4. Una tarda primavera Fra il dicembre del 1943 e il giugno del 1944, la vita di Firenze ha un’apparenza del tutto normale. Le autorità cittadine – laiche ed ecclesiastiche – sono tutte al loro posto. Ci sono ventotto cinema aperti, due stagioni operistiche, il “maggio” musicale, gli spettacoli teatrali. A poco a poco la città assume il ruolo di capitale culturale del regime, essendo Roma troppo esposta alla risalita degli Alleati. Ci sono due riviste di carattere letterario-politico “Italia e Civiltà” e la “Nuova Antologia”, le istituzioni culturali funzionano e promuovono i consueti incontri pubblici. Nei primi mesi del 1944 anche l’Accademia d’Italia stabilisce la sua sede a Firenze; alla cerimonia inaugurale, il 21 marzo, il filosofo Giovanni Gentile parla di Giovambattista Vico alla presenza di due ministri93. Nel primo pomeriggio del 15 aprile 1944, quattro ciclisti si avvicinano alla macchina che riporta Gentile alla sua villa in via Bolognese. Gran parte dell’attività partigiana si svolgeva grazie alla bicicletta: mancando macchine e carburante, era l’unico mezzo per raggiungere gli appuntamenti agli orari convenuti. Pedalando si sfuggiva alle retate della polizia, e ci si allontanava in fretta dal luogo delle azioni armate. Dopo ogni attentato, le autorità proibivano temporaneamente la circolazione a ogni genere di ciclo94. 93
Francovich, La Resistenza a Firenze cit., pp. 137-138. Questo genere di provvedimenti divenne consuetudine in ogni città italiana. Per Roma, si vedano, tra gli altri, i ricordi di Carla Capponi, Con cuore di Donna cit., pp. 149 e 151: «In seguito all’azione [dei GAP] del 28 dicembre [1943] il comando tedesco fece affiggere in Roma manifesti dove appariva una nuova ordinanza ai romani a firma del generale comandante della piazza di Roma, Kurt Maeltzer: “[…] In seguito a un nuovo delittuoso attentato compiuto da un ciclista nella giornata di ieri nei confronti dei soldati tedeschi, viene disposto quanto segue: da questo momento è proibito senza alcuna eccezione l’uso di qualsiasi bicicletta nel territorio della ‘città aperta’ di Roma. Sui trasgressori verrà sparato senza riguardo e senza preavviso. La bicicletta sarà requisita senza diritto al risarcimento”». Dopo l’8 settembre, Ada Gobetti lasciò Torino per stabilirsi a Meana, in Val di Susa; rientrava in città per lavoro o in altri casi di necessità, come il 31 agosto 1944: “Molte donne, molti uomini. per non camminare tanto a piedi, ho riesumato la mia vecchia bicicletta e la uso anche per Torino, pur non avendone il permesso: se me la sequestrano, non ci rimetto gran che”; ma non ha nemmeno il tempo di provarci: lo stesso giorno, dopo “un attentato compiuto […] da uno in bicicletta contro un soldato tedesco”, le autorità bloccano la circolazione; si veda A. Gobetti, Diario partigiano, Einaudi, Torino 1996 (prima ed. 1956), p. 197. In quel periodo, il blocco dei cicli era una questione delicata, poiché ormai equivaleva a una paralisi generale delle attività: non erano solo i partigiani a usare le biciclette per muoversi. Un rapporto dall’amministrazione tedesca del 13 marzo 1944 avvisava della necessità di provvedere a rifornire la città di biciclette nuove, ricambi e pneumatici: “nella città di Firenze […] giacciono circa 25.000 richieste inevase”. Il fabbisogno di biciclette è “cresciuto in seguito alla forte riduzione del traffico autoveicolare ed alla sospensione dei servizi automobilistici di linea conseguente alla mancanza di pneumatici e alla loro messa a disposizione per colonne di camionette. […] È urgente soddisfare un tale fabbisogno soprattutto per i lavoratori del settore armamenti” (rapporto della Militärkommandatur 1003-Firenze, 13 marzo 1944, tradotto e pubblicato in Toscana occupata cit., p. 124). 94
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