è esile e la carbonazione media; nell’insieme la birra ha una buona bevibilità anche se, a mio parere, risulta forse non del tutto caratterizzata negli ingredienti regionali utilizzati. L’etichetta è un dichiarato omaggio alla locandina di Rosemary’s Baby, così come il nome della birra è un chiaro e divertente rimando al nome della protagonista di questo lungometraggio.
Nuova versione della birra celebrativa dei 150 anni del famoso birrificio trappista, nel bicchiere si presenta di un bel dorato intenso, velata (o anche limpida, a seconda di come la volete versare), con la classica sovrabbondante schiuma alla belga, spumosa, bianca e molto persistente. L’aroma è intenso e mette bene in evidenza il lievito e le spezie presenti nella ricetta: si percepiscono, ma non è dato sapere se effettivamente siano presenti, note balsamiche di eucalipto, sentori agrumati e di frutta gialla e toni speziati di chiodo di garofano, rosmarino e pepe, con un leggero accenno lievitoso e una base di cereale che ricorda un miele delicato. L’alcol comincia a fare capolino già al naso. In bocca le sensazioni dolci lasciano presto il posto a un taglio amaro di media intensità e persistenza, mentre un retrolfatto nuovamente fenolico e maltato prelude a un finale mediamente secco. Il corpo è medio, la carbonazione medio-alta. A chiudere una bevuta importante, arriva la sensazione riscaldante dei 10% ABV (intensità medio-alta).
Nuova birra estiva, tra il paglierino e il dorato, velatura appena accennata, schiuma bianca a grana fine, ottima persistenza. Aroma mediamente intenso, fragrante, teutonico, erbaceo e leggermente citrico. Il birrificio dichiara l’utilizzo di luppolo Diamant, su base maltata che ricorda il pane bianco e un miele chiaro delicato (la ricetta prevede Barke Pilsner e Munich). In bocca è una spada: attacca dolce e scorre veloce verso un amaro davvero pulito ed elegante, che chiude il sorso in modo agile e permane sul palato giusto il tempo per fare un altro sorso. Corpo medio, carbonazione media. Retrolfatto che rimanda ancora ai toni erbacei del luppolo.
79/100 AA
75/100 DC
90/100 DC
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FOCUS NEW BEERS
In Saaz We Trust Vertiga
Bali Vertiga
Magnagatti Birra Ofelia
Stile: Bohemian Pils
Stile: Session IPA
Stile: Italian Pils
Alc.: 5,8%
Alc.: 4,1%
Alc.: 4,9%
Formato: lattina 44 cl
Formato: lattina 44 cl
Formato: lattina 44 cl
Lotto: 5121
Lotto: L5221
Acquistata da: birrificio
Acquistata da: birrificio
Acquistata da: birrificio
Dorata carica con riflessi paglierini, aspetto limpido; schiuma a trama fine, consistente e persistente. Olfatto: gradevole interscambio tra malti e luppoli; i malti forniscono un robusto architrave, costruito su solidi mattoni di panificato chiaro, con sentori di cereali e crusca; i luppoli, invece, catturano l’attenzione con un bouquet di aromi erbacei – con un accenno di canapa –, speziati (pepe bianco) e un delicato finale floreale (gelsomino, camomilla); intensità media. Corpo medio/leggero, carbonazione medio/bassa, sensazione tattile andante sul morbido, anche quando subentra il luppolo a gamba tesa. Si conferma l’alternanza tra i due ingredienti principali, nell’ordine individuato al naso, beneficiando in bocca di maggiore intensità. Sensazioni di pane, mollica in particolare, con cenni di crosta e relativa fragranza; sono tuttavia i luppoli a dominare (e conquistare) il palato, stavolta con un piglio erbaceo netto, pulito e ripulente, esaltato da una punta di pepe; secchezza media, prolungato retrogusto amaro e crosta di pane nel retronasale. Interpretazione stilisticamente esemplare (ma senza diacetile!) che vince la scommessa di portare in lattina uno stile così tradizionale. Essenziale ma non monotona, perfetta per tenere a bada il solleone.
Aspetto: oro scarico con riflessi giallo paglierino, aspetto leggermente velato; schiuma a grana fine, spessa un paio di dita, non particolarmente persistente. Olfatto: i luppoli catturano immediatamente l’attenzione; il loro profilo aromatico risulta coerente con il nome della birra, portando il consumatore in un immaginifico viaggio indonesiano. Il fruttato è dominante ma le sue sfaccettature sono molteplici, anch’esse alquanto balinesi: frutto del drago, litchi e cocco nel novero della frutta tropicale, lime e pompelmo tra gli agrumi; il tutto impreziosito e reso ancora più esotico da una punta di zenzero. Cenni di farina sul fronte maltato. Gusto: corpo medio/leggero, carbonazione media, sensazione tattile insolitamente morbida e avvolgente. Anche in bocca è la frutta tropicale a dominare; stavolta, tuttavia, l’egemonia del cocco viene equilibrata da frutto della passione, mango e scorza d’arancia. Il maltato si insinua tra la deglutizione e il finale amaro, aspro di agrumi, lasciando un accenno di fragranza panificata nel retronasale. Conclusioni: Session IPA sbarazzina, che mostra diverse sfumature di luppolo senza appesantire la bevuta.
85/100 MM
83/100 MM
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Ofelia entra nel mondo delle Italian Pils (e del confezionamento in lattina) con personalità ed eleganza: dall’aspetto ai profumi fino alla bevuta, bilanciata e coerente, e ancora al finale dove tutto si esplicita in un amaro ben integrato con le note retrogustative. L’aspetto è canonico, da Pils non filtrata, leggermente velata, con schiuma fine e compatta. I profumi – su sentori erbacei e floreali (fiori bianchi, di campo, erbe di montagna, paglia) ma anche su una nota speziata, di pepe, e poi un fruttato, di agrumi, come arancia e mandarino e un certo non so che di pompelmo – sono freschi e invitanti. All’assaggio non tradisce, sapori – che passano dal dolce a un piacevole amaro passando per una lieve sapidità – bilanciati, corpo esile, gassatura (da tenere un po’ nel bicchiere, per esaltare al meglio i luppoli) perfetta, finale amaro e retrogusto non invadente che torna sull’olfattivo. Una birra facile da bere, piacevole da degustare, in cui ogni ingrediente è ben dosato, tutto è curato e il carattere è comunque evidente.
95/100 AC
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IMPRENDITORIA BIRRARIA
di Francesco Donato
GUIDA GALATTICA
per publican– 5 parte a
N
ell’ultima puntata di questo viaggio, che ci ha portati a sognare e immaginare il nostro locale fino a vederlo realizzato o migliorato nella sua offerta birraria, dotando la nostra attività ristorativa di una marcia in più sulla spinta della nostra passione, andremo a trattare argomenti relativi all’immagine e alla comunicazione.
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La nostra identità parte già dal nome che pensiamo per il locale. Se la birra artigianale è il perno su cui poggia la nostra attività, ergo se stiamo per aprire un beershop o un pub a spiccata vocazione birraria, la scelta di un nome azzeccato ci può dare una grossa mano nel rimarcare il nostro core nei confronti del cliente.
Essere originali può fare la differenza Parlando di birra, sfruttare i soliti riferimenti birrari nel nome (luppolo, malto, fermento) può essere una facile leva riconoscitiva. Per farla breve, se ti chiami luppoli & farine mi aspetto di avere un’ottima scelta di birre abbinate a gustose pizze. Il nome (legato a un logo a
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IMPRENDITORIA BIRRARIA
tema) può dire già tanto su chi siamo e cosa vogliamo offrire. Ovviamente non si tratta di una soluzione delle più originali. Locali che nel nome hanno la parola luppolo o malto se ne contano almeno uno per città e il rischio è proprio quello di essere confusi con i tanti sparsi per la penisola. Vi è anche da dire che molti locali riconosciuti come veri e propri riferimenti birrari a livello nazionale non hanno paradossalmente alcun riferimento nel nome all’immaginario birrario. Un esempio su tutti è il Ma che siete venuti a fa? di Roma, locale di fama birraria addirittura mondiale. Il nome, in questo caso, richiama
L’IMPORTANZA DI UN LOGO NON FAI DA TE! Scelto il nome, il prossimo consiglio è quello di affidarvi a un professionista per la realizzazione grafica del logo. Se siete bravi a smanettare con programmi di grafica o con lo stesso Photoshop, potete anche cimentarvi voi stessi, per carità, ma non avete idea di quanto un logo realizzato in modo professionale sia incisivo! Affidarsi a un professionista significa rivelargli chi siete, che cosa fate e cosa quel logo vuole trasmettere a chi lo guarda. Dopotutto, diventerà uno dei tratti distintivi più importanti del vostro esserci. Dall’insegna ai menù, dai sotto-
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bicchieri alle magliette, dalle foto a tutti i vostri profili social, il logo dovrà sempre rappresentarvi ed essere presente. Qualsiasi cosa che parli di voi e che volete rendere riconoscibile e identificabile lo farà attraverso il vostro logo. Brandizzare i sottobicchieri e le tovagliette, per esempio, permetterà al logo di essere sempre sotto l’occhio del cliente. Lo stesso discorso potrebbe essere portato avanti con i bicchieri. E cosa dire delle magliette? Quanto sarebbe bello vedere gente con la maglietta del vostro locale in giro per festival birrari di tutto il mondo!
Sono meccanismi semplici che, oltre ad affermare il brand, tendono a rafforzare la reputation della vostra attività. Questi sono solo alcuni degli esempi più noti e forse più incisivi, ma si potrebbe andare avanti all’infinito continuando con adesivi, box pizza, box per sixpack, apribottiglie e via dicendo. Non state partendo adesso con la vostra attività e vi siete resi conto che il logo non vi rappresenta più al meglio o vi sembra leggermente obsoleto? Ricordatevi che c’è sempre tempo per un restyling più o meno invasivo, che vi farà godere di nuova luce. È importante affidarsi sempre a professionisti, perché l’immagine non è assolutamente un aspetto secondario! Tutte le azioni da compiere per comunicare con i clienti, con i clienti potenziali o, ancora meglio, per intercettarne di nuovi, vanno generate con un unico scopo finale: ottenere un risultato. Che si tratti di vendere, fidelizzare il cliente, farvi conoscere, ogni vostra azione online o offline deve essere chiara (prima di tutto a voi stessi!) e soprattutto mai fine a sé stessa: si parla di strategia!
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alla territorialità dell’attività e si rivela certamente vincente per suscitare curiosità e per la sua musicalità. L’Italia è piena di esempi del genere: Abbazia di Sherwood, Arrogant, Drunken Duck, Ranzani 13, Goblin, TNT pub, Ottavonano, Bluebeat; solo per nominarne qualcuno da Nord a Sud. Tutti locali che si sono imposti come punti di riferimento birrario nelle loro zone ma che nel nome non fanno alcun riferimento all’aspetto birra. Insomma, se proprio volete usare un riferimento birrario nel nome e non risultare già sentiti fatelo in maniera originale e costruttiva. Come il Bere Buona Birra di Milano, che nel nome dice… praticamente tutto quello che offre in termini di esperienza!
La presenza online è fondamentale Ma partiamo da una domanda: essere presenti online, sui social, mandare email, avere un sito internet, serve o no? Fino a pochi anni fa i social erano visti come un mondo nuovo e soprattutto
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di puro svago. Poche aziende medio piccole ne avevano capito l’importanza comunicativa, che già i grossi brand stavano cavalcando. Oggi essere presenti online non è solo importante, è quasi fondamentale! Sull’importanza del marketing legato alla ristorazione oggi esiste una letteratura abbastanza florida, ma il mondo della birra artigianale ha avuto da subito un suo pubblico vasto e attento alle nuove tendenze e novità. Insomma, esiste già un target ben definito. Quali strumenti social utilizzare e quali sono più performanti per il nostro mondo? Prima di rispondere a questa domanda, partiamo dall’analisi della nostra attività e dei nostri obiettivi. Ovviamente, anche in questi casi, ci si può affidare a dei professionisti, che possono rendere estremamente semplice e incisiva ogni nostra azione; ma possiamo anche iniziare a prendere confidenza noi con questo mondo e mettere a budget successivamente un piccolo o medio investimento sulla comunicazione online.
Per quanto riguarda i social, ogni piattaforma ha le sue caratteristiche e il suo linguaggio; hanno però in comune una dinamicità quasi galoppante che ci porta a dover esser sempre sull’attenti per godere a pieno di tutte le potenzialità. Tra le prime piattaforme a essere utilizzate, Facebook rimane oggi un ottimo mezzo di comunicazione online. Create una pagina del vostro locale, non un profilo che invece è strettamente personale, e iniziate a costruire la vostra community.
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Le guide
I COLORI DELL’IDROMELE di Marco Parrini
L’idromele è la bevanda alcolica prodotta dalla fermentazione del miele ed è considerato il più antico fermentato al mondo. Questo volume vuole fornire alla sempre più ampia platea degli appassionati una guida pratica e completa per realizzare un ottimo idromele fatto in casa. Il libro ripercorre la storia dell’idromele, dalle origini fino al rinnovato interesse degli ultimi anni, ne descrive le varie tipologie e mostra come prepararlo con chiare indicazioni passo passo, corredate da trucchi, segreti e approfondimenti per ottenere sempre un prodotto di qualità. Completano il libro numerose ricette tratte dall’esperienza pluriennale dell’autore.
ISBN 9788868959203 Pagine 208 | A colori Prezzo 16,90 euro
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Cercate di capire quali contenuti sono più apprezzati dalla vostra clientela, non scordando di pubblicare foto di qualità e che facciano percepire quale tipo di esperienza si vive all’interno del locale. Insomma, foto di birre mosse o scure o, peggio ancora, foto con birre spillate male (cosa che non deve comunque accadere) o poco accattivanti dal punto di vista estetico sono deleterie. L’occhio vuole la sua parte! Se scattate foto degli interni, cercate gli spazi più caratteristici del locale, per esempio il vostro comodo bancone, il banco spina con qualcuno che beve appagato, lo spazioso dehors. Cercate di evitare foto dove viene mostrata l’intera sala con solo un paio di clienti o amici che bevono solitari. Voi sapete che la foto è stata scattata all’orario di apertura, per comodità, ma la percezione del cliente sarà di un posto poco frequentato.
Il calendario editoriale A questo punto, il primo passaggio che mi sento di consigliare è creare un vero e proprio calendario editoriale. Avrete bisogno in primis di due doti che questa azione richiede: costanza e perseveranza. Lunedì, per esempio potreste dedicare i contenuti alla cultura birraria. Quindi, pubblicate articoli o foto dedicati a questo aspetto. I filoni da seguire sono tanti e tutti ricchi di fascino. Potrete partire dalle materie prime passando per gli stili, fino a consigli sul servizio e la conservazione delle birre. Argomenti
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tutti ricchi di contenuti e che dovrete essere bravi a rendere affascinanti anche agli occhi del neofita e mai noiosi. Quindi poche righe, parole semplici e che stimolino la curiosità. Se fate video (i video sono altamente performanti!) non andate oltre i 3 minuti e, anche se usate il telefonino, cercate angoli luminosi del locale e orari in cui ci sia abbastanza silenzio. Non dimenticate mai, alla fine dei vostri post, la cosiddetta call to action. La CTA è l’azione che finalizza il vostro intervento: è dove volete portare chi vi legge. Se parlate dello stile pils, per esempio, alla fine del post potreste nominare l’ultima pils arrivata nei vostri frigoriferi consigliandone un abbinamento con un vostro piatto o linkare la possibilità di acquisto se siete dotati di un e-commerce. Al martedì potreste produrre post dai contenuti più leggeri, per esempio aneddoti e curiosità riguardanti il mondo della birra e soprattutto la sua storia. Dai babilonesi agli egizi, dai galli fino ai giorni nostri: avete a disposizione secoli di storia birraria a cui attingere! Negli altri giorni della settimana potreste creare interazione con i clienti mediante sondaggi: parlare di abbinamento tra le birre e i vostri piatti (anche in questo caso i video sono consigliati!), scrivere brevi recensioni sulle ultime birre arrivate (corredate sempre da foto o video!). Un giorno potreste dedicarlo anche allo storytelling parlando del vostro percorso birrario, di come siete passati da una parte all’altra del bancone, da semplici appassionati a publican, dei vostri viaggi birrari, di cosa bevete quando non state lavorando e, perché no, dei luoghi birrari che amate di più e che consigliate di visitare anche ai vostri clienti. Potrete anche parlare del vostro team, che siano ragazzi che lavorano dietro le spine oppure in sala o in cucina. Non mancate mai di elencare la vostra tap list di birre alla spina sempre aggiornata alle ultime entrate, se siete un locale con una grande vocazione alla bevuta al bancone e con un numero di vie importante.
Creare una community Facebook offre inoltre la possibilità di creare o far parte dei cosiddetti gruppi, vere e proprie community dove si può interagire con gli iscritti mediante la condivisione di contenuti. Nel mondo birrario ci sono alcuni gruppi molto attivi che hanno progressivamente sostituito il ruolo dei forum, di moda alcuni anni fa. Perché non creare un gruppo con gli appassionati o gli homebrewer della vostra zona per creare interazione e fare rete? Per quanto riguarda Instagram, un po’ snobbato inizialmente dalla comunità birraria, si sta rivelando un ottimo strumento di marketing, grazie soprattutto alla sua crescita esponenziale in termini di popolarità. In ambito birrario viene usato dando grande risalto all’aspetto fotografico ed estetico e un po’ meno ai contenuti, ma se usato in interazione con Facebook diventa un’altra freccia importante del nostro arco. Nelle community di Facebook e Instagram possiamo pensare di coinvolgere nuovi curiosi o appassionati investendo nella sponsorizzazione di qualche post creato ad hoc, targetizzando interessi, luoghi ed età del nostro pubblico potenziale. Anche l’e-mail marketing si conferma un buono strumento per restare in costante contatto con la nostra clientela. Potrete creare un form cartaceo dove invitate gli avventori del vostro locale a lasciare l’email per restare informati o inserire il form direttamente sul vostro sito o e-commerce se ne siete dotati. Con un’e-mail a settimana potrete informare la vostra clientela sulle ultime novità in arrivo, sulle iniziative, su serate o eventi con birrai ecc. Qualunque sia il canale preferito per interagire con il cliente, questi può inserirsi in una posizione diversa del nostro funnel comunicativo, ovvero avrete la possibilità di rivolgervi al neofita o all’esperto più attento ed esigente. Mantenete sempre un linguaggio semplice, diretto ed esplicativo e il gioco sarà fatto. Non dimenticate che il marketing è una materia in continua evoluzione e che fornisce ottimi risultati solo se è studiato e applicato bene! ★
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NOVITÀ DAL MONDO BIRRARIO
PARTITO IL CAMPIONATO NAZIONALE HOMEBREWING 2021 Tra difficoltà e alcuni rinvii, si è concluso a maggio il Campionato Nazionale Homebrewing 2020 organizzato da MoBI: nella fase finale, andata in scena presso il noto pub Drunken Duck di Quinto Vicentino, il titolo è stato assegnato all’homebrewer veneto Jacopo Deola, che ha superato sul “filo di lana” il collega Nicola Gaeta. L’edizione 2021 ha già espresso due tappe in luglio, a Piozzo (CN) presso il birrificio Le Baladin e a Formello (RM) presso il birrificio Ritual Lab. Il 5 settembre un doppio evento: uno in occasione del festival Acido Acida (dedicato a stili birrari anglo americani) a Ferrara e l’altro in occasione del festival dedicato alle birre belghe presso il Villaggio della birra a Buonconvento (SI). La finalissima è prevista a ottobre presso il pub Drunken Duck a Quinto Vicentino.
Giudici al lavoro nella fase finale del Campionato Nazionale Homebrewing 2021.
CONSUMI DI BIRRA 2020: -12%
BIRRA PER IL SOCIALE
Secondo il report annuale 2020 di Assobirra, la pandemia ha ridotto i consumi di birra in Italia del 12% rispetto al 2019, riportandoli - dopo 6 anni di crescita costante - ai livelli 2015. Tutto il comparto produttivo ha risentito, quindi, di un’importante contrazione, ma le sofferenze sono state distribuite in maniera tutt’altro che uniforme: il canale Horeca, in particolare, è stato più colpito di quello della GDO. I birrifici artigianali, meno presenti in quest’ultimo, hanno subito importanti riduzioni di produzione e fatturato; interpretando i dati Assobirra, il comparto dei microbirrifici avrebbe sofferto di una diminuzione produttiva di oltre il 35%, riportando la quota di mercato ai livelli 2014 (dal 3,1 al 1,8%). Il report cita un rimbalzo positivo nel primo trimestre 2021, ma il comparto birrario, in particolare quello dei microbirrifici, necessiterà di parecchio tempo prima di ritornare ai livelli 2019.
La produzione birraria offre spesso risvolti che superano il concetto di impresa commerciale, affrontando aspetti di solidarietà sociale. Numerosi sono gli esempi di birrifici italiani che operano in questa direzione e alcuni sono stati creati appositamente da o per impulso di cooperative sociali: Vecchia Orsa a Bologna, Pausa Caffè a Saluzzo (CN), Vale la Pena a Roma, Solid Ale a Catanzaro, Articioc a Noceto (PR), SBAM! a Poggiorsini (BA) sono alcune delle numerose realtà nazionali che affrontano la produzione di birra agevolando, nel contempo, l’inserimento lavorativo dei meno abili o il reinserimento sociale di detenuti ed ex detenuti. La più recente realtà di questo tipo è la Casa Lavoro di Vasto (CH) che, in collaborazione con il birrificio Golden Rose, ha affiancato alle attività di sartoria e azienda agricola l’apertura di un birrificio per completare l’offerta lavorativa a favore dei detenuti. L’impianto produttivo si trova all’interno dell’Istituto penitenziario di Vasto e dovrebbe funzionare con l’impiego di almeno due detenuti. L’associazione promotrice del progetto, “Rindertimi”, gestirà il birrificio con l’ausilio del birrificio Golden Rose (nato a Pianella nel 2012) fornendo ai detenuti formazione e conoscenze per un eventuale futuro inserimento lavorativo.
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NOVITÀ DAL MONDO BIRRARIO
LA PIÙ GRANDE MALTERIA ITALIANA PARTIRÀ NEL 2023 Annunciata la costruzione della più grande malteria italiana: dovrebbe iniziare a operare nel 2023 a Loreo, in provincia di Rovigo. La Italimalt, già titolare dello stabilimento di Melfi (PZ), in cui la produzione annuale si attesta in circa 40.000 tonnellate di malto, dovrebbe raggiungere nel nuovo stabilimento una produzione di 50.000 tonnellate, con l’intenzione di coprire complessivamente il 60% della domanda di malto in Italia. L’investimento dichiarato da Italmalt per il nuovo complesso produttivo sarà di circa 25 milioni di euro.
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IO DISTILLO
Il craft distilling, la distillazione artigianale, è un fenomeno che in Italia è ancora agli esordi ma promette di replicare il boom che negli ultimi vent’anni ha visto protagoniste le birre. L’1 e 2 Il logo di DISTILLO febbraio 2022 debutta a Milano DISTILLO, la prima fiera dedicata alle attrezzature per le microdistillerie, con un programma di seminari e approfondimenti sulle novità del settore. L’appuntamento in calendario alle Officine del Volo, edificio post-industriale in via Mecenate a Milano, è rivolto sia agli addetti ai lavori della filiera della distillazione sia a coloro che - in numero sempre crescente, secondo le statistiche - intendono avvicinarsi al mondo del rame e degli alambicchi. Dalla formazione alle materie prime, dalle tecnologie di produzione fino all’imbottigliamento, negli stand di DISTILLO gli espositori potranno confrontarsi con gli imprenditori interessati ad aprire o sviluppare la propria distilleria.
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SCRIVONO PER NOI Alessandra Agrestini Bellunese di nascita, bolognese o meglio sanlazzarona d’adozione. Dicono di me: “Una mente in continuo fermento che si entusiasma quando si parla di birra artigianale. E soprattutto porta sempre da bere ottime birre!”. Lavoro nel marketing di un’azienda di moda, ma collaboro con diverse realtà per docenze e corsi a tema birrario, oltre a essere giudice in concorsi nazionali e internazionali.
Davide Bertinotti Alessandra Agrestini
Davide Bertinotti
Dal… secolo scorso viaggio, bevo, produco (per autoconsumo) e racconto birre. Sono autore di libri sulla produzione, il servizio della birra e il mondo dei microbirrifici italiani. Docente di produzione presso ITS Mastro Birrario Torino.
Flavio Boero Diploma di perito chimico, ho iniziato a lavorare nel 1973, in qualità di tecnico di laboratorio, alla Poretti S.p.A. di Induno Olona. Quando l’azienda è stata acquisita da Carlsberg sono diventato responsabile qualità fino al pensionamento. Fin dal sorgere dei primi microbirrifici mi sono appassionato alla birra artigianale, collaborando attivamente ai corsi di formazione per birrai e beer-sommelier. Partecipo, in qualità di giudice, ai concorsi birrari In Italia e all’estero.
Andrea Camaschella Flavio Boero
Andrea Camaschella
Appassionato di birra da svariati anni, sono coautore dell’Atlante dei Birrifici Italiani, docente ITS Agroalimentare per il Piemonte e in svariati altri corsi.
Norberto Capriata Scienziato, filosofo, artista, pornografo, viaggiatore del tempo, mi divido tra la florida attività di arrotino-ombrellaio e la passione per la birra artigianale. Ho collaborato con le principali riviste del settore, a loro insaputa, e insegnato in vari corsi di cultura birraria, che nessuno ricorda. Conosco perfettamente la differenza tra Porter e Stout, ma non la rivelerò mai.
Paolo Celoria Sono un appassionato di birra buona fin dal lontano 1994, grande bevitore di qualità e quantità, giudice e docente birrario.
Daniele Cogliati Norberto Capriata
Paolo Celoria
Sono un lettore e viaggiatore birrario seriale, giudice BJCP, scrivo su alcune riviste di settore e gestisco la pagina Facebook Beerbliophily – Books for Beer Lovers, sulla quale pubblico recensioni di libri che parlano di birra.
Francesco Donato Pioniere della divulgazione della cultura birraria nel Sud Italia, mi occupo da oltre vent’anni di ristorazione, maturando esperienze come publican sia da dipendente sia da titolare. Ex consigliere MoBI, giudice a Birra dell’Anno, sono formatore e docente per svariate associazioni.
Massimo Faraggi Pioniere dell’homebrewing in Italia e docente di birra fatta in casa, sono stato co-fondatore di MoBI e curatore della rivista dell’associazione. Sono autore di articoli e libri di tecnica e cultura birraria. Daniele Cogliati
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Francesco Donato
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Tommaso Ganino Professore Associato presso l’Università di Parma. Ho sempre lavorato su temi legati alla biodiversità, alla selezione e valorizzazione di piante agrarie e dal 2011 lavoro sulla filiera del luppolo. Sono responsabile del Centro di certificazione del luppolo per incarico del MiPAAF dal 2015. Insieme al mio staff ho selezionato tre genotipi di luppolo a genetica italiana; mi occupo inoltre di agricoltura 4.0 applicata al luppolo.
Luca Grandi Ho fondato il brand Birra Nostra nel 2007 e il web magazine Birra Nostra Magazine nel 2013. Nel frattempo ho ideato e organizzato TEDx e fiere per i più importanti enti fiera italiani e dal 2016 sono consulente per Fiere Parma a CIBUS. Scrivo per Slow Food, CiBi Magazine, Foodyes e Mark You. Sono coautore de La via della birra - un Grand Tour attraverso l’Italia dei birrifici artigianali e autore di guide per viaggiatori.
Massimo Faraggi
Tommaso Ganino
Luca Grandi
Luca Iaccarino
Matteo Malacaria
Eleni Pisano
Luca Iaccarino Viaggio, mangio e scrivo per D - La Repubblica e per Il Corriere della Sera. Sono food editor di EDT-Lonely Planet. Il mio ultimo libro è Appetiti - Storie di cibo e di passione.
Matteo Malacaria Giudice qualificato BJCP e beer sommelier, autore del blog Birramoriamoci.it e del libro Viaggio al centro della birra. Mi occupo di comunicazione e marketing applicati al settore birrogastronomico e sono docente presso la NAD di Verona.
Eleni Pisano Scrivo, fotografo, insegno e racconto di cibo. Esperta di turismo esperienziale in ambito brassicolo, beerchef, food stylist e beernauta in cerca di eccellenze. Ho lavorato per grandi marchi del mondo birrario italiano e poi mi sono avvicinata al mondo brassicolo artigianale. Lavoro come consulente e beerchef in diversi locali tra Milano e Monza. Svolgo collaborazioni sul beer pairing.
Luca Pretti Laureato in Scienze agrarie e dottore di Ricerca in biotecnologie microbiche. Ricercatore nel centro Porto Conte Ricerche di Alghero, dal 1999 mi occupo della caratterizzazione di materie prime locali (luppoli e orzi) per le produzioni birrarie della Sardegna. Conduco corsi di divulgazione della cultura birraria per appassionati e professionisti e sono stato responsabile scientifico e docente del primo corso di formazione in Sardegna per birraio artigiano. In qualità di giurato ho partecipato al concorso Birra dell’anno e al Bruxelles Beer Challenge. Collaboro inoltre con Slow food per l’area birra in Sardegna.
Daniele Risi Appassionato di lungo corso, degustatore di birra, salumi e whisky. Ubt e giudice a birra dell’anno. Dal 2011 al 2018 ho lavorato al birrificio sociale Vecchia Orsa, di cui sono stato Vicepresidente, come factotum: dalla produzione all’amministrazione fino alla parte commerciale. Dal 2017 sono socio del pub il Punto di Bologna oltre che di Mezzopieno Distribuzione e del relativo beershop. Luca Pretti luglio-agosto 2021
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NEWS
Simonmattia Riva Innamorato delle birre da più di venticinque anni, nel 2015 ho vinto il campionato mondiale dei Biersommelier Doemens. Giudice nei principali concorsi internazionali, sono docente in numerosi corsi di degustazione, membro di Unionbirrai Beer Taster e collaboratore delle principali riviste e guide di settore. Sono titolare del piccolissimo pub Beer Garage di Bergamo.
Margherita Rodolfi
Simonmattia Riva
Margherita Rodolfi
Dottore di Ricerca dal 2016 in Scienze e Tecnologie Alimentari. Ho partecipato attivamente, come responsabile di laboratorio e ricerca e sviluppo, a progetti di ricerca sul luppolo e sulla filiera brassicola. Negli ultimi anni mi sono concentrata su studi di valutazione del terroir di diverse varietà di luppolo.
Dario Rosso Piemontese di nascita, romagnolo di origine. Cultore appassionato della storia e delle arti, aficionado della buona tavola, divoro libri, cibi e bevande ritenendoli la massima espressione dell’homo sapiens. Di me scriverei, scimmiottando l’Angiolieri: “Tre cose solamente mi so ‘n grado le quali posso non ben fornire ciò è i libri, la taverna e il cibo; queste mi fanno ‘l cuor lieto sentire”.
Dario Rosso
Christian Schiavetti
Christian Schiavetti
Appassionato alla birra con le prime bottiglie collezionate e i primi sottobicchieri. Dal 2010 ho iniziato a viaggiare in Belgio e in Franconia, ma non solo. Diversi corsi targati MoBI, anche da homebrewer e Good Beer, mi hanno portato ad aprire il blog Birre Bevute 365 e a collaborare, tra gli altri, con Giornale della Birra e Guida alle birre D’Italia. Amo viaggiare e in particolare amo le birre tedesche.
Mirka Tolini Professionista della scrittura, sono arrivata alla birra artigianale per amicizia. In dieci anni entrambi i legami sono fermentati!
Mirka Tolini
Federico Viero e Vanessa Alberti
Federico Viero e Vanessa Alberti
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Coppia di chimici industriali appassionati di birra artigianale da diversi anni. Essendo dei giramondo abbiamo unito la nostra passione brassicola con quella dei viaggi, andando a scovare birrifici anche nei posti più remoti del globo.
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IL MANUALE DEL BIRRAIO Il testo più completo e autorevole a livello mondiale sulla scienza e la pratica della birrificazione, riferimento indispensabile per tutti i birrai e per gli studiosi della materia. Illustra nel dettaglio i principi alla base del processo di produzione della birra, dalla maltazione all’ammostamento, all’utilizzo del luppolo e del lievito. Il volume approfondisce inoltre le fasi della fermentazione, i pericoli di contaminazione, la maturazione, l’imbottigliamento e le diverse influenze sul gusto finale della birra. Particolare attenzione è dedicata anche agli aspetti ingegneristici e tecnologici, per offrire soluzioni teoriche e pratiche all’azienda birraria di grandi e piccole dimensioni.
ISBN 978-88-6895-767-4 Pagine 392 | 2 Colori Prezzo 59,90 euro
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