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CAPITOLO TERZO

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CAZION I ROMAN E

CAZION I ROMAN E

Le Fortificazioni Italiche

La civ iltà appenninica

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Per una comprensibile repulsione ispirataci dalla odierna civiltà, in costante conflitto con la natura per lo spietato, e spesso scriteriato, sfruttamento delle sue risorse , siamo portati a rimpiangere, anche sotto il profilo ecologico, una mitica età dell 'oro . La sua connotazione precipua sarebbe stata il sostanziale equilibrio fra quanto consumato e quanto disponibile , tra le esigenze umane e le potenzialità ambientali. ln altri termini, le economie arcaiche non solo non avrebbero in alcun modo compromesso il delicato bilancio della biosfera ma , anzi, adeguandovisi accortamente, lo avrebbero addirittura ottimizzato. La presunzione, tuttavia, è per molti aspetti assolutamente gratuita e per nulla giustificata, essendo proprio nella forzatura degli ecosistemi insita la capacità della nostra specie di sopravvivere, anche nelle più avverse condizioni.

Ovvio, pertanto, che persino agli albori della civiltà, ancor prima che l'agricoltura imponesse le sue molteplici istanze alterative del territorio, si ravvisino nella rudimentale pratica pastorale le antesignane trasgress ioni. Il progressivo incremento artificiale del numero dei capi di bestiame , più o meno addomesticati, infatti, esulò ben presto dalle concrete possibilità rigenerative dei pascoli, obbligando ad incessanti spostamenti. E se nelle immense regioni mediorientali e nelle grandi aree continentali tale comportamento non diede origine a spec ifi che culture , ri solvendosi genericamente nel nomadismo al seguito delle mandrie, lo stesso non si determinò laddove gli spazi disponibili non erano analoghi soprattutto per dimogeneità geomorfologica. Una rilevante massa di bestiame, infatti, in una regione estremamente ampia come le propaggini del deserto nordafricano<1i, o le steppe asiatiche, s i scinde in una miriade di modesti branchi , assolutamente liberi di s postarsi discrezionalmente alla ricerca del cibo. I ri spettivi pastori, pe1tanto, non sono costretti all'affannoso e spesso conteso accaparramento delle sc arse zone idonee al pascolo. La vastità stessa del territorio , infatti , comporta che la frequentazione dei medesimi siti avvenga con ricorrenze estremamente rade , frustrando l'instaurarsi di percors i ciclici. In pratica, sembra lecito poter affermare che, in tali circostanze, siano stati piuttosto gli uomini a seguire gli animali che non il contrario: dal che si origina una società pastorale nomade, impossibilitata a sedentarizzarsi. Una situazione, invece, diamentralmente opposta si veri.fica per le regioni relativamente più piccole e comunque disomogenee, quali appunto la nostra Penisola.

Nel capitolo precedente si è osservato che la conformazione geologica estremame nte variegata dell'Italia , origine delle sue splendide connotazioni ambientali, sotto il profilo antropico si dimostrò inizialmente, se non avversa, almeno non propizia allo sviluppo delle più arcaiche popolazioni residenti. Non mancavano certamente pingui pascoli appenninici per le greggi, come pure feraci pianure da coltivare a ridosso del mare. Ma la rigidità invernale dei primi e l'insalubrità dell'aria per delle seconde, contraevano sensibilmente le rispettive potenzialità. Tra l e pendici montane e le dune litorali si estendevano campi coltivabili, ma per lo più riarsi d'estate ed a llagat i nelle restanti stag ioni, mentre l'abbondante innevamento degli altipiani precludeva a l bestiame il sostentamento naturale e la permanenza all'aperto durante i lunghi inverni.

Ri sultando impraticabili sia l'agricoltura estens i va che la pastorizia intensiva, per una comunque stentata sopravvivenza si rendeva indispensabile l'apporto sia degli scarsi raccolti sia delle misere greggi. Nessuna meraviglia che gl i sforzi per prosciugare quei terreni si intrapresero in epoca remotissima, con esiti remunerativi. Pertanto sin: " ... dall'età neolitica, molteplici canali sotterranei, di cui l'archeologia ha ritrovato i resti, solcavano l a campagna romana. Si conoscono anche i primitivi lavori degli Etruschi nelle ristrette pianure toscane ... " 12 )

Ma proprio la spasmodica ricerca di ulteriori superfici da coltivare comportò un vistoso aggravio della situazione, poichè la distruzione delle foreste e dei boschi incrementò il dilavamento dei crinali ed il trasporto a valle della relati va copertura fertile. Lì, per la scarsissima pendenza dei corsi d'acqua, i sedimenti si depositavano, ostruendone l'accesso alle foci ed impaludandoli. L'erosione, appena accennata, finì perciò col rendere contemporaneamente incoltivabili sia molte pendici appena sottratte alle foreste col fuoco, trasformandole in sterili pietraie, sia molte pianure riducendole a loro volta a pantani, circolo vizioso a lungo irreversibile. Eppure dovette essere proprio la constatazione delle spiccate antinomie tra i due concomitanti ambienti, montano e pianeggiante, a suggerire, prima una migliore integrazione tra le rispettive insufficienti economie, agricola e pastorale, e poi una razionale compresenza, premessa della più grand io sa so lu zione antiecologica dell'antichità, rimasta, nonostante la sua rischiosissima precarietà, a lungo immutata e senza significative analogie. Quanto accennato tro vò la massima attuazione e sviluppo tra la dorsale dell'Appennino centrale e le brulle pianure pug lies i, come pure, sebbene in maniera più modesta, anche sulle fascie costiere campane, laziali e to scane. Pert anto: " .. . il rigido inverno delle zone montuose più e levate e l'aridit à estiva che riduceva la piana del Tavolie re ad una specie di deserto scoraggiavano l' agricoltura di s us sistenza. La terra, d'altra parte, poteva essere trasformata in una componente produttiva del- l'economia rurale se i prodotti commerciali della pastorizia venivano introdotti ad integrare la dieta poco equilibrata degli agricoltori dediti alle colture e viceversa. Il formaggio e il latte prodotti dalla gente di montagna venivano scambiati con i cereali degli agricoltori delle pianure e rendevano coltivatori e pastori vicendevolmente dipendenti per la sussistenza. Gli allevatori radunavano inoltre le loro pecore e discendevano alla piane, per trovare rifugio dai rigori dell 'inverno e per partecipare ai mercati primaverili. Questo tipo di scambio competitivo è caratteristico di una economia agricola che vive in relazione simbiotica con la pastorizia L o specifico calendario della migrazione corrispondeva al ciclo agricolo. Il movimento pastorale dalle montagne estive alle piane invernali avveniva anticipando le prime piogge autunnali, in settembre o ottobre, nello stesso momento in cui il grano veniva piantato nelle pianure invernali. Per quanto il concime anima le fosse un fertilizzante benvenuto per i campi, tenere le pecore al pascolo lontano dai campi seminati a grano non era impresa facile. Al seccarsi dell'erba primaverile, alla fine di aprile o maggio, e all'approssimarsi della mietitura... le greggi si rimettevano in movimento. Pecore e cereali erano in concorrenza per l a stessa terra nel medesimo periodo ... " < 3 > _

Posta così, la questione altro non sarebbe che la spiegazione della classica conflittualità tra allevatori e coltivatori, ma in realtà nelle vicenda giocava un ulteriore basilare elemento: il c icl o di coltivazione dei camp i, secondo il quale14 ) tre anni consecutivi di raccolti erano seguiti da altrettanti di pascolo, intervallo necessario alla rifertilizzazione dei suo li. A questo punto diveniva possibile, con una oculata gestione del territorio, avvicendare greggi e grano, con reciproco beneficio, modificando ampiamente i limiti ecologici naturali. Di sponendosi, infatti, nel corso dell'estate di pascoli d'altura di eccez ion a le capacità ricetti va si incrementò a dismisura il numero dei capi di bestiame, non tenendo in alcun conto il rigidissimo vincolo impo- sto dalla penuria di foraggio e di ripari nella cattiva stagione. Infatti la so luzione escogitata lo aggirava trasferendo le greggi sulle pianure costiere, messe in temporaneo riposo agricolo, che i tanti animali pascolanti provvedevano a fertilizzare.

La procedura, success ivamente definita 'transumanza', rappresentava in realtà una so rta di azzardo ecologico. Gli allevatori, infatti, nel loro complesso, riunivano e selezionavano un numero di capi, in maggior parte pecore, le più idonee ai lunghi spostamenti, notevolmente superiore a quello sostenibile localmente, ovvero compatibile con le risorse ambientali, s ia di montagna sia di pianura. Il periodico tra sferi mento delle greggi evitava la moria per stenti di un significativo numero di capi, altrimenti inevitabile. La convenienza del sistema cresceva, ovviamente, con l'allontanarsi dai limiti naturali, seb bene tale forzatura implicasse crescenti rischi. Nessuno ignorava che il: " ... capriccio della natura ... poteva facilmente sconvo lgere la pratica ideale dell'allevamento. I pascoli avrebbero potuto inaridirsi a causa della sicci tà , permettendo ad numero minore di pecore di nutrirsi ... [mentre in p ianura] era raramente il freddo stesso ad uccidere le pecore , ma la neve sul terreno che impediva un pascolo agevole e provocava la morte per fame o per malnutrizione "(5) _ L'alternativa però consisteva soltanto nell'impossibilità d'incrementare le gregg i, ovvero le risorse alimentari.

D al punto di vista a ntr opico, la coraggiosa scelta non originò società nomadi, quand'anche pastorali, ma fo ndam ental mente sedentarie, in cui so lo una frazione di individui conduceva un'esistenza pendolare. P iù in dettaglio, essendo la distinzione basilare ai fini della r ice rca, è assodato che : " .. . la transumanza, a nc he la più tumultuosa, trascina co n sè soltanto una popolazione specializzata di pastori. Essa imp li ca una divisione del lavoro, un'agricoltura dimore fisse , villaggi Il nomadismo, al contrario, trascina tutto con sè, e su percorsi e norm i:l e genti, le bestie e anc h e le case. Ma non incanala mai, come la transumanza, enormi fiumi di ovini. Le sue greggi, anche rilevanti, si diluiscono in uno spazio immenso " <61 •

Pertanto la maggioranza della popolazione italica, nonostante il prevalere dell'economia pastorale, continuò a risiedere nei villaggi, dove integrò gli apporti alimentari derivanti dall'allevamento con quelli provenienti da una ste ntata, ma affatto marginale, agricoltura. In definitiva si: " ... è parlato esageratamente, per l 'e tà appenninica, dell'importanza del mondo pastorale, come se le popolazioni di questo tempo conducessero una vita nomade, alla costante ricerca dei luoghi di pascolo e di caccia. Invece la pratica della transuman za non richiede una vita errabonda, ma uno spostame nto di certi elementi di un gruppo soc iale in una determinata stag ione de ll 'anno. La migrazione, infatti, non implica l'abbandono delle abitazioni originarie da parte di tutto il clan, ma solo delle persone necessarie a questo lavoro. La stessa economia delle comunità montane non appare so lamente pastorale e di caccia, ma anche agricola e di allevamento sta nziale ... così dobbiamo vedere la migrazione so lo come una necessità climatica stagionale, non un normale modo di vivere. Un certo numero di animali doveva poi certo restare nelle sedi montane anche d 'inverno ... per le nece ss ità di chi continuava la vita sul posto ... " <7l _ Di conseguenza la sce lta per l'ubicazione degli sta nziamenti, essendo gli estremj dell 'esc ursio ne immutabili e ciclici, si riduceva alle pianure costiere o alle pendici montane. A favore delle prime la minor rigidità degli inverni, mentre delle seconde la sa lub rità dell'aria , l'abbondanza d'acqua, di selvaggina e soprattutto una inconfrontabile sicurezza, senza contare una inesa uribile disponibilità di legname, unica fonte energetica e basilare materiale da costruzione. La preferenza, ovviamente, andò alla montagna per cui i villaggi sorsero adiace n ti ai pascoli estivi che, attraverso una trama di tratturi <8l si collegarono con le pianure costiere dove sve rnare. In concl usio ne, cronologicamente la: " ... vita montanara sembra sia stata la prima vita del Mediterraneo, la cui civiltà «proprio come quelJa del Vicino Oriente e dell'Asia centrale, ricopre e nasconde male le sue origini pastorali» che evocano un mondo primitivo di cacciatori e di allevatori, una vita di transumanza... legata alle regioni alte, molto presto ord in ate dagli uomini. Le cause? Senza dubbio la varietà delle risorse montane; ma anche il primitivo dominio in pianura delle acque stagnanti e della malaria; oppure il vagare incerto in quelle zone delle acque dei fiumi. Le pianure abitate, oggi immagine della prosperità, furono creazioni tardive, faticose di secoli di sforzi collettivi So lo progressivamente l'occupazione si è estesa dalle alture alle bassure febbricose , luccicanti di acque morte " (9> _

Una testimonianza implicita della notevole antichità degli stanziamenti d'altura e della inevitabile transumanza si coglie nelle pagine di Plinio. Il celebre naturalista, infatti, precisava che due distinte razze di pecore erano coinvolte nelJe periodiche migrazioni, una detta 'greca' l ' altra, ovviamente , 'italica'. Il dettaglio , pertanto, sembrerebbe far risalire se non l'avvento della transumanza almeno la sua ottimizzazione agli albori della colonizzazione g reca, ovvero intorno all'VIII secolo a.C. Molto più verosimi lm ente, però, potrebbe anche sig nificare che in tale epoca alla tradizionale razza indigena se ne affiancò , per iniziativa dei coloni , una seconda, più remunerativa , esattamente come oltre due millenni dopo si verificò con l'introduzione dalla Castiglia delle pecore di razza 'meri na ', senza che per questo la pratica della transumanza sub isse contest ual i alterazioni.

In ultima anali si, con l'adozione delJa transumanza riuscì possibile infrangere la biocompatibilità e l ' incremento delle risorse consentì un rapido proliferare degli insediamenti appennin ici. Ne scaturì una ben distintà civiltà, non a caso definita appenninica, che rapidamente evo lse e si stem però nella più recente 'tardo appenninica' fiorita, a s ua volta, in concomitanza con i prodromi della colonizzazione greca. Nel frattempo le quote dei villaggi , lentamente , s i abbass arono , in modo da poter meglio sfruttare sia le fertili fasce pedemontane sia i floridi pascoli sommitali.

Circa le caratteristiche degli insediamenti va precisato che: " ... le popolazioni italiche primitive vivevano in piccoli villaggi aperti e sparsi. L'unione di alcuni di questi villaggi della stessa razza, della stessa lingua e degli stessi costumi formava un distretto, il quale costruiva in luogo elevato un centro religioso e di culto , recinto da un muro e abitato solo in caso di sommo pericolo (arx). Esso non è ancora la città, ma il nucleo della futura città, la quale comprenderà poi tutte le abitazioni che a mano a mano si verranno a raggruppare intorno ali ' arx o capitolium. Si formerà così l' urbs ... contornata anch ' essa da un muro (oppidum). La differenza fra rocca e città appare dal numero delle porte , scarso il più possibile nella prima, abbondante quanto più si poteva nella seconda; per cui nella rocca se ne trova abitualmente una sola e nella città almeno tre ... " c10 > .

In merito alla sopravvivenza, e ali' origine, di tali arcaici insediamenti , il Mommsen precisava che: " ... il territorio degli Equicoli, i quali ancora la tempo dei Cesari non vivevano in città, ma in numerosi villaggi aperti , mostra una quantità di antichissime cerchie di mura, che come «città deserte» destarono ... la meraviglia degli archeologi romani e dei moderni, perchè quelli credevano di riconoscervi le abitazioni dei loro Aborigeni, e questi quelle dei Pelasgi. Ma più esattamente si dovrebbero riconoscere in quei resti non già città murate, ma asi li dei membri della comunità, come se ne trovavano senza dubbio in tutta Italia, in tempi più ant ichi, costruiti però in modo meno ingegnoso. É naturale che quando ... anche quelle comunità ... lsostituirono] mura di pietra ai terrapieni e alle palafitte delle loro fortezze tali fortificazioni divennero inutili, si abbandonarono, [e] divennero un enigma per le generazioni future. Quelle comunità che tro-

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