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Intervento di De Stefani

Trascrizioni – Interventi di De Marsico 199

non potrà essere fatto che dall’avvenire, quando, chiusa la conflagrazione, tutto il materiale necessario sarà definito, raccolto, valutabile. Quale importanza può avere oggi deplorare che questo o quel consiglio non sia stato seguito? o se in questo o quell’episodio di una vastissima conflagrazione la radice delle sventure potrebbe essere l’errore dell’inizio, nel tempo o nello spazio? o, scavando più nel profondo, la sufficienza della preparazione tecnica o diplomatica, od il calcolo sbagliato delle forze da impegnare in tutta una fase della campagna? o, scavando più nel profondo ancora, nella convenienza della partecipazione alla guerra?, mentre la guerra dura, non si ha il diritto di occuparsi di questo ultimo che, fra tutti, è il compito supremo di ogni processo a una guerra, non lo si ha neppure di occuparsi di quegli aspetti della condotta positiva della guerra che non mirino a studiare ed additare le vie per migliorarne i risultati o per consigliarne l’epilogo. Io vedevo il campo della discussione ristretto a quello della capacità delle forze politiche attuali a guidare la guerra, soddisfarne le esigenze». Troppi segni avevano già dimostrato

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che alla sufficienza, almeno, della preparazione tecnica non può essere giovato il lungo, oneroso cumulo di portafogli politici e militari nelle mani di un uomo solo, anche se dotato di eccezionale attitudine alla sintesi dei problemi ed all’esercizio del comando. Questo cumulo, utile in principio per coordinare la tecnica alla politica, doveva poi fatalmente nuocere, poiché la tecnica è specializzazione, e con la specializzazione riescono a vedersi, tutte ed esattamente, le necessità di un ramo del Governo. Cavour, che fra il ’52 e il ’59 gettò le basi dello Stato unitario, non sacrificò i diritti della specializzazione a questo suo programma di lavoro, che pur richiedeva unità di vedute nella politica e nell’amministrazione, e si limitò a tenere il ministero dell’agricoltura, e per sei mesi soltanto anche il ministero della marina, per istituirlo e passarlo subito in altre mani. Ed era uno Stato tanto più modesto, erano tempi tanto meno irti di complicazioni internazionali! Mussolini invece aveva dedicato le sue forze, non comuni certo, per venti anni, quasi ininterrottamente, ai ministeri degli interni e degli esteri ed a tutti i portafogli militari; con un pericolo di logoramento delle energie, almeno, che su chiunque, per privilegiato che fosse, peserebbe, e con l’aggiunta di due guerre, quelle di Etiopia e di Spagna, che avevano già richiesto una maggiore tensione. Ma l’inconveniente più grave che dal cumulo dei portafogli era derivato si ripercoteva proprio sul terreno delle responsabilità, ed era un nodo che veniva precisamente ora al pettine Per la legge sul Primo Ministro, i ministri sono della loro attività responsabili verso di lui ed egli è di tutti responsabile verso il Re: in frangenti di crisi, quindi, il mutamento di un ministro può ancora salvare verso il Re e verso la Nazione

200 Verbali della riunione del Gran Consiglio del fascismo del 25 luglio 1943

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il Primo Ministro, e ispirare alla nazione una benevola attesa nell’attività di un successore. Quando invece è il Primo Ministro che ha assommato nelle proprie mani parecchi portafogli, la responsabilità dell’insuccesso colpisce personalmente lui. Tanto più quando il comando dei ministeri, che la legge costituzionale prevede nel suo spirito avere una eccezione, è divenuto una realtà, e il Primo Ministro si è reso responsabile non solo della esecuzione di un piano militare ma della sua più lontana e graduale preparazione. Sicché ora, restava solo da vedere se ricorresse uno di quei momenti in cui si ha il dovere di rendere il conto politico della propria attività, di sollecitare un giudizio costituzionale sulle responsabilità. Ciò dissi testualmente mi appariva indiscutibile. Il divario tra le previsioni, anzi le promesse, che si era fatta nel corso della guerra e gli avvenimenti era enorme. Nel febbraio 1941, dopo le umilianti sconfitte in Grecia, il Duce aveva, in un discorso che voleva essere scarnamente logico [illeggibile] addirittura le ragioni per cui l’Inghilterra non avrebbe potuto aspirare alla vittoria, ed aveva concluso che, se taluno avesse creduto possibile una invasione sul continente, costui sarebbe stato un folle. L’invasione invece era adesso un fatto compito. Saltando molte tappe, dopo la perdita dell’Etiopia non solo non si era mantenuta e si era dimostrata inattuabile la promessa di tornarvi, ma si era perduta la Libia, e per rialzare il cuore della Nazione, si era promessa una resistenza infrangibile prima in tutta la Tunisia, poi, rapidamente occupate le zone meridionali e centrali, nella sua parte nordica montuosa; ed anche qui il valore del generale Messe e delle sue truppe avevano salvato il nostro prestigio; ma, impari i mezzi allo scopo, un’altra disfatta ci era toccata. Il 5 luglio, inutile il decantato paracarro di Pantelleria, il

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Duce aveva fatto pubblicare un suo discorso al direttorio nazionale de Partito, nel quale non solo prometteva di dire “un giorno” le ragioni di questa guerra avvalorando il motivo essenziale della propaganda disfattista, che il popolo combatte senza capirne il perché, ma lanciava una vera sfida al nemico di tentare lo sbarco, “unico mezzo che gli restava per salvare il suo amore proprio” e la minaccia di stenderlo orizzontalmente sulla zona del “bagnasciuga”. Il nemico era invece, da ventiquattr’ore, a Palermo, senza che il popolo avesse ritrovato la sua anima garibaldina, senza che un colpo, a quanto si diceva, fosse stato sparato da una intera divisione posta a sua difesa. Se una frattura profonda si era quindi aperta non fra partito e nazione ma fra nazione e regime, era forse colpa della nazione? Colpa della nazione poteva essere, ed era, non aver dato sempre alla guerra l’adesione che avrebbe dovuto dare, ed

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