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OSSIDIONALI

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I TALIOTE

I TALIOTE

All'interno prendevano posto un discreto numero di attaccanti che, senza alcuna fatica da parte loro, il congegno deponeva direttamente sulle mura, in maniera del tutto simile a quanto avviene con le attuali piattaforme a sollevamento idraulico. La forza motrice , ovviamente, la forniva una squadra di serventi tirando verso il basso, con numerose funi, l 'altra estremità del braccio. L'invenzione del congegno viene correntemente attribuita a Diaclet11l, uno degli ingegneri militari al servizio di Alessandro.

Torri d'assedio

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La soluzione ottimale dell'esigenza si conseguì però con le torri ambulatorie, o mobili o d 'assedio , che coniugavano alle prestazioni delle scale, quella della piattaforma di tiro, sovrastante a qualsiasi struttura assediata. Per i Greci furono le 'elepoli', cioè le conquistatrici delle città, esplicita testimonianza del ruolo risolvente guadagnatosi negli assedi. Da un punto di vista funzionale una torre d'assedio si può assimilare ad un tralicci.o mobile di legno, di notevole altezza. per lo più superiore a quella delle torri assediate.

La macchina , quindi , almeno negli esemplari più semplici, non presentava rilevanti comp lessi tà strutturali o meccaniche. ridu cendosi, in definitiva, ad un insieme di quattro scale, dagli spigoli uni ti fra loro, con un impalcato sommitale.

Ed è molto probabile che tali siano stati i suoi archetipi, inunutati per secoli, rivelatisi sin dall'inizio, perfettamente idonei allo scopo, sebbene eccessivamente vulnerabi li , non occorrendo agli assediati notevoli sforzi per rovesciarli o dargli fuoco. Della concezione originar ia, in età classica permase la pianta quadrilatera, innestata però su di un robusto telaio sostenuto da rotelle, o più frequentemente da rulli, in grado, sia pur lentamente e su superfici abbastanza lisce, di consentirne l'accostamento alle mura. Verticalmente la torre d'assedio venne s uddivi sa in diversi piani , in media uno ogni 3 m circa, che fungevano e da ballatoi per le rampe di scale che conducevano alla s ua sommità, e da piattaforme per gli arcieri e per le anni da lancio. La s ua superficie anteriore, e spesso persino quelle laterali, erano abitualmente rivestite con pelli fresche o, sporadicamente, con piastre metalliche, in maniera da proteggere gli attaccanti dal tiro degli assediati e la torre stessa dai dardi incendiari, che continuavano a rappre se ntare la sua principale minaccia. In cima stava la piattaforma d 'a ttacco, equivalente alla piazza di copertura delle torri in muratura, al pari di que11a munita di coronamento merlato e, quasi certamente, anche di copertura a due s pioventi. La vera differenza s i coglieva nel ponte volante di cui era sempre dotata, identico per forma e funzione ai celebri 'corvi', con i relativi ros tri di presa.

L'impiego delle torri implicava una fase di avv icinamento che, come accennato, 1iusciva possi bile soltanto su apposite piste accuratamente preparate. Allo sc opo s i adottarono, migliorandol e , le remotissime rampe d'assalto. Ne ll ' antichità: " la costruzione di una rampa d'assalto fu fatta sempre nello stesso modo: cioè a forza di lavoro, coi materiali sotto mano e badando che il terreno ripo11ato non cedesse durante 1'assedio ... "< 12i Stando a Tucidide nel 429 nel corso dell 'ass edio di Platea i Peloponnesiaci:

' ' Laglialo il leg nam e dal Citerone. elevarono una costruzione ai due lati del terrapieno, po sta a cro ce davanti ai !ianc hi perchè il terrapieno non si ap1isse pe r un largo tratto: vi port aro no legname e pietre e terra e tutto quello che, gettato sulla costruzione, avrebbe dovuto terminarla. El evaro no tutto ciò per dieciassette giorni e pe r allreltante notti continuamente, dividendosi a turno per il riposo. sicchè gli un i portavano il materiale , gli altri prendevano sonno e cibo :·,, J,

Di tali grandiose opere, le cu i prime testimonianze archeologiche certe, risalgono al V secolo , ci sono pervenuti ben conservati gli esempi maggiori, fra i quali sp icca la rampa realizzata dai Romani a Masada nel 73 d. C., lunga oltre m 200 per un dislivello di m 90, con una pendenza quindi prossima al 50%.

Tornando alle torri mobili, esaurita la costruzione molto probabile che si sia trattato piuttosto di un perfezionamento del congegno di posizionatura che di un vero apparato autopropulsi vo. In ogni caso, allo scopo: " ... fra le travi del telaio di base era no state disposte delle grandi ruote , forse del tipo di quelle a gabbia di scoiattolo, sicuramente in posizione verticale, che azionate dalla forza umana, erano in grado di trasmettere la rotazione alle ruote motrici della della pista, spesso una rampa a forte inclinazione, si toTTe." <15 l _ portavano ad accostare alle mura. Il tragitto veniva Circa la violenza della reazione degli assediati compiuto in tempi considerevolmente lunghi, ed durante l'avvicinamento delle torri, in particolare del essendo ovvio che per fermare il loro avanzarsi occor- loro tiro incendiario contro le stesse, basti considerare reva incepparne il 'motore', il tirare ai disgraziati che uno degli espedienti più crudelì, quanto ricorrenti, avvinti alle funi di traino, rappresentava la soluzione per tentare di bloccarlo era del tipo di quello messo in difensiva per antonomasia. atto, nel 307 a. C. , da Agatocle dinanzi ad Utica, allorLe fonti ci tramandano delle innumerevoli squadre quando: " ... fatta costruire una torre, vi legò innanzi i di serventi adibiti a quel massacrante e pericolisissi- prigionieri e la spinse contro le mura " <16l Ovmo compito: non a caso spesso si costringevano ad viamente, nel frattempo, anche le armi della torre si assolverlo i prigionieri di guerra. Ma essendo anche prodigavano in un rabbioso controtiro, cercando di agli attaccanti perfettamente nota la procedura osta- allontanare i difensori dalle mura, o almeno di attetiva, nella maggioranza dei casi, sebbene la soluzione nuarne l'intensità dei lanci. comportasse maggiori fatiche, le torri più che tirate Completata la manovra di accostamento, posizionaveni vano spinte, distribuendo i serventi al riparo della ta con estrema accortenza la torre , essendo indispensaloro mole. La fase peggiore consisteva, però, nel con- bile che la sua distanza dalle mura non eccedesse la seguimento della precisa p osizionatura finale delle lunghezza del 'corvo', gli attaccanti penetravano, ordistesse, ad immediato ridosso delle mura e, per giunta , natamente al suo interno, saturandone ogni piattaforin evitabilmente di esasperante lentezza. Non a caso , i ma , protetti e nascosti dal rivestimento ignifugo. Fatti modelli più evoluti di torri ambulatorie, erano dotati allontanare con nugoli di frecce i difensori dagli spalti, di appositi congegni interni mediante i quali erano in inchiodato il ponte al parapetto, i primi ad avventarvigrado di compiere autonomamente i piccoli sposta- si, sotto la copertura degli arcieri, erano gli uomini menti richi esti dall'operazione. É interessante, al schierati sulla piattaforma sommi tal e, avvicendati in riguardo, ricordare che nel 291 a. C. per prendere rapida sequenza da quelli delle sottosta nti. Nel giro di Tebe, Demetrio Poliorcete utilizzò una torre: " ... ma- pochi minuti si riversavano sulle mura centinaia di novrata per mezzo di leve con tanta difficoltà e len- soldati, il cui numero eccedeva, specie nei casi di tezza, per il suo peso e la sua mole, che avanzò appe- assalto sincrono di più torri, quello dei difensori con na di due stadi (circa 380 m) nell'arco di due es iti irreparabili. mesi " c 14 l _ Da un punto di v ista cronologico sappiamo, s tando Sembra pure che in casi eccezionali si progettare- a Diodoro c17> che nel 397 Dionisio il Vecchio fece no addirittura torri ampiamente semoventi. Ma è spingere sulla rampa d ' assalto costruita a Mozia, torri mobili a se i piani. La loro altezza superava quella delle case, ed erano dotate di ponti volanti, in modo da poter irrompere nella città cartag in ese, proprio dal tetto delle abitazioni. Sappiamo ancora che nel 340 a.C. Fi lip po II di Macedonia era in grado di impiegare torri d 'assedio di circa 37 m di altezza che: " superavano di molto le torri della cerchia di Perinte e dalla loro sommità i Macedoni ridu ssero a mal par;ito gli assediati ... " 118>

Anche il fig l io Alessandro ne utilizzò, di dimensioni probabilmente simili, contro l e mura di A li carnasso, tanto che gli stessi assediati, nell'estremo tentativo di dominarne la minaccio sa piattaforma sommitale, si videro costretti, ad e l evare rapidamente una controtorre di ben 46 mdi altezza. Sempre tramite Diodoro, e sempre a ca rico d e l m e de s imo arco storico , ci giunge notizia di due torri di legno, al te circa 47 m, postate sul mo lo di Tiro e dotate di una protez i one antincendio consis tente in un rivestimento di pelli fresche. La so lu zio ne, nei seco li s uccess ivi, diverrà canonica non fosse a l tro che per la sua conveni enza in un contesto, quale quello degli assedi, dove di animali macellati per le trupp e dovevano co ntarsene a migliaia.

Non mancavano, infine, torri d'assedio ga ll eggianti, ovvero in stallate su appositi pontoni per favorire l'accostamento da mare: la manovra, grazie alla spinta di ga ll egg iamento ed alla orizzontalità dell'acqua, doveva riusci re di gra n lunga più agevole c h e in terra, e lo spegnimento degli even tu ali incendi più rapido.

Secondo l'Anonimo di Bi sa nzio, t rattatista di straordi naria reputazione nell 'an ti chità, i celebri ingeneri militari Diade e Che rea:

" ... costruivano le loro torri più piccole con una altezza pari a 60 cubiti (m 27.7), dandogli per ba se un quadrilatero con larghezza e lunghezza uguali, pari a 17 cubiti (m 7.8), dividendole in dieci piani, dei quali il più alto si restringeva per formare un quadrato che, in rapporto aJia base, rappresentava un quinto di quella definita ·superficie portante·, vale a dire il terreno delimitato dai quattro lati ...

Quanto alle loro torri più grandi. le realizzarono ~uperiori di circa la metà delle precedenti, di quindici piani e di altezza di 90 cubiti (circa 41.6 m); ma gli stessi ne fecero anche di doppie delle precedenti. di venti piani. alte J20 cubiti (circa 83.2 m); ciascuno dei lati di base, nel caso di torri doppie, misurava 24 cubiti (circa 11. I m).

Costruivano tanto le torri grandi quanto le piccole secondo identiche proporzioni, aumentando e diminuendo le tre dimensioni dei pezzi di legno, ovvero la loro lunghezza, la loro larghez7a ed il loro spessore: alla medesima maniera operavano la suddivi,;ione dei piani in fun;,ione dell'altena. Le costruivano a sei ruote, e qualche vo lta ad otto in ragione della grandezza della loro mole. Per tutte queste torri ridussero ~empre la sommità ad un quinto della superficie di base

E siccome le 1ravi centrali e laterali sono rare eia trovare a causa dell'entità della loro lungheaa. è indispenc;abile seguire Di ade e Cherea. e dare ai montanti una sezione quadrata di 12 dauili (circa 23.1 cm), più stretta in sommità: e soprattutto alle travi laterali, che saranno perfettamente adattate alla grandeua che si vuole dare a que~to tipo di torre

Per ciò che concerne la diMribuzione dei piani e la loro altena, Di ade e Cherea. la misurano in cubiti. dando al p1imo piano a partire dalla base un' allena di 7 cubiti e 12 dattili (circa 3.46 m); a ciascun piano superiore un·a1tena di soli 5 cubiti (circa 2.37 m): e a ciascuno dei piani rimanenti un altezza di 4 cubiti e 1/3 (circa 2 m). Lo c;pessore tota le dell'impalcato d ei piani e la parte inferiore della piattaforma, come il tetto superiore. erano compresi nel calcolo dell'altezza. Alla stessa maniera nella torre più piccola, la distribuzione dei piani si faceva nella medesima proporzione in rapporto all'altezza... ·••

Nella tra scri zio ne del medesimo brano, compiuta da Vitruvio, è poss ib ile individuare ulte rio ri e lement i dim ensional i, qu a li l a l arghezza dei montanti per l e torri più piccole, p a ri a cm 23 ed a cm 31 per quelle doppie , che si ridu cevano in sommi tà a soli cm 15 . Quanto a lla larghezza per que st' ultim e è fatta ascendere, dallo s te sso autore, a m 10.8. E sempre Vitruvio parla di torri finestrate, cioè munite in c iascun piano di feritoie aperte nel rivestimento, come pure, ma solo nelle maggiori, di una galleria este rn a. Ad essa, che correva lungo il perimetro di ogni piano era affidato l o spegn iment o di eve ntuali principi d'incendio.

N e l 304 D eme trio Poliorcete fece cos tru ire, stando a ancora una volta ag li sc ritti di Diodoro , una gra ndi osa torre d 'ass edio per conquistare la città di R odi. Così lo sto ri co ce ne tramand a la costruz ion e e le caratterist ic he:

" ~opo di aver p repara to una grande quantità di svariati materiali, fece costruire una macchina chiamata E lepol i, di una grandezza notevolelmnte superiore a quelle fino ad allora note. Di ede infatti a c i ascun l ato d e lla sua piattaforma quadrata un a l unghezza di circa 50 gomiti ( m 23 L), realizza n9ola mediante un assemblaggio di montanti di leg no a sez ione quadrata legati co n ferro; divise lo spaz io interno tramite travi distanti l'una dall'altra circa un gomito ( cm 46.2), in maniera che vi pote sse ro predere po s to quelli incaricati di cond urre innanzi la macch in a. Tutta questa mas sa era mobile, sosten uta da otto ru ote , so lide e di grandi dimen s ioni;i lo ro cerchi infatt i erano larghi 2 gomiti ( cm 92.4) rivestiti da robuste pias tre di ferro. Per la tra sl azio ne laterale era s tata dotata di inverti to ri , grazie ai q ual i l ' insieme de ll a macchina pote va facilmente esse re m ossa in qualsiasi direzione. Ag li sp igoli aveva dei pali di lunghezza uguale, di poco inferiore ai 100 gom it i (46 .2 m), a i quali era s tata impartita una inc lin azione tale che, in questa costruz ione che comprend eva in tutto nove piani. il primo aveva una s up erficie di 43 akaines (c irca 130 mq) e l ' ultim o di 9 (c irca 30 mq). Tre lati della macchina furono ri vestiti esternamente co n piastre di ferro chioda te , affinchè i dardi incendiari non potessero arrecare alc un danno.

I piani, dal lato de l nemico, disponevano di finestre, la cu i grandezza e forma erano adatte alle caratteristiche delle macchine da lancio che vi si voleva no porre in batteria; queste finestre avevano dei porte lli che si so llev avano tramite un congegno e che assicuravano la protezione di quelli , che nei vari piani erano adib it i al servi zio della macchine da lancio, poichè erano riv est iti di pelle ed imbottiti di lana, per a mmorti zzare i colpi delle baliste lsi tratta di un dispositiv o sim il e ai portelli di murat a dei vascelli a ve la del XVlII sec. n.d .A.]. Ciasc un piano aveva due sca le: una di esse serviva pe r inn a lzare i materia li necessari, l'altra per d iscendere, in mod o che tutto s i svolgesse con i l mass im o ordin e. Quelli che avevano l'incarico di far avanzare la macchina erano s tati sce lti nell' int ero eserc ito per la loro forza ed erano in numero di 3.400; alcuni di loro stava no posizionati a ll 'interno, altri più indietro, s ui lati , e tutti s pingevano avanti la ma cchina, il c ui movimento era fortemente agevo lato da congegni meccan ic i. "120>

Di tali colossali macchine è intuibil e il peso : stando a Vitruvio quella appena descritta, alta circa 42 m , raggi un geva l e 360.000 libbre, ovvero J20 tonnellate. E non s i t rattav a, per quanto detto, di una delle maggiori. Il dato tuttavia introduce un 'a ltra indi spensa bil e osservazione, c irca la s tab ilit à di s i ffa tte strutture. La punti gliosa indi cazione, tramand atac i da tutti i tratt ati st i dell 'a ntichit à, s ulla ridu z ion e della s uperfici e delle pi attafo rme a l crescere della loro altezza da terra, o ltre a fornirci per tali torri un a connotazione geometrica di tipo tronco-piramidale quadrata, ci testimoni a l a precisa valutazione dei ristrettissimi ambiti dell a loro stabili tà vertica le. P o ic hè un a costru zione a montanti di legno , inclinati uniform ente verso l ' interno , è particolarmente co mplic ata da eseg uire, è indubbio c he la ragione di tanta accortenza deve ricercarsi proprio nell 'es igen za di garantire a quelle ve11i ginose st rutture la mas s ima tolleranza alle inevitabili oscillazioni provocate da l movim ento.

Supponendole, infatti, con le facce perfettamente verticali, ovvero parellepipede quadrate, per un'altezza pari a 30 m su di una base di 10 m, sarebbe bastata una pendenza di un qualsiasi lato anche di soli 20°, per provacarne l'abbattimento. L'angolo che su terreno pianeggiante appena battuto sembra, apparentemente, irrangiungibile, si manifesta in tutta la sua conseguenzialità allorquando l'avvicinamento avviene su rampe inclinate, bastando per attingerlo una loro monta del 30%, valore, come già osservato, per nulla eccezionale. Rastremando invece una torre di pari altezza, secondo le citate prescrizioni, l'angolo di abbattimento sale a 35 ° , pari ad una pendenza del 70%, limite al quale nessuna rampa poteva mai giungere.

La soluzione, però, implicava un abnorme allungamento del ponte volante, che, per superare le contrapposte inclinazioni della scarpa delle mura e della torre, avrebbe dovuto raggiungere almeno i 15 m , luce estremamente improbabile per una semplice passerella. Più sensato, allora, supporre che la maggioranza delle torri avessero una rastremazione, anche più accentuata ma soltanto sul lato posteriore , opposto alla direzione di accostamento, il più sollecitato dalla rampa inclinata, mantenendo per gli altri tre lati una sostanziale perpendicolarità.

Testuggini

Se l'accostamento delle torri si confermò sempre estremamente temerario e sangu inoso, il tentativo di praticare brecce alla base delle mura si dimostrò, almeno fino all'avvento delle artiglierie a polvere, di gran lunga più rischioso e micidiale, ritrovandosi i guastatori direttamente sottoposti al tiro piombante, tanto di masse solide quanto di liqu idi ustionanti. La soluzione escogitata per contrastare la terribile reazione degli assediati, consistette in una gamma di macchine pass i- ve, in sostanza delle robustissime tettoie ruotate, capaci di sopportare i peggiori impatti senza schiantarsi, consentendo così agli attaccanti di afrontare al loro riparo le demolizioni in relativa sicurezza.

Abitualmente tali corazzature mobili constavano di un solidissimo telaio, insistente su rulli piuttosto che su ruotelle, i cui assali difficilmente avrebbero resi stito ai sovraccarichi improvvisi dei colpi nemici, chiuso superiormente da una ancor più solida copertura a due falde a forte pendenza. É plausibile che l ' idea di una configurazione del genere sia scaturita dall' osservazione dei tetti delle capanne montane in grado di allontanare, per la loro inclinazione, i cumuli di neve: di certo l'angolo di colmo si preferì, al di là delle semplicistiche raffigurazioni epiche, abbastanza acuto. Per la tradizione, invece, lo spunto inventivo fu offerto dal carapace delle tartarughe, anch'esso spiovente sebbene con angolo vistosamente ottuso: dal che la loro definizione di 'testuggini'.

La blindatura orizzontale era affidata a spessi tavoloni fissati su massicce travate, simili a 'capriate', resi incombustibili dal solito rivestimento di pelli fresche o di piastre metalliche. Di minor consistenza la schermatura laterale, come pure quella anteriore, peraltro non sempre indispensabile, destinate soltanto a neutralizzare i dardi degli archi e, successivamente, i verrettoni delle catapulte.

Yitruvio ce ne tramanda la descrizione di un tipo standard semovente. La bella traduzione rinascimentale, già utilizzata a proposito delle torri urbiche, è senza dubbio concettualmente e tecnologicamente più vicino di noi all'Autore e quindi più aderente alla sua cultura.

Dunque:

"La testudine, la qual si apparecchia per rie mpire li fossi e per accostarsi alle mura, faccisi così. Compongasi insieme una basa over s ustentacolo per ques ta machina, la qual si fa quadrata, la quale in greco si chiama scanteria [eschara]; la qual sia per ogni verso sia vinticinque piedi et habbia quattro tran sversa rie , e qu es te se in ca te nano con due altre di grossezza di uno piede, di largheua di meno. et ogni uno d e l\i loro intervalli se li mc c ta socto arbuscole. la qual in greco si chiamano amaxopode cioè piedi del carro. nell e qua li se li voltino li ax i dell e rote e t inchiu sevi co n lame di fe rro. E queste arbusco le si te mperano e fan no , per modo che hann o li cardi ni e li fori, nelli qua li si mettan l e sta ng he c he le po sso no espidatamentc voltare innante et indietro et a dextra et a sinixtra, overo in cantone. aciochè qu es te cose di possino fare co n l'aiuto di dette arbucole. Poi si menano sopra questa basa due ti gni, li quali cx hin o in fora da ogni part e sc i piedi circa. le pro iecture e spargimento de · quali se ne inchiodino doi altri, li quali ese hino in fora. nanle alla fronte se tte piedi. l a rg hi e grossi come in la superi ore e prima ba~a è dicto.

E sopra questa co mpos izi one si al.i:ino poste over stipiti compactili e composti. levandone el cardine. di nove piedi alti, di grossezza per og ni ve rso d'un pi ede e mezzo; e questi se includano di <,opra via li travi cardinati: sopra questi travi s i mec tano ca prioli lcapriare] ove r calecti, o incanalature, li quali siano inclu<;i run con l'altro con li s uoi ca rdini alti nove pi ed i. e sopra qu est i capri o li si mecta un trave quadrato, el quale incateni e tenghi fo rte li caprioli l'un con l 'a ltro: e t essi da og ni canto siano in ch iodati. tenuti e però coperti co n li s uoi laterali e tavole, s i si po sso no ha vere, di palma. se non d'altro legname c he si possa ha ve re c he s ia di tan t a fer mezza , exce tto che di pino e d'altano e di abe te e simili perchè son fragili e facc ilm en t e se incendono dal fuo co . Que s ti tavoloni s i ves tan o di graticci texuti di vimene minute et strecta m ente e verde poi se lii metta sopra co ri i c rudi l c uoi c rudi] e d o ppoi c usiti in s iem e e ripieni, tra l'uno e !" altro, di alga marin a over paglia bagnata in aceto. e co n questi s i copra tutta la machina, la qual co pert a reg getterà og ni colpo di balista e t ogni impeto di foco.

É anchora un' altra sorte di testudine. la quale h a tutte le cose che ha vemo dicto di so pra, sa lvo li ca pri o li; ma que s t a ha int o rno spo nd e e pinn e over medi di tav o le, e sopravia la s ua gronda, e di sopra è conten ut a da tavole fixe e corii crudi; e so pra di qu esta se li dà una man o di creta impastata con pelo, tanta grossa ch'e l foco non possa noc e re a ll e leg nami Se possono anchora, se fia bisogno, queste machine, seco nd o la natura del luoco, te mperare e farle con otto rote "m •

Le testuggini, co m e accennato, co nobb ero a lquante var ianti fun z ionali, di c ui certa m e nte la più nota fu quella impi ega ta per i lavori di mina , in particolare a li ' imb occo dello scavo, non a caso ri co rdal a come 'testu ggine dei minatori ' P o ic hè, per ovvi m o tivi , s i cercò se mpre di ridurre al minimo l'esten s ione di tali g alleriemi, des tinate a raggiun gere le fondazioni delle fortificazioni per provocarne il crollo , il loro imbocco finiva, inevitabilme nte, per rientrare nel ragg io di Liro de lle macchine da lan cio de lla difesa. Da c iò l' es ige nza di pro tegge re i minatori e, so prattutto, i manova li impi egat i per ev acuare la terra di ri s ulta. Non trova nd osi e s posta a l tiro piombante, qu es ta s peciale te s tug g ine non necess iLava di blindature ori zzo ntali. Ri c hi edeva però, oltre alle so lite late rali , un a robu s ta protezione frontale , poss ibilmente c un e iforme per m eg lio attudire, e ma gari deviare , g li impatti dei proietti nemi c i. Anche di l ei Vitruvio forni sce prec isi ragguagli, ne i seguenti termini:

"Quelle tcstudine che s i fanno per far cave, da ' Grec i c hi mate orige, hanno tulle le parte che hannose so p ra<;cri tte: ma hann o la fronte triangolare, perchè dai mura niun a saetta o altra cosa li possa nuoce re o cogliere in fronte, m a per li lati sfugga acioché quelli c he s tan dentro possino libe ramente c avare •·ci,,

É interessa nte osservare che l'ado z ion e del la co razzatura s fugg e nte, se bbene in una macchina tra le più elementari, costitui sce l'incontrovertibil e acqui s iz ione di una concez ion e rivoluzionaria c he cos tituirà il criteri o bas ilare della fortifi c azione rin asc im e ntal e e

MACCHfNE OSSIDIONALI

delJa protezione passiva tutt'ora vigente. Favorire la deviazione degl'impatti eliminando qualsiasi superficie ortogonale alle traiettorie offensive è, infatti, il medesimo principio applicato nella costruzione della corazza dei più avanzati carri armati <24 J _ occorreva che lo stesso venisse poggiato, o sospeso, ad appositi supporti in modo da poterlo più agevolmente non solo accelerare ma riportare alla condizione iniziale per reiterare l'impatto.

E proprio come nel carro armato la corazza protegge il cannone ed i suoi serventi, così molte testuggini vennero impiegate per proteggere altre macchine da urto o da lancio.

Dall'insieme delle peculiarità appena accennate scaturì la più arcaica e temibile macchina da demolizione dell'antichità: l'ariete. Per quanto in precedenza già precisato, tanto la sua comparsa che il suo perfezionamento si perdono nella notte della preistoria. É molto probabile che gli archetipi di questa macchina fossero sorretti fra le braccia di pochi uomini, i quali, da fermi, li portavano a cozzare contro le fragili cortine di fango.

Arieti

Lo sfondamento delle mura, rivelatosi sin dall'inizio assolutamente impraticabile per il singolo combattente, continuò a confermarsi sempre di improba attuazione anche per gli sforzi concomitanti di molti uomini, fin quando almeno non fu trovata la maniera di sincronizzarne gli impeti e concentrarli in un unico punto. Forse osservando la violenza delle testate impartite dagli arieti al termine di una carica, forse constatando i danni impressi dall'urto di un tronco d'albero trasportato dalla corrente di un fiume contro un qualsiasi ostacolo, di certo molto presto nella storia della poliorcetica comparve un congegno che, fondendo insieme le due esperienze, riusciva a squassare, se non le mura, almeno le loro porte.

Ed altrettanto rapidamente si realizzò che l'entità della distruzione cresceva al crescere della massa battente e della velocità impartitagli, osservazioni naturalissime per gente avvezza a combattersi a sassate. Più complessa, invece, la deduzione che la distruzione cresceva ancora al crescere della frequenza degli urti. Nel giro di alcuni secoli, però, tutte le nozioni risultano ampiamente acquiste e sfruttate. E se per le prime condizioni si rendeva necessario un congegno di rilevante peso, manovrato da moltissimi uomini, per la seconda

L'avvento delle fortificazioni in pietra, per l'incommensurabile divario fra l'inerzia delle murature e l'energia cinetica degli arieti ne limitò l'impiego unicamente allo scardinamento delle porte.

L'iconografia assira, comunque ci ha tramandato, arieti montati su ruote e muniti di testuggine di protezione: al di là della indubbia modernità di macchine del genere, la loro dimensione appare estremamente modesta, valida al massimo contro fragili cerchie di sparuti villaggi.

Vitruvio fornisce una interessante ipotesi storica sulla comparsa dell'ariete, che sebbene cronologicamente inattendibile, non è priva di plausibilità locale:

"Prima alle oppugnazioni e bataglie lo ariete si dice esser stato trovato così. Li Cartaginesi posero campo a Gade [Cadicel, per pigliarla; et havendo prima preso el castello o ciptà, volevano spianare la fortezza, e non havendo ferramenti acti et acomodati a ciò, presero un travo e, tenendolo con le mani, andavano col capo di quello levando le pietre de 1'ordine loro e così dissiparono tutta quella fortezza. Di poi un certo fabro e maestro tyrio, el qual si chiamava Pephasmeno, seguitando questa invenzione, adrizò e ficcò in terra uno arbor di nave et un altro gli ne legò per traverso e sospeselo come una tructina o volem dir bilancia, el qual tirato a dietro e remandato inan - te da molti homini dava maggior colpo e così rovinò tutti

li muri delli Gaditani

Ma Cetra chalcidonio primo fece le base delli arieti e fecielle di legno e poseli sotto rote. e sopra con arectarii per dricto e transversarie et iughi le compose insieme, variamente larghe e forte; et in queste suspese l' arieto e trave , e coperse questa machina di cuorii di bovi non conci e cocti, aciochè quelli che stavano dentro stessero sicuri; e questo, perchè haveva el moto tardo, lo chiamorno testudine ariectaria..." 115i _

Tra le ri g he risulta evidente, e solo in ciò la rico s truzio ne è pienamente condivisibile, l'evolversi del congegno, da una semp li ce trave manovrata a braccia, capace appena di svel lere i conci uno per uno, ali' ariete propriamente detto, sos peso e tes tug g inato di notevole mole.

Il progresso culturale e la rivoluzion e meccanicistica del IV seco lo , 1i servarono anche a quella arcaica macchina una sos tanziale rielaborazione , fornendogli inedite e teJTibili potenziai ità distruttrici. Non a caso nella lett e ratura epica gli arieti iniziano a menzionarsi sis tematicamente a partire dalla fine del IV secolo, lasciando desumere che proprio a ridosso di quel periodo sia avvenuta la loro s traordinaria mutazione offensiva. Quale fosse, infatti, la nuova connotazione della macchina la si può desumere dalla testimonianza del so lito Diodoro , seco ndo cui, durante l'assedio di Rodi , intorno al 305, Demetrio Poliorcete ne costruì di mostruose, debitamente testugginate. Stando allo storico: " ... erano di dimensioni inaudite , poi c hè c iascuna possedeva una trave di 120 cubiti (= 53,8 m ), armata di ferro, provvista di una punta paragonabile al rostro di una nave, e facile da spingere perchè era montata s u ruote e mes sa in moto , in combattimento, da più di 1000 uomini ... " <201 • É interessante ricordare che la: " ... s tes sa impresa tecnica fu rinnovata successivamente da un ce rto Egetore di Bisanzio che costrnì un ariete delle stesse dimensioni, ma sospeso a cavi per cui basLavano 100 uomini a m etterlo in moto ... " '21 i Circa la modalità con cui tali colossal i congegni, pesanti decine di tonnellate, venivano accelerati , come già precisato e per quanto appena c itato, esistevano alquante so lu z ioni. La prima consisteva nel montarli su articolati treni di rotolamento, la seco nda nel sospenderli ad apposite, so lidi ss im e, incastellature. Entrambe le modalità presentavano concomitan ti vantaggi e svantaggi, per c ui riesce difficile valutarne la più conven iente. Nel s istema ruotato, ad esempio, dando per sco ntata la disponibilità di una pista abbastanza uniforme, e magari legge1mente in discesa ve r so la fortificaz ione, potevano conseguirsi velocità d'impatto rilevanti, ma la ripetezione del ciclo implicava però tempi lunghi ssimi ed innumerevoli uomini. Nel sistema oscillante, d'altro canto, g li urti, sebbene singolarmente più deboli, avvenivano con scansione ravvicina e per la manovra bastava una .squadra relativamente modesta, ovviamente dando per scontata la messa in posizione dell'incastellatura a ridosso delle mura.

In ogni caso è fuor di dubbio che la velocità massima di un ariete non era incrementabile al di sopra di un ben minuscolo valore, pari a 3-4 m/sec . 11 che costringeva, per aumentare l' e nerg ia d'impatto , ad accrescerne a dismisura la massa, ovvero le dimen s ioni

Per rendersi meglio co nto di quanto delineato basti ricordare che mentre un ariete di 10 t lanciato a 3 m/sec percuoteva con una energia doppia di uno di 5 t alla stessa velocità, l'e s ito s i sarebbe invertito se il più piccolo avesse potuto raggiungere i 6 m/sec!

Si spiega in quell'insormontabile limite l 'innesto, all'estremità dei grossi tronchi che costituivano il corpo dell'ariete, di teste di bronzo, meno frequentemente di ferro, sem pre più mastodontic he , be n al di là della logica esigenza di fornire una dura s uperfici e di percu ss ione. Un ese mplare a sos pens ione di notevole mole viene così de sc ritto da Vitruvio:

"L'arieto di questa machina era centovinti piedi longo, largo di socto un piede e mezzo, la grossezza di mezzo piede , et haveva el rostro di duro ferro, così co me sogliono haver le nave longhe, e dal rostro verso el legname pendevano quatro lame di ferro di circa quindici piedi l'una, le qua le erano inchiodate nel Lravo: e dal capo dello ariete , cominciando dalla parte di socto del trave, erano ligate quatro fune grosse otto dita, religate dalla machina, come si lega l'arbor della poppa alla prora; e queste fune era no anco religate allì predictori trav ersi , distanti l'un dall'altro un piede e un palmo, e tu tto l'arieto era cope rt o di co ri o crudo , e pendeva, questo arieto , tenuto da quattro cate ne di ferro doppie. et esso anc hora era avoltato di corio crudo; avea ancho ra la proiectura di questa machina un a arca facta di tavole e circumdata di grosse fune , per l'asperità delle quale non curendo li piedi , facilmente si perveniva alle mura, e questa machina si moveva in sei modi , in ante et indietro, a destra e sinistra et in s u e in giù se alzava et inclinava. Se alzava in al to questa mach ina per percotere e l muro circa cen to piedi; dalli lati a nchora precurreva e stringea; governavala non meno di cento homini, anchora che havesse di peso quatromilia talenti, che fa a lla nostra misura quattrocentomila libre " <28i

Nonostante la mole dell'esemplare citato, nemmeno le dimensioni erano s uscettibili di ingigantirsi indefinitamente, pena la ingo ve rnabilità del congegno. In prati ca , da un certo momento in poi, si adottarono so lo arieti di grandezza sta nd ardizzata , relativamente modesta. Cons iderando inoltre che la loro prestazione poteva avvenire so ltanto a brevi ss ima distanza dalle mura, esattamente come quella delle torri mobili, si finì per in serirl i nell e ste sse, ricavando dall'abbinamento una esaltazione delle reciproche potenzialità. Così ne rievoca, il so lito Vitruvio, un prototipo attribuito a Diade:

" Per ogni via faceva anchora la testudine a recta ria a l medesimo modo la qual havea d ' intervallo trenta c ubiti

Ingeg No E Pa Ura Trenta Secoli Di Fortificazioni In Italia

et alta senza fastig i o sedic i; el fastigio era alto septe cubiti et uscivali fora, sopra 'l mezzo del fast igio , una torriciola non men larga di dodici c ubiti. La qual voleva che havessi quattro tavolati , e nel tavolato di sopra statuiva catapulte e scorpioni, nelle parte inferiore li poneva molte acque per ex tin guere e l foco si vi fosse stato gettato. Et in questo si poneva una machina ariectaria, la qual in greco si chiama choriodoci [criodoce) , nella qual si collocava un toro , cioè un lecto , da passarvi l'arieto, el qual l ecto era facto al torno, sopra el qual si metteva I' arieto el qual, cacciandosi innante e rettirandosi indietro, faceva grandi effecti, e questo anchora copriva di cor ii c rudi , come la torre "129

In conclusione, che:" fosse montato su ruote, posto su cilindri rotanti (in tal caso si chiama va trapano) o sospeso a un'impalcatura, fino alla fine dell'Antichità l'ariete continuò ad essere l'arma preferita dagli assalitori , se nza s ubire modificazioni di rilievo " <30> E forse proprio per favorirne l' impiego , da un parte, e per ostacolarlo dall 'a ltra, nel medes imo arco sto rico iniziarono a comparire sui teatri ossidionali congegni di staordinari a efficacia, correntemente definiti ' macchine da lancio ' Data la loro rilevante complessità, frutto di diversifica te lin ee evolutive, per valutarne appieno la portata e le conseguenze s ulla fortificazione, è indi spen sa bile far precedere la trattazio ne tipologica da una breve esposizione dei principi di funzionamento.

L'artiglieria elastica

Pur osservandosi intorno al III secolo a.C. una variegata differenziazione dell e artiglierie meccaniche, so tto il profilo costruttivo, operativo e balistico, tutte si riconducevano ad un unico criterio propulsivo: lo sfruttamento deJJ' e nergia elastica. Al di là , però , di que s ta comune matrice , nella realiz zaz ion e pratica vennero adotatti di versi ti pi di accumulatori energetici, alcuni basati sulla deformazione lineare di idonei materiali, altri su quella volumetrica, altri ancora su entrambe< 3 1>

In linea di massima, dal punto di vista meramente fisico, la deformazione di un solido avviene quando allo stesso sono somministrate forze esterne. Nel caso in cui al loro cessare il solido riacquisti la sua originaria connotazione si parla di deformazione elastica, in quello contrario di deformazione permanente o 'plastica'. Ma mentre nella prima situazione vi è la restituzione, da parte dello stesso solido, nel corso del suo ritorno allo stato normale, di una quantità energetica quasi pari a quella deformante, nella seconda non avviene nulla del genere poichè la stessa risulta definitivamente consumata per il conseguimento della nuova forma. Ovvio , quindi, che un ciclo energetico reversibile, accumulo-cessione, sia attuabile soltanto utilizzando deformazioni elastiche. Inoltre, nella stragrande maggioranza dei materiali elastici, mentre la deformazione può avvenire applicandogli forze modeste per tempi relativamente lunghi , la restituzione avviene, invece, istantaneamente liberando contemporaneamente tutta la quantità di energia accumulata. É facile, a questo punto, intuire la rispondenza degli accumulatori a deformazione elastica per finalità propulsive. E già da questa breve precisazione emergono gli elementi costituenti l'apparato dinamico delle macchine da lancio, ovvero un accumulatore energetico, un dispositivo per il suo caricamento con arresto automatico ed un meccanismo di liberazione a scatto.

Dal punto di vista tecnologico il primo congegno inventato dall'uomo in grado di sfruttare l'elasticità fu senza dubbio l'arco, nel quale l'energia di restituzione tramite la corda veniva trasmessa alla freccia per imprimerle il moto. In quanto tale è definito, al pari delle macchine da lancio, arma telecinetica da corda <32> , L'idea, quindi, di costruire archi giganti per lanciare dardi enormi a distanze maggiori deve collocarsi nella più lontana preistoria:ma la sua realizzazione pratica ostentò difficoltà tali da frustrare ogni tentativo, almeno fino alla metà del primo millennio a. C.

Dal punto di vista cronologico, infatti, la comparsa di congegni del genere, magari nella concezione più elementare, deve collocarsi intorno al V-IV seco lo E deve ascriversi all'esigenza di incrementare l' ampiezza delle gittate piuttosto che la grandezza dei proiettili. Colpire restando fuori tiro rappresenta ancora oggi una irresistibile motivazione per la ricerca militare.

Il primo ostacolo che si dovette superare fu quello relativo alla costruzione di un arco maggiorato. Una volta ottenuto, applicarlo ad un teniere, munirlo di un supporto e dotarlo di meccanismo di scatto riuscì relativamente facile. Ne derivò una vasta gamma di macchine di lancio a 'fless ione'. Ben presto però, si costatò che l'energia così accumulabile non solo non poteva eccedere detenninati valori ma, per giunta, col tempo tendeva a diminuire irreversibilmente per il deformarsi plastico degli archi. Tuttavia si constatò pure, che esistevano soluzioni migliori per immagazzinare l'energia elastica basate sulla deformazione volumetrica, ovvero sull'allungamento ed assottigliamento di fibre animali sottoposte a torsione.

La torsione, infatti, proprio per spingersi sin quasi allo snervamento omogeno dell'intera ma ssa so llecitata consente accumuli energetici enormemente maggiori della flessione, con entità direttamente proporzionale al numero di fibre impiegate , vale a dire al diametro delle matasse da esse formate. Anche in questo caso l'idea iniziale deve supporsi abbastanza semplice, scaturita forse dall'osservazione di una sega da falegname la cui lama veniva mantenuta tesa dalla divaricazione di due braccia provocata torcendo, con un listello, una fune ad esse avvinta. Sostituire ai corni dell'arco due tozze braccia impegnate in una coppia di matasse ritorte, lasciando immutata le restanti parti dell'arma, non richiese molto, forse meno di mezzo secp lo . Erano nate, a quel punto, le macchine da lancio 'a torsione' destinate a soppiantare inesorabilmente quelle a fles-

LE MACCHJNE OSSIDIO NALJ

sione, guadagnandosi per potenza e prec1s10ne la strana staffa, sagomata all'incirca come il manubrio definizione per antonomasia di artiglierie elastiche, o della bicicletta. meccaniche. In particolare 'neurotone' se con matasse In dettaglio, alla estre mità posteriore del teniere, saldi tendini bovini, e 'tricotone ' se con matasse di capel- damente vincolata al calcio , stava la suddetta staffa, in li, o crini di cavallo. modo da volgere la concavità verso l'esterno. Al momenSebbene, a prima vista, tra le due non ci appaiono to di caricare l'arma il tiratore inseriva nella sua rienapprezzabili differenze, per i tecnici dell'antichità, inve- tranza l'addome, offrendo così al fusto uno stabi le conce, è inne gabile la nettissima superiorità delle tricotone, trasto mentre le mani ne traevano la corda fino all' arrelasciandocene supporre prestazioni balistiche a ltrettanto sto: senza la staffa l'operazione sarebbe riuscita impratimigliori. Ad una identica conclusione, del resto, induce cabile, per l 'insostenibile pressione che il calc io avrebbe il raffronto dei carichi di snervamento dei capell i e dei esercitato sui muscoli addominali. A ben riflettere si tendini, con una sensibi le prevalenza per i primi a parità, pon·ebbe ravvisare nel singolare dispositivo una sorta di ovviamente, di sezione. É estremamente probabile, per- premessa, sempre di configurazione an;:1tom.ica ma invertanto, che le matasse delle catapulte tricotone, potendo sa 1ispetto alla balesn·a medievale, che era dotata, infatti, sopportare torsioni più esasperate di quelle neurotone, per lo stesso scopo di una staffa anteriore nella quale si riu sc issero ad accumulare quantità energetiche maggio- inseriva il piede. Ad ogni buon conto proprio dal ruolo ri e, quindi, ad imprimere ai proiettili velocità iniziali sostenuto dallo stomaco il gastrafete trasse l'appellativo! sens ibilm ente superiori, che si traducevano in gittate più L'arco dell'arma venne saldamente vincolato ad un ampie. Ciò premesso passiamo ad esanlinare le relative fusto-teniere, lungo il quale giocava una slitta sul c ui macchine. dorso, in posizione assiale, correva una sottile scanaltura destinata ad alloggiare ed a direzionare il dardo alla cui estremità, priva di governali, si incoccava la MACCHINE DA LANCIO corda. L'adozione di un dispositivo di scatto garantiva una perfetta lìnearità della traiettoria soppri mendo le Artiglieria a flessione oscillazioni i1ùziali che rendevano difficile la punteria con i normali archi.

I trattatisti e gli autori classici più antichi fanno s pesso riferimento, nell e loro opere, ad un enigmatico tipo di macchi n a da lancio antiuomo, di uso individuale , che rievocano col il curiosissi mo nome di gastraphetes. In epoca meno arcaica fu definita anche arcobalista: ad una più accurata indagine, sem brerebb e trattarsi di una so rta di antesignana balestra ' man esca', dotata di un rudim entale meccanismo di sgancio ma priva d el verricelJo o di una qualsiasi leva di caricamento. Proprio per la manc a nza di tale dispositivo l a procedura di messa in flessione d ell'arco, che nece ssariamente deve s uppors i di tipo composto, s i doveva dimostrare talmente improba da richiedere una

La fase success i va comportò l'adozione di un affusto, o basamento, sos tanzialm ente s imile ad un cavalletto a tre piedi: l'arma cessava così di essere manesca per divenire da posta, o da banco, o ancora da muro: per i Greci, come più tardi per i Romani , ebbe allora la definizione generica di catapulta, come precisa inequivocabilmente Vitruvio, affermando c he:

'

·... son scoprionj, over ba lestre , catapulte cioè balestre da banco ... " ' 31> .

La 'catapulta', la cui in venz ione stando a Diodoro, deve ascrivers i agli in gegneri del tiranno di Siracusa,

Dionisio il Vecchio , tesi peraltro condivisa dalla maggioranza degli storici moderni , nella sua configurazione più rudimentale sembrerebbe, però, all'epoca già esistente da seco li. Da accurate indagini risulterebbe, infatti, che i tecnici siciliani s i ispirarono per la sua elaborazione ad archetipi di origine fenicia, impiegati correntemente dai Cartaginesi dell'Isola. Altre ricerche, di pari attendibilità, individuano la medesima arma in contesti di gran lunga più remoti, risalenti addirittura intorno al 700 a.C., in Medioriente: è probabile, tuttavia, che, in questo secondo caso almeno, s i tratti di inesatte traduzioni delle fonti.

In conclusione l'ipotesi più fondata resta quella della matrice italiota. É interessante, comunque, precisarne meglio le probabili concause inv entive e soprattutto le sue caratteristiche strutturali e funzionali. In dettaglio: " ... è indu bbi o, nella vicenda, il ruolo sostenuto dall'emulazione dei costruttori e dall ' esaltazione civica, sulle quali insiste Diodoro: questi fattori psicologici non sono affatto negabili; occorre ancora, però , che i tecnici di Dionisio fossero non soltanto bramosi di farlo, ma soprattutto capaci di farlo.

É evidente che la loro opera, al riguardo, fu facilitata dall'ampiezza dei mezzi materiali messi a loro disposizione dal tiranno siracusano, e che il loro genio personale non potè che guadagnare dal contatto con altri specialis ti non esclusivamente originari della Sicilia, ma anche d' « Itali a, di Grecia e dell ' impero cartaginese» ... " <34 > _ Si sa ancora che quel colossale parco macchine: " fu diretto contro la città di Motia. É interessante notare che Dionigi , quando arrivò so tto la città nemica, ne esaminò le difese «co n i suoi architetti». L'assedio non è più solamente un atto di valentia, di impeto e di assalto. Si tratta ormai di un problema tecnico ... " <35l _

É sensato, in siffatta prospettiva storica, supporre c he tali armi non furono il frutto delle fatiche di un unico inventore, di qualsiasi nazionalità fosse stato, ma piuttosto di una scuola di pensie ro , come ad esempio quella dei pitagorici di Taranto, notoriamente versati nella meccanica. In particolare di quella di: " Archita di Taranto , nato verso il 430 a.C. e morto in un naufragio sulle coste della Puglia verso il 348 a.C. Fu un personaggio di grande rilevo, insieme uomo di Stato e uomo di scienza, che non tra scurò tuttavia gli aspetti pratici. Discepolo di Filolao, membro della scuola pitagorica, scrisse numerose opere di cui restano solo piccolissimi frammenti ... Ma accanto a questi meriti ... Archita è presentato come un vero inventore... Vitruvio cita Archita come scrittore di argomenti di meccanica applicata. « Archita , che eccelleva nella fabbricazione di macchine, vole ndo usare la geometria e la speculazio ne per gli usi della vita, ne aveva fatto ogni sorta di applicazioni » " <36> Una ulteriore conferma all'ipotesi della contemporanea rielaborazione a più mani di quei congegni da guerra si coglie nel cospicuo numero delle loro varianti, con l ' unico fattor comune di scagliare dardi antiuomo e non sfere di pietra o di metallo. In ogni caso ben poche certezze esistono e per l'epoca esatta della loro comparsa e per le loro precise caratterist iche tecnic he , e persino, se realmente quelli a flessione furono antecedenti agli analoghi a torsione. Come in precedenza accennato, affinchè la loro costruzione fosse concretamente possibile: " il principale fattore limitante sare bb e stato l'arco composito . Non abb iamo alcuna informazione circa lo sviluppo di questo tipo di arco per l'impiego ne ll ' artiglieria, ma i maestri artigiani sarebbe ro stati soltanto lentamente capaci di produrre archi più grandi e potenti. Pos siamo ragionevolmente stimare che un periodo di circa 30 anni o più trascorse fra la realizzazione del primo arco composito per i gastrafeti e la produzione di archi enormi come quello per l a prima grande macchina da lancio di pietre non a torsione , pro gettata da I s idoro di Abido ... " c37 l _

Di certo, dal punto di vista pratico , il maggior problema che si presentò per la costruzione del gastrafete fu senza dubbio relativo alla maniera con cui realizza- re l'arco, che raggiungeva quasi 3 m di ampiez za. Pur risapendosene dettagliatamente gli indispensabili requisiti ottimali, nonchè la forma , trovare un materiale abbastanza elastico per accumulare molta energia senza riuscire al contempo talmente rigido da non poter essere piegato dalla forza umana, dovette dimostarsi di improba soluzione. Senza contare che proprio la notevole quantità di energia accumulata finiva per rendere estremente complesso qualsiasi meccanismo di scatto. Diversamente dalla balestra medievale l'acciaio non era ancora disponibile con le giuste caratteristiche di elasticità, e soprattutto nelle debite dimensioni. La costatazione che all'epoca esistessero già spade d'acciaio non dimostra affatto che la metallurgia coeva fosse in grado di forgiare lame lunghe tre metri, abbastanza sottili e di spessore costante nonchè di omogenea tempra. Tuttavia alcuni studiosi non ne scartano affatto la presenza. Ma che tale potenzialità fosse impraticabile trova implicita conferma nell'osservare che persino i Romani, ancora in epoca imperiale, nonostante la loro superiore tecnologia, non disponevano di archi d'acciaio del genere.

Ovvio pertanto ritenere che, al di là delle maggiori dimensioni, l'arco del gastrafete non differisse se nsibilmente da quelli coevi più potenti, noti appunto come 'archi compositi'. Sotto il profilo storico, l'arco:

" ... nacque semplice e diventò poi quasi s icuramente nell'Asia centrale composito. Quasi sempre il legno forma il nucleo centrale de l fusto, mentre materiali con caratterist iche opposte lo rivestono per un notevole tratto della sua lunghezza. Per la parte esterna del fusto, quella rivolta verso il bersaglio, sono stati adoperati materiali generalmente animali, che offrivano forte resistenza alla trazione, come ad esempio i tendini o i fasci tendinosi; per la parte interna venivano utilizzati materiali che offrivano una forte resistenza alla compressione, come lamine di corno o di metallo. Il tutto e ra fermato con collanti e fasciato con avvolgimenti di tendini ricoperti poi di lacche e vernici. L'arco compos ito quando allentato, o priva to della sua corda, s i può presentare, a seconda della composizione , c on una semplice o doppia curvatura " (38>

Pochi dubbi , quindi, permangono che l'arco del gastrafete appartenesse alla tipologia appena descritta , in particolare a quella a doppia curvatura. É interessante osservare che per ottenere la mas s ima capacità elastica la soluzione escogitata di connettere divers i materiali a dissimile resistenza alla trazione ed alla compressione, è esattamente la stessa che millenni dopo porterà all'invenzione del cemento armato!

Tornando all ' arco composito a doppia curvatura: " ... nella sua forma più perfezionata... la sua curvatura ... allo stato di riposo completo, risulta invers a alla curva formata dall ' arco quando è armato o te so. Quest'arco si costruiva con corno, tendini e legno di ciliegio. Si cominciava col modellare l ' anima di legno ; questa era formata da tre pezzi , i due bracci e l ' i mpugnatura, che venivano connessi con incastri e collanti delineando già la forma dell ' arco; all'interno di questa curva, che diventava poi il dorso dell'arco armato, veniva disteso , incollato e pressato, il tendine, sul lato esterno venivano distese e incollate le due s tri s ce di corno secondo la loro curatura naturale. Il tutto veniva poi ricoperto con pelle tesa e incollata ... " 09 > .

Il dettaglio che l'arco composito allo stato di ripo s o presentasse una curvatura inversa a quella di quando armato lascia già facilmente intuire il grande sforzo necessario per incoccare la corda: del resto è noti s simo, a riguard o, l'episodio di Ulisse. E se in un arco ' manesco ' era fattibile, con alquanti artifici, la fatico s a operazione in uno di 3 m di ampiezza risultava praticamente impossibile, senza ricorrere ad una falsa corda. L' espediente però serviva soltanto all'iniziale approntamento dell'arma, ferme restando le successi ve difficoltà di caricamento. Ben presto, pertanto, per agevolarne la manovra si ricorse ad un verricello sul cal- cio. É probabile che tanto quest'ultimo come l'affusto a tripode furono le innovazioni apportate ali' arma intorno alla metà del IV secolo. Per altri studiosi, invece, l'adozione del verricello deve collocarsi in un periodo più recente. A loro parere, infatti, va ritenuta una cooptazione del sistema di caricamento impiegato sulle catapulte a torsione, la cui superiore potenza energetica rendeva tassativo quel dispositivo.

In ogni caso, il verricello fu alloggiato in una staffa, fissata rigidamente ali' estremità posteriore dell'arma, esattamente dove s i collocherà anche quello delle balestre medievali, dette appunto 'a martinetto' o 'a mulinello'. Si componeva di un tamburo cilindrico il cui asse, attraversati i lati della staffa, terminava da ambo le estremità con corone munite di robusti aspi, sui quali si esercitava lo sforzo. Al tamburo faceva capo la fune di caricamento, fissata ali' estremità posteriore della slitta. Posto in rotazione il tamburo, lentamente la slitta retrocedeva trascinando mediante il dispositivo di scatto la corda arciera, caricando l'arco. Per evitare lo sganciamento accidentale durante l ' operazione, e per consentire al servente di potersi fermare in ogni momento per un qualsiasi esigenza, i fianchi esterni del fusto si sagomarono a cremagliera impegnandovi una coppia di arpioni mobili , solidali al gancio di traino. All'interrompersi dello sfo rzo, la corda tornando alla sua posizione di ripo so trascinava la slitta con gli arpioni, che si bloccavano , dopo pochi centimetri, al primo dente della cremagliera ponendo in sicu rez za l 'arma.

Se la potenza dell'arco aveva reso necessario il verricello è probabile che il peso di quest'ultimo, e dei suoi accessori, rese altrettanto indispensabile l'affusto. Esso, in linea di massima, appare formato da un basamento triangolare da cui sp ic cavano tre montanti di legno convergenti intorno ad un grosso perno. Sul perno stava liberamente innestata una forcella che a sua volta sorreggeva il tenierie: possibile, pertanto, la sua rotazione orizzontale e verticale. La configura- zione, fatte salve le debite dimensioni, è sostanzialmente identica a quella di un moderno cavalletto fotografico da studio, o di un treppiedi di mitragliatrice. Per la prima volta un ' arma poteva brandeggiare ed al contempo basculare , restando soldamente fissata a] suo affusto: la soluzione da allora non sarebbe più mutata.

Poichè la scelta dell'istante di tiro implicava una ponderata valutazione e poichè, quasi certamente, il congegno di sgancio imprimeva ali' arma inevitabili sobbalzi, per migliorarne la punteria si inserì, tra il teniere ed la gamba posteriore del basamento, una traversa ad inclinazione regolabile, simile in larga approssimazione ad un rudimentale 'alzo'. La sua posizionatura confermerebbe indirettamente una preponderanza 'in culatta' dell ' arma, volutamente accentuata per incrementarne la stabilità, del tutto analoga a quella che avranno da un certo momento in poi le artiglierie, per gli stessi motivi. Quanto al congegno di sgancio, il modello più grezzo, era costituito da una leva il cu i braccio minore fuoriesce da sotto la coda dell'arpione lo liberava consentendo alla coda di sollevarlo e di rientrare. É presumibile che i vari movimenti, sia pure limitati, di tanti componenti a forte attrito e a rilevante contrasto reciproco richiedessero un abbondante lubrifica zione del!' arma, ottenuta con frequenti spalmature di grasso animale .

Sintetizza la descritta evoluzione del gastrafete, il prototipo attribuito a Zopiro, praticamente identico ad una balestra da posta medievale. L'assemblaggio tra i suoi principali elementi costituenti era ottenuto tramite legamenti per il fissaggio dell 'arco al fusto, e tramite un doppio giunto a snodo fra quest'ultimo ed il basamento. Ma al di là di questa straordinaria anticipazione del più famoso giunto cardanico, la vera differenza rispetto alla versione medievale si ravvisa nell'attacco dell ' arco al teniere, non complanare alla faccia s uperiore della slitta ma ad essa sottoposta. É probabile che la strana posizionatura s ia dipesa dall'eccessiva legge- rezza dell'arco stesso, per cui facilmente i suoi comi al momento della liberazione della corda tendevano a sollevarla, privando il dardo della completa accelerazione. Grazie , invece, al predetto accorgimento la corda era obbligata a strisciare sulla scanalatura, trascinando fino all'ultimo il dardo che, pertanto, poteva esservi alloggiato anche più profondamente con ulteriore miglioramento della punteria.

Con la disponibilità di energie potenziali tanto rilevanti le prestazioni di tali armi dovevano necessariamente surclassare quelle dei migliori archi compositi, senza contare la straordinaria precisione garantita dal loro supporto fisso. Da attendibili studi, infatti, è emerso che la gittata del gastrafete le superava almeno del 25%, fornendo perciò un tiro efficace sicuramente eccedente i l 00 m. Circa i dardi impiegati, da cui la definizione ulteriore di macchine 'oxibele', i numerosi reperti archeologici pervenutici ne consentono una discreta valutazione. Abitualmente erano costituiti da un asta di legno con puntale di metallo, per lo più a sez ione quadrata, simile ai chiodi dell 'e poca. Non possedevano alcun impennaggio, forse perchè incompatibile con la scanalatura, forse perchè inutile per il peso e la velocità del proiettile: di certo gli impatti si dimostravano di tremenda violenza, trapassando facilmente elmi e corazze della migliore fattura. Va inoltre osservato che nelle catapulte a flessione: " ... è la lunghezza del proiettile che serve a definire la potenza della macchina... [e che comunque] la gittata di tali congegni non è necessariamente proporzionale alla loro poten za... " <40)

Non mancarono, nel lungo lasso d'impiego dei gastrafeti, varianti destinate a scagliare pallottole di pietra o di piombo, ricordate dai trattatisti come macchi ne 'litobole' . L'unica differenza rispetto alle precedenti consisteva nel fusto più tozzo per via della scanalatura necessariamente più larga. Come si sa pure della rea li zzazione di prototipi in grado di tirare a ripetizione, mediante un dispositivo a manovella che rica- ricava l'arco nel mentre avvicendava i dardi: il complicato maneggio sembrerebbe, però, la causa più probabile del loro abbandono.

É difficile sti mare con esattezza la cadenza massima di tiro che macchine del genere riuscivano a garantire, dipendendo molto dalla pratica dei serventi e dalle condizioni dell'arma. Tuttavia supponendola, sia pur di poco, inevitabilmente inferiore a quella di un arco tradizionale non s i è lontano dal vero stimandola di un lancio ogni paio di muniti. Ovvio, pertanto, che solo riunendo diversi pezzi in batteria fosse possibile effettuare un tiro d'interdizione: dal che la conseguenza architettonica di torri planimetricamente più ampie sebbene più rade. Sempre dal punto di vista funzionale va rilevato che i gastrafeti non disponevano, per quanto se ne sa, di alcun dispositivo di registrazione, o di compensazione, della rigidità dell'arco, per cui inevitabilmente con il trascorrere del tempo le prestazioni tendevano a decurtarsi. Nè, peraltro, riusciva agevole la sostituzione dello stesso: unico rimedio per ritardare al massimo il degrado fu sempre quello di staccare la corda non appena se ne reputasse conclusa l'utilizzazione.

Artigieria a torsione

Crono logicamente mentre l 'artiglieria a flessione è documentata, con s ufficiente certezza, a partire dalla fine del V secolo per quella a torsione occorre attendere ancora un cinquantennio, rintracciando se ne le prim e esplicite allusioni intorno alla metà del IV. E, a differanza dell 'a l tra, i perfezionamenti s i s usseguirono per qua s i mezzo milennio, se nza peraltro mai metterne in discussione il sistema di accumulo energetico. Di gran lunga più improbo: " ... tentare di scoprire quando l'artiglieria a torsione fu inventata. L' iniziale indi scutibile riscontro per catapulte con mata sse elastiche di tendini o cape lli si trova in una iscrizione relativa ai materiali militari, ed alle loro pertinenze, custoditi nella Calcoteca, la casa-tesoro e arsenale, sull'Acropoli di Atene:

- catapulte, di due cubiti con matasse di capelli complete: 3

- catapulte, di due cubiti, con matasse di capelli non in buone condizioni ed incomplete: 3 native, per la igroscopicità dei capelli con conseguente allungamento in rapporto all'umidità ambientale , le prestazioni delle artiglierie a torsione toccavano l ' apice in regioni dal cUma asciutto e secco. Per le restanti , una pioggia improvvisa bastava a decurtale vistosamente, con esiti immaginabili. Vuoi per questa ragione, vuoi per la presumibile difficoltà di reperirli di suffi-

- due altre catapulte di tre cubiti, con matasse capelli non in buone condizioni ed incomplete di ciente lunghezza, l'impiego dei capelli divenne margi-

- altre catapulte con matasse di capelli

Tutte le catapulte suddette, in buone condizioni o meno, qualora progettate per scagliare dardi di due o tre cubiti possiedono matasse di capelli. Non c'è alcun elemento per poter stabilire se si tratti di capelli di donna o di crin i di cavallo, sebbene siano più probabili i secondi. La forma letteraria dell'iscrizione, stilisticamente, appartiene al periodo di Licurgo, 338-326 a.C. Perciò l ' artiglieria a torsione esistette , indubbiamente, sin dal 326 a.C. " (41 J

L' insistente precisazione, apparentemente oziosa, circa la composizione delle matasse, ovvero se capelli femminili, crini di cavallo, od anche tendini bovini , al cli l à della diversa resistenza specifica di ciascuna fibra, sulla quale già abbiamo espresso valutazioni, deve supporsi motivata dalla lunghezza ottimale che necessariamente la stessa doveva possedere, almeno dell 'o rdine della cinquantina di cm. Infatti per sopportare la tremenda so lle citazione della tor s ione i fili delle matasse richiedevano coesioni notevolmente superiori a quelle delle normali funi, ottenibili so ltanto incrementando l'aderenza su perficiale fra le loro fibre, ovvero impiegandone della massima lunghezza disponibile. Si sp iega così il perchè, nonostante l'infinita varietà presente in natura di formazioni cheratinose chim icamente analoghe, basti pensare al vello di tutti gli ani mal i coperti di peli o di setole, la scelta si riducesse appena ai capelli umani femminili per moda ed ai crini caudali equini. A causa di tale mancanza di alter- nale, rapidamente sopp iantato dai nervi bovini, al punto che in breve tempo siffatte anni assunsero la definizione per antonomasia di neurobalistiche, senza ulteriori tassati ve precisazioni. Infatti tornando alle tracce epigrafiche dell'avvento dell 'a11i glieria a torsione: " un'altra iscriz ione attica, che possiamo definitivamente attribuire all'anno 330-329 a.C., indica anche l'esistenza di macchine a torsione sebbene le matasse stesse non siano esplicitamente menzionate. Si tratta in sostanza di un inventario di equipaggiamenti navali ... Tra le sue voci:

- struttura di catapulta da Eretria

- affusti per catapulte: 14

- basamenti per catapulte: 7

- archi rivestiti di cuoio: 2

- affusti per scorpioni: 6

- travi a croce (? ): 5

- ruote pulegge: 3

- dardi per catapulte, senza puntali e senza governali: 455

- dardi con puntali: 55

- aste non finite per le catapulte a dardi: 47"(42 1

La netti ss ima prevalenza delle matasse di tendini è ravvisabile ancora in: " un 'a ltra breve te st imonianza delle catapulte presenti sull'Acropoli nel 318-317 a.C., [che così] precisa:

- catapulte da due cubiti, con matasse di tendini: 16

- scatole di dardi per catapulte : 10

- catapulte da due cubiti, con matasse di tendini: 1 - c atapulte da due c ubiti, con matasse di capelli ... " (431

Per quanto innanzi delineato è estremamente probabile che persino quando le fonti accennino esplicitamente ai capelli , come nella precedente citazione, si sia trattato in realtà di tendini, gli unici ormai impiegati nelle macchine da lancio dei Macedoni. Del resto per valutare la estrema rarità del ricorso ai capelli , basti ricordare che durante 1'assedio di Cartagine ad opera dì Roma, il cui esito è ben noto, secondo la tradizione solo al profilars i della di sfatta le matrone offrirono le loro chiome per le catapulte! Nessuna traccia , infine , se ne individua in un frammento di appena un decennio posteriore , relativo agli: " approvvigionamenti di artiglieria ... (306-305 a.C.) che elenca i seguenti materiali , immagazzinati nella Calcoteca dell 'Eritteo dell'Acropoli di Atene:

- una pietra da lancio e un arco che c olpisce di 4 cubiti completo, la voro di Bromios

- un 'altra catapulta di 3 c ubiti c ompleta

- un ' altra catapulta di 3 c ubiti con matasse di tendini

- un'altra catapulta di 3 spanne, con matasse di tendini comple ta ... " (44

In conclusione, standardizzatasi la natura delle matas s e, dal munizionamento: " l'insieme della documentazione , di origine letteraria ed epigrafica, prova per conseguenza che esistevano, all'avvento dell'epoca ellenistica, due tipi di catapulte le oxibele e le petrobole ciascuna con numerose varianti, alle quali se ne deve aggiungere un terzo , gli scorpioni, noti per un unico riferimento ma inequivocabile. Resta da stabilirne le caratteristiche di ciascuna interpretando le scarse indicazioni tecniche ad esse riferi-

LE MACCHrNE OSSIDIONALI

evitare che le braccia , nella violenta corsa di ritorno. andassero a cozzare, per inerzia, contro di loro, danneggiandole. La coppia di assi mediane, appena più strette delle precedenti, oltre ad irrigidire la scatola , fungeva da solido raccordo con il fusto.

Per sos tenere gli ancoraggi delle matasse su ciascuna delle assi orizzontali, erano praticati due fori di una decina di cm di diametro, attraverso i quali passavano le stesse.

te alla luce dei trattatisti di balistica di età ellenistica presentava, nella parte posteriore, un incavo mediano e romana " <45 ,_ semicircolare, di circa 15 cm di diametro: serviva ad Si può pertanto affermare, con accettabile fondatezza, che all'avvento del III secolo a.C. le artiglierie neurobali stiche erano ormi di uso corrente, perfettamente funzionati e diversificate per il lancio di dardi e di pietre. Logico, quindi , supporre che tutti gli inconvenienti e le deficienze riscontrate nei gastrafeti, persino in quelli più evoluti, avessero trovato nelle nuove macchine una definitiva eliminazione con 1' adozione degli accumulatori elastici a torsione, pur mantendendo inalterata la loro concezione di ba se.

In dettaglio, infatti , dal punto di vista costruttivo, le artiglierie leggere a torsione conservavano, delle precedenti a flessioni, sostanzialme nte immutato il fusto, ovvero il teniere con la slitta centrale e le cremagliere laterali, sempre rigorosamente in legno, quasi certamente di quercia. Immutato pure l'affusto a tripode ed il suo snodo. Diverso , ovviamente, il gruppo propulsore, costituito da due matasse elastiche verticali, montate fra due robuste assi, tenute di s tanziate da altre quattro perpendicolari: una sorta di scatola parallelepipeda scompartita in tre settori, con gli estremi riservati al le matasse ed il centrale al passaggio del fusto. L'insieme formava l'accumulatore energetico, e s tava posizionato sulla parte anteriore dell'arma, nella medesima ubicazione dell 'a rco. Le corte braccia, impegnate nelle matasse, che tendevano la corda, si disposero, invece, esattamente complanari all'estradosso della slitta, e liminand o così ogni deleterio sfregamento.

In merito alle dimensioni dei supporti delle matasse, relativamente al modello, di balista più usuale , possono fissarsi in poco meno di 1 m di lunghezza per le due assi orizzontali, con una larghezza di circa 30 cm ed uno spessor e di una decina, mentre per quelle vert icali erano rispettivamente di 50 e 25 cm, con un identico spessore. Di queste ultime la coppia este rn a

É probabile che 1'originaria rudimentale soluzione consistesse in due sbarre cave di bronzo , in pratica due tubi, più lunghe del diametro dei fori, intorno a11e quali giravano le fibre elastiche, disposte una al di sopra di quello superiore , l'altra al di sotto del1 ' inferiore. Facendole ruotare in se nso opposto, ma per un ugual numero di giri, tramite una leva in serita al loro interno si provocava l 'attorcigl iamento del1 ' intera mata ssa, fino a.Ila tensione desiderata, dopo di che si bloccavano con dei grossi perni. Il semplice espediente si dimo st rò, però , del tutto inadeguato a gestire le notevoli forze in gioco: la trazione esercitata dalla matassa sulle sbarre, rapidamente crescente dopo i primi giri, finiva per farle incidere profondamente il legname intorno ai fori, inceppandole. per giunta, molto prima del conseguimento delle mas s ime ten s ioni.

Si munirono allora i fori di spesse e larghe flangie di bronzo, fissandole alle ass i con numerosi perni passanti: su l loro ampio bordo si co ll ocarono le sbarre, e la procedura di torsione delle matasse si rivelò immediatamente più semplice ed efficace consentendo di aumentare sens ibilm ente la torsione. Ma occorreva, a questo punto, escogitare un sistema affidabile, e reversibile. per bloccare le sbarre al te1mine della precarica, non bastando più ormai i rozzi chiodi . P robabilmente dopo una serie di tentativi infruttuosi s i pervenne alla soluz io ne ottima le del problema. La flangia venne dotata di un solido co llarino, alto ci rca 5-10 cm, dest in a to ad innestarsi ne l foro del legno, in modo da trasformarlo in un a sorta di ci lindro di bronzo. I buchi sulla sua corona, per i perni di fissaggio , si a umentarono fino al numero di otto, lasciandone, però, un paio vuoti e vi s i adattò una seco nd a flangia. Qu es ta , munita di doppio co ll ari n o, di cui l ' in ferio re di diametro esterno appena più piccolo di qu e llo interno della prima, fu, s uo tramite, fatta infilare ne ll 'al tra, in maniera da potervi liberamente gi rare. Anche la corona della flangia mobile eb be dei buchi ma in num ero di sedici, e nel s uo collari n o superiore si ric avarono due allo ggiame nti diametrali per la sbarra. Posta, co n la so lit a leva, in rotazione la sbarra que sta, so lidal e alla flangia, la trascinava, fino a l conseguimento della massima te nsio ne. A quel punto, fatti coi ncidere due buchi della flangia mobile co n altrettanti, ma vuoti , della fissa vi s i introducevano dei perni bl occando il tutto. L'operazione era reversibile bastando produrre una ulteriore minima torsione s ull a s barra per estrarre i perni e liberare la matassa.

O vviamen te quanto descritto an d ava compiuto su entramb e le mata sse, e s u entram be le loro es tremi tà, impedendo le braccia in esse imp egnate il precaricame nto da un'unica direzione. Il che rendeva il bilanciamento del sis tema not evolme nte complicato e delicato. Infatti se ba sta va far co mpi ere alle se mim atasse, di sopra e di so tto , un identico numero di giri per equilibrarle, no n altrettanto facilmente riuscivano par eggia bili , per le inevitabili disomogeneità , le coppie forni te da quell a d i destra e da quella di s ini stra alle ri s pettive bracci a. Fu necessario, allora, s timarne indirettam ente la ten sione va lutand ola dalla nota emessa percuotendo le ri spettive se rnicorde. La procedura , da un certo momento in poi, canonica è così ria ss unta da Vitruvio:

" e tira nse da l'altra parte e leganse : e voltanse intorno a ll e s ucule , ac ioc hè con quelle si distindino e t irino le fune e toccandole con le mano faccino suo no eq uale ... " c46i

Quanto all'i n tera macchina lo stesso autore ne stabiliva nelle seg uenti prescrizioni le norme costruttive:

"Adunque havendo noi pensato la proporzione e la ragione di questi instrument i , lo faremo seco ndo la longhezza proposta e del iberata di fare la saetta, la qual questo istrnmento ha da mandare e tirrarre o trare. De lla nona parte di questa longhezza s i facci no li fori l i qua li sono nelli capitelli, cioè nella parte di sopra, per li quali se tirranno nervi torti , li quali contengono le braccia della catapulta. L'alte zza e la larghezza del capitello di questi fori si facci così. Le tavole, le quali vanno in som m o et in imo di questo capitello, le quale si ch i amano parallele, s i faccino della grossezza d'un foro, e la larghezza d'un foro e d'una nona parte di quello, nelle parte extreme d'uno foro e mezzo. Le parastatte, nelle parte estreme d'un foro e mezzo. Le parastatte a dextra et a s ini stra, levandone li cardini, s iano alte quattro fori e grossi cinque, li card ini over coniecture s iano d'un fo ro e mezzo, d al foro fino alla parastatta di mezzo anchora sia un foro e mezzo , la larghezza di essa parastatica di mezzo sia di doi fori e m ezzo, l'intervallo d ove si mette la saetta in mezzo della parastatica, over teniero, s ia la quarta part e d'un foro , la grossezza d ' essa paras tatica sia di un fo ro e mezzo. Li quat ro angoli over ca ntoni, li quali so no intorno et in li lati et in nelle fronti, si confermino bene con l ame di ferro over pi astre , over s tili e chiodi o pe rni di ramo che non s i arr iginiscono.

La larghezza di quello cana li colo, che in greco si chiama strix, s ia di di c inove fora; li regoli, l i q uali si mettano a destra e si ni s tra di esso cana le, li quali regoli li chiamano buccole , s iano di longhezza di un o, cioè per ogni verso d'un foro. Anchora se l 'inchiodino due regoli in li quali s i metta la succ ul a, la quale è longa tre fori e la larghezza di mezzo foro; la grossezza del la succula, che d 'alcun i s i c hi ama camillo, cioè se no o come alc uni altri loculam e n to, la qual se in c hioda qui , s ia incast rata con incas tratura in for m a di una scura over acetta, o volem dir coda di rondela fixa nelli cardin i, d ' un foro, l'altezza di mezzo foro. La

Le Macchine Ossidionali

longhezza della succu la sia di nove fori e mezzo, la grossezza di dodici. La cheto over manuglia di longhezza di tre fori, la larghezza e grossezza d'uno e mezzo. La longhezza del canal dal fondo di sedici fori, la gossezza di uno la larghezza di uno e mezzo.

La colon netta e la basa nel suolo, over da piede , sia di otto fori, la larghezza nella plintide, in la qual si ferma la colonnella, sia d'un foro e mezzo, la grossezza di uno et un quarto. La longhezza della colonna, perfino al cardine sia di dodici fori, la larghezza di uno e mezzo, la grossezza di un o et un nono. Li suoi tre caprioli, la longhezza delli quali siano di nove fori, la larghezza di mezzo, la grossezza, d'un quarto. La longhezza del cardine di un foro. La longhezza del capitel lo della co lonna antefixa era uno e mezzo et un terzo, la larghezza di uno foro, la grossezza di mezzo foro. La posteriore colonna è minore, la qua l in greco si chiama contra basa, si fa alta otto fori , larga uno e mezzo, grossa uno et un guano Quella che si mette di sotto si fa di dodici fori, la grossezza altrattanto. Come la minor colonna: sopra la minor colonna si mette el chelonio, over pulvino, di dui fori e mezzo , di larghezza di uno e mezzo , di grossezza di un o et un quarto; el carchesio: grossezza delle sucule di dui fori e mezzo, la grossezza di un o mezzo foro, la largheza d'un terzo. Li traversarii co n li suoi cardini longhi dieci fori, la larghezza d'un foro e mezzo e la grossezza altratanto. La longhezza della braccia sette fori, la g rossezza dalla radice, fino in summo, di due fori e mezzo. L e curvature di otto fo ri. "1 • 1 >

Mentre per la ricostruzione delle artiglierie a flessione ci si è dovuti inevitabilmente arrovellare sulle fonti coeve , spesso lacunose ed e nigmatiche , per quelle a tors ion e un notevole apporto conoscitivo deriva dai ritrovamenti archeologici. Questi , a loro volta, so no stati resi possibili dall ' impiego del metallo per la componentistica meccanica delle suddette macchine, in particolare per le flangie innanzi descritte. Fondamentale , al ri guardo, il rinvenimento effettuato presso Ampurias, che ci ha re stituito, in ottime condizioni di conservazio- ne, le due coppie di flangie, con le relative sbarre ed ancoraggi, di una grossa catapulta a torsione(48 1 • Attraverso success i ve scoperte so no emerse ancora altre e più sofisticate parti metalliche, sempre inerenti agli accumul atori energetici, permettendoci così di vag liare oggettivamente l'evoluzion e di tali congegni. In dettaglio si tratta di una nutrita serie di pezzi di rispetto di arpionismi di arresto in bronzo di var i diametri e foggie. Volgarmente noti come ruote a crik, o saltaleo ni, so no ancora di impiego corre n te in innumerevoli congegni per consentire la rotazione in un unico senso, bloccando quella retrograda: così negli orologi a molla, così negl i argani delle gru. Nelle catapulte a torsione andarono a sos tituire la cremagliera ed i suoi nottolini di bloc caggio, senza stravo lgern e il criterio funzionale. E , forse, a nch e le s te sse flangie.

Di esse, infatti, in qualche caso fu mantenuto il collarino inferiore, per l'inserimento coassiale nella controflangia, ed il superiore per il doppio alloggiamento della sbarra di ancoraggio della matassa. Mutò, invece, la corona liscia, trasformata appunto in una ruota ad arpioni di arresto. La precarica delle matasse diveniva pertanto ancora più spedita, poichè non occorreva più inserie alcun perno per bloccarne lo srotolamento, provvedendo automaticamente l' arpionismo. Nonostante l 'evidente validità non sem bra che la so luzione si sia impo sta negli anni successivi, verosimilme nte per la sua intrinseca delicatezza.

Di certo la maggiore potenza costituì il principale salto di qualità per l ' intera tipologia delle artiglierie neurobalistiche. E pur s ub e ndo, in tempi ovviamente più ampi, la medesima progressiva p erdita di tensione di quelle a flessione per l'inevitabile scadere dell 'e lasticià delle matasse, con l 'ausilio della so la le va di precarica bastav a impartire una ulteriore modesta rotazione alla s barra di ancoraggio per recuperarne le originarie prestaz ioni. Senza contare poi che, specie dopo la standardizzazione della componentistica meccanica, introdotta dai tecnici romani, la s ostituzione di una intera matassa richiede va pochi ss imi minuti e nessun particolare attrezzo. Non a caso, per la generalizzata adozione degli accumulatori a torsione, il termine latino con cui vennero definite tutte le artiglierie fu quello di tormenta de1ivazione della voce verbale torcere, il cui etimo permane ancora in tantissimi vocaboli attuali sottintendenti una rotazione, persino in senso puramente astratto , tra i quali la superba ' torre' cilindrica, o la domestica 'torta'.

Per ]'ottima riuscita dell'arpionismo di an-esto, in pochi anni , tutte le artiglierie lo acquisirono applicandolo al verricello. Si eliminò perciò la coppia di cremagliere laterali: non scomparvero del tutto, però, poichè in teatri più remoti, dove non tornava agevole far giungere quei sofisticati organi meccanici, continuarono ad utilizzarsi con soddisfacente efficacia.

L'artiglieria, appena descritta. conobbe numerose varianti dimensionali e funzionali, ciascuna all'epoca designata con un preciso nome. Artefici della diversificazione , come accennato , furono senza dubbio i Romani , che , pur non essendone gli inventori , secondo la loro abituale prassi, appresone il funzionamento e valutatane la convenienza, introdussero determinanti perfezionamenti e razionalizzazioni all ' arma, dotandone massicciamente le legioni. Innanzitutto ne ricavarono due ben distite specialità, da difesa e campale, s u affusto statico le prime e ruotato le seconde. P e r rendere quest ' ultime meno sensibili alle perturbazioni metereologicbe racchiusero le matasse in appositi contenitori cilindrici di bronzo , dai quali fuoriu scivano soltanto le braccia. Le relative flangie di registrazione e precarica vennero protette a loro volta da cuffie s emisferiche ad incastro. Ai cilindri applicarono deJle s taffe per l ' innesto alle traverse metalliche fungenti da supporto , ammorsate anteriormente al fusto. Grazie all'elementare accorgimento, la s ostituzione di una matassa danneggiata richiedeva alcuni istanti, pochi colpi di rnazzola e nessuna particolare capacità meccanica: ed è anche questa una plausibile spiegazione della cospicua dotazione di cui disponeva ogni legione. Stando a Flavio Renato Vegenzio, infatti:

"Fu consuetudine, infatti, avere in ogoi centuria un carrobalestra, al quale si assegnavano muli per il traino e una squadra di undici uomini per il funzionamento e per condurlo in battaglia.

Questi carri, quanto maggiore fosse la loro stazza, tanto più vio lentemente ed a grande distanza scagliavano i dardi. Non soltanto difendevano gli alloggiamenti, ma in campo aperto venivano po s ti dietro la linea dell' «annatura pesante». Al loro attacco noo possono far fronte nè cavalieri nemici , nè fanti con gli scudi.

In ogni legione, in particolare. c ' erano cinquantacinque di queste «ba lestre». come anche dieci onagri per lan- ciare grandi pietre; in sos tanza, uno per ogni coorte, tras portati su carri tirati da buoi , allo scopo d.i dife ndere gli alloggiamenti con pietre e sa ss i, nel caso ch e i nemici attaccasero i rifugi. ,, ,.~ ,

Un'ultima annotazione circa le descritte aitiglierie leggere a torsione deve necessariamente riservarsi alle loro prestazioni balistiche. Sebbene le fonti siano al riguardo ampiamente discordanti è fuor di dubbio che macchine in ottime condizioni di servizio e con idoneo munizionamento fornissero gittate massime dell'ordine dei 400 m, di cui soltanto un paio di centinaia sicuramente efficaci e, forse, appena la metà a tiro teso. Convalidano del resto l'affermazione tutte le recenti ed accurate ricostruzioni di tali armi. Abitualmente scagliavano verrettoni quadrati, ma ne esistevano anche di idonee al lancio di palle di pietra di piccole dimensione. Al di là della distanza battibile , ciò che maggiormente impressione è la violenza dei loro impatti: nei rari reperti anatomici di vittime che ci sono pervenuti, come il cranio rinvenuto a Madle Castle, appaiono perfettamente riconoscibili degli eloquenti fori quadrati , completamente privi di slabbrature e di fratture contigue, segno inequivocabile della tremenda energia cinetica residua posseduta dai verrettoni persino dopo lo sfondamento dell'elmo.

Artiglieria pesante a torsione

A differenza delle artiglierie a flessione che , a causa delle caratteristiche strutturali degli archi, non potevano eccedere ben modeste dimensioni, nessun limite del genere condizionò quelle a torsione. In linea puramente teorica sarebbe stato praticabile costruire matasse di qualsiasi grandezza: il vero ostacolo insormontabile era. se mai , il caricarle! Possibile, comunque, realizzare macchine in grado di scagliare grosse pietre a varie centinaia di metri di distanza. Il che, dal punto di vista offensivo, significava il superamento del tradizionale tiro antiuomo, assurdo per artiglierie pesanti. Infatti , pur non disponendo della indi s pensabile energia cinetica per sgretolare le fortificazioni, palle di circa 30 kg si dimostravano perfettamente capaci di schiantarne le sovrastrutture, dalle tettoie alle merlature, privando così i difensori del loro riparo e soprattutto della loro relativa protezione.

Esistevano ancora. con prestazioni di analoga violenza, anche baliste destinate al lancio di giganteschi verrettoni, singolarmente in grado di trapassare più uomini e persino 'testuggini ' . Il tipo medio: " ... lunga circa otto metri, lanciava un proietto del peso di 40 kg a 400 m di distanza. Tacito rammenta una balista della Isa legione, che scagliava travi pesantissime, e Cesare parla di travi di dodici piedi di lunghezza scagliate dalle grandi baliste ... " <50 ) Di tali ordigni se ne riscontrano esplicite menzioni già in età ellenistica, ma soltanto in epoca romana attinsero caratteristiche strutturali e funzionali congrue alla finalità. Curiosamente mentre i trattatisti coevi definivano le artiglierie leggere 'catapulte', per noi antesignane balestre, definivano invece quelle pesanti 'baliste', per noi catapulte per antonomasia. E che al riguardo non sussistono equivoci è, ancora una volta, Vitruvio a certificarlo ricordandone le proporzioni esecutive, per cui:

" quella balista che ha da gettare un saxo di dui pesi bisogna che habbino el foro del capitello di cinque dita largo per dìametro, se dì quatro pesi el foro sia di sei dita; se dj se i pesi dì septe dita; se di dieci pesi il foro sia di otto dita: se di vinti pesi el foro sia di dieci dita; se di quaranta pesi il foro sia dì dodici dita e mezo; se di sexanta pesi il foro sia di tredici dita et uno ottavo; se di ottanta pesi il foro sia di quindici dita:se di centoventi pesi il foro sia di vinti dita e mezo; se di centosexanta pesi el foro sia di vinti dita e mezo: se di doiciento e dieci pesi e l foro s ia di doi piede e septe dita " ' 511 •

Considerando che l'unità di misura ponderale standard romana era la libbra, pari a circa 327 g, il brano citato ci conferma l'esistenza di baliste capaci di tirare palle di pietra di oltre 70 kg , mediante l ' impiego di matasse del diametro di poco inferiore ai settanta cm! Tenendo conto della densità media della pietra, se ne ricava un diametro di circa cm 38! Quale potesse essere la loro tremenda efficacia è desumibile dalle pagine di Giuseppe Flavio relative all'assedio di Gerusalemme del 70 d.C. Precisava lo storico che:

" tutte le legioni disponevano di magnifici ordigni. ma specia lmente la legione decima, che aveva catapulte più potenti e baliste più grosse con le quali non so lo respingevano le sortite, ma battevano anche i difensori sulle mura. Scagliavano pietre del peso cli un talento e avevano una gittata cli due stadi e più; i loro colpi abbattevano non so ltanto i primi ad essere raggiunti ma anche quelli che stavano più dietro per largo tratto. I giudei dapprincipio schivarono i proiettili perchè erano di pietra bianca, e perciò non soltanto erano preannunciati dal sibilo, ma si scorgevano da lontano per la loro lucentezza. Le loro sentjnelle collocate sulle torri, quando l'oriligno veniva scarica to e partiva il proiettile, davano l'allarme gridando nella loro lingua: «Arriva il figlio». Subito quelli su cui stava per piombare si sparpag liavano e si gettavano a terra, sì che il proiettile li sorvolava senza causar danni e cadeva alle loro spalle. Allora i romani ricorsero all'espediente di colorare il proiettile di nero, e poichè così non era più tanto facile scorgerlo da lontano , essi piazzarono molti colpi e facevano molte vittime insieme con un sol colpo... "1521 •

Ora ri sapen dosi che l'unità ponderale greca detta 'mina' corrisponde circa a g. 436, e che un 'talento' era pari a 60 mine , le macchine in questione scagliavano palle di circa 24 kg, del diametro, quindi, di oltre 25 cm: non erano perciò le mastondontiche innanzi ricordate, ma probabilmente quelle più convenienti, razionale sintesi di una ragguardevole pesantezza di tiro e di una discreta manovrabilità. Quanto alla loro gittata, corrispondendo lo stadio a circa 185 m, superava abbandantemente i 350 m. Tra le righe dello Storico affiorano anche alcune interessanti precisazioni: innanzitutto risulta accertata l'ipotesi che con i grossi calibri non si mirasse al singolo individuo, secondariamente è ricordata, prima manifestazione del genere in ambito bellico, l'adozione di una colorazione mimetica per i proietti. Il particolare, inoltre, del sinistro sibilJare delle palle in avvicinamento ce ne lascia dedurre la notevo le velocità, che, rapportando la distanza delle batterie al tempo impiegato dalle sentinelle per dare l'allarme, pari all ' intervallo tra il lancio e l'impatto, doveva attestarsi intorno al centinaio di m/sec.

Sebbene 1e grandi baliste avessero un accumulatore energetico, sostanzialmente identico, concettualmente e strutturalmente, a quello delle piccole catapulte, fatte salve ovviamente le debite dimens ioni, per il resto nulla accomunava le due tipo1ogie, a cominciare dalle rispettive dinamiche offensive. Infatti mentre gli impatti dei verrettoni, al termine di una traiettoria tesa, cedevano al bersaglio l'energia resid ua di quella impartitagli dall'arma, le grosse palle, al termine di una traiettoria parabo1ica, cedevano l'energia acquistata durante la caduta. A prima vista la differenza sembra inilevante, ed in effetti lo era, se la quota delle catapulte e delle baliste coincideva con quella dei bersagli. Cambiava, e di molto, invece, allorquando risultava sensibilmente maggiore. In tal caso, con la direttrice in depressione, mentre l ' incremento della forza viva dei dardi si dimostrava trascurabile quello delle palle si accresceva vistosamente. Ne conseguiva una netta tendenza a piazzare, quando possibile, le baliste in punti eminenti, anche a costo di improbe fatiche per condurvele. Non a caso una delle caratteristiche precipue di una particolare tipologia di tali artiglierie, definita monoancon, a braccio unico, consisteva nella loro discreta mobilità , ottenuta tramite l'adozione di un affusto su telaio a quattro ruote.

Scendendo in dettaglio, su lle robustissime travi laterali del telaio, appena più indietro dell ' assale anteriore, si innestarono due ma ss icci montanti verticali, irrigiditi da quattro con trafforti. Alla loro sommi tà venne incastrata una trav ersa, destinata a fungere da battita per il braccio della balista: onde preservar1a, per quanto possibile , dal rapido deterioramento provocato dalle sue incessanti percussioni, la s i rivestì con una co riacea imbottitura di cuoio

Sempre in posiz ione anteriore, ma fra i due montanti e l'assale, fu collocata la matassa elastica, corrente da un fianco all'altro della macchina, attraversandone i longheroni del telaio mediante le solite flange di bronzo, con i relativi arpionismi di arresto. La precarica della mata ssa, di improba fatica per la sua grandez- za, richiedeva gli sfo rzi congiunti di numerosi serventi su lunghe leve di ferro. Al centro della stessa stava in serita l'estremità del braccio, simile nella sua interezza ad una g ig antesca cucchiaia di legno. Per l'ubicazione avanzata della matassa rispetto alla battita , l'angolo che il braccio descriveva nella sua rotazione non poteva eccedere i 45 ° , limite che coincideva con la massima gittata dell'arma, quella peraltro di normale impiego. Qu ando circosta nze fo1tuite ne richiedevano di minori, si co llocavano ulteriori imbottiture s ulla traversa in modo da bloccarne anticipatamente la corsa.

Stimando, per baliste capaci di scagliare pietre di una ventina di kg, dimensioni standard del telaio di circa m 6x2, con un braccio, a sua volta , lungo complessivamente m 5, è estremamente probabile che le loro matasse raggiungessero il diametro, al passaggio nelle flange, di circa 30 cm, entità apparentemente modesta rispetto alle desc1itte prestazioni. É indi spensabile, pertanto, ricordare che da accorti calcoli: " ... le corde usate per tendere il braccio potevano facilmente svi luppare una forza di 60.000 ch.ilogrammi. " ' 53)

All'estremità posteriore del braccio , sul bordo della sua conca, era fissato, con lunghe bandelle di ferro e perni passanti, un grosso gancio. Per le enormi sollecitazioni a cui veniva sottoposto durante la carica, è credibile che le bandelle cerchiassero interamente, come un grosso ceppo, la conca ali' interno della quale veniva deposta la pietra, scalpe llata per regolarità di traiettoria, in forma sferica.

Nel gancio, invece , s i in seriva l'occhiello metallico di una spessa fune, dipanantesi da un tamburo, posizionato appena più indietro delJ' assale posteriore. Il suo albero attraversava i longh eroni in boccole di bronzo, portando alle opposte estremità due grosse ruote , con regolari fori s ulla corona, nonch è due arpionismi di arresto. Poste in rotaz ione con diverse lunghe spra ngh e di fe1To inserite nei suddetti fori, provocavano l ' attorcigliamento della fune s ul tamburo, e per conseguenza l ' abbassamento del braccio ed il caricamento della matassa. Per rendere la procedura meno faticosa tra l'occhiello e la fune si applicò un paranco a due taglie. Premesso ciò, la sequenza di attivazione di una balista si sviluppava nel seguente modo. Piazzatala nella punto prescelto , bloccatene le ruote con cunei e picchetti, se ne precaricava la matassa. Esa urita l'operazione, agendo sul paranco posteriore si portava il braccio ad assumere , lentamente, la posizione orizzontale, al termine della quale lo si bloccava in sicurezza. Valuta con rudimentali espedienti telemetrici la di stanza da battere, apportate le necessarie limitazioni alla co rsa del braccio, si caricava il proietto nella c ucchiaia, e quindi, con uno strappo si disimpegnava il gancio, liberando il braccio. Ques to , trascinato dalla matassa, si abbatteva con straordinaria violenza sulla traversa scagliando la palla. Quanto brevemente sintetizzato lascia ipotizzare cadenze di tiro dell 'ordine di una decina di colpi l'ora, risultato, ancora una volta, affatto in significante: una batteria di appena quattro pezzi che avesse concentrato i tiri su di una ri s tretta sezione di mura l'avrebbe, in pochi minuti, completamente sguarnita di difensori, con conseguenza immaginabili. Eccone un preciso riscontro nella pagine di Giuseppe Flavio relative sempre all'assedio di Gerusalemm e:

"Così essi [i Romani] appressarono maggiormenle le catapulte e gli altri ordigni lanciamissili per co lpire queJli che dall'alto del muro cercavano di far resistenza, e apritono il tiro Sotto questa gragnuola di colpi nessuno osò affacciarsi sul muro " <s.. 1•

Ed ancora più in dettaglio:

"Gli uomini di Giuseppe, sebbene cadessero gli uni sugli altri colpiti dalle catapulte e dalle baliste, tuttavia non si ritiravano dal muro, ma con fuoco , ferro e pietre bersagliavano quelli che al riparo dei graticci azionavano l'ariete. Però concludevano poco o nulla, e ne morivano in continuazione perchè loro erano in visla mentre gli avver- sari restavano in ombra; infatti es s i, illuminati daj loro stessi fuochi , offrivano un nitido bersaglio ru nemici, come di giorno, e poichè da lontano le macchine non si vedevano era difficile scansare i loro proiettili. La violenza delle bali s te e delle catapulte abbatteva molli uomini con lo stesso colpo , e i proiettili sibilanti scagliati dall'ordigno sfondavano parapetti e scheggiavano gli spigoli delle torri. Non v·è schiera di combattenti così salda che non possa essere travolta fino atrultima riga dalla violenza e dalla grossezza di tali proiettili. Si potrebbe avere un ' idea della potenza dell'ordigno da ciò che accadde quella notte: infatti ad uno degli uomini che stavano s ul muro attorno a Giuseppe un colpo staccò la lesla facendola cadere lontano tre stadi [oltre 500 m]. Sul far del giorno una donna incinta, appena uscita di casa, venne co lpita al ventre e il suo piccolo venne proiettato alla distanza di mezzo stadio: tale era la forza della balista. Più pauroso degli ordigni era il rombo, più s paventoso dei proieuili il fragore "{551•

Occorre, ancora osservare che a differenza delle catap ulte, simmetricamente impiegate sia dai difensori che dagli attaccanti, per esattezza forse più dai primi che dai secondi, le baliste tornavano utili solo in fazione offensiva, in quanto inadatte a battere bersagli mobili e sparpag liati.

Una variante a braccio unico di media potenza, era rappresentata dai cosidetti 'onagr i' , la cui invenzione deve essere ascritta proprio ai Romani. In lin ea di massima differiva dalle precedenti sol tanto per la modalità con cui il braccio scagliava il proietto. La m acchina, infatti, costava di un robusto telaio, di un ' unica matassa elastica trasversale, di un braccio di lancio in se rito nella stessa nonchè di un paranco posteriore per caiicarla. Scomparsa del tutto la caratteristica cucchiaia, con il relativo gancio, sostituita da una fionda, vincolata all'estremità del braccio da tr e funi. Di queste, due stavano fissatate stabil mente al braccio stes~o, l'altra, invece, ad un s uo uncino tramite un anello: in prossimità dei 45 ° di rotazione l'anello si disimpegnava per

MACCHINE OSSID IONALI

effetto centrifu go e la tasca de lla fionda si apriva rilasciand o la palla in essa con tenuta. E, mentre quella dirigeva s ul bersaglio, il braccio esau riv a la s ua co rsa, complessivamente di c irca 120°, arrestandosi co ntro un ' imb ottitura obliqua di cuoio. Pe r reazione l 'in tera macc hina so ll evava allora la sua parte pos teriore, ri co rdando così lo scalciare di un asino sel vatico: dal che trasse i I s uo c urio so nome.

Dal punto di vista balistico per l a traiettoria forteme nte parabolica impressa ai pro ietti , e per la loro ragguardevole mole , l'onagro può e quipararsi ad un moderno mortaio per cui stand o a Pietro Sardi: " .. . offendeva inoltre lo assalitore con questa macchina di Onagro, tirando essa pietre così pesanti sopra i tetti delle case della Città o Fortezza facendogli .~fondare, con l'ammazzare quegli che dentro si trouauono, donde impauriti erano forzati ad arrendersi."<56 '

Ri corda va a sua vo lta Yegenzio Flavio che:

" ... l'onagro scag li a pietre di peso rapportato alla robustezza dei nervi. perchè quanto più è possente tanto più grandi so no i sass i che lancia come fu lmini comunque. con i sassi più pesanti scagliati dall'onagro non so ltanto si abbattono g li uomini ed i cava lli , ma sì distruggono anche le macchine nemichc.''' 571

L'adozione della fionda, al di là della ovvia se mplific az ione costruttiva, contribuiva a potenziare vistosamente le prestaz ioni de ll 'o nagro , poichè di s te ndendosi le s ue funi durante la co r sa di la ncio , ne ri sultava allungato il braccio di una prui misura. Ora permane ndo immutata la velocità angolru·e ne derivava un se ns ibile incremento di quella periferica, ovvero della velocità iniziale del proietto, dalla qu a le dip e nd eva la violenza del! ' impatto e la g ittata. L a validità della innovazione fu tale c he , ancora nel Medioevo, le più pes anti ai-tigli eri e d'assedio, i t.rabucchi o mangani158', pur avendo ormai giubilato le delicate matasse, s os6tuite da enormi contropesi, sfruttando l 'e nergia poten - z ial e di gravità in lu ogo d e ll 'e lastica, conservarono, in vece, la fionda. Riu scivano in tal modo a scagliare massi del peso di c irca 5 quintali ad oltre 300 m di distanza. I proietti non convenzionali

Con le grosse ca tapulte s i praticò, ne l co rso degli assedi più ostinati, anche una antesignana guerra chimico-battereologica. Relati vame nte alla prima la più eclatante manifestazione va co llegata all 'i mpi ego dei proietti incendia1i, alquanto div e rs i dai rudimentali dardi accesi. In par ti co lare : " tirauono piccole botticelle, piene difuoco artificiale, quali così gettate dentro La Città sopra i tetti o altre macchine di legname, abbruciano tutto, donde gli assediati non potendo sopportare tanti danni e pericoli si arrendeuono allo assalitore ... " c59> _ Anche Vegenzio Flavio menziona tali proietti affer mando che :

'

' tiran con le ba lestre magliuo li o faJàriche piene di fuochi. I magliuoli sono come le frezze e dove sì ficcano , venendone accesi, bruciano ogni cosa. La falarica è un ' asta forata con un gagl iardo fen-o in cima, piena di zolfo, resina. bitume e stoppa infusi dì olio incendiario. la quale tirata co n la furia della balestra rompe le coperte e ficcandosi ardendo nel legno, spesse vo lte abb1ug ia le torri ""'0 '

Oltre alle miscele incendiare, che c ulmineranno nel famosissimo, quanto enigmatico fuoco greco, le macc hine lancia vano anche proietti più originali e meno prevedibili. Si sa ad esem pio di otri di terracotta riepieni di sos tan ze fortemente fetide. come pure di altre che sprigionavano fumi acri ed iITe s pirabili, ed ancora di ceste colme di rettili velenosissimi, o di interi sciami di vespe. La tra sc urabile letalità non dev e però far so ttostimare i rischi che questi tiri comportavano, riuscendo, comunque, a provocare temporanei allontana- menti dei difensori dalle mura non diversamente che gli impatti delle pietre. Più pericolosi, e forse anche meno eccezionali, erano i tiri 'battereologici', ottenuti scagliando all'interno delle città nemiche cadaveri e carogne in avanzato stato di decomposizione per innescarvi, favorite dalle spaventose condizioni che vi regnavano durante gli assedi prolungati, incontrollabili epidemie.

Gli ingegneri

Un ultimo interessante approfondimento, relativamente aJle artiglierie meccaniche , è a carico della figura professionale dei loro progettisti, costruttori e direttori di tiro. Poichè tutte le macchine d'assedio venivano genericamente definite dai Romani 'ingegni', i tecnici ad esse preposti, si definirono, a loro volta, ovviamente 'ingegneri'. Pur essendosi guadagnati, rapidamente, in ambito militare una condivisa reputazione, in quello sociale ed in particolare in quello culturale, gli ingegneri rimasero sempre personaggi di sprezzati , spesso reputati abietti e spregevoli, accuratamente evitati dai coevi studiosi. Il fanatico pregiudizio non dipese daJl'essere la loro attività inerente alla guerra, ma , paradossalmente dall'essere di tipo manuale, pertanto servile e disdicevole, condanna che logicamente si estese alle stesse macchine. Non a caso quando: " ... Platone era adirato con loro, affermava che costoro corrompevano e avvelenavano la dignità e ciò che vi era d i eccellente nella geometria, facendola scendere dagli oggetti intellettivi ed incorporei a quelli sensibili e materiali e facendole fare uso di materia corporea, con la quale è necessario molto vilmente e molto bassame nte impiegare l'opera delle mani; da allora ... la meccanica, o arte degli ingegneri, viene ad essere separata dalla geometria ed, essendo a lungo disprezzata dai filosofi, diviene una delle arti militari. " < 6 1)

Disgraziatamente in quell'orgoglioso rifiuto si col- loca , con discreta certezza, il mancato sv iluppo tecnologico dell'antichità, nonostante tutte le premesse e le promesse, con dolorose conseguenze per l'umanità. In pratica: " ... in una civiltà, quella ellenistica, tutto era approntato per una trasformazione progressiva e tuttavia radicale delle condizioni dell'esistenza quotidiana. Ma questa trasformazione non si è verificata. L'i ngegnosità impiegata ad utilizzare le proprietà della materia e a dominare le grandi forze naturali , per combattere il nemico , o per divertire curiosi e ingenui , ha praticamente la sc iato il posto all'indifferenza, quando questo sfruttamento e questa peri zia avrebbero potuto contribuire a diminuire la miseria e la fatica fisica degli uomini Così non è per ignoranza che l' antichità ha peccato, ma per rifiuto ... " (62 > Più in dettaglio , come oltre un millennio dopo l'avvento dell'artiglieria a polvere determinerà un rapido evolversi di tutta la tecnologia fino alla costruzione del motore a scoppio che per molti versi può ritenersi un cannone appena modificato anche agli inizi dell'epoca volgare un identico salto sarebbe riuscito praticabile, esistendone già da tempo tutti i presupposti tecnici. Invece nulla del genere avvenne: per alcuni studiosi fu questa incapacità che consentì il protrarsi dell 'abomi nio della schiavitù; per altri, invece, fu esattamente l'opposto. Per i primi la mancanza di forza motrice meccanica avrebbe costretto allo sfruttamento dell'uomo quale macchina, finendo per svilire qualsiasi attività manuale; per i secondi la disponibilità di schiavi a buon mercato avrebbe impedito il perfezionarsi delle macchine.

Pur essendo entrambe le tesi razionali e motivate è, a nostro avviso, di gran lunga più probabile la seconda per una serie di motivi che ci rimandano al disprezzo verso la meccanica applicata, perchè risultato di azioni fisiche. Quanto insormontabile riuscisse tale repugnanza lo dimostra il grande Archimede che solo l'approssimarsi della tragedia della sua città costrinse a cimentarsi come ingegnere, pur incrollabilmente: " ... considerando la meccanica, ed in generale tutte le arti che si esercitavano per il bisogno comune, arti vili ed oscure." <n3i. Nemmeno i Romani ebbero, ad onta della loro avanzatissima ingegneria, una posizione contrastante al riguardo. Per: " ... Seneca le invenzioni contemporanee, l'uso dei vetri trasparenti, del calorifero ... sono tutte opere dei più vili schiavi, di menti espe1te, penetranti se vogliamo, ma non certo grandi menti, di menti elevate, come d'altra parte è vile tutto ciò che può ricercare il corpo chino, lo spirito rivolto alla terra. Queste invenzioni sono opera del raziocinio non dell'intelletto " <64i Poste queste p remesse non stupisce affatto che tanto i Greci quanto i Romani al profilarsi di un rivoluzionario progresso tecnico: " ... lungi dall'ignorare le conoscenza scientifiche o le applicaz ioni pratiche che avrebbero permesso loro di avviarlo e poi di svilupparlo ... di proposito ... si astennero da mettere in atto le macchine adeguate per economizzare il lavoro umano producendo di più e più rapidamente " 165> In realtà la spiegazione così impostata è forse troppo semplicistica offrendo il fianco ad una facile critica: perchè, i n diversi stati, quando prosperava l'economia schiavistica, come in Egitto, e poi nella stessa Roma, si registrò un vistoso progresso tecnologico?

E perchè, invece, dove risulta scarso od inesi stente l 'impiego della manodopera servile, come nell 'a lto Medioevo in Occidente, si ebbe un suo ristagno? Più verosimilmente, allora, il maggiore ostacolo a quel possib il e salto deve individuarsi proprio nella repulsione viscerale nei confronti degli ingegneri da parte dei filosofi: ai primi, 'vil meccanici', mancò pertanto, direttamente o psicologicamente, l'accesso alla conoscenza avanzata, costringendoli alla perenne riproposizione di risapute tecniche. Ai secondi, invece , mancò l'umiltà e la sensibilità umana, finendo col perdersi in sterili elucubrazioni. Le macchine che avrebbero potuto innescare un società migliore riuscirono, purtroppo, soltanto a peggiorare ulteriormente l'esistente!

Note Capitolo Quinto

' Per un quadro generale dell'evoluzione della tecnologia militare in quel particolare period o cfr. E. CECCHINI, Tecnologia e Arie militare, Roma 1997 , pp. 29-32.

2 Sintetizza perfettamente il concetto M. HOWARD , La guerra e le armi nella storia d'Europa, Bari 1978, p. 32, affermando che:" con conseguenze più generali , i re di Francia misero insieme un parco di artiglieria d'assedio di fronte al quale i castelli, che proteggevano le proprietà terriere della corona inglese in Fran cia, si sgretolarono in mucchi di pietre". Anche T. ARGIOLAS, Armi ed eserciti del Rinascimento italiano, Roma 1991 , pp. 95-96, traccia una sintesi degli effetti dell'artiglieria s ulla fortificazione, precisando che:"Le mura, per quanto potessero essere spesse, prima o poi venivano demolite dai grossi e pesanti proiettili Logicamente si pen sò che per difendersi dalle artiglierie fosse necessario disporre di analoghe am,i con gitatta maggiore di quel le dell'assediante ... [per cui] le artiglierie ebbero un ' influenza detemunante sulle modifiche radicali delle fortificazioni per due motivi: per la necessi tà di irrobustirle per as sorbire gli impatti. .. e poi per l'indispensabile ampliamento ... delle superfici s ulle quali appoggiava il cannone ... due fattori, uno difensivo, uno offensivo, imposero il nuovo tipo di fortificazione permanente " Circa gli espedienti per adeguare le fortificaz ioni alle crescenti nunacce delle artiglierie, ricorda W. H . MC NEILL, Caccia al potere. Tecnologia , armi, realtà sociale dall'anno Mille, Varese 1984, p. 77, che:" già prima del 1494 i tecnici militari della penisola avevano sperimentato pe r mezzo seco lo diversi modi per migliorare la capacità delle vecc hi e fortificazioni di resistere al fuoco d 'artiglieria ".

3 In merito cfr. J. POMIANKOWSKI, Il tramonto d e ll'impero ottomano, Milano I 934, pp. 13-26

• L' intervento di Archimede nella progettazione delle fortificaz ioni di Siracusa è estremamente improbabile, proprio per la sua notoria riluttanza ad occuparsi di questioni pratiche Precisa, infatti, al riguardo E. VOLPINI , La scienza nell 'antichità e nel M edioevo , in Storia della Scienza , a cura di M. DAUMAS, P. CASINI , Bari 1969, pp. 213-214, c he: " Le invenzioni meccaniche d 'ordin e pratico hanno avuto , nell'insieme dell'attività del Siracusano, un ruolo episodico Infatti , a parte le macchine belliche, non s i citano altre s ue creazioni nel campo... Resta pertanto acquisito che Archimede non aveva la m e ntalità dell ' ing egnere ma quella di un matemati co e fisico di genio ".

5 La posizionatura bassa delle art iglierie meccaniche è di notevol e interesse , anticipando di quasi 18 seco li quella delle artiglierie a polvere: per riscoprirla, infatti, occorrerà attendere la metà del XV secolo Al riguardo cfr. C. SA CHERO, Corso di fortificazione permanente , Torino 1861 , pp. 28-29.

6 Da E. W. MARSD EN, Greek and roman artillery, rist. Oxford 1999, pp. 1 I 9-121. La tradu z ione è del! ' A.

7 La citazione è tratta da B . GJLLE , Storia delle tecni che , Roma 1985, p. 171 .

8 Da Y. GARLAN , Guerra e società nel mondo antico, Imola 1985, p. 177.

9 La citazione di PLAUTO, Captivi, 796 , è tratta da E. W. MARSDEN, Gre ek..., cit., p. 84.

10 Ricordano D . D EL Ri o, S. ESPOSITO , Vigliena , Napoli 1986, p. 111 relativament e all'altezza delle cortine del fortino di Vigliena di Napoli, costruito agli inizi del ' 700 che:" gli ingegneri s uggerivano di tenere in conto quella mas s ima possibile ai mezzi di scalata mai inferiore a circa m. 6. 80. "

11 Cfr. E. C ECC HINI , Tec nologia , cit., p. 3 I.

12 Da Y. GARLAN, Guerra ... , cit., p. 178.

11 La c itazione è tratta da T uc 1oroE, La guerra , cit., Il, 75, 2 - 3.

1 • Da Y. GARLA N, Recherches , cit., p. 233. La traduzione è dell ' A.

15 Da Y. GARLAN, Recherches , cit. , p. 229. La traduzione è dell ' A.

6 Da Y. GARLAN , Recherches , cit., p. 233. La traduzione è dell ' A.

17 Di Diodoro Siculo non è nota la data esatta di nascita, che comunque s i colloca intorno alla metà del I sec. a. C. ad Agirio in Sicilia. Pochi ssi me notizie ci sono pervenute della sua vita. Circa la produzione s torica sappiamo che si componeva originariamente di quaranta libri: di questi ce ne sono giunti soltanto i primi cinque e qu e lli compresi fra I' 11 ed il 20: degli altri disponiamo di s unti di epoca bizantina. Cfr. DIODORO SICURO, Storia universale, a cura di A. Baccarin, Forlì 1991, pp. 5-7.

18 Da Y. GARLAN , Re che rches... , cit., p . 225. La traduzione è dell' A.

9 La citazione dell'Anonimo di Bis anzio, è tratta da Y. GARLAN , Reche rches ... , cit., p. 226. La traduzione è dell 'A.

20 La citazione di Diodoro , XX, 85-1 , è tratta da Y. GARLA N, Rec he rches , c it. , p 231. La traduzione è dell' A

21 VITRUVIO , D e architettura, traduzione di Fabio Calvo Ra vennate, a cura di V. Fontana, P Morachiello, Roma 1975 , p 399.

22 Per ulteriori notizie sui lavori di mina e di contromina nell'antichità cfr. Y. GARLAN, Gu e rra , cit. , pp. 178- 181.

23 VITRUVIO, De , cit., p. 400.

Ossjdionalj

24 Al riguardo A. DoNNARJ, Il carro armato. Storia, dottrina, impiego, Roma 1995, pp. 41-101.

zs Da YITRUVJO, De ... , cit., p. 395.

26 Da Y. GARLAN, Guerra , cit., p. 173.

27 Da Y. GARLAN, Guerra ... , cit., p. 17 3.

28 Da VITRUVIO, De , cit., p 402.

29 Da VITRUVIO, De... , cit., p. 397.

30 Da Y. GARLAN, Guerra , cit., p. 173.

31 Per approfondimenti cfr. R. FlESCHI, Dalla pietra al laser, Roma 1981, pp. 61-64.

12 Per approfondimenti cfr. C. BLAIR, Enciclopedia ragionata delle armi, Verona 1979, alla voce 'arco'.

33 Da VJTRUVJO, De , cit, . p. 388.

3 • Da Y. GARLAN Recherches , cit., p. 166. La traduzione è dell' A.

,s Da B. G11.u, Storia , cit., p. 174.

36 Da B. GILLE, Storia , cit., p. 172.

37 Da E. W. MARSDEN, Greek... , cit., p. 56. La traduzione è dell' A.

38 Da C. BLAIR, Enciclopedia , cit., alla voce 'arco'.

39 Da C. BLAIR, Enciclopedia ... , cit., alla voce 'arco'.

40 Da Y. G ARLAN, Re cherches , cit., p. 219. La traduzione è dell' A

41 Da E. W. MARSDE N, Greek. .. , cit. , pp. 67-68. La traduzione è dell' A.

42 Da E. W. MARSDEN , Greek , cit., pp. 67 -68. La traduzione è dell ' A.

43 Da E. W. MARSDEN, Greek... , cit. p. 69. La traduzione è dell ' A.

44 Da E. W. MARSDEN, Greek , cit., p. 70. La traduzione è dell' A.

45 Da Y. GARLAN, Recherches ... , cit., p. 219. La traduzione è dell' A.

46 Da YlTRUVJO, De... , cit., p. 395.

• 1 Da VITRUVTO, De , cit., p. 390.

" 8 Per approfondimenti cfr. D. BAATZ, Hellenistische katapulte aus Ephyra (Epirus), in Athenische Mitteilungen 97, 1982, pp. 213 e sgg. Ed ancora F. Russo, Tormenta, venti secoli di artiglieria meccanica, Roma 2002, voli. Te TI. Dello stesso autore l'artiglieria delle legioni romane, Roma 2004.

49 Da F. R. VEGENZIO, l 'arte militare, a cura d i A. ANGELJNJ, Roma 1994, p. 76.

50 Da C. MONT Ù, Storia del!' artiglieria italiana , Roma 1932, voi. I , p. 41.

5 1 Da VJTRUVIO, De , cit., p 392.

52 Da G IUSEPPE FLAVIO , la guerra giudaica, a cura di G. Vitucci, Vero na 1978, voi. II , p. 231 -V, 6.

53 Da R. J. FORBES, L'uomo fa il mondo, Torino 1970, p. 96.

S4 Da GIUSEPPE FLAVIO, La guerra , cit., voi. l , p. 521.

55 Da GIUSEPPE FLAVIO, La guerra , cit., voi. I , p. 527.

56 L a citazione è tratta da C. MONTÙ, Storia , cit., voi. l, p. 43. Per approfondimen t i cfr. P. SARDI, Architettura militare , Venezia 1639, p. 165.

57 Da F. R. VEGENZIO, l'arte ... , cit. 'p. 170.

58 Pe r ulteriori informazioni sui trabucchi cfr. P. E CHEVEDDEN, L. EIGENBROD , V. FOLEY, w. SOEDEL, la più potente macchina da guerra del Medioevo, in le scienze n. 325, 1995, pp. 74- 79.

59 La c i taz io ne è tratta da C. Mo NTù, Storia , cit., voi. I, p. 44.

60 La citaz io ne è tratta da C. MoNTÙ, Storia .. . , cit., voi. I, p. 78.

6 1 Da B. GTLLE, Storia , c it. , p. 196.

62 Da B. GILLE, Storia , cit., p. 195.

63 Da B. GILLE, Storia , cit., p. 196.

64 Da B GILLE, Storia , cit., p. 197.

65 Da B. GILLE, Storia , cit., p. 199.

* La stesura di questo libro è di alcuni anni precedente ai miei "To rm enta : venti secoli di artiglieria meccanica" e "L'artiglieria delle legioni romane", che approfondiscono notevolmente l'argomento.

Capitolo Sesto

Le Fortificazioni Romane

Il contesto storico

Allorquando gli ingegneri sirac usa ni da pochi anni avevano completato le colossali fortificazioni della loro metropoli, altri tecnici, più a nord, s i accingevano ad erigere intorno a quella che sarebbe stata l' urbe per antonomasia una poderosa cerchia di eccezionali dimensioni. I s uoi 11 km di sv iluppo, includenti un ' area di circa 427 ettari, rappresentano già di per sé un ' eloquente testimonianza della rilevanza dell'opera ed, implicitamente , della città. Secondo una prassi ricorrente nelle murazioni italiote, anche in quella di Roma: " ... non tutta l'area compresa... era omogeneamente abitata, dal momento che il percorso della cinta obbe- diva soprattutto a ragioni di carattere strategico militare ... La nuova cinta fortificata, costosissima e faticosa da realizza.re, s i spiega solo in presenza di una popolazione sufficiente a fornire la manodopera necessaria a un 'im presa del genere e, allo stesso tempo, il numero di armat i indispen sabili per difenderla che ... non possono essere s tati meno di l 0.000" (1)

Ma se quest'ultima preci saz ione ne fornisce una plausibile s piegazione attuativa ne lascia , però , del tutto inevasa quella motivazionale: chiarisce il come senza risolvere il perchè. É indubbio che un agglomerato urbano di que lla e ntità disponesse da tempo di una cospicua difesa perimetrale, senza della quale mai avrebbe potuto sopravv ivere. Ed infatti, per molti stu- diosi, l'onerosissima fortificazione andava a sostituire una precedente risalente al VI secolo, ma non per necessità espansive poichè: '' sembra di poter dedurre che l'estensione della città era più o meno analoga nel VI secolo e nel TV secolo a.C. .. " m.

L'esigenza, quindi, deve inevitabilmente ricercarsi nella mutazione delle minacce presunte e nella costatazione delJ 'inadeguatezza della cerchia esistente a vanificarle. L'avvento delle macchine ossidionali potrebbe, allora, rappresentare la prima parte dello stimo lo e, molto probabilmente, proprio la celebrità delle fortificazioni siracusane la seconda. Non a caso la concomitanza dei due eventi ha lasciato supporre un diretto coinvolgimento dei tecnici s iciliani nelle mura erette intorno Roma , a partire dal 378 a.C., ovviamente su pressante invito del la sua dirigenza. É emblematico al riguardo che: " il tipo di cooperazione richiesto da lavori di tale dimensione non può essere, in una società arcaica, che di tipo «orientale», basato cioè su pre- staz ioni d'opera obbligatorie di tutti i cittadini, di «corvées»: lo stesso che venne impiegato dai governi tirannici della Grecia arcaica ... " c. 11 • Inoltre i: " ... segni utilizzati so no tutti di carattere alfabetico e non s imbolico, e alcuni di essi so no comprensibili solo nel!' ambito della scrittura greca. Questo fatto unito all ' eccezionalità a Roma di una pratica, che invece è diffusissima in area greca, ha indotto Saflund a supporre l'intervento diretto di tecnici greci, provenienti forse da Siracusa, ove da poco era stata terminata la grandiosa fortificazione delle Epipole ... altre caratteristiche sembrano confermare questa ipotesi, come la divisione in cantieri separati che si può costatare soprattutto nel più ampio tratto conservato, quello prossimo alla s tazione Termini. Qui si possono ancora ricono scere con chiarezza due linee di di visione verticali, una a 20 metri dall 'estre mità meridionale, l'altra a 36 da questa ... "<41 • Parimenti significativa è l ' adozione della tecnica isodomica, squisitamente greca. Del re s to la politica seguita da Siracusa, sotto il profilo ideologico, non sarebbe stata in contrasto con l'ipotesi Di certo è innegabile che le mura del IV secolo tradi scano affinità strutturali e concettuali con quelle delle città italiote, come le più arcaiche già le ebbero con le estrusche ed italiche. Ed è in questa capacità di cooptare quanto di più evoluto rientras se nella loro sfera d'azione, in ambito militare e tecnologico , che s picca la singolarità dei Romani, scarsamente dotati di autonome capacità speculative.

Nessuna meraviglia, pertanto , che essendo le direttrici espansive della Città osteggiate a nord dagli Etruschi ed a s ud dai Greci , proprio dalle rispettive fortificazioni i suoi ingegneri dedussero le bas ilari conoscenze in materia, limitandosi ad ottimizzarle seco nd o le peculiari n ecessità.

I Romani, infatti, non s i dimostrarono mai significat i vamente inclini verso la sc ienza in genere, e quella militare in particolare, ma non per questo non ne sapevano accortamente ponderare tutti poss ibili apporti. Il loro naturale pragmatismo gli consentiva di scorgerne immediatamente quaJsias i potenzialità s usce ttibile di impiego, magari debitamente modificata, in fun zione delle specifiche esigenze. Per cui, considerando che l'approccio dei Romani con gli altri popoli della Penisola fu eminentemente di tipo bellico, è abbastanza logico dedurre che proprio le innovazioni tecnologiche nemiche gli fornissero i maggiori suggerimenti.

E mai ostentarono al riguardo un altezzoso disprezzo nei confronti degli sconfitti avversa1i, istigato dalla s uperiorità militare, fecendosi, invece , sempre un esplicito vanto di saper vagliare, e migliorare, quanto di valido avevano individuato persino nel loro armamento individuale, o nei loro ordinamenti tattici. Per tale ragione , ad esempio: " ... i Romani avrebbero adottato il clipeus e I' hasta dagli Etruschi , subito sconfiggendoli con la loro stessa tattica delle falangi , lo scutum e il pilum , o ltre le tattiche della cava ll eria dai Sanniti, anch'essi rapidamente battuti ... Roma fu se mpre fiera della sua capacità dj imparare dai nemici " <5> Intuibile, pertanto , la forte suggestione esercitata dalle fortificazioni che, di vo lta in volta, s barravano loro la strada e con le quali dovettero necessariamente confrontarsi. Si spiegherebbe così il perchè in un primo tempo i villaggi romani ebbero le caratteristiche degli oppida preistorici , quindi delle fortificazioni poligonali italiche ed infine etrusche, in un crescendo evol uti vo indotto che con-isponde al cresce ndo dell'es pans ione militare. E quando l'identica spinta espansiva provo cò il contatto con la civiltà greca, è indubbio che le conseguenze anche nel settore difensivo non si fecero attendere.

Plau s ibile, allora, almeno sotto il profilo della coeren za, c h e alle spall e dell e fortificazioni repubblicane di Roma ci s iano stati gli stimoli della poliorcetica italiota.

Meno scontata, invece, la prese nza di tecnici s iciliani , se bbene proprio 1'ava nzata definizione architettonica dell e mura e, s oprattutto, la comp lessa organizzazione del lavoro indi s pens abile per la loro costruzione, ponesse problemi imm e n si per chi mai si era cimentato in simili grandiose realizzazioni. Roma , in ogni caso, ebbe la sua cerchia urbica di concezione spiccatame nte italiota , poco dissimile, in definitiva, da quella di Napoli.

Fin qui, però, nulla di eccez ionale e se non fosse intervenuta la ribadita capacità ottimizzatrice d ei Romani questo capitolo non avrebbe ragion d'essere esaurendosi con il precedente la trattazione de]I' evoluzione della fortificazione ne ll'antichità. In realtà, invece, s ubentrò una rivoluzionaria innovazione edificatoria , talmente straord inaria che i suo i criteri informatori troveranno una puntuale riproposizione nell e opere difensive contemporanee, persino in que11e più evolute e moderne.

Tra le stimolazioni che la provocarono, probabilmente , due soprattutto svolsero un ruolo determinante. Da un lato la constatazione dell'enorme mole di lavoro necessaria per erigere le fortificazioni perimetrali, sia in opera poligonale secondo la concezione italica, sia in opera isodomica secondo la concezione greca, in entrambi i casi onerosissime ed implicanti la disponibilità di numerose maestranze ed ingegneri altamente qualificati. sostanze solide, o aggregati, e di materie cement1z1e quali le calci idrualiche , ed il cemento Portland. Le differenze fra malta e calces truzzo sono puramente arbitrarie... " <6) Nonostante ciò, non disponendo di una migliore definizione , continuere mo a chiamarlo ' calcestruzzo'.

Dal!' altro , la casuale scoperta di un conglomerato dalle caratteristiche meccaniche inusitate, peraltro lentamente recepite nelle loro massima potenzialità ma perfettamente padroneggiate sin dalle prime applicazioni per gli impieghi correnti: la cosidetta 'opera cementizia'. Si trattava, in sintesi , di un tenacissimo calcestruzzo molto simile ad un antesignano cemento.

Per le conseguenze che la sua comparsa rivestirà nell ' ambito delle fortificazioni , ed in quello dell ' intera produzione architettoni c a romana, si impone una ennes ima digressione.

Per i Romani, curiosamente, i caementa , erano gli inerti, le pietre cioè più o meno piccole, che venivano tenute insieme da un legante, impa s to a cui significativamente non diedero mai un preciso nome , pur es sendo sos tan zialmente simile ad una malta , la cui conoscenza e disponibilità, tramite la calcinazione della pietra calcarea, si perde nella notte dei tempi. Le prime notizie certe del suo impiego , infatti , rimontano al tempo di Nabucodonosor quando, a Babilonia, si ini z iò a sostituire la malta asfaltica con la calce idratata, pratica rapidamente diffusasi specialmente laddove non sgorgava naturalmente il bitume e , per contro , abbondavano la pietra calcarea e la legna.

IL cal cestruz zo

I Romani, come appena ricordato, lo chiamarono opus caementicium il che lascerebbe immaginare, se non altro per assonanza fonetica, una qualche affinità con il nostro cemento di univer sale, e spesso deprecatissimo, impiego. In pratica, però, il conglomerato in questione non ne possedeva significative analogie tranne la fluidità iniziale ed il successivo rapprendersi, fino alla consistenza lapidea. Va osservato , peraltro, che la definizione di opus cementicium non era specifica in quanto designava, anche in precedenza, qualsiasi impasto contenente inerti, ovvero qualsiasi mescolanza di pietrisco e malta, Ma nessuno di loro aveva lontanamente la resistenza di quello in questione che, in meno di un secolo, li sostituì completamente.

Con proprietà di linguaggio il conglomerato romano non si può definire nè un cemento nel senso moderno nè un calcestruzzo. Il: " termine calcestruz zo è molto generico: con esso si intende un conglomerato di

Approfondendo ulteriormente la que s tione dai reperti archeologici risulterebbe che: " la calcinazione del calcare fosse praticata in Mesopotamia sin dal 2450 a.e [e] poichè la [sua] produ zione è s empre stata relativamente costos a, allo scopo di economizzare si è diffusa l'abitudine di diluirla con materiali meno cari, come sabbia, pietra macinata, polvere di mattonelle e ceneri. I tipi di s abbia che si possono usare sono molto vari , alcuni hanno effetti pozzolanici e contribuiscono ad aumentare la resistenza della malta " (7>

La pozzolana sebbene correntemente ritenuta una sorta di sabbia è, in realtà, una deiezione vulcanica, costituita da cenere e da piccolissimi lapilli, alterata ed omogeneizzata dagli agenti atmosferici, ricca di oss idi di silicio, alluminio e ferro , oltre a percentuali variabili di ossidi di calcio e di magnesio. Con la calce e l'acqua fornisce una malta straordinaria, con proprietà cementizie, e se vi si aggiungono gli inerti, cioè sabbia e pietrisco di varia pezzatura, impastando con ulteriore aggiunta di acqua si ottiene il calcestruzzo in fonna fluida, per-

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