L'ESERCITO ITALIANO NELL'ARTE

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DELL'ESERCITO

STATO l\1AGGIORE
UFF ICIO STORICO GIOVANNI FLORIS
1977
L' ESERCITO ITALIANO NELL'ARTE ROMA

PROPRIETA LETTERARIA

T UTTI l DIRI1TI RISERVATI. LA RJI'ROD UZIONE ANCHE PARZIALE

SENZA AIITO R JZZAZIONE

TIPOGRAFIA RE G I ONALE • ROMA • 1977

P resentaz io ne

L' argomento di questo libro può destare sulle prime qualche sorpresa, tanto è in apparenza lontano dai temi solitamente trattati dall'Ufficio Storico

In realtà questo t'olume st mserzsce senza dissonanza alcuna nella produzione tradizionale, perché contribuisce anch'esso a documentare la realtà •• Esercito italiano )) ' sia pure attraverso un'ottica insolita: quella ddl'arte.

Nell ' attuale momento storico, grat ,ido di problemi e di rtpensamenti, crediamo necessario far leva su tutto ciò che è capace di resistere, di tenere, in qualunque frangente, e che ci consente di operare con realismo e t•erità.

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lL CAPO DE L L'UFFIC IO STOR I CO

PREMESSA CON GIUSTIFICAZIONI l

CHI VUOL GUARDARE, LEGGE

Chi, invece, vuoi soltanto vedere, fa a meno della lettura, che è sempre un bvoro e talvolta una fatica.

Mi torna alla mente la chiusa d'una lirica di Vincenzo Cardarelli, un poeta per il quale guardare era sempre leggere, e leggere pensare, operazione faticosa quanto e forse più dello scrivere. Dice, infatti, la chiusa: << Coraggio, guardiamo>>. Si tratta, e bisogna dirlo , d 'una esortazione a se stesso, non tanto rivolta quanto emessa , a mo' di sentenza, con risentita rassegnazione e degnazione soffusa d'un'ultima speranza; bisognava guardare, allora, ciò che restava del mondo a un uomo in declino, le cose, sempre disponibili , pazienti, benigne: « le cose non stanno che ad aspettare ». Bisogna anche dir e che l'amara, patetica, sentenza nasceva dal particolare stato d'animo , incurabilmente contraddittorio, d ' un poeta che nelle cose s'era rifugiato, un po' sempre, solo per evasione. Noi siamo in una diversa situazione , con altro stato d'animo, con altra materia di sguardo, con altre intenzioni.

Ma la poesia, quando è veramente tale , va così nel profondo che unifica , o almeno avvicina, realtà lontanissime e irriducibili se viste al livello della superficie: così scopre e dona ve rità ignorate, o dimenticate, o per qualche tornaconto accantonate.

Non sempre, ma neanche di rado , a guardare ci vuoi coraggio; ed anche a leggere. L'uomo simboleggiato dallo struzzo che ficca la testa nella sabbia per non vedere, in realtà non ha paura di vedere, bensì di gua rdare. Talvolta si tratterà, più che di paura, di pigrizia; talaltra, di indifferenza da orgoglio, e più ancora da presunzione; né si può esclu-

dere l' apatìa da incapacità, da inettitudine congenita.

D'altra parte è vero, almeno quanto tutto il resto, che per guardare (e leggere ) l'autentica infinità di cose che bisog11erebbe guardare (e leggere) una vita sola, anche lunga, è troppo breve. Se andiamo a stringe re, l'esistenza,

una volta nati , la festegg iamo scegliendo o la piangiamo per non aver potuto, saputo o voluto scegliere: nel bene e nel male. E quando abbiamo fatto una scelta, quale che sia , per accertarci che sia stata buona dobbiamo con-

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fermarla e wstcncrla ogni gio rno , oppure rinnegarla e sostituirla con un 'altra. Che lo ammettiamo o no, la scelta migliore, se non è rinnovata e alimentata, ha un bel potere mummificante, può trasformare in deserto la terra più fertile. Ora, guardare, leggere, equivale ad assicurarsi uno degli strumen ti più validi per la difesa delle nostre scelte, oggi così spesso sugge rite , g uidate , quando non imposte, anche per colpa d'un incessante, ossessivo, uedere. Il mondo vero, concr eto, che non è opera nostra, e che ci ospita, scompare progressivame nte dai nostri occhi, sepolto vivo in un capi llare sistema di lager coperti. Al suo posto, ci diluviano addosso le immagini di esso, ferme e mute o fumettanti, o in moto e sonanti, parlanti, urlanti; buone e anche ottime, cattive e anche pessime; in ogni caso, salve le debite ecce zioni , associate a una so rta di bel deli nquer e : quello che consiste nello strappare un assenso, invece di chiederlo e meritarlo, nello spacciare, in un certo incarto di verità, cose al più opinabili o decisamente arbitrarie. Inutile illudersi: ch i non legge, non guarda, vede e basta; e ch i vede soltanto, a lungo ed anche a breve andare può solo ricevere , e persi no credere di arricchirsi; in definitiva, si aliena a forza di subire; naturalmente, ed è il peggio, non lo sa.

Le immagini, si sa, sono scrittura, la più <t ntica ; ma se non fosse stato per superare le immagini non sareb be nata e cresciuta quella che oggi chiamiamo (( la scrittura )). La quale esprime, con la stessa stabi lità dell'immagine , il pensiero che dell'immagine è più profondo, più alto e più esteso; non solo, ma è più veloce della luc e che rende possibile la formazione, la propagazione e la recezione delle immagini. Perciò l'immagine ha sempre bisogno d'essere considerata come vera e propria scrittura, e pertanto d 'esse r letta, cioè guardata; e per lo stesso motivo essa ha bisogno , in talune circostanze, se vuoi esser ben guardata, d'uno scritto e della di lui rispettiva lettura. Avere a disp os izione , simultaneamente , pensiero divenuto immagine e pensiero tradotto in scrittura significa ricevere in condizioni di parità con chi trasmette: infatti, se alle immagini si può reagire con un semplice moto di

gusto (o disgusto), allo scritto st e costretti a reagire, più o meno vigorosamente e positivamente, con una libera operazione di E non è la stessa cosa: in linea di massima, beninteso.

A questo punto, si direbbe che l'Autore sta chiede ndo al lettore la cortesia di compiere i1 suo dovere, cioè di fare i suoi propri interessi (in realtà , sa l ve le rituali eccezioni, le due azioni conve rgono sempre). E, tutto sommato, così è, anche se in modo un po' complesso.

La prima paura (paura, non timore!) di chi fa un libro d'arte non con riproduzioni e didascalie di raccord o, ma con riproduzioni e un discorso d 'un certo respiro, ad ogni buon conto persino ingenuamente impegnato, è che il lettore vada dritto alle riproduzioni lasciando perdere il discorso, o al massimo leggendolo, come si dice, in diago nale. Paura motivata, e variamente. Questo, però, giustifica soltanto la richiesta della lettura a titolo di cortesia; ma non ancora l'invito a considerare la medesima cortesia, eve ntualmente fatta , come se fosse insieme cortesia, adempimento d'un dovere e tutela dei propri interessi (culturali). La giustificazione dell'una e dell'altro si verifica in alcuni casi specifici, ca ratterizzati dal fatto che la paura di non esser letti si identifica sostanzialmente con quella di esser frai ntesi e mal giudicati a ragion (let teralm ente) non- veduta. Si tratta dei casi in cui le riproduzioni proposte sono il ris ultato d 'una ricerca e d'una scelta in qualche misura nuove, o inconsuete; bisognose, pertanto, ai fini di una adeguata considerazione e d'un motivato giudizio, d'un discorso scritto sui criteri teorici e pratici adottati. Tra questi casi rientra , senza forzature, il nostro.

Con ciò non vogliamo dar ad intendere che stiamo pe r annunciare la scoperta d'un nuovo mondo; ma non vogliamo neppure far pensare che abbiamo scoperto l'ombrello o il pane casareccio. No. E' che a volte capita, un po' a tutti , di passare per una strada percorsa e ripercorsa da venti, trenta o più anni, e di scoprire, ad esempi o, a Roma , qualcosa come " La Gatta >) di Via della Gatta; o qualcosa di meglio, o di peggio. Capita pure, al cont r ario, di recarsi in un certo posto per trovarvi

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a colpo sicuro qualcosa che inv ece non c'è, perché non c'è mai stato, e di stu pircene e addirittura di soffrirne.

Infatti , può capitare a chiunque di scoprire in un Museo un pezzo malinconicamente al suo posto da chissà quanti anni, considerato tanto degno di quel Museo quanto indegno d ' uno sguardo particolare, di quelli riservati ai pezzi di riguardo, a torto o a ragione pubblicizzati -e privilegiati dai visùatori. Può capitare a chiunque di recarsi qua o là, pregus tando la gioia di ammirare dal vivo un'opera apprezzata attraverso una riproduzione , e che si ha motivo di ritenere custodita in qualche raccolta pubblica o privata di ri l ievo, con l'unico risultato di acquisire alla propria cultura la constataz ione, pagata di persona, che l'opera non ha un posto al sole.

In questo libro le immagini dipendono dal testo, non viceversa; il discorso è più importante delle riproduzioni (non delle opere, a scanso di equivoci!). Per meglio dire: le immagini non fan testo; il testo non fa immagini; te sto e immagini vogliono e spe ran o, fermamente, di riuscirei, essere la formulazione esemplificata, il più possibile unitaria, d ' tma proposta che come tale, proprio come proposta, è nuo va, o ci sembra nuova.

Nel nostro caso, p er parlar proprio chiaro, l'evento più probabile è che un l( utente » del libro, poniamo un appassionato di tutto ciò che riguarda l 'Esercito Italiano, saltando il testo per andar dritto alle tavole non trovi ciò che, a suo legittimo e rispettabile parere, era ovvio che cercasse: diciamo una ripresa, con variazioni sul tema, del repertorio, più o meno ufficiale, che tradizionalmente qualifica il rapporto tra pittura e scultura e mondo delle Forze Armate; con quei temi, quei toni, soprattutto quelle firme , pressoché universalmente risaputi ed anche un tanti no scontati. No n è difficile prefigurare il quadro delle reazioni, più che comp r ens ibili ; ma non è facile condividerlo, sia pure a priori, sul piano delle suppos izioni.

La proposta è questa: avviare (o riprendere, forse) una ricerca unitaria e capillare, regione per regione, tendente a reperire tutte le ope r e d'arte ispirate all'Esercito e alla vita militare in genere , a selezionarle, classificarle, studiarle, per inserirle come un grande capitolo, o piuttosto come un grande libro , n ella Storia della nostra arte e di tutta la nostra eu ltura; ed anche per far le conoscere e godere a tutti in adeguate collocazioni. Spa r so, disperso, nascosto , ig n orato o comunque svalutato o sottovalutato, ma sicuramente esistente, e meno povero di quanto si creda, e importante , un ulteriore nostro patrimonio attende ancora in forze (fino a quando?) chi lo sottragga a una fine miseranda o al totale oblìo. La sua importanza deriva dal fatto che senza di esso la rilettura in atto d el capitolo " Esercito 11, anzi , del capitolo <• Forze Armate )) della nostra storia unitaria, non potrebbe esse re compiutamente effettuata. Questa rilettura è, come si sta rivelando, semp r e più necessaria; diciamo urgente. E non è un 'ese rcitazione scolastica, teorica in senso deteriore. Semmai, esercitazione sco lastica nel senso antico e ancora alto, altissimo, della locuzione; e teorica a livello della precisazione di alcuni principii vitali di cui può fare a meno solo chi ha sce lto di monre.

Ciò che off ri amo al lettore non vuole e non può essere che un saggio: alla lettera. Concediamo, fin d'ora, in tutta serenità e umiltà , la più ampia faco lt à di critica: all'idea madre del libro; ai c r iteri d i scelta, selezione , presentazione; ai giudizi, di valore o meno; soprattutto, alle carenze, ai limiti, ai salti di qualità, a certi accostament i , a certi ripudii, a certe indulgen ze ; a certe co n clus ioni, infine. Come può pe rmettersi di trarre conclusioni

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chi è pienamente consapevole di tentare un avvìo? Lo sappiamo, e bene. Si trattasse di statistica, diremmo che abbiamo provato un modulo di campionamento efo campionatura . Ma si tratta d'arte: che diremo? Niente: tutti gli inizi sono, spietatamente, all'insegna d'un'ipotesi di lavoro; d'una o di più. L'ipotesi di lavoro, scava e scava, non è che un atto di fede in cerca di verifica sperimentale; così come l'atto di fede, scava e scava, è un 'ipotesi dì lavoro (esistenziale) in cerca di conferma.

sperimentale anch'essa, come concretamente risulta essere la santità.

Perciò, gentile utente di questo libro, sii lettore; ti verrà, forse, il desiderio, forse anche il bisogno, di guardare. Non solta nto i grandi fatti hanno e fanno storia. Anche queste modeste pag in e hanno una piccola storia e una ne fanno se si incontrano con te. Sono proprio persuaso che non potrei, senza comune danno , fare a meno di parlartene .

Leg gi, per cortesia. Grazie.

DIFFICOLT A D ' UN TEMA

Le prime difficoltà, anzi, le difficoltà in genere, specie quelle del lavoro intellettuale, sono a grappolo: si vede che son molte, ma bisogna analizzarle e contarle per sapere quante sono. E sono semp re più del previsto o del valutato a occhio . Così, accettando l'invito a seri vere un libro su li ' Esercito Italiano nel!' arte non pensavo certo al piacere d'una passeggiata in un parco; ma neanche a quello d'un'avventura in una regione così illusoriamente conosci uta e conoscibile, per il fatto d'esser stata non so lo scoperta ma anche esplorata, da incoraggiare quell'assassino eccesso di confidenza che sta all'origine, ad esempio, di tanti drammi dell'alpinismo. E' meglio, sempre, esser franchi. Ne uccide più la lingua che la spada, si dice; e si dice pure che ne uccide più la gola che la lingua. E la faciloneria quanti ne avrà fatti, ne fa e ne farà fuori? In tutti i campi. La gioviale madama ha fatto addirittura scomparire dei popolì.

L'Esercito Italiano nell'arte: un tema allettante, affascinante. Ma come svolgerlo, di dove incominciare, dove finire? Mi era propizia la delimitazione cronologica: dal 4 maggio 1861 , cioè dal giorno in cui il Regio Esercito prese il nome di Esercito Italiano, (< rimanendo abolita l'antica denominazione di Armata Sarda n, ai nostri giorni. Mi era propizia, inoltre, l'esclusione ovvia (fino a un certo punto) in partenza delle possibili infiltrazioni -VIII-

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nei comprensori della Marina e dell'Aeronautica. Restava, tuttavia, una vastità più eccitante che incoraggiante, ingrandita dal sospetto che sul tema specifico non vi fosse nulla, nonché di compiuto, di unitariamente impostato. Tale sospetto fu confermato da alcuni accertamenti preliminari.

Ho cominciato, dunque , col prendere in esame l'idea d ' una monografia. Mi sembrava una buona idea; ma appena accesa mi s'è spenta nel cervello al soffio brusco d'una semplice osservazione: sull'Esercito Italiano si possono fare (o rifare, doppiare) quante monografie si vogliano; sull'Esercito Italiano nell'arte, ora come ora, nessuna. E per molte ragioni, tutte valide.

La soluzione monografica mi avrebbe fatto correre tutti i rischi d'una selezione che mi avrebbe costretto a sfiancarmi in una ragnatela di vicoli, alcuni dei quali ciechi, a perdermi in un labirinto. La difficoltà oggettiva di certe scelte era aggravata dal fondato timore di privilegiare, se non proprio di favorire, questa o quella c< unità», questo o quell'artista, a scapito delle altre, degli altri. Affermare qualcosa è sempre, implicitamente, negare altre cose che uno diversamente schierato affermerebbe nel! 'identica circostanza; e che noi stessi affermeremmo in circostanze diverse. E non si tratta di c< relativismo ''; semmai, di amore della verità, di marcia di avvicinamento, per tappe, alla verità: una marcia 11 longa >> quanto la vita, quanto tutta la storia umana. Marciare, lo sanno tutti, equivale a lasc iarsi dietro, via via, i traguardi intermedi, che non sono l'obiettivo o che, uno dopo l'altro, non lo sono più: cioè, ancora e sempre, affermare a suon di negazioni, sia pure dialettiche, di distacchi.

Chi e che cosa avrei negato, scartato, tra tanti titoli, meriti, glorie, e con quale garanzia di retto giudizio?

D'altra parte, come alternativa ad un lavoro monografico non c'era che qualcosa di ancor più scoraggiante, e comunque irrealizzabile in tempi brevi: un catalogo, cioè sempre un elenco, più o meno ragionato, più o meno dottamente allestito. Neanche a pensa rct.

Anzitutto, nessuno mi aveva chiesto di fare un catalogo. In secondo luogo, e ben più decisivamen te, con quali criteri avrei potuto anche solo impostarlo? C'era un solo criterio possibile: il non- criterio, ovvero la constatazione e l'accettazione del fatto compiuto. Secondo questo non - criterio, adottato da molti nei più svariati campi, tutto ciò che esiste, co-

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munque e dovunque , è valuta to, o meglio è st imato , non in base ad un valore che gli si può attribuire oppure no, ma in base al fatto che es iste, che c'è : punto e basta. Chi valuta su basi diverse , oggi co me oggi rischia sempre più frequentem e nte d 'esse re incriminato di moralismo, d'integrismo e anche di integralismo: in alt re parole, è un uomo morto.

Concretamente, avrei dovuto sc hedar e tutto ciò che figura ufficialmente (spesso l'ufticialità è la sola garanzia d'esistenza) in racco lte e depo sit i d 'og ni tipo e misura sotto la voce « arti figurativ e l>, all'insegna sempre più vasta della pittura e della scu ltur a, co n un " co ntenuto )) riferibil e, esplicitamente o anche implicitame nte, a un punto- moment o dell'universo c hi ama to " Esercito Italian o n. Sul risultato della schedatura , poi , deterso il su dore, avrei apposto e imposto una grande inseg na di ce nte : L'Eurrito Ita liano nell'arti'.

te: anche se sono quadri, o comunque opere di pittura; an che se so no statue, o comunque opere d i scultura; ed anche se fi gurano ufficia lmente come opere d'arte A volte si fa troppo presto a parlare di certi manufatti come di opere d'arte. E a volte si giunge a farlo, addirittura, per timore o paura di offendere qualcuno o qualcosa, come se realizzare una c reazione artistica fosse obbligato r io e il non esse rci riusciti possa esse r pcrseguibilc come u n 'infrazione alla legge. Discorso antico, ma inesa uribil e e, quel che più conta, doveroso: co me tutti i discorsi doverosi, poi, feco nd o c sa lutare quanto am a ro e molesto. Un dis corso, comunque, c he ho dovuto aff rontare, e alla brava.

Bene : aver potuto escludere con una certa t ranquillità e la monog r afia e il catalogo e r a già qualcosa; nel senso, al me no, che avevo evitato di trovarmi tra l'una e l'altro come tra Scilla e Cariddi, co n la prospettiva d'un bel naufragio. Sempre in metafora , dovevo però prendere il largo in mare aperto, a vela o anche a remi, in viaggio di esplorazion e. Fuor di me t afora, non mi restava che analizzare in lungo e in largo il tema da trattare, alla ricerca d 'un taglio, d'u na prospettiva, d'un crite rio , che mi consentissero di fare, senza pretese m a anche senza troppe rinunce, un lavoro r is pettabile e d'una qualche utilità. Perché di questo , in definitiva, si tratta: lavorare per portare un sia pur modesto contributo.

Una vera e propria diavol eria. Diabolico è, infatti , l'errore voluto, pe rseguito , co nsu mato co n lucida co nsapevolezza e determinazi o ne; ancor più qu ello cuci nato e dato in pasto al prossimo, sia pure lontano. Sal vo re star:tdo, evidentemente, a scanso di equivoci, che di e rrori è impastata la nostra vita, personal e e collettiva; ma (salvo restando) anche qu es to: che meno raramente di quanto non siamo disposti a credere (specie nei confronti altrui) si tratta di errori commessi a fin di bene, seco ndo la formula in uso.

Molte so no le opere dedicate all'Esercito e da esso, o ad esso, ispirate : ciò è indiscutibilc. Di sc utibil e è, però, che sia no tutte opere d'ar-

Mi sono dunqu e proposto di chiarire anzitutto a me stesso c he cos a avrei dovuto (c potuto ) intendere per •• Esercito Italiano H, per " arte n, ed infine per " Ese rcito Italiano nell'arte )). Tr e punti di meditazione, apparentemente chia r i, anzi, ch ia r issimi; tanto da far pensare alla meditazione medesima come ad un ozioso perdi tempo. In realtà, tre spunti in un o, che un a vo lt a presi mi hanno ben presto dato la sensazione di fare (a me stesso) un discorso (a l meno per me) nuovo.

Ora, poich é il discorso mi sembra tuttora (entro certi limiti) nu ovo ; e poiché solo alla sua luce questo li bro può essere in va ri a m isu ra accettato oppure rifiutato, ritengo opportuno, e giusto, sotto porlo alla co nside razi o ne ed al giudizio tuoi. lettore.

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L ' ESERCITO ITALIANO

No·rA N. i> - 4 MAGGIO 1H61.

Vista la Legge in data '7 marzo 1861, colla quale S. M ha aSJunto il titolo di Re d ' Italia, il sottoscritto rende noto a tutte le autorità, Corpi ed Uffici M ilitari che d'ora i n poi il Regio Esercito dot •rà pn·ndere il nome di Esercito Italiano, rimanendo abolita l'antica denominazione di Armata Sarda

Tutte le relatire iscrizt'oni ed intestazioni, d1e d'ora in avanti occorra di fare o di rinnot •are , saran no modificate in questo senso.

La presente imerzione serve di partecipazione ufficiale

Con questo primo chiarim ento, su basi stori co - documentarie , tracciamo alle nostre spalle una bella lin ea di demarcazione: necessa ri a più di quanto non si a oppo rtuna , provvidenziale ed anche un tan tino comoda. Ora , precisa to i l ca mp o, non ci resta che scendervi

Per " Esercito Italiano )) ho creduto di non poter intendere soltanto ed esc lusÙ •amente ciò che dai più , ed a torto , s'intende: il nucleo permanente, effettivo , dell'organismo che alla denom in azione risponde; nucl eo qua l ifìcato su basi professionali, alla stessa stregua di altri ai quali si affidano e la possibilità e la continuità dei servizi fondamentali che garantiscono il libero sviluppo e la sicurezza d'un vero popolo.

Per " Ese rci to Italiano n ho creduto di dot •er inten dere, inve ce , l 'insieme dei cittadini e dei mezzi (a nche degli animali) aventi i requisiti indispensabili, che in pa ce, a turno, auicura no i servizi relativi alla difesa (sia specifica mente come dissuasione , sia estensit'amente come salt·aguardia e tutela del bene com une), e in caso di guerra, secondo le leggi e le consuetudini, nonché le necessità emerge nti , assicurano anche quelli re lativi all'offesa.

Ogni cittadino, infatti, ha per costituzione il dovere (che è anche, al tempo stesso, un diritto) di difendere a11che militar mente la Repubblica . Nasce spontanea, da questo fatto, una cons id eraz ione: il cittad ino che ad una delle scadenze previste per il tempo di pace, o in ci rcostanze belliche , viene chiamato alle armi, non viene, dal di fuori, preso, agguantato, e forzosamente ingaggiato da una " forza

armata n; al contra r io, egli dù;enta dal di dentro, per la sua stess a struttura di cittadino, militare. Non è mai male ripetere certe cose ovvie, specie in tempi di negazione sistematica anche di cose ovvie, o di riduzione ad ovvietà di non poche vere e proprie pretese. Ogni cittadino è, in potenza o in realtà, anche forza armata. L'Esercito non ha né può avere consis tenza legittima se considerato e realizzato come qualcosa al di fuori del popolo; ancor meno come qualçosa da si tuar e sopra il popolo. E sso è dal popolo, nel popolo, per il popo lo (tutto intero): passa per ciascuno di noi, sto ri camente, co ncretamente.

Tutto ciò mi è semb rato, e mi sembra , molto importante. Noi diciamo che la Repubblica chiama alle armi, ma sottolineamo il fatto che essa impone il servizio militare. Più logico, e più giusto, tener se mpre presente (a proposito , ancora, di ovvie tà ) che tutti i doveri , la Repubblica , li impone , perché solo, es cl usivamente , così può garantire i diritti. Fondata, com ' è, sul lavoro, la Repubb lic a Italiana dovrebbe imporre anche il lavoro.

Questo che vuoi dire? Vuoi forse dire che tutto cala dall ' alto, come spesso si è tentati di giudicare? E' vero: una volta che uno Stato di diritto (autentico) è cos tituito ed avviato , i meccanismi (necessari) del suo funzionamento l i vediamo e non possiamo non vederli « in alto )> ; potremmo aggiungere che in effetti essi Jono, relati vame nte ai singoli cittadini, simbolicamente " in alto n Ma perché questo? Perché •c in basso )), una volontà (non un meccanismo) libera quanto la sua stessa natura umana

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consente, ha voluto e continua a l'Oiere, ininterrottamente, che così sia . Le applicazioni pratiche di una libera scelta non possono essere giudicate come una imposizione, in senso negativo e ostile, se non illogicamente e in malafede.

Perciò, anche il nucleo permanente, effettivo, dell'organismo che viene indicato con la denominazione di " Esercito Italiano )) , attinge , riceve, il suo valore da un altro valore, della cui forza vitale partecipa , si alimenta. Questo valore precede l'Esercito Italiano, e insieme lo circonda; gli dà la giusta identificazione, ne le git tima la necessità, lo cresce e gli delega l 'assolvime nto di alcuni compiti peculiari, tra i tanti ai quali la vita collettiva affida la sicurezza, il libero corso d eli 'esistenza dei singoli. Questo valore, lo sappiamo tutti, nasce dal libero confluire di cia!>...:uno di noi nell'unità del popolo italiano.

L ' Esercito Italiano , dunque, non può essere visto in dimensione aristocratica od oligarchica; meno che meno, in funzione di potere. Ma non può essere considerato neppure in dimensione populistica , demagogica, con fina-

li smi ideologici di partito o fazione. Festeggiare, celebrare, esaltare l'Esercito Italiano sì può e si det'e: a patto, però, che ciò significhi festeggiare, celebrare, esaltare la realtà conc r eta (così come veramente è) dell'intero popolo italiano nel suo momento militare. Se si accetta questa condizione, è possibile accettare anche la proposta di un certo criterio di valuta· zione di tutti gli atti coi quali si festeggia, si celeb ra, si esa lta l'Esercito. Secondo questo crite rio, festeggiamenti, celebrazioni, esaltazioni, sono veri , autentici, oppure no, a seconda della dimensione 1n cui tendono a collocare l'Esercito medesimo; e, naturalmente, della effettiva co llocazione che contribuiscono a dargli.

Tale criterio, o ipotesi di criterio, è, però, applicabile anche alle manifestazioni festive, celebrative, esa ltative dell'arte? Sì e no.

Non si può negare che un artista è sempre figlio del suo tempo, della sua cu ltura, della sua civiltà; ma non si può negare neppure che molti artisti, anche grandi, hanno creato capolavori perdendo di vista, nel corso dell'opera, gli intenti iniziali ed anche quelli finali. In pratica, il genio è atipico, e usiamo la parola " genio » in senso non assoluto.

Dunque no.

r,:;::;;:;:•:;;f'· h l , .Jp.. _.:, t!
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La realtà delle cime è ìndiscutìbile; ma anche l'esistenza della montagna !o è. Ci sono i grandi e i grandissimi, personalità che siamo tentati di scontornare; ma c'è il periodo, il ciclo storico, il corpo , msomma , il blocco di produzione artistica.

Dunque sì.

Allora? Che cosa intendere, ai finì del libro, per " arte ll?

C'è una cosa che chiunque può dire senza correre gravi rischi: quel qualcosa di inafferrabile in virtù del quale fra tante opere soltanto alcune sono (( opere d'arte l> resta e resterà un mistero. Un mistero refrattario ad ogni definizione, ma che non cessa di farsi definire, incrementando il già impressionante patrimonio di analisi e descrizioni che rende sempre più ardui gli studi, e affaticando gli atleti della definizione almeno quanto gli stessi artisti. La storia dell'estetica è, tutto sommato, una storia di indicazioni, di desideri e di esigenze, di domande e di pretese, intorno al fenomeno umano forse più ambiguo: quello rappresentato dali 'incessante rifare, servendosi di materia e di non- materia, se stessi e il mondo, in nome d'una sorta di legge che comanda di creare. Una sorta di legge, aggiungiamo, abbastanza strana, così radicalmente positiva da far sorgere più d'un dubbio sulla sua stessa

natura di legge. Tant'è vero che , p1U o meno da parte di tutti, si tende a considerare l'arte non come il frutto dell'obbedienza ad una legge ma come l'affrancamento da ogni e qualunque legge, come manifestazione di libertà assoluta. Questo, in fondo, è un modo di concludere un discorso, in un certo senso, solo per poter meglio vedere la possibilità di aprirne un altro, nuovo, più accettabile. E non solo nuovo, ma anche diverso. Lo dimostra il fatto che, mentre continuiamo a sfogare, anche nei confronti dell'arte, tutta l'esuberanza dei nostri istinti definitorii, spesso e volentieri investiamo i guadagni realizzati in questa attività nei più disparati settori della produzione intellettuale , lasciando l'estetica nella situazione d'un mondo ancora da esplorare, o sacro ad o o una recesswne cronKa.

Figurarsi se potevo pretendere di farmi prendere sul serio con un ennesimo discorso

4 L'ARTE
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sull'arte wl malcdato mtento di approdare .td una mia definizione, c:: con la probabilità di darne, <.kntro una scatola nuova, una vcc.:h ia. Oltretutto, mi assillava, insistendo ndla considerazione obbligata de l rapporto tra l'espressione artistica c il suo " contenuto h (ne l mio caso, l'Esercito Italiano), il pensiero dt:ll'arte nelle sue ultime manifestazioni e nella giustificazione critica delle medesime. Anche a non voler co ndividere , ad affacciare riserve, come, a che titolo, ignorare?

Lasciando da parte il cinema, qualificato dal suo stesso nome e da tutte k implicazioni, oggi anche l'a rte delle immagini in <-Juiete è suggestionata e plagiata , più che generata, dalla fretta, dal bisogno, diventato abitudine, di co rrer e. Quando sì corre più per abitudine che per vera necessità, è come se si dicesse:: una se ri e dì " no! n : ,, no n a questo, " no '' a quest'altro e a quest'altro ancora. Ma non si può negare tutto! . on tutto è da negare : anche correndo, la storia è storia. Certo , il correre per vera fretta è strettamente legato a un bisogno di sintesi; e nel bisogno di sintesi, oltre alla so lle citazio ne di qualcosa di nuovo che possa nascere, c'è l'affermazione della volontà di " far presto'' · Far presto perché?

Quello che con parola ormai familiare, anche se spesso usata a sproposito, chiamiamo in arte " astrattismo 11 , è un fenomeno di sintesi, un voler •• far presto )) , e ridurre ridurre ridurre, per poter stringere e fermare Se uomini e cose ci passano avanti sempre più di corsa (in automobile, anche il paesaggio sfreccia , nulla è più quieto), che ci re sta, ormai, dì essi, al di fuori di ciò che resta dentro di noi? Niente. L'astrattismo sì sforza di registrare, interpretare e fissare, appunto, ciò che resta dentro dì noi. Un ' arte, una pittura e anche una scultura, che potremmo chiamare arte dei residut, dei resti; un 'a rte che non di rado appare come arte delle dejormazio11i, perché de- formati, alla le tt era, non in senso spregiativo, sono i segni rimasti d'una rea ltà che ci passa davanti corre ndo Ci de v'essere, al fondo di que sto fenomeno, l'esigenza di controbilanciare con si ntesi ai limiti del mistero l'eccesso di analisi c he oggi caratterizza la scienza in specie c la cultura in · genere. Alla luce dì queste consi-

derazioni, anche l'arte a:.tratta è più rera, no fuori dalla realtù di quanto non si creda. L'uomo, tutto sommato, ttnta di imporsi alla realtà in cui è immerso solo per non perdere mai il contatto concreto con essa: minaccia di divorziar<.:, e divorzia, per accettare, dt:ntro di sé, libtramente, un matrimonio indissolubile fondato sulla parità dei coniugi. La storia, anche quella dell"arte, sembrerebbe farcelo dimenticare, di tanto in tanto, per svo lgere più energicamente, in un tempo il suo compito di rammentatore (tatrice ?)

Per non rigt:ttare senza giustificazione un simile giudizio, assoggettiamoci pazientemente al peso d 'un'altra breve considerazione.

Dai primi timidi , rabbiosi, oppure delicati segni graffiti sulle pareti d'una caverna, sulla co rteccia d'un albero , su su fino ai vertici del figurativo, del natura/ismo, che ha inteso fare l'uomo con l'arte? Ha inteso, via via, riprodurre, interpretare, rù ostruire il mondo così come lo andava vedendo e sperimentando sensibilmente. La sua esperienza si è andata progressivamente ampliando; non soltanto per opera della diversità della luce nelle varie stagioni e nelle alterne fasi del sole e della luna, ma anche per opera delle scope rte fatte negli spostamenti semp re più notevoli: donde i rapporti mutevoli, in co ntinuo arricchimento. tra " alto" c " basso li, tra " qua n c " là )) , tra " tondo)) e " non tondo "• tra •• verticale " e " orizzontale "· Sostanzialmente, i vitali inganni della lucc: e quelli non meno vitali della prospettiva, hanno n:so semp re meno facile il riprodurre e sen1pre più necessario l'interpretare. Quando, poi, i successi ottenuti nell 'opera di interpretazione hanno dato all ' uomo una cresce nte consapevolezza dei suoi poteri, l'arte è entrata in una sua grande stagione: quella della ricostruzione del mondo in una nuova unità, realizzata intimamente e proiettata all'esterno in fo r me dis eg nate, dipinte, sco lpite. Naturalmente , mo lteplici sono stati i modi del ricostruire, a tutto vantaggio della crescita d'una coscienza sempre più personale di poteri personali.

Così, lungo la sto ria, l'arte è stata sempre meno copia. poi, sempre meno interpretaz10 -

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ne, infine sempre meno ricostruzione del mondo com'è; o meglio, come sembra che sia realmente, perché così, alla superficie, appare più o meno nello stesso modo a tutti, o alla maggioranza. E quale altra stagione poteva seguire a quella della ricostruzione? La stagione, est r ema, del dubbio su ll a effettiva consistenza del mondo esterno, del cosiddetto mondo real e, dubbio seguìto dalla negazione. Negazione non assoluta, s'intende, perché assurda, velleitaria; negazione del mondo visibile come ,, materia)), come " argomento», e persino come " occasione,, dell'arte.

Oggi, pittura e scultura sono in una fase qualificata da un solo incentivo , o giustificazione, da un solo criterio opera t ivo: int,entare, creare; sostituire, avendone o mutuando in qualche modo le forze, " i[ n mondo col " proprio mondo>>; quantomeno, sostituire al modo empirico di t'ederlo e guardarlo, un modo di conoscerlo che non è logico, perché è intuitivo, ma somiglia abbastanza ad un modo filosofico, scientifico, di conoscenza.

Per completare la breve considerazione c 'è, però, da fare un 'osservazione che, se non distrugge il già detto, lo ricopre tuttavia con un " trasparente ,, sul quale sìamo liberi di ridimensionarlo, analogamente a quanto è possibi le fare con certe car te geografiche.

Le vicende dell'arte di cui abbiamo balbettato si stendono dalle origini ad oggi e ci superano in direzione del futuro, !asciandoci dove noi s iamo. Nel c< dove ,, in cui siamo, un ampio, oceanico ed intercontinentale presente, un presente planetario, sussistono e convivono tutte, nessuna esclusa, quelle vicende e i loro rispettivi risultati. Sia pure con qualche rischio, ci permettiamo di ricordare che nel momento preciso in c ui il primo astronauta stampava la prima storica orma umana sulla Luna, c'era forse sul la Terra chi sfregava energicamente tra di loro due p ezzi di legno per fare il fuoco. Rischio per rischio, ci azzardiamo a credere che in quel c< presente >> che ancora, finora, chiamiamo « futuro», ne avverranno di più belle.

Ora, l'arte ispirata a l l'Esercito e dall'Esercito , l'arte avente pe r contenuto l'Esercito , è della stagione figurativa; anche se non ce la se ntiamo di affermare che non può essere che

figurativa. Valutaria ai fini di un giudizio per una scelta significa o, per essere più precisi, comporta il guardarla come tale, come figurativa, cercandovi però i misteriosi segni di riconoscimento comuni a tutti i possibili modi di fare arte, e ai loro risultati.

Chiedendo scusa del passaggio dal plurale al singolare, confesso di aver chiesto aiuto all'ovvietà, al senso comune (comune almeno come possibilità), insomma, al buonsenso Le opere d'arte» universalmente conosciu te e riconosciute, a volte con ritardi variamente

motivati di secoli e millenni, che cosa hanno per essere quel che sono? M 'è sembrato di poter dare questa risposta. Le opere d'arte hanno qualcosa a prova di tempo e di spazio , di dive r sità tra individui e gruppi, tra stirpi e civiltà; al dì e al di là di ogni ragi?namento, esse SI 1mpongono come promoz10ne e come risultati concreti di unità; come profezie , insieme interpretazioni, sigilli, ed esortazioni, al dovere e al diritto di unità. Da quando abbiamo la memoria fino ad oggi , le opere d 'arte hanno un potere di testimonianza tra i più accettabili e accettati nei confronti della verità: quella verità che, facendoci personalmente liberi , ci dà la forza di fondare e di far crescere, dentro gli ingranaggi meccanici della necessità, la libera associazione umana. Tutto questo, nonostante la loro misteriosità, o forse proprio in virtù di essa; con tale co nsistenza da resistere a tutte le tempeste politiche e sociali, alle stesse rivoluzioni.

Che è? Un comodo, pratico , rinunciatario ripiego su un giudizio di fatto, per far pas-

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sare alla chetichella un qualche discutibile giudizio di valore estetico implicito in qualche mia scelta? Può essere, ma non secondo le mie intenzioni. Mi torna doveroso confessare anche questo: mi ha sempre colpito, direi religiosamente, l'imperiosità con la quale certe opt:re dissepolte da passati leggendari ci costringono a dire, senza troppe compli caz ioni mentali, " guesta è arte '': quasi professa ndo una fede, che possiamo chiamare estetica ma che in realtà ci apre, invadendoci e pervadendoci, spiragli sulla nostra essenza più profonda. Sembra, ogni volta, di ascoltare un invito a riqualificarci, attraverso un'ulteriore anamnesi spinta fino alle origini, su livelli perduti o sempre in pericolo di perdizione.

In somma, ho cercato elementi di orientamento, nella estrema difficoltà di formulare un c riterio vero e proprio, analizzando i risultati di un suffragio universale ma gualitativo, inv ece che quantitativo, e commisurandoli ad un valore, come l'unità. malinteso, frainteso.

conculcato, ma sempre cé!pace. recettivo, co me pochi altri. Di tali elementi e della loro validità , giudicherai liberélmente tu, lettore. sulla scorta delle pagine scr itt e e delle riproduzioni. L'opera d'arte de ve avere un seme. e un grembo o delle radici; deve venire da lontano e deve andare ancor più lontano, perché possa attraversare e interessare tutti i momenti di tutti gli uomini: non importa se nella proposizione d'una gavetta o di una battaglia, d'un alpino attaccato alla coda d'un mulo o d'un sabotatore che mina un ponte, di reclute sotto la doccia o d'un reparto in sosta, o di comba ttenti c he nostalgicam ente cantano. L'opera d'arte è certo un atto d i conoscenza; ma può esse re anche la negazione della possibilità di conoscere veramente. Ciò che conta è che ci nguardi, che possa, prima o poi, coinvolgerCI tutti. Specchio della vita, no: è troppo poco. ed è anche eguivoco; piuttosto, sorgente luminosa , variamente utilizzabile, ma sempre necessaria, s pesso provvidenziale.

L'ESERCITO ITALIANO NELL'ARTE

Una volta chiariti a me stesso i due puntichiave, le conclusioni scaturivano dal di dentro, confluendo nella co nfigurazione del tema e indicandomi, non dirò una strada pronta ad essere percorsa. ma un tracciato. una pista transitabile.

Trattare un tema come " L'Esercito Italiano nell'arte '' poteva equivalere a questo: ricercare e sco prire (o riscoprire) tutto ciò che i momenti militari della vita del popolo italiano (unitariamente considerata) hanno espresso, attraverso la decantazione e l'esaltazione dell'arte, in ispirito di necessità e di libertà, proprio per assicurarlo alla storia della vita strappandolo a quella della morte.

L 'uo mo incontra , affronta ed attraversa la morte, ma sempre deciso a uscirne , a trionfarne. Se lo scopo del momento militare tipicamente critico, la battaglia, è la vittoria, esso non può essere che la vita. E non la vita gene-

ricamente, e un po' astrattamente, di tutti quelli che restano e che si succedono, generazione dopo generazione (a turno, dovranno, tutti, morire) ma la vita di ciascuno, anche di chi muore in battaglia. E' inaccettabile , perché privo di senso comune , che un uomo sopporti di affrontare e sperimenta re la morte insieme al destino di sparire, di passare alla storia del nulla. Lo farà, forse, a fior di coscienza o nel su bconscio; ma nell'inconscio, n ell'abisso dove pullulano le sorgenti, no. L'uomo si batte sempre contro la morte, per la vita.

Tutto ciò è implicito in quanto detto a proposito dell'Esercito e del concetto estensivo, oltreché rigorosamente centrato, di esso. Creare e mantenere, con massicci finanziamenti, una organizzazione per la morte, è pura follia; farlo per la vita, nonostante tanti ed anche rispettabili pareri contrari , è realismo da buona salute. nonché indice di sagge zza. La morte - XVI

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non ha affatto bisogno dei nostri sforzi organizzativi c finanziari per svolgere efficientemente ed onestamente i suoi programmi. La vita, invece, sia pure in posizione subaherna a Chi ce l'ha data e ce la conserva, siamo, per quanto attiene all'umanità, noi. Non nuocerà ricordarlo, neppure in questa sede.

Da queste premesse, un logico e doveroso corollario: se la guer ra non è il solo fine, e neppure quello principale, dell'Esercito, non si può fare intorno all'Esercito Italiano nell' arte un discorso incentrato esclusivamente su opere ispirate a battaglie, duelli, assedi, morti sul campo. A parte tutto, si può esser tentati, in presenza di opere non d'arte, di forzare il giudizio per far tornare i conti del discor so medesimo. Bisogna, invece, puntare equilibratamente anche sulle opere ispirate agli scopi meno appariscenti, ma non meno veri, dell'Esercito; per intenderei: scongiu rare, attraverso la dissuasione, la guerra e tutto ciò che può provocar! a; addestrare e tener disponibili i cittadini alla difesa dalle molteplici calamità naturali che possono minacciare un popolo; co ntribuire, coi mezzi e nei modi specifici della sua realtà, allo sforzo incessante che il popolo compie, anche facendo leva sulle esigenze della difesa, per render sempre più vera e co ncreta la sua unità. Un discorso del genere richiede, in pratica, la ricerca, la illustrazione e l'interpretazione di opere d'arte nelle quali si esprima durevolmente uno qualunque dei molti momenti della t'ita dell ' Esercito: opere d'arte nate da questa vita, dall'interno, e non riferite daLl' esterno ad alcuni schemi, o archetipi, o mitizzazioni rettoriche, spesso deleteri, che la sostituiscono nella mente, nella coscienza e nel linguaggio di molti o forse troppi di noi.

Nella vita dell'Esercito avviene tutto quello che avviene in ogni altra vita: solo che avviene all'inseg n a di condizioname nti dichiarati, programmati e finalizzati in modo così svelato da far credere, illusoriamente, che nella vita u borghese», o " civile », le stesse manifestazioni si svolgano all'insegna d ella libertà. Non è poi così f acile, tanto per non dire che è impossibile, sapere fin dove scegliamo veramente e fin dove siamo, invece, scelti, in tante decisioni (ma questo è solo un << numeretto di

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richiamo » per la nota che ciascuno di noi può porre a piè di pagina o in fondo ad un capitolo della sua vita). Si può tranquillamente affermare questo: il ciclo che, dalla visita medica alla vestizione, dalla caserma al campo e all'eventuale prova del fuoco, passando per l'alzabandiera, il rancio, la libera uscita, il silenzio, le marce e via dicendo, racchiude la vita militare, è il ciclo biologico- storico di ogni esistenza trasposto in una particolare chiave. La pregiudiziale, o l'ostacolo, della <( disciplina », sempre meno riferibile in esclusiva alla vita militare e sempre più predicabile della vita senza aggettivi, in tutte 1e sue forme, lo dimostra anziché contestarlo. E lo dimostra in modo particolare il fatto che la di-

sciplina, sempre ed oggi più che mai, è talmente consustanziale all'esercizio della libertà da apparirne, dentro il circolo della vita associata, come la prima ed ultima condizione o garanzia.

La verifica ha voluto un'appendice, non del tutto trascurabile: quella relativa alle forme d'arte da considerare, dal momento che l 'arte non ha veri confini e che nessuna forma d'arte può essere inclusiva o esclusiva delle altre. Mi è parso di dover circoscrivere il territorio della pittura e quello della scultura, comprendendovi, naturalmente, tutto ciò che rientra nelle due grandi classificazioni, peraltro in fase di crescita ed anche di osmosi. Anche questo era necessario dire, lettore.

PER FINIRE E POTER COMINCIARE

Tutto ciò che riguarda i limiti della ricerca e del materiale reperito e offerto, unitamente ali 'indicazione delle raccolte pubbliche e private di cui ci siam potuti avvalere, nonché alle note essenziali su autori e mostre, troverà giusto spazio in chiusura di libro.

Non possiamo, però, concludere questa premessa con giustificazioni senza avere almeno accennato ad una questione cui van collegati e certo linguaggio e certi atteggiamenti sui quali il lettore potrà avanzare delle riserve : la questione del rapporto del '' resto del mondo)) coi valori tipici dell'universo militare.

Si parla sempre più, oggi, a proposito e anche a sproposito, di demitizzazione. Nella maggior parte dei casi, sarebbe più semplice e più proprio parlar di verifica, o di ripensamento, oppure di ripensamento e verifica. Vi sono uomini e raggruppamenti per i quali tante verità e realtà politico- sociali, economiche, religiose , in cui credono e vivono centinaia di milioni di esseri pensanti, si fondano su miti. Questi miti sono una delle tante forme del male e pertanto vanno smascherati e distrutti: sostanzialmente, qui sta rutto il senso

dell'operazione che va sotto il nome di demitizzazione, considerata dai suoi fautori ed artefici come una campagna di liberazione, di salvezza. Ma le centinaia di milioni di esseri pensanti che credono in quei e< miti », al punto da farne sostanza del loro vivere, non li considerano come forme di male ma come forme di bene, a volte come il bene; dunque, per essi la demitizzazione, !ungi dall'essere un 'operazione liberatrice, salvifica, è, caso per caso, un crimine, una meschinità, oppure soltanto qualcosa di ilare, di comico. Ce la prendiamo tanto con le parole, contrapponendole (nientemeno!) ai fatti, ma in definitiva con parole e per parole ci uniamo o ci dividiamo fino a massacrarci. Chi può dire quanto sangue grondi dalla parola '' demitizzazione )) ? E quanta carica mitica e mitizzante essa abbia tra le labbra di chi la pronuncia, troppo facilmente, come qualcosa di sacrale, di esorcistico, di libera torio ai più alti livelli razionali?

In verità, tutte le parole, per la loro e soprattutto per la nostra forza (o debolezza) di deriva, giungono a un punto storico, personale e collettivo, in cui perdono e fanno perdere le tracce del loro significato originario ed usua- XVlll-

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le medio , non dicono più nulla, o addirittura l'opposto di ciò per cui erano state create e immesse in c ir colo Ma basta ripensarle , verificarne il rapporto col messaggio loro affidato e tene r conto della verifica per ristabilire, almeno in parte, un equilibrio teorico e prati co minacciato o compromesso. La verifica si fa spalando tutto ciò che si è accumulato sopra ogni parola, fino a scoprire (alla lettera!) il vero significato. Ciò non significa che bisogna tornare indietro, mettersi fuori del proprio tempo, della propria cultura, ovvero alienarsi a ritroso, esse re " oscurantis t i )) , " reazionari n Ciò significa soltanto che bisogna riesaminare se stessi e la propria capacità di essere autentici, veramente liberi, attivi e non passivi, anzitutto scegliendo, formulando ed esprimendo attraverso il linguaggio, con le parole, le proprie decisioni dentro i propri pensieri. Fare una cosa simile ci porta a rovesciare le abitudini espressive e linguistiche in particolare. Invece di servirei automaticamente d 'un termine presuntamente facile, d 'un termine sovraccarico di se stesso fino a straripare di significati anche contraddittori, guardiamo a qualcosa (un oggetto, un concetto) e ce rchiamo di parlarne agli altri coi termini più adatti a non far sorgere dubbi su ciò che vogliamo, dicendo o scrivendo.

No, non credo d'essere impazzito. Parlando di E sercito, e di Esercito nell'arte, bisogna dissotterrare molte parole e prima d ' usarle bisogna liberarle dalle incrostazioni , dal terriccio, dalle varie patine, fino a quando non si ,, senta n, prima ancora di " vedere >J, che ciascuna di esse può anche per gli altri essere una parola vera, una parola- valore, perché è una paro la - fatto. Così facendo sarà meno difficile discernere opera d'arte da opera nond'arte. Anche l'opera d'arte, in realtà, è una parola - valore, una parola- fatto: espressione originale (nel senso di <<o riginaria n, « sorgente ll, l< na scen te '') e perciò perenne come tutto ciò che sta sempre cominciando, il principio, cioè la vita nella sua unità.

Ci sia consentita una esemplificazione, basata sulla considerazione di una delle manifestazioni più vistose, spettacolari, della vita dell'Esercito: la rit ,ista.

La rivista, espressa, riprodotta nel suo più immediato apparire agli occhi di chi la guarda, come ciò che è secondo una certa formula, cioè teat ro , coreografia, può essere una buona occasione per uno scenografo- pittore, che abbia qualità di colorista. Ma se essa è ricreata, rivissuta , nella sua sostanziale verità, da un vero artista, può essere l'occasione felice per la nascita d'un capolavoro Qual è la sostanziale verità della rivista militare? E ' il confronto tra la domanda dei capi e la risposta dei repa rti rela tivamente alla capacità di far corpo, alla compiuta unità del presentarsi e muoversi, di sfoggiare (tra l'ostentato e il lasciato intendere) una sicura potenza di suggestione per gli amici e di dissuasione per i nemici. I capi frugano sotto gli smalti dello spettacolo il grado di preparazione, di fiducia, di sicurezza, in una parola il potenziale difensivo- offensivo degli uomini- reparti. Gli uomini- reparti, a loro volta, possono essere o apparire tali, e fieri perché liberi, e in linea perché convinti; oppure au tomi, grintosi perché coatti, impeccabili perché alienati e via dicendo. Un artista che faccia una testimonianza di verità in questo senso , rendendo visibile il segreto, non solo trasforma in segno perenne d'un momento di 'storia una situazione in transito, ma collega, proprio attraverso la testimonianza e la mediazione, l'umanità dell'Esercito a tutto il resto del l 'umanità, nazionale e planetaria, all'umanità senza aggettivi: la sua opera sarà motivo di gioia anche per un eventuale nemico delle Forze Armate ritratte e qualificate dalla sua ar te. Al di là dello spettacolo, della festa (pe r chi guarda), dell'accertamento e della dimostrazione d'un grado di addestramento e di efficienza più o meno energicamente sotto lin eato a fini di propaganda o dissuasione, la (< rivista militare » appare nella sua più alta significazione: una sorta di sacra rappresentazione, in chiave marziale, del dramma libertà- disciplina nel quadro del passaggio- conquista dell'uomo sulla faccia della Terra.

L' esemplificazione è stata, forse, un po' lunga, e chiedo venia. Tutta colpa della precarietà degli stati d'animo nei confronti di ciò che attiene all'Esercito, anzi, alla vita militare

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in genere: fenomeno piuttosto rilevante sia dal punto di vista della parte direttamente in causa, sia da quello della parte decisamente ostile o pigramente neutrale. Occorre, è urgen te, una buona, salutare ,, rottura >> per una nuova via. Parole come " Patria ll, ,, onore l>, " dovere ll, ,, sacrificio >>; come " guerra » e « pace ll, " difesa» e '' offesa)); come « armi », " violenza » e " non- violenza ))' sono parole pesanti, importanti, decisive spesso nei confronti d'un modo di pensare e di spendere la

vita e la morte. E a volte, i quadri o le sculture di autentici artisti, magari trascurati o solo benevolmente presi in qualche considerazione, fanno proprio pensare a discorsi nei quali a quelle parole si dà il valore gius to , né esuberante né reticente: un valore. La gloria non si dà su commissione, non si concede, non si improvvisa. La gloria è come la luce e il calore: dev'esserci sole, o fuoco, perché ci siano anch'essi; dev'esserci verità

Il discor so che resta da fare, lettore, fallo tu.

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PARTENZA DA CASA, VISITA MEDICA, ABILI ARRUOLATI, IN GRIGIOVERDE.

Tutto viene di -lontano, tutto va lontano; nel tutto, col tutto, anche noi. Così il presente, per chi lo vive, per chi lo sa vivere, è sempre equidistante dal passato e dal futuro; cioè, per via del pensiero, e della memoria (che nell'uomo è ben più d'un meccanismo) da se stesso. Il passato spinge, il futuro attrae , ma dall'interno, non dall'esterno; siamo impastati di passato ma lievitati di futuro. Non ha nessuna importanza dire che l'uomo cresce in senso orizzontale, come non ha nessuna importanza dire che cresce in senso ver ticale; l 'uomo cresce perché è vivo, ed è vivo perché si può nutrire e si nutre, in tutti i sensi: il qua e il là, il sopra e il sotto, l'orizzontale e il t' erticale sono invenzioni, dobbiamo pur fare le carte , le piante, le mappe , per un viaggio così lungo dentro il tutto. Ciò che ha importanza, invece , e che ne ha tanta, è avere coscienza di tutte queste cose, saper leggere le carte, le piante , le mappe , dal principio alla fine , complete di passato e di futuro nella pienezza del presente. Infatti, a volte un 'azione, un gesto, una parola, ci appaiono , e non abbiamo bisogno di chiarirci il perché, forti, incontestabili e irriducibili, da imporci il riconoscimento e l'accettazione : si tratta di un'azione , d i un gesto, di una parola, in cui sembra condensarsi la storia intera a mi su ra di ciascuno d i noi. Chi non ha , da ragazzo, ammirato e un po' invidiato certe persone di età («gra ndi ))), specie se uomini di mare, o dei campi, o di montagna , che facevano o dicevano le cose più semplici (ma essenziali) come se fossero tali da influire sul corso del mondo? '' Il grano mi sembra un po' debole )) ; 11 Stanotte si mette a maestra le>>; (( S'avvicina la tormenta n: frasi di questo genere uscivano da una bocca a no1 vicin a , ma di dov e pr oven ivano ?

Presente vivo, attivo, è quello in cu1 SI nconosce, si seleziona e si sceglie tutto ciò che deve durare e trasformarsi incessantemente in futuro, sulla scorta del passato disponibile subito, in ogni punto, in ogni momento. Così per ogni singola persona, così per i popoli, così per l'inte ra umanità.

Così, pure , per ciascuno degli innumeri modi attraverso i quali ogni persona, ogni popolo, tutta l'umanità, realizzando il suo presente, rende testimonianza alla vita: così, dunque, per l'arte.

L'arte, poi , presenta alcune caratteristiche inconfondibili e, per un certo verso, curiose. In quanto attività che tende a fermare, a fissare, tutto ciò che di volta in volta è presente , essa è una grandiosa fabbrica di passato; ma in quanto, per la sua durata , essa continua ad essere presente, è una non meno grandiosa fabbrica di futuro. E qui il << futurismo>> non solo non c'entra , ma non ha possibilità alcuna di entrare : futurismo è uno dei tanti termini coi quali potremmo qualificare la tendenza di tutti gli esseri, ma di quelli umani in particolare, a sopravvivere, ad avere sempre un domani, in definitiva a non morire, quantomeno a non morire in assoluto. Il che non solo qualifica, ma giustifica e rende possibile il presente perenne in cui si risolve l'arte senza aggettivi, o con aggettivi che abbiano l'unico senso accettabile: quello uti le a certe partizioni che rendono più facile leggere le " carte))' le ,, piante)), le «m appe n

Vogliamo dire che l'arte è sempre una cosa portata in cresta da un'onda. Anche quando rappresenta, esplicitamente, un ,, inizio))' l'apertura di un ciclo, d'una storia , si sente che essa parte da un punto di a r rivo, che ha dentro (più che alle spalle) un altro

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intero ciclo, un'altra intera storia. Non è, né pretende di essere, un vero e postulabile criterio, ma anche da questo si distingue un'opera d'arte dalle altre opere: da quelle, ad esempio, destinate ad illustrare, e che fissano, in fondo, aspetti già fissi della realtà, da essa ritagliati e perciò quasi morti.

Vi è un momento in cui ciò che del mondo visibile (e invisibile) l'artista ha guardato, ricreato e riproposto è fermo, sta, perché proprio fermarlo, farlo stare, era uno dei fini che l'artista voleva raggiungere. In tale momento, quello stesso oggetto dell'amore creativo non riesce a cancellare dagli occhi e dall'anima di chi lo contempla un'impressione, un sentimento: che affiori da un lento, calmo , tumulto, e che, stando, sia di questo tumulto la pacificazione, la soluzione, senza, però, essere una vittoria su di esso; di esso, anzi, rappresenta ndo una spiegazione e anche una giustificazione. Forse è per la forza di persuasione esercitata da ciò che dice in silenzio, ovvero da ciò che si avverte attraverso ciò che si vede, che l'opera d ' arte ci dà, quando è autentica, tutto il mondo in un solo lembo di mondo; ed è, viceversa, per lo stesso motivo che un'opera non d'arte ci inchioda malamente a ciò c he ci mette sotto gli occhi .

Non ci succede qualcosa di analogo quando facciamo conoscenza con certi nostri simili, con certi uomini? Quello è magari assonnato (e ci sarà una ragione), impacciato, addirìttura· insignificante all'aspetto; ma ha tra le palpebre, nel taglio del volto, nel collo, tra le inflessioni della voce, qualcosa che sa di potenza tenuta a freno, ma pronta a scatenarsi in una emergenza; non riesce a nascondere, sotto la maschera d'apparizione, di scena, un intimo , paziente, profondo esercizio di pensiero. Questo, invece, straripa, subito in piena, riempie di sé l'ambiente, è sciolto, disinibito, impressiona; ma dagli occhi alle mani, al modo di collocare la sua figura nello spazio, tutto in lui denuncia superficialità di radici, esiguità di tronco e di rami, una segreta fragilità pronta, in un'emergenza, a rivelarsi senza ritegno. Ques to fa pensare solo a lui, perché porta solo se stesso; quello fa pensare a intere generazioni di uomini, perché sembra portare l'umanità.

Un 'opera d'arte non riuscirà mai a nascondere di dove viene e dove va, dove vuole andare: cioè le sue più remote ispirazioni, le sue più profonde, inconscie , spesso , aspirazioni. E tutto ciò che si intende compreso nelle parole " stile l>, '' maniera l> , ,, fattura>> , " tecnica '' o « mestiere >, , è solo la manifestazione, nel punto di visibilità, di ciò che si sente in presenza dell'opera, partecipando, più o meno , di ciò che ha sentito l'artista nel produrla. Si parla di carica emotiva, o d'altre forze, più o meno ignote o pseudo- note. Ma può trattarsi anche di sottile gioco d'intelligenza, con e pure senza l'ausilio di ciò che denominiamo, non genericamente, c, cultura '' o ,, preparazione n o addirittura '' specializzazione >>. In effetti, è un gioco sintetico che impegna tutta intera la nostra personalità: un gioco semplice, vale a dire l'opposto d 'un gioco facile, perché la semplicità è difficile da conquistare, ancor più difficile da conservare; quanto a trasmetter! a, dobbiamo confessare che, in tutti i campi, si riesce a proporla ali' ammirazione, assai meno all'adozione e alla assimilazione.

Fortunato chi può avviarsi in semplicità, perché evidentemente parte da un punto che è stato di arrivo, di felice arrivo. E' il caso nostro? Vediamo se la risposta può essere positiva.

La prima sequenza di questo saggio- proposta per una riscoperta dell'Esercito Italiano attraverso la lettura (o ri lettura) dei testi artistici che ne testimoniano e tramandano l'e popea si svolge attraverso quattro momenti dell' iscritto di leva: la partenza da casa; la t 1ÌSÙa medica; la consegna del corredo; la partenza dal distretto. Ce li racconta, per molti di noi potremmo dire che ce li ricorda , ce li rievoca, su mattonelle di ceramica invetriata, un ceramista pittore di Cattolica, in Romagna, oggi operante a Pesaro: BRuNo BARATI!. A proposito di lui e della sua opera, possiamo parlare di un vero e proprio ricupero di giovinezza, in ogni senso. Le mattonelle figuravano tra le opere esposte nella « Prima Mostra degli artisti italiani in armi n, ordinata dallo Stato Maggiore dell'Esercito e sistemata nelle sale del Palazzo delle Esposizioni a Roma: era la pri-

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mavera d e ll 'a nno 1942 . Di questa mostra ci occupe r emo più avanti, instaurando un confronto che riteniamo pro fi cuo con un 'altra mostra assai più recente: quella ospitata nel bimestre novembre- dicembre dell'ann o 1965 , sem pre a Roma, dal Circolo delle F orze Armate in Pa lazzo Barberini, promossa dal Ministero della Difesa all'insegna de cc Il soldato italiano ll, rassegna di arte figuratir •a conte mporanea e retrospettiva.

Qui , subito, dobbiam o, e con molto r ammarico, dire che le mattonelle di Baratti sono an date d isperse nel corso d egli eventi bellici e post- bellici : lo abbiamo appreso dallo stesso Baratti, cui ci siamo rivolti anch e per sapere se avrem mo o meno potuto contare su riproduzioni a colo ri , ma con esito negativo . Ab biamo lavo rato su fotografie in bianco e n e ro , cercando di far riviv ere le quattr o scene alla luce d ei delicati , po et ici colori che ci commossero tre nt aci nque anni fa: avemmo , i nfatti, durante una breve lice n za, la possi bi lità di gode rci qu ella mostra , per molti versi ese mpl a re. A sostegno e conforto personal e, ma soprattutto pe r venire incontro n eli 'unico modo possibile al lettore, abbiamo chiesto a Baratti di parlarci di quei colo ri. Ci ha risposto , per lettera, con parole che riproduciamo, per non sc iuparne la f resc hezza , il ca ndore, con la sbriga tività di tutti i riassunti.

u La colorazion e dei pannelli mi pare fossero di to no assai sereno e non con grandi contrasti di colore Passa var10 dai bruni ai rosa rdati, grigi, bluastri, vio lacei, sempre tra di loro complementari Non t'i sono nervosi passaggi e cìò lo può notare anche dalle foto stesse. Tutt o è fatto co n t •efature di colore. l fo ndi, cioè i se co ndi piani, le case, gli alberi, ecc., sono ottenuti sempre con lo stesso principio.

Il paesaggio è tipico periferia e campagna di Pesaro città dor •e io vivo. Anche le case rispecchiano il nostro ambie n te per la forma e per il colore (qu est'ultimo anche se non si vede)

Non è, evi d e ntemente, molto, ma può giovare . Ci avvici niamo alla prima sce n a, raffigurante la Partenza da casa, disposti alla co ntemplazion e d ' un idillio ca mpestre , 11 assai sereno n , senza " g randi co ntrasti "• senza " ner-

vas i passa gg i '' · Ma tutto questo clima di colore, come la temperatura mite in certe giornate decisive , non fa che evide nziar e, per contrasto, la calma dram maticità dei fatti : un legge ro sorriso so pra un a faccia appenata. Il fante in armi Baratti Bruno, poco più c he trentenne, u ri c hiamato ''• parte anch'egli per la prima volta coi tre di leva, ma è già un u a nziano )), ed è un artista: stempera ogni as prezza con la prima sap ienza della maturità e co n quella dei colori. Non pu ò compiu tamente mentire , però: il colo re è suo; i personaggi app arte n gono a se stessi e, tra di loro, l 'u no all'altro, per ché l 'intuizione , l'impianto, il disegno , insomma, la cos truzione , co n tutto ciò che compre nde , li ha staccati, ha tagliato i loro cordoni om bel ica li e li ha messi nel mondo. Non c'è gioia, e neppure quella che a buon titolo può chiamarsi serenità; non c'è n e ppure dolore. P azienza? Ra ssegnazione? Fatalismo? Diremmo, piuttosto, semplicità, realismo istintivo, sen so concreto, millenario, d ella vita ; quindi la forza e la vera, autentica , sole nnità c he distingu e g li attegg iamenti nec essa ri o come tal i assunti. Siamo n e l vivo di qu e lla che chia miamo sempre più diffusamente (e, i nvero , sempre più ge neri came nte) civiltà, o cultura, co ntadina: il mondo esiste ed è, più o meno, come ci appare; ha le sue leggi , le sue abitudini ed a nch e i suoi cap ricci , come il tempo , le stagioni. Dall a guer r a libera nos Domine! Ma se c'è, la guerra , si fa; e si parte. Si parte p er fare il soldato anche in tempo di pace, più o meno in tutto il mondo , c iascuno al modo del s uo paese : è sco mod o, ma può anche essere como do , vantaggioso; a tutto malandare, si conoscono luoghi e persone nuovi, si fa una cer ta espe ri enza, s i diventa più forti e anche più furbi; si diventa uomini. Una volta a Roma si dic eva : " Chi non è buono per il Re, n o n è buono neppure per la Regina ,, ; sicurame nte si sarà detto anche alt rove. Diventare uomini: che sig nifica? E ' un lungo discorso , ma si può far e in quattro parole: diventare u omini sig nifica diventare capaci di vive re umanamente in qualunque situazione, dalla più bella alla più brutta; sicuri di sé, ris pettosi e ri spe ttati; in grado di rendere feco nd e una terr a e una sposa. di crescere e difen-

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dere figli , culture , bestiame, sapendo sempre ciò che è buono e ciò che è catti vo, ciò che bisogna volere e ciò che non bisogna volere. Ma per diventare uomini bisogna partire, saper partire; specie se c'è la guerra. Ciascuno, però, parte a suo modo. Ed ecco , la soena ci propone tre gruppi umani, in ciascuno dei quali, non schema ticamente, ma poeticamente, si evidenzia un modo di partire, in sintonia con un modo di restare e di salutare il partente che ,, va a fare il so ld ato >>

Consideriamo intanto come la prima sensazione che si ha dell'insieme è di stupefazione, d'una sorta d'imbambolato stupo re che incanta e fonde quasi fino alla indiffe renzia zione gli elementi del primo e del secondo piano: esso semb ra accomunare tutti n personaggi a quello infantile, subito a destra. Non c'è un segno di distrazione: è un " momento >> di quelli che contano, un '' grande momento n . Ma in mezzo a tanta unità c'è una " rottura>>: all'altro pe rsonagg io infa ntile sfugge di tra le mani un uccello (co lomb a? Tortora? ) che si direbbe simbolico d 'una in evitabi le migrazione, e provoca un improvviso, delicato e un po' disperato slancio di ricupero. E in tanto i due fidanzati hanno già rotto l'incantesimo, fanno par te ormai del quarto piano della scena, il fondo campestre, dall'apparenza così banale e dalla sostanza pittorica così autentica che merita uno sg uardo ben attento.

Non lasciamoci incantare dalla prima impressione. Una profonda differenza esiste, ed è sapientemente, pur se candidamente, resa, sotto l'unit à dello stupo re. 11 primo partente, vicino a un bagaglio che già sa di zaino, percuote dolcemente co l palmo della destra la spal la della donna che, lo sguardo un po' assente, lontano , vuole e non vuole essere conso la ta; si sente già sola e non vuole prolunga re la sofferenza del distacco. Il giovane , dalla figura fine nella sua ineleganza, è di quelli che partono portandosi dietro tutto il loro mondo. 11 secondo partente, un po' più '' rustico>> e deciso , riceve di più: un rosario dalla madre troppo commossa per non essere costretta a nascondersi (la vediamo, infatti, di spalle); uno sguardo pieno di amore e le braccia da una ragazza di morbido viso e di tratto

già materno; la mestizia non celata (l'unica !) della sorellina e qutlla pensierosa, piena di ·ricordi e di raccomandazioni, del padre. Egli è schivo , un po ' risentito , ma ha già imboccato la strada; a lui il suo mondo chiede di non essere lasciato a casa. Il terzo , se potesse, non partirebbe per restare con la ragazza del cuore; la quale, di spalle come la madre del secondo partente, dice tutto ciò che può dire coll'inclinazione del capo verso la mano destra dell'amato posata sulla sua spalla, e col braccio sinistro che sembra fare dolcemente da guida verso un angolo « fuori campo >> in cui celebra re il distacco nell'intimità. Lo sfondo si rarefà teneramente in progressione, ma tutto curato con molto affetto, quasi predisposto per i ricordi: due staccionate, un cancdletto tra due case, alberi, .alberelli, la strada che aggira una piccola collina , e un orizzonte, un fresco, profondo orizzonte.

Ci siamo di proposito intrattenuti sull'avvìo, permettendoci di suggerire una certa lettura, che !ungi dal voler esaurir e le possibilità del testo ne spera, invece, di stimola re e incoraggiare il segui to creativo nell'anima del lettore. In questa partenza sembra proprio che ci sia l'essenziale: il distacco da un mondo amato ed onorato fino a quel momento come un punto di arrivo. L 'eroico , l'epico, il grande o grandioso, tutte queste dimensioni vengono dopo; e la loro autentici tà , la loro verità, dipende strettamente dall'autenticità, dalla verità, della « povera>> dimensione d'origine. Ciò varrebbe anche se la partenza, il distacco , si riferissero al mondo fabbricato dalla << civilcà >> o ,, cultura » industriale; naturalmente, alle stesse condizioni, allo stesso prezzo spi r ituale. Infa tti, alla <c famiglia », alla « terra n, si può sostituire tutto ciò che riteniamo opportuno sosti tu i re ; a patto, però, che sia qualcosa di meglio, e di più, della " famiglia >> e della << terra >>.

La seconda scena, raffigurante la Visùa medica, ci spinge senza mezzi termini dentro tutt'altro ambiente, e vi ci rinchiude, lasciando sul fondo uno spiraglio appena sufficiente a farci intravvedere qualcosa di simile a ciò che ci si squaderna in primo piano. In gergo diremmo : « E ' già naja! >>; e aggiungeremmo,

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" Che odor di vasellina! >> Eppur e. si consideri che cosa è riuscito a trarre il Baratti f-.tnte - artista da una materia valida tradizionalmente più come occasione bozzettistica, vignettistica, caricaturale ancor più che umor istica in senso proprio, che non come fonte d ' ispirazione poetica. Perché ci troviamo a godere ancora della buona poesia. Amiamo pensare che i tre personaggi nudi, i due visibili a piena figura e l'a ltro dal collo in sù. siano i tre u partenti >> della prima sce na. E' loro il piglio, il portamento; anche il lieve imbarazzo campag nol o c he si esprime rebbe attraverso un 'ar ia divertita se non avesse la rèmora di quel viso d'ufficia le medico, bonario, un po' paterno e intriso d'un misto di soddisfazione professionale e di umano compiacimento per la sa lute di cui chiaramente scoppiano i due giovanotti che. pur senza alterigia, lo fronteggiano . I nudi son trattati dal di dentro, senza ostentazioni stilistiche, cioè senza calligrafismi inutili e senza pudori inutili, puntando dritto sulla resa immediata del racconto. Dalla mano destra del medico spenzola il metro che ha misurato il torace, e semb ra proprio che non vi siano dubbi: u Abile a tutti i servizi, giovanotto! >> . Ma la ma n o si nistra poggiata sulla spalla risponde perfettamente allo sgua rd o non co nvenzionale: c'è un dialogo in corso. E mentre l'interessato diretto reagis ce con un pi zzico di fierezza, l'altro, al suo fianco, ascolta, è già tutto compreso della sua nuova co ndizion e. Due versioni , ent rambi attendibili, di Adamo nell'Eden , senza un filo di rettorica. I due sono: è anche, nella sua lieve goffagine, il medico. Quello cui stanno misurando l'altezza è il perfetto salame che ciascuno di noi è stato nella medesima occasione: innaturale, teso, preoccupato. Gli addetti alle schede sono tipici e volutamente tipizzati: si danno quel certo, ben noto, tono, ma sono veramente seri. Non ci deve sfuggire la pregevolezza senza pretese del fondo sfondato con accorgimento semplice e significativo , messo in opera con segni e leme ntari: laggiù c'è un altro spogliarello, c'è un altro (( partito >> che comincia la sua piccola (o grande?) avventura, acca nto a un altro personaggio di spalle che, vestito, sembra curvo sul lavoro.

Dove sono tutte le donne ddla prima scena? E la libera vastità del paesaggio? Sono di là. Ora la faccenda è tra uomini, per soli uomini: maschi , per la precisione; e siamo in caserma, il paesaggio tornerà al tempo del campo. Ma quanto ci sembrano ancora indifesi , questi prossimi difensori! Quanto sembra vero che partire, cominciare o ricominciare, è sempre un po' spogliarsi e sentirsi qualche tempo nudi in un mondo di t'estiti! Soprattutto quanto è bello trovarsi di fronte a un'opera d'arte piena d'umiltà, e aver voglia di ringraziare l'autore che con quella umiltà ci ha permesso di ritrovare in fondo all'anima grandi , solenni verità!

Nella terza scena, raffigurante la Consegna del corredo, si comincia a riuscire all'aperto. La composizione è molto equilibrata, con una musicalità, specie nei volti, che ricorda quella della partenza, e con una sottile ma forte unità discorsiva. La l( burba » che con la sinistra stringe il gavettino e co n la destra porge la borraccia s'inquadra parzialmente, col capo, nella apertura laterale sul magazzino e si integra coi due commilitoni in faccende, uno di spalle e uno di tre quarti, trattati come in miniatura (quello che ci appare ben visibilmente u scocciato >> è particolarmente felice di resa sobria e fresca). Il personaggio ammantato a sinistra, nostalgico e un po' misterioso, guarda il magazzino ma è richiamato da quel poco di c hiom a d'albero e di cielo che liberan o prospetticamente il cancello e il muro. Al centro de ll a co mposizione, chiusi dentro di essa ma g ià in moto, due (( trasognati » fanno pensare ad un co mmento silenzioso su ciò che sta accade ndo: un co mmento a due voci, una rassegnata ma non troppo, l'altra intonata a pensieri casarecci. Ad osservare attentamente la (( burba», curiosamente sacerdotale, e la recluta che ri ceve il corredo, con tanta naturalezza in ginocchio, si scopre una sorta di sacralità che fa da clima all'intero quadro: una sacralità laica, beninteso, ma vera. Spogliarsi per la visita medica è già un rito; ma la vestizione è qualcosa di più, nella liturgia del mutamento di co ndizione e di vita . La " burba >> lo sa già, il suo atteggiamento è già ,, di casa 1>, con un minimo di sufficienza e

distacco; la recluta. col suo viso da ragazzino. quasi da bambino, lo intuisce e tutto in lui si svela, un misto di ansia, di curiosità, di gioia, di fretta d'essere in divisa)), dal momento che non potrà più stare " in borghese >> Ma a chi e a che pensa l'ammantellato? Anche il suo copricapo è diverso e lo porta diversamente. Così suggerisce una non inutile osservazione sugli altri tre copricapi; sono di una coerenza esemplare e completano i tre ritratti in modo tale che siamo certi d 'un fatto: non glie li ha messi in testa Barani, ma c1ascuno ha fatto da sé, e noi sap piamo tutti quanto personale sia il modo di mettersi e qualunque copricapo, spec ie nei momenti m cui ci comportiamo senza eccessivo controllo di noi stessi . Il copricapo del personaggio in ginocch io è d'un serio sbarazzino, ordinato ma con spontaneità ; quello del rassegnato ma non troppo è d 'u n deciso un po' ribelle , anzi, in ge rgo , un po' 11 strafottente >> ed anche un tantino sga rbato; quello del terzo personaggio è d'un riflessivo composto, con punte d'ingenuità.

Ci viene da chiederci : « Come porteranno, i nostri tre, la bustina? E il be rr etto a visiera? E l'elmetto?». Non dovremmo farlo, ma tant'è, lo facciamo: questa domanda, con o senza risposta, ci servirà per analogia a leggere insieme l'opera di Quinto Cenni, un artista che come pochissimi ha compreso ed espresso l'essenzia lità del rapporto, sia spo ntaneo che coltivato, tra un militare e la sua uniforme.

Ed eccoci alla conclusione del breve ma intenso e compiuto ciclo: la scena raf figurante la Partenza dal Distretto.

Qui conviene iniziare dal fondo, nel qual e tornano i motivi del cielo, del paesaggio suburbano con case e albe ri e, ormai lontani, quattro residui attori degli addii familiari: un padre, una madre, un maschietto che si sbraccia e una femminuccia incollata a una sbarra del cancello che chiude il co rtile. Il co rtile, con muriccioli coronati da filo spinato, è tutto in qua, sul davanti , è la sola realtà vera: quell'altra è anch'essa vera, non ancora sognata, ma pare che già lo sia. I saluti di dietro il cancello sono rivolti all'appena abbozzato ma vivo plotoncino marciante, dal quale un braccio si

sporge a rispondere, a ricambiare. I cinque personaggi del gruppo in primo piano sono ormai come in un'isola, in un clima completamente diverso; non si accorgono, non posso no acco rgersi più di quei sa luti , perché sono alla seconda parte nza c pur in un breve volgere di giorni hanno impiantato dei rapporti, hanno acceso amicizie, hanno preso possesso d'una dimensione che è nuova ma non più in senso assoluto. Dunque, sono troppo presi dal loro saluto, che è altra cosa, non certo ad un livello superiore, ma sicuramente su un diverso piano, per curarsi dell'ultimo filo che li lega, caro ma pericoloso , a tutto ciò che hanno lasciato alla prima partenza. Soffermandoci su li 'insieme . saremmo tentati di osservare che il gruppo ç unificato , poeticamente, da un senso di mestizia: uno stato d'animo che non dà groppi alla gola ma insinua lento del malessere, del disagi o. Giova guardare uno ad uno i protagonisti della scena, e riguardarli insieme dopo avere constatato quanto in realtà il Baratti abbia, anche qui, posto in essere degli uomini ben differenziati tra di loro. 11 personaggio centrale, vero protagonista , ha neli 'insieme qualcosa di patetico: farebbe tenerezza , come si dice , se non fosse per una forza elementare che emana dalla sua figura non certo in linea ma ben salda sulle gambe, dai fianchi e dalle spalle di uno che porta e sa portare pesi (lo zaino, per lui, rappresenta una comodità). Questa forza elemen tare si conferma in quel berretto così giusto, app ropriato, in quel volto buono, quasi dolce , il volto d'un giovane se nza il minimo complesso, in quella mano che stringe smza bisogno di t' olerlo, porta da un braccio appena scomodato, vigoroso ai limiti della sproporzione. E' un momento, si vede, di ringraziamento per qualche attenzione, per gli auguri di " buona naja "• e di saluto in chiave di " arrivederci >> più che di 11 addio)). Il patetico nas ce, ci sembra, dalla disinvoltura, dalla naturalezza, co lle quali un uomo così < • piccolo >>, così << povero l>, si colloca in un mondo tanto più grande di lui; e anche dalla sicurezza di sé con la quale si accinge a sert'ire. Un altro autore, probabilmente un artista non -artista, non si sarebbe accontentato di così poco, avrebbe sicuramente calcato la

mano, st rafatto. Ma forse non avrebbe ritenuto degna di ricreazione artistica una così comune , banale, situazione umana. Eppure, della pasta di questa recluta ci sembra siano stati, siano e debbano essere gli eroi, quelli sui quali un popolo può sicura mente contare nei momenti gravi. Della stessa pasta sembra essere il « distrettuale >> : tra i due c'è, ed è efficacemente, perché sobriamente, resa, una calma simpatia. Che cosa riserva, all'uno e all'altro, la vita? Guardate le loro braccia, le loro mani: quei due son capaci, insieme, di qualunque impresa. Ma potr ann o anche tornare a casa , a se rvizio ultim ato, per raccontare soltanto spicc iole e pac ifi che esperienze. Che fa , la << burba», un po' neutra , a sinistra, che sembra ve rsa re dal gave ttino ci ò c he resta d'una bevuta? Non ci appare c hiaro, ma è di quelli che non vogliono o non r iesco no a partecipare intensamente: certo, la bustina è calcata in modo caparbio, e tutto il suo atteggiamento è rigido. Subito dopo la sua te sta, quella d ' un 'altra << burba », in delicato ma netto contrasto: la bustina , sta bene, deve portarla , ma la fronte deve restare scope rt a; tanto , non è che una bustina sulle sop raccigli a riesca a truccare lo sguardo, che di smar rito è e di smarri to resta. Il personaggio che s'inqua dr a tra il <l nostr o » « distrettuale >>, co n qu el cappotto scuro sui pantaloni chiari a righe, somiglia a quello d ai pensieri casarecci ch e appare nella scena raffi g urante la Consegna del c.orredo: ha glì stess i pantaloni , un diverso copricapo, però. Sopr attutto ha pensieri diversi. Vorrebbe dire qualco sa, ma forse non ritiene necessario far sa pere che si preoccu pa della destinazione , o forse ancora di cose anche più importanti (per lui).

Ma la tenerezza che non fa il perso na gg io centrale, la fa, per tutti, quello più emarginato, più umile: se ne sta sui selci, pazientemente, in strettiss i ma compagnia d'una rustica sacchetta, senza salutare, se nz 'essere salutato, facendo, tra una gamba e i lembi d 'un pastrano , il suo dignitoso me stiere, che comporta, tra le varie fasi, quello di ingombrare. E' la valigia. Staccata dal contesto del quadro, circo nd ata d'una sua atmosfera, potrebbe esse re una ,, natura morta l>; non di quell e me-

ritamente celebri, spesso autentici capolavori, mil una buona « natura morta >> : Valigia con sacclzetta. Di passaggio: ma perché continuiamo a chiama re " nature morte » certi pezzi ai quali tanti e tanti grandiosi parti invidia no la vita?

Ritornando, dopo la breve analisi , sull'alone di mestizia che semb ra , al primo sguardo, unificare poeticamente la composizione, diciamo , con maggior fon d atezza, che l'unità va spiegata diversamente: co n la già lamentata mancanza di ripr od uzi oni a co lori (negativamente) e col co ntr asto tra il tono dimesso della narr az ione e l'e ffettiva consistenza dei fatti e dei loro protago ni st i, quale risulta sul piano crea tiv o, irr obus tita ed esaltata probabilmente olt re le stesse spe ranze deli' artista.

Il forzoso bianco e nero elimina, se non la gioia, la letizia, certo la vivacità, la lucentezza dei paesaggi e in ge nere il supporto cromatico dell'espressività di tutte le figure ; itte nua la sca nsio ne de i piani; lascia al puro disegno ciò c he era stato affidato a nche al colore, evidenzia ndo quella che è sob ri età dell'azione , dei gesti, ai limit i di una eccessiva staticità.

Il contrasto tra tono narrati vo e consistenza dei fatti risulta invece, positivamente, fattore di unità proprio perché Baratti, scegliendo la te matica ha c reduto nella sua importanza e nella possib ilità di co municarla e farla accettare da g li altri; e a dire il vero, si tratta d'una tematica inc onsu eta. Ora , in arte , vale ciò che vale un po' se mpre nei nostri atti vitali riguardanti la co muni cazione oltreché l'acquisizione di coscienza personale: quello che è, presto o tardi appare, non si può celare che per poco ; quello c he non è, prest() o tardi scompare, non si può farlo es istere che per poco, con accorgimenti ed art ifizi . E ciò che è, anche in arte, si identifica con ciò in cui si crede, e con forza; ciò che non è si identifica, a volte, add irittura con ciò in cui 11on abbiamo cred uto ( noti cr(deremo mai.

Questa co nclusione, di nec essità sommaria, sul quarto « momento » del ciclo, può sostanzi alme nte valere per il ciclo intero. Ed è tanto più accettabile in quanto si riferisce a un'opera fornita in un tempo assai poco propizio ad una co ntemplazio ne ca lma, serena, degli uo-

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mini e delle cose, particolarmente di tutto ciò che riguardava l'Esercito, già nell'occhio del ciclone. Tempo di sconcertanti esaltazioni trionfalistiche da un lato , e di incoercibili, amarissime ribellioni dall 'altro : « Tutti ero i! », « Tutti co nigli e traditori! », « Tutti leoni! » e « Tutti imbelli! ». Con pochi in grado di affermare, a voce alta ma senza gridare incompostamente o insulsamente: << Tutti uomini , sempre! » .

Ci è sembrato, e ci se mbra sempre più, esemplare il fante ceramista- pittore Baratti Bruno che, in piena tempesta, ha la forza di raccontare , con un candore degno dei « Fioretti » francescani, quella che allora si poteva a buon titolo considerare una discesa nella fossa dei leoni. E di raccontarla in ispirito di verità. Gli « specialisti », gli « esperti >l, potranno esercitare nella debita sede il meglio della professionalità per un giudizio strettamente critico, e anche storico, in se n so ufficiale, sulle derivazioni, sullo stile, sulla tecnica di Bruno Baratti, collocandolo, sistemando/o. Diranno , con apparato critico, ciò che noi , in questa sede, cerchiamo di dire saltando le giustificazioni: non abbiamo senza ragione chiamato in causa il candore dei « Fioretti>>, implicando gli artisti che li hanno, con lo stesso can-

dore , passati alla storia , sia direttamente e sia indirettamente, dipingendo e scolpendo (in sede più ampia si potrebbe aggiungere « e costruendo ») con quella cc povertà >>, con quella, sapientissima, •c umiltà >> Alle spalle e soprattutto dentro, Baratti ha secoli d'arte e millenni di cultura: si sente e si vede. Eppure , qualcuno, guardando le sue opere, ha parlato di « nai'f »; che è un complimento solo a patto che sul termine << na'if » non si equivoci come spesso succede . L'art e viene di lontano e va lontano. Si può essere natù' i quanto si voglia, ma se non si costruisce, se non si fabbrica, si fa un'arte fasulla, che si mette a sedere dopo un chilometro. Come chi parla e come chi scrive, chi dipinge ha delle responsabilità, in senso lato, globale. Il suo giudizio dev'e sse re pulito e se rio non meno della sua abilità. Ma noi non intendiamo prevaricare nei confronti dell'impegno assunto col lettore. Ci sembra che non avremmo più concretamente e felicemente saputo entrare in medias res di come , con un pizzico di fortuna (il ricupero di Bruno Baratti!) abbiamo potuto fare. La storia dell'Esercito Italiano, come quella di tutti gli eserciti, non può cominciare, in prosa e in poesia (la vera arte è tutta poesia), che con una cronaca di povere reclute.

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IN DIVISA)) O MEGLIO << IN UNIFORME>>:

TUTTI UGUALI, MA CIASCUNO t QUALCUNO. LA LEZIONE DI QUINTO CENNI.

Da questo momento, tutti quelli di cui ci occuperemo saranno uomini contraddistinti, a vista, da un particolare, inconfondibile modo di vestire, che li qualifica come soldati, o meglio come militari .

La pa rola " soldato '' è una delle tante parole- salamandre contro le quali non vale neanche il fuoco: perfettamente logica un tempo, oggi non lo è più; però riesce ancora ad esprimere, a comunicare Si tratta d 'una parola che nessuna incrostazione, nessun terriccio , nessuna corrosione può alterare, deformare, imbruttire: la sua ca r ica significativa trabocca di storia, e anche di leggenda, e di tanta storia e di tanta leggenda sprigiona i suoni e i colori, dai più cupi ai più accesi, dai più tetri ai più festosi. Si sarebbe tentati di collocarla tra le parole " magiche », nel senso poetico (ce ne sono molte, nella lingua viva); ma forse il suo giusto posto è tra quelle 11 sacral i ». Perciò, pur convinti che la parola « militare >> (nella quale un verbo all'infinito si scioglie fino all'identità in un aggettivo sostantivato) è più propria perché più verace, non ci sentiamo di passare per le armi la parola <1 soldato »; <ti contrario, nonché radiarla , ci piace mantenerla in illimitato servizio permanente effettivo.

Lo stesso discorso , no , ma un analogo discorso è lecito fare a proposito della denominazione relativa al t'estimento del soldato, o del militare: cioè, alla <c divisa », più propriamente detta <l uniforme » Il fatto stesso che il quadro delle discipline storiche comprenda ormai un nutrito, vigoroso e piuttosto affascinante setto re universalmente noto come Uniformologia >> rappresenta la miglio re conferma della necessità (tale è, ormai) di preferi re a « divisa» << uniforme » ogniqualvolta si parli

o scriva su un piano scientifico o di ufficiaLità. Ma non si potrebbe, senza rischiare il ridicolo, inte r venire per correggere, o rettificare, ogni qua lvolta (e quante volte!) capita di sentir dire: .. Com'è che Andrea non porta la divisa? »; oppure: •c Vedessi Paolo quant'è bello in divisa!». E' significativo, a dire il vero, e giova so ttolinearlo, il bisogno di specificazione che a volte si manifesta nell'aggiunta dell'aggettivo " militare >> alla parola « divisa)); ma non ci pare più importante, ai fini del nostro discorso, della medesima agg iunta fatta, abbastanza comunemen te, per non ingenerare confusione tra una 11 rivista )) come periodico di cultura varia o specialistica, una <c rivista )> come spettacolo teatrale, ed una « rivista ))' appunto, cc militare >> . Tutto dipende , in linea di massima , da l particol;tre ambiente in cui un discorso che necessiti del concetto di « divisa » e della correlativa cc parola » nasce e si diffonde. Ma ciò che realmente conta è la presenza continua, è l'uso disinvolto e mai sostanzialmente rimproverato o sconsigliato del termine. Il quale, pertanto , sembra essere tuttora moneta (linguistica) buona. Perché?

Ci sia consentito di in trattenerci brevemente sulla spontaneità , e pertanto sulle radici che alimentano la legittimità di questo in terrogativo. Potremmo, infatti, senza incorrere in giudizi pesanti, giustificare l'uso (anche l' abuso) di certe parole per lunghi e lunghissimi tempi soltanto con l'abitudine, con la forza d'inerzia, con la comodità, oppu re con la moda e col plagio: inso mma , esclusivamente con fattori che rientrano, negativamente , nel complesso fenomeno della conservazione? Non potremmo farlo, e non lo facciamo. Certe parole tengo no anche per un fattore positivo che co-

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stringe al suo servizio tutti i fattori nega tivi, crea ndo una gross a cifra: tanto per azzardare una si mi litudine, alla stregua di un 2, o di un 7, o di un 9, posto alla sinistra di tanti zeri Questo fattore positivo è la carica di unità co ntenuta in quelle parole; l ' unità viene solo da un consenso, il più vasto possibile; un consenso è, volta a volta , la libera accettazione d'una cosa n ecessa ria ma solo in quanto appare come la migliore possibile-: e spesso si tocca con mano, poi, che appare perché è. La parola << di visa » non sarà propria qu a n to la parola « uniforme » ; ma intanto sup era altre parole come cc tenuta ))' << ves te » e, tornando indietro, cc.abito »; e non solo per esige nze scolastiche, o dotte, ma per ragioni di vita. Ci ve diamo costretti a considera re ciò che uno vede , quanto vede, quando dice « divisa » , « in divisa », e quando dice « uniforme », cc in uniforme ». E facendo questa considerazione siamo ulteriormente costretti a constatar e che la media degli uomini italiani quando dice, o solo pensa, cc un iforme », non può fare a meno di aggiunger e << alta ». Ness uno si azzarderebbe a dire o sc rivere cc in alta divisa » ; s i può dire o scrivere « in alta tenuta »; i n effetti, però, tutti pr eferia mo dire o scrivere c< i n alta uniforme »

Il Re - militare? No: il Re - soldato. Il poeta- militare ? Ma il poeta- sol dato , lo sanno tutti! E anche il Re « in divisa da soldato >>; il poeta « in (divisa) grigioverde » Il Re « in uniforme » (a nche il poeta) direbbe un 'altra cosa.

Non è una so ttile questio ne linguistica, filologica, o che altro a ciò somigli : non ci se ntiamo all'altezza di affron tarla come tale, a parte il fatto ch e bisognerebbe essere in diversa sede e che in ess a, al nostro posto, ci sarebbero le persone del caso, di dovere

E ', invece , se mpli cemente, una questione che quest ione n o n è. E' un insieme di cons id erazioni sul concreto, un insieme di constatazioni, talmente legate alla sostanza del nostro discorso che ci si sono attorcigliate alle dita al pr imo tirar di filo. Il senso che ad esse possiamo più attendibilmente dare, in una prima valutazio ne , è questo: la preferenza , nell'uso comune, accordata alle parole cc soldato»

e cc divisa >> non discende da u n fatto di gus to: cioè non denota, non dimostra , la tendenza ad impiega re termini convenzionali per indicare una ripartizione altrettanto convenzionale degli uomini a seconda d ella loro collocazione esterio re , stando bene attenti al modo di vestire indispensabile per qualificare la collocazione medesima. L a preferenza denota, piuttosto, il bisogno di esprimere, senza notevoli equivoci, che determinati uomini, a un ce rto p unto de lla loro vita , entrano in una .dimensione diversa e che per questo motivo (no n viceve rsa) vestono diversamente: la preferenza, dunque, discende da un vero e prop rio giudizio esistenziale, che nella parola cc soldato » fa rientra re tutti, dal cappellone, dal bocia, ai generali, e nella parola cc divisa » co mpr ende tutte le p ossibili uniformi e tenute. Sarà forse spicciolo , u n po' sbrigativo , ma ci sembra so do , terra ben battuta; ribadendo, ci sembra.

Certo, gli ar tisti non si so no attardati, in ge nere , a provare la p azienza propria e quella altr ui con certe pedanterie a noi (s i direbbe) ca re; o perlomeno, se e quando l'han fatto si sono avvalsi della loro arma migliore , il laser dell'intuizione, per sorprendere e sistemare il problema nel suo rifu gio profondo, alle radici. A piedi, a cavallo, su un carro, oppure so tto una tenda, l'uo mo in divisa non è mai stato per essi (parliamo di artistt) un uom o tJestito alla militare invece elle in un'altra foggia : è sempre stato, invece, un soldato L 'abito fa o non fa il monaco? L'artist a risponde co n cretamente, con la sua opera , che l'abito non fa il monaco solo quando non deve farlo; in altre parole, quand o if personaggio rappresentato è uno che si è travestito da monaco, a questo o a quel fine, quando è lui che si è me sso l'abito per sembrare e solo per sembrare un monaco. In tutti gli altri casi, l'abito fa il monaco, e fa il soldato, in unione sostanziale con tutto ciò di cui è non solo rivestimento, ma anche insie me dei punti di apparizione, di manifestazio ne estetica

Accingendoci ad affrontare un cammino in compagnia di uomini tutti in divisa, di soldati, come abbiamo osserva t o aprendo il capitolo, il meno che potessimo coere ntemente fare era proprio parlare della divisa e del suo esse re,

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via via, vestito, pelle t'iva, comp onente della personalità , del soldato. Le reclute che, dopo esser partite da casa, sono partite anche dal Distretto hanno ormai raggiunto i reparti di destinazione. Dove sono? Che fanno? Come portano la divisa ? E (chiediamo venia) co"me sono portati dalla divisa?

Torniamo per qualche istante alle quattro scene di Baratti e leggiamole, in semplicità, nell'ordine loro dato dall'Autore. Consideriamo la trattazione dei protagonisti con particolare riferimento ai loro « panni >> : eccoli ancora << a casa loro » e « nella loro pelle » di lavoro, ordinaria; eccoli, subito dopo, nell'abito di nascita, nella pelle originaria ma non più ordinaria, sotto lo sguardo del medico; rieccoli nei vecchi panni ma prossimi al mutamento di pelle, già oscuramente condizionati dall'evento; guardiamoli , infine, nell'atto di chi si sente ormai in altri « panni » Anche in questa prospettiva, la sequenza è paradigmatica, e scatena un ' autentica rissa di pensieri. Tra la nudità e i vari modi non solo di vestire, ma di volere o dover vestire si svolge un pot ente capitolo dell'intera storia umana . E se vogliamo avvicinarci veramente al fenomeno (per rispetto dell'Uniformologia) << uniforme >> , se desideriamo veramente capire il valore - divisa, dobbiamo rispolverare e lucidare alcuni punti della nostra mente, forse anche alcuni del n ostro cuore, che sono un po' i corrispe ttivi di alcuni p unti di quel capitolo.

Dovrebbe essere ovvio che l'uo mo ha sentito il bisogno di coprirsi prima di quello di vestirsi; per un bel numero di ragioni, difesa inclusa D ovrebbe essere anche ovvio che il pudore non può essere una invenzione dello Scrittore biblico, del clericalismo di vario genere, religioso ed anche laico, o di tutti i gruppi di potere che si sono avvicendati e si avvicendano nel tempo e nello spazio, a vario titolo e con vari scopi: infatti, possiamo inventare, cioè trovare e scoprire, solo quello che già c'è; per cui il problema si sposta di qua, sempre più al di qua, ma non si risolve. Il pudore nasce giù, molto giù, è un fatto abissale, di t anta semplicità e potenza che ad esso possono (diciamo possono) far capo anche le radici capillari che alimentarono, prima del bi-

sog no di vestirsi, anche quello di coprirsi; per un bel numero di ragioni, difesa inclusa. Dovrebbe essere ovvio; ma in realtà lo è così poco, sempre meno, che in definitiva i discorsi teorici in materia finiranno per estinguersi, sostituiti progressivamente, e sbrigativamente, da usi e costumi, dalla prassi

D 'alt ra parte, bisogna riconoscere che tra il bisogno di coprirsi e quello di vestirsi c'è un tale intervallo, e soprattutto un tale divario qualitativo, da costringerci a lasciare in pace le origini remote per non correre il rischio di str aripare dal nostro tema. Un tema , di per sé, sufficientemente complesso, e perciò così impegnativo sotto il profilo della semplificazione e della chiarezza, nonché della pertinenza, che a volerlo trattare con un minimo di rigore è necessaria la massima cura degli argmt.

Partiamo dal bisogno di vestirsi; quanto dire, dal bisogno di integrarsi aggiungendo alla propria persona fisica elementi tratti dalla natura, vegetale o animale; o prodotti, o riprodotti artificialmente, col proprio ingegno e coi propri strumenti. Integrarsi, perché? Le prime due rispo·ste, quasi istintive, suonano così: perché l'uomo ha avuto la sensazione, prima, e la coscienza, poi , di essere incompleto, manchevole di qualcosa che invece era posseduto dai vegetali e dagli animali; perché l'uomo fu plagiato inizialmente dai vegetali e dagli animali, e successivamente dai suoi simili passati più rapidamente dalla fase di « individuo » a quella di « persona», ed in questa spinti a differenziarsi, a rendersi più appariscenti, per: meglio primeggiare ed imporsi.

Le due risposte sono, in verità, ancor meno che due schemi; tracce , appunti, per due risposte.

L a prima evoca un tempo immemoriale di so litudini, di paure e terrori , di smarrimenti e disagi, di lunghi nascondimenti e di lunghe fughe, nel quadro di un sentimento di inferiorità senza scampo; tempo seguito, poi, lentamente, nelle sempre più ampie pause tra cataclisma e cataclisma, da un altro, contrassegnato dall'ammirazione- adorazione, dall'ammirazione - familiarità, dalla familiarità - immedesimazione e imitazione. Frasche e rami

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d'albero , foglie prima rozzamente e poi sempre più finem ente intrecciate o intess ute , fiori , resti d'animali morti (trovati morti); successivamente, pelli e trofei vari degli animali uccisi , più che in caccia, in una vera e propria guerra di sopravvivenza, preludio a quella di egemonia e dominio. In questa sequenza di immagini si può figurare , senza troppe prete se, il corso d el bisogno di vestirsi , e del suo soddisfacimento , in un intrico fitto di sollecitazioni che vanno dalla difesa dal caldo e dal freddo alla mimetizzazione guerresca , erotica, relig ios a , dai primi autocompiacimenti a quelli reciproci, lontan e anticipazioni del nostro inseguire (un po' più disincantato!) « una migliore qualità di vita » . Sperando che non risulti azzardato, ci pe rmettiamo di aggiungere un pensiero: il primordiale affiorare dell'arte poté manifestarsi nel corso del soddisfacimento del bisog no di vestirsi come bisogno di integraziOne. Si pensi ai colori e alla funzion e determinante che essi hanno sempre avuto e svolto nella vita dell'uomo: in pace come fonte di gioia , in guerra come schermo alla paura propria e come in centivo a quella del nemico , come auspicio di vittoria; in pace e in guerra come comunione profonda col resto del mondo, che è colorato, e con la luce , madre dei colori e dell'intera vita, che tutto porta a maturità, a compimento.

La seconda risposta evoca , invece , insieme a quel « tempo immemoriale » , un tempo storico all'infinito, dilagante a perdita d'occhio intorno a ciascuno di noi e a tutti noi quanti fummo, siamo e saremo da Adamo ed Eva in là: il tempo se nza tempo dell'uomo che, oltre ad essere incompleto, bisognoso d'integrazione, è plagiato, asservito, tiranneggiato; il tempo dell'uomo- schiavo. Corpi nei quali hanno attecchito mus chi e licheni; corpi invasi e colonizzati da insetti parassiti, o da microbi, bacilli, virus di piaghe e cancrene; uomini condannati alla punizione della nudità , oppure a ves tir si , senza possibilità di scelta, in certi modi, ciascuno dei quali, in base a precise convenzioni, marchia una condizione sociale; uomin i, infine, a schiere , a turbe , a s te rminate moltitudini, che non si vestono, ma sono vestiti dai dittatori, politici, economici, sociali, e pas-

sano per tutte le strade d e l m ond o co me test imoni doloranti o festosi d ella lotta p er il potere nelle sue molteplici in carnazioni. In questa sequenza di immagini , invece, si può figurare, se mpre se nza troppe pretese , i l corso della ineluttabilità del farsi ves tire e de ll a ne cessità de l lasciarsi vestire; ma non in un intrico di sollec itazioni , bensì in un dramma di frustrazioni e co mpensazioni sulle cui svolte sarebbe , nonché impietoso, estremamente difficile qualunque giudizio.

L'uomo nudo (con buona pace d ei nudisti) non a vrebbe m a i fatto , non farebbe mai , storia; e neppure l'uomo soltanto coperto. Avrebbe realizzato , realizzerebbe, più unità; ma senza la moltepli cità , cioè se nza la vita , che è creatività; dunque , una unità di es tinzione, a ritroso, e di dispersione, in avanti.

E' il vestirsi, l'uomo che si veste , a far storia. Tra le risposte (( quasi istintive » alla domanda: « Inte grarsi , perché? » può essercene una meditata, filtrata, e dettata lentissimamente, quasi sillabando, dalla nos tra stessa natura , nel suo durare attraverso l'impiego , anche nel vestirsi , di tutto c iò che permette e garantisce la durata dei vegetali e degli animali. Questa risposta, nella quale confluiscono tutti gli elementi affiorati nelle due , ma in es trema sintesi, è proprio l< da due soldi » , scandalosamente puerile : << Per obbedienza completa alla legge della comunione. Di minerali , vegetali , animali , l'uomo si ciba; di minerali , di vegetali, di animali , l'uomo si veste » . In altra sede , non esiteremmo , coe ren temen te , a parlare di adempimento eucaristico. Dunque , un fatto religioso? ln un senso lato, tale da recepire tutto, anche il (( naturale >> e il << laico», sì; ne siamo convinti. Un fatto religioso, sacrale , se non proprio sacro. E , per prevedere e prevenire una eventuale, possiLile, abbi ezione di carattere « religioso » sul valore dello spogliarsi in contrapposizione a quello del v estirsi, diciamo subito che Francesco d'Assisi , dopo essersi spogliato, si vestì, volle vestirsi (una scelta, e che scelta!) in un certo modo che ancora si chiama (( francescano » ; e che volle tornar nudo solo per la cerimonia della morte corporale, nella quale si sarebbe reso, si sarebbe restituito, a Dio, non agli uomini, so tt o le due

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specie dell ' anima in totale libertà e della carne abbandonata alla necessità.

Chi abbia una certa dimestichezza con la storia delle armi, e particolarmente delle armature, avrà sicuramente fatto scoperte che non esitiamo a definire deliziose. E non stiamo pensando al valo re artistico (saremmo pur sempre nel sa cra/e e addirittura nel sacro) di tante decorazioni su scudi, corazze , elmi, else e via dicendo, molte delle quali famose, indirettamente , per non meno famose descrizioni drammatico- liturgiche di famosi poeti. Stiamo pensando al valore artistico di scudi, corazze, elmi, else, e di lance , spade, mazze , a prescindere dalle loro decorazioni effettive e dalle decorazioni in se stesse , in assoluto: al loro valore come pezzi di scultura, come opere di scultura , valore plastico, valore estetico, intatto dopo lo scadere delle ragioni pratiche della loro fabbricazione. Tutti questi oggetti richiamano, più o meno fedelmente, più o meno scopertamente, le str utture, a volte intime , le cariche espressionistiche, simbolistiche, surrealistiche , talora sbalorditive, degli alberi, delle rocce, delle acque, degli animati, delle stesse stelle, del sole e della luna. Non intendiamo dire, con questa osservazione , che a ciò si debba far risalire il loro valore; intendiamo dire, soltanto , che c'è comunione; che la dimensione non è diversa da quella in cui il cavernicolo si nutriva d'un animale, prima o dopo esser riuscito ad ucciderlo, tentando di graffirne la figura sulle pareti domestiche.

Sullo slancio, andiamo oltre: la dimensione esistenziale è quella stessa nella quale il cosiddetto artista moderno, d'avanguardia, intuisce e sceglie uno spaccato d'albero , le rivelazioni all'ingrandimento d'un microbo, d 'u na amèba, le con vulsioni incantate d'una qualunque materia sotto la fiamma ossidrica, li isola , li circonda d'una certa atmosfera e li propone come creazioni artistiche. Ed ha ragione; e, qualunque sia il suo cc credo », fa eucaristia , s ia pure inconsapevole, sia pure nolente.

Proviamo a ritagliare da armi ed armature di pregio le parti nelle quali più si addensa e prorompe la fo r za creati va de Il' artefice; s istemiamole, adeguatamente , dal clima didattico , storico- documentario , della maggior

parte delle racco lte e dei musei , m ambienti predisposti e dichiarati per l'arte, poi stiamo a guardare e aspettiamo i risultati. Siamo buoni e giusti! Abbiamo visto per anni ed anni decame tri di tubi di plastica, eliche e spirali di metallo vario, esaed ri et altri oggetti es pos ti all'aria aperta, al nembo e al sereno, come opere d'arte offerte al godimento universale. Ebbene , tra quelli impegnati nel consenso e quelli scatenati nello scandalo , il buonsenso della gente è passato calmo, tranquillo, commentando a mezza voce una verità elementare : che a volte c'è più Arte fuori dell ' arte che dentro l'arte, e che, in fondo, tutto sta nel guardare, nel saper guardare; ed anche nel saper fare guardare . Un bel po' di qualunquismo, non lo possiamo negare; ma, nel profondo, anche un bel po' di senso dell'essenziale , del necessario, che se non è sempre l'attendibile, il credibile a prima vista, non è però , mai, l'inaccettabile, l'incredibile per assenza totale di un benché minimo potere di comunione. Alla luce di quanto abbiamo finora detto risulterà più centrato, più adeguato ed anche più degno, più rispettoso, il discorso sullo stato dei rapporti tra l'arte e le uniformi dell' E sercito Italiano. Eviteremo, intanto, di parlare dell'arte degli ideatori, disegnatori, realizzatori, delle << uniformi» , specie di quelle cc alte >> : essi appartengono alla nobile corporazione di quel li che oggi chiamiamo c< creatori di mode >> e per includerli dovremmo passare i confini. Eviteremo anche, ed è più importante, il pericolo di confondere, di impastare, la « creazione dei modelli >> con le opere di pittura e scultura nelle quali gli stessi modelli figurano, sostanzialmente uniti ai personaggi che se ne vestono, in una riproposizione creativa originale, d ecisamente autonoma: insom· ma, ogni volta come qmlcosa di nuovo. Quando un sarto- artista produce un'uniforme , è come se creasse uno schema unitario, immacolato, ideale , in cui dovranno rientrare uomini nessuno de i quali somig lia veramente all'altro. Quando , invece, un artista dipinge , disegna o scolpisce un uomo in dit ,isa, un soldato, è come se, in quel momento, gli facesse la divisa su misura, e non su misura esterna, ma su misura intima: quasi gliela facesse nascere dalla sua

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carne, dal suo sangue. Sono, evidentemente, due cose ben collegate ma in una profonda diversità . Il t 1estito del soldato nell' ar te rende giustizia all'uomo in divisa, al soldato, qual è nella realtà; e così con t ribuisce all'onore e all'esaltazione dell'uniforme in quel che essa è di più nobile e vero: simbolo di comunione, cioè di un 'u nità che si realizza, trasmettendosi da pe rsona a persona, per linee di forza interne, liberamente tese verso il fine di tutti e di ciascuno.

Tutto ciò non può e non deve esse re materia da Uniformologia; non può non essere , invece, pane e vino per l'arte. Per questa ragione, e solo per questa, sostanzialmente, non ci occupiamo dei tanti, e ben validi, padri di parziali e complete « collezioni » di figurini, modelli, soldatini) ad acquerello, tempera, olio, in legno, stagno, piombo, nelle quali ciò che co nta in maniera dominante è la « divisa » o << uniforme » o « tenuta», in prospettiva storico- documentaria e con finalità sempre culturali, ma in chiave didattico- dimostrativa. A scanso di possibili equivoci, ci asteniamo da citazioni, di autori e di opere, facili ad esser male interpretate; i cultori dell'affascinante materia ci potrebbero far da maestri; gli altri potranno trovare in appendice qualche indicazione bibliografica orientativa. Non si tratta di fuggire per la tangente; è questione di coerenza, se basta .

Ma per la stessa ragione siamo, in tutta coscie nza , obbligati ad occuparci d'un artista , un autentico Maestro, che come pochi in ogni tempo e in ogni luogo ha penetrato, nella bellezza, il senso profondo, la verità, dell'uniforme. Ci sia concesso: della divisa, dell'uomo in divisa, del soldato; del soldato a piedi e di quello a cavallo, del soldato di pianura, di monte, di mare, del deserto; del soldato in caserma, al campo, in guerra. Un fenomeno di passione, mestiere e ispirazione, che s i è scatenato in tutte le dimensioni in qualche modo collegate al servizio militare in genere e alla t'ita del soldato in particolare: ci riferiamo alle imma g ini di << guardie civiche >> e a quelle di « vivand iere ».

Non si può parlare di Esercito Italiano nell'arte senza soffe r marsi adeguatamente sulla

solenne celebrazione dell'uniforme svolta per una vita intera da QuiNTO CENNI, e giunta alle più alte e intense manifestazioni proprio negli album di acquerelli originali custoditi dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito: quelli che da qualche tempo cominciano ad esser noti col nome di « Codice Cenni». Su di esso, il lettore potrà trovare in appendice una notizia orientatÙ'a, analogamente a quelle riguardanti alt ri Autori e le rispettive ope re. Qui ci fa comodo supporre che alcune conoscenze siano scontate; e soprattutto ci preme sfruttare al massimo le non molte pagine disponibili per saldare su bito il discorso già fatto in ques t a prima parte di capitolo , sostanzialmente fedele alla lezione del Cenni, pur se alquanto allargato, con quello che stiamo per fare riferendoci direttamente , attraverso le riproduzioni, ad alcuni testi particolarmente esemplari, almeno secondo noi.

Quinto Cenni, il Beltrame dell'Ottocento , famoso e meritarnente famoso, in Patria e fuori, per un 'opera congruamente apprezzata, ha corso un rischio molto simile a quello corso da Francesco Petrarca. Se, per un qualunque malaugurato caso, fossero andate in malora, disperse, le « Rime », c fosse rimasto il poema « Africa », da cui Egli sperava la gloria, il Poeta aretino oggi sa rebbe , per noi, un poeta fra i tanti. Limitando, e sia ben chiaro, l'accostamen to a l la sola qualità dei due rischi, ci sembra di poter dire che se fosse andato dispe rso il " Codice », e fosse rimasto tutto il resto, Quinto Cenni sarebbe sta to proposto per la storia nell'appropriato capitolo, con più moLeste, ben più modeste, crede nziali. Sempre rispettando certe proporzioni, si può dire che i due ipotetici , ideali, rischi, son stati corsi anche e soprattutto dalla cultura o, più concretamente, da noi. Con una doverosa precisazione, però: le immortali rim e amorose del Canzoniere sono assolutamente salve, potrebbero temere solo, come tutto e tutti, l'idiota tragedia nucleare; il c< Codice Cenni » non è ancora veramente salvo, c può temere cose infinitamente meno terribili. In cattiva salute, anche se non in condizioni da diagnosticare come gravi, ha bisogno d'essere ricoverato, presto, se non d'ur ge nza, in una grande clini-

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ca romana per libri , una clinica famosa che il mondo da molto tempo ci invidia. Affidato per tempo a buoni medici, potrà evitare sia l'amara esperienza dei ferri chirurgici sia quella della sala di rianimazione. Una volta rimesso in salute, restaurato a dovere, sarebbe prova di saggezza, di profondo amore per la cultura, e persino di accorta generosità, riprodurlo e diffonderlo in tutto il mondo, nella sua unità; perché il << Codice Cenni » celebra, ad acquerello, gli uomini in divisa, i soldati, d'ogni Paese, di tutta la T erra, coralmente nel senso più esatto, alto, universale del termine. E' certo un bene che alle sue pagine si sia attinto e si continui ad attingere , da varie parti, per abbellire, illustrare, onorare , con riproduzioni, pubb l icazioni, pareti domestiche e d'uffici, e persino almanacchi, calendari; ma è un bene solo con alcune, e fondamentali, riserve.

Anzitutto: una preziosa opera originale, inedita, un << unico >>, viene fattta conoscere a frammenti, sulla scorta di esigenze le più diverse, e di nessun criterio; e pertanto se ne rende gua e là un'immagine che di qui a qualche tempo finirà per essere scontata, inducendo a credere, anzi, a far credere in reciprocità, di conoscere un capolavoro che in realtà solo pochi , finora, hanno la fortuna di conoscere. La conseguenza è una sorta di sopruso sul << Codice >> e un vero e proprio torto alla reale sta tura del Cenni.

In secondo luogo: pur se non in modo rigoroso, schematico, il << Codice >> si svolge per sequenze, come un vero e proprio discorso, che per giunta ha il filo segreto, l'intimità dei << diarii ))' e in genere di tutto ciò che si fa senza la preoccupazione di renderne conto, sia in termini di puntuali t à della consegna, sia in termini di risposta soddisfacente a una domanda, specie se difficile Ora, spezzare, tagliare, le sequenze, significa svirilizzare e distorcere il discorso, distruggerne il vero e proprio incantesimo, senza una contro partita che giustifichi pagando, sia pure male. Se è vero che ogni pagina del « Codice >> vale in sé e per sé , al punto che alcune resistono bene all'isolamento dall 'insieme, è ancor più vero, però, che ogni pagma è la tessera preziosa di un mosaico;

e i frammenti d'un grande mosalCo si accettano e si ammirano, non senza rimpianto, solo quando l'opera completa è andata, purtroppo, perduta; e non di rado, quando è possibile, se ne tentano ideali ricostruzioni. Sarebbe insolitamente interessante apprendere, 'un giorno, che si sta ricostruendo, coi frammenti, un'opera ancora esistente. Ma perché augurarselo?

Ed infine: il « Codice Cenni >> è l'unica opera nella quale un'arte vera, incontestabile, opera le sue sintesi creatrici sulla base d'una ricerca storico- documentaria affettuosa guanto accanita, rigorosa; sulla base, in altre parole, d'una visione uniformologica ben al di là del collezionismo, anche se non ancora propriamente «scientifica>> nella significazione attuale. Ma c'è di più: esso è l'unica opera nella quale, pagina per pagina, l'unità tra arte e uniformologia, come risultato d'un lavoro senza respiro , convive con il << racconto», quasi stenografico ma di grande efficacia, della storia del lavoro medesimo, delle sue fasi, dei suoi metodi , delle distrazioni, dei ripensamenti , delle ansie. Chi guardi solo dei frammenti, sia pure vistosi e d'una certa autonomia, non può assolutamente, in presenza dello << scritto », pensare ad una << storia >> : penserà, e nessuno potrebbe rimproverarglielo, a « didascalie»: e non è affatto la verità E ', al contrario, una leggera mistificazione; involontaria.

Fatte le riserve, disobbligata ma non proprio nel profondo la coscienza, guardiamo insieme, leggiamo insieme, i testi scelti.

La prima pagina, dominata da quel '' r86r Regno d'Italia», un po' malcerto, stanco, e dalla « comunicazione » della data , 4 maggio, in cui l < L'Esercito prende il titolo di EsERCITO ITALIANO » , anch'essa graficamente fiacca, non ci sembra tra le più felici del Codice: risulta un po' dura, legnosa, nella partizione delle inquad r ature, che peraltro è venata d 'indecisione (donde la malcelata forzatura) e nel ritmo degli elementi compositivi, buono ma non ottimo come nella maggior parte delle pagine cenniane; si riscatta nel colore, il cui tono in Cenni raramente scade Ma l'abbiamo scelta, oltreché per la datazione , per due motivi: perché evidenzia, proprio per via di certe « crepe n, ciascuno dei due fattori della sintesi di

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cui abbiamo discorso; perché rende efficacemente il senso dello sforzo attraverso il quale l'arte del nostro affiora, emerge, si stacca e si solleva dopo aver sciolto e assimilato i materiali .

Son successe tante cose, tutte importanti, c'è un nuovo Regno che deve farsi le ossa, qualunque iniziativa è di rilievo, bisogna prenderne atto, annotare, commentare, non farsi scavalcare e trovarsi in arretrato. Qualcuno potrebbe trovarlo un po' ossessivo Ma il Reg no è il Regno d'Italia, e Quinto Cenni è un romagnolo di Imola e Imola (tuttora) si sente, anche se in questo non è sola, un po' il cuore della Romagna : la presenza ai fatti non vale meno dell'aria e del buon cibo, sia solido che liquido. Ed ecco un bel .fiotto di date, come stappare una bottiglia di spumante : « AprileAllieui di Marina »; << 2 maggio - Riordinato il Collegio militare di Napoli » e siamo in Marina ancora; << 21 maggio - Creazione degli Armajoli Militari >>; « 31 maggio - Soppresso il Battaglione Cannonieri Guarda Coste dell'Elba (Ex Esercito Toscano))); « 9 giugnoSciolta la Compagnia Cannonieri Guardacoste dell'Isola del Giglio 11; poi, il << 12 giugnoRegg" Ussari di Piacenza >l : c'è un << Nuot' O beretto » per gli ufficiali e per i soldati, e c'è anche un N uouo Pennacclzietto 11 per i Kepì. Questo, con foga nonostante la rigida inquadratura , a capo di pagina. A piè di pagina, invece, con un'altra soppressione (quella degli Artiglieri Litorali di Napoli, in data 20 settembre), una coppia di confer me: << l luogotenenti di Stato Maggiore distaccati presso i Corpi mantengono la propria divisa>>; << Il Colonnello d'artiglieria G. di Revel passato al comando di una Brigata di fanteria, mantiene integralmente la propria uniforme ... l> ; mantenuta in piedi e << riorganizzata da Revel la Legione Cacciatori del Teuere >>; quindi, il (( 27 giugno - Nuova divisa dei Veterinari », il (( 24 novemb re - Nuovo Cappotto per Ufficiali >>; giù, proprio giù, infine, c'è posto per una nota in data 29 dicembre, riguardante il Cappellano Militare.

Tra queste notizie ingabbiate c'è, però, qualcosa che comincia a sciogliersi anche in questa pagina. Tra i due gruppetti in alto a

sinistra, il primo è appena abbozzato e un po ' comicamente ,, in posa 11, ma il secondo gli fa immediato contrasto, non mostrando ma lasciando vedere, in scioltezza d'atteggiamenti da riposo, la te nuta di manovra. Sono, però , i due gruppetti al centro ad aprire uno squarcio di vita. Nel « Nuovo Uniforme», gli uomini del Re ggimento Guide sono didattici come figurini ed eleganti come indossatori, ma sono veri uomini e veri soldati: sono persone. E chissà perch é da destra e da sinistra sono come sorvegliati a vista da <c tipi » che sarebbero più a casa loro in una collezione; escluso il bersagliere c he porta ancora troppo umilmente il fez avuto in dotazione appena il 12 giugno di quell'anno. Risorse d'un artista, e d'un formidabil e t'mpaginatore come il Cenni, risorse istintive, ma non troppo, ché ci appaiono piuttosto sapienti: il misto di disinvoltura , vanità e fierezza in cui si evidenziano i sei personaggi comincia ad esaltare il disegno, pur così stilisticamente prezioso e risolto fin nei particolari, portandolo ben oltre il bisogno di illustrare un abbigliamento. Il colore fa il resto. Questa scena centrale soffre palesemente l'angustia spigolosa del riquadro , ma fa sentire prossimo un sommovimento liberatore, il colpo d'ala dell'arte.

Sulla seconda pagina, segnata 1887, lasciamo al lettore la cura dello << scritto n, che abbiamo condiviso a proposito della prima pagina solo al fine di ribadirne l'importanza; e speriamo che nessuno ce ne voglia.

Qui si passa dalla Milizia territoriale a quella comunale, passando per la figura ammantellata (più che per la mantellina) d'un capomusica; dalla Compagnia Presidi aria agli Alpini e alla Fanteria d'Africa. Ma non c'è segno di stanchezza, d'indecisione, in nes s un passaggio. Il ritm o con cui sono occupati gli spazi è gagliardo ma con una certa levità; l 'equilibrio tra c< scritto )) e c< disegnato >> e tra (< disegnato » e « acquerellato>> è sempre più ammirevole. Sei personaggi in gruppo, più due isolati, nella prima parte; tre coppie più due isolati, nella seconda; un isolato e due coppie atipiche nella terza. In tutto diciannove personaggi, e diciannove modi diversi di stare, di guardare, di poggiare i piedi, di tener

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le mani e le armi , di esser soldati con una divisa uguale a quella di centinaia e migliaia di commilitoni ma portata con partecipazione personale a un unico mondo. Partecipazione. c he si armonizza con le caratteristiche deJia specia lità di ciascuno, ed anche con quelle di ogni singolo temperamento e di ogni singolo carattere. Il Cenni, risaputamente, non indossò mai una uniforme; però frequentava tutti, tutti, gli ambienti militari; conosceva profondamente i soldati e profondamente li amava, così com'erano: perché amava l'Italia , perch é amava l' Esercito, perché amava gli uomini e particolarmen te gli italiani. Il uestire militare era per lui la sintesi del più bel vestire e del più bel servire; ma non in ch iave di estetismo, bensì in chiave di presenza piena, senza riserve, al suo momento storico. Lo abbiamo già accennato ma lo ribadiamo, a ragion veduta. Pu ò sembrare, qua e là, che il Cenni idealizzi, n el vero senso della parola, e il soldato e l'unifo rme; in realtà ciò non è che il risult ato d'uno sforzo tendente alla perfezione del suo lavoro di artista innamorato del mondo che interpretava. Osserviamo, a titolo di esempi, il contabile (primo in alto a sinistra), il Capitano della Compagnia Presidiaria (primo a sinistra in m ezzo) e l'Alpino d'Africa ( ultimo in basso a destra), così diverso dal fante che gli sta vicino. La divisa ti fà neJia misura in cui tu fai la divisa; tu e la divisa t•i fate a misura di tutto c iò che ha fatto voi e la divisa. Se Quinto Cenni non fosse stato Quinto Cenni, avrebbe fatto solo divise, tenute , uniformi , e le avrebbe messe addosso a pupazzi e figurini, sia pure elega nti, come addosso ad altrettanti manichini. E per dare più attendibilità, più lustro, al tutto, avrebbe fatto muovere pupazzi, figurini e manichini, alla stregua di marionette e burattini. II che non sa rebbe stato, assolutamente, male; solo che sarebbe stato qualcosa di molto, e molto! diverso. Forza, severità, eroicità, sare bbero servite so lo a pubblicizzare, a propagandare, un modo di vestire. Ma Quinto Cenni, su ciò non può esserv i un filo di dubbio, ha voluto festeggiare, cele brare, onorare, le Forze Armate; e c'è riuscito. Anche l'uniforme è per gli uomini, che sono sempre, nella dimensione umana, gli unici a conta re.

Un'altra considerazione, pm o meno entica. In questa pagina, l'unità risulta in modo decisivo dalla t'erticalità di tutto l'impianto: figurativo, grafico, impaginativo Lo « scritto » è anche qui un po' un s iste ma di quinte o di moderni divisori teatrali, non si scioglie compiutamente nel ritmo complessivo; ma non angustia, non molesta. Le figure, pur necessariamente in gabbie, hanno aria, so n libere, disinvolte: parlano, meditano, osserv ano , guardano lontano , come se tutte quelle siepi di parole non esistessero. Il fatto è significativo. Le due dimensioni di cui abbiam detto a proposito della pagina pre cede nte si vedono, anche in questa, senza l'aiuto scomodo delle << crepe » Una maturazione sicura prepara gra ndi risultati , frutti di straordinaria qualità. Per chi abbia una certa dimestichezza con le collezioni di figurini che dominano la didattica uniformologica, è normale pensare· alla verticalità come aJia dimensione principe di questo micromondo. E' una dimensione felice, generosa, esaltante; ma nel caso specifico è anche una dimen sione che rischia spesso la rigidità eccessiva, l'eccessiva mutezza, ed anche l'irrealtà L'orizzontalità, il volume, il rotondo, e la moltepli cità delle loro combinazioni col verticale, sono la compiuta espressione d'un compiuto mondo; olt retutto , obbedendo alla luce, lavorano per il colore, per i color i; arricchiscono i ritmi , fanno musica. La terza pagina ispira e co nferma un tale discorso.

A questo punto, una certa voce ci suggerirebbe di tacere, di lasc iare a ciascun lettore tutta la sua libertà di sguardo e di godimento; l'intimità gelosa in cui a volte la persona più ca ra diventa estranea, intrusa. Ma cercheremo di dire, in breve e a bassa voce, solo ciò che ci sembra essenziale perché non si verifichi una soluzione di continuità in questo lavoro di lettura in comune cui affidiamo, serenamente, qualche degna s peranza.

E' più forte di noi: s uggeriamo di lasciarsi invadere dal colore, dalla luce, dalla intensa musicalità di questa pagina, ma di non farsi subito suggestion are dalla solennità, dalla maestà, dei cavalli e dei cava lieri, dalla aristocraticità delle figure a piedi e in piedi, di finezza

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e di eleganza veramente de g ne di stupita contemplazione. Meglio immergersi , filtrando , nel sottofondo d ella pagi na , in tutto questo pullulare di materiali ch e presi uno a uno sono quel che sono, illustrazioni di dettagli , di cing hie , else, elmi, mostr e, gradi; ma che nell ' insieme sono ben di più, la terra viva, fumante, dalla quale son nate tutte queste persone. Ecco il più valido punto di dimostrazione di quant o abbiamo prima affermato. Qui il Poeta e Archite tto che fu Ma stro Cenni si permette persino (è romagnolo !) di staccare i piani con una geometricità che non solo non disturba la liquidità di tutta la composizione, ma la evidenzia. Traccia una linea di demar cazione, ma uno dei suoi ca valli gliene copre un tratto con la coda, collegando due campi, due ambienti con naturalezza, invece di invadere con comprensibile alterigia uno spazio d'altri. Colloca dove vuole, co n una facilità, con una creatività tale da mozzare il fiato , elementi tra loro contrastanti, pur se d ' uno stesso dominio, e di tale collocazione si se rve per creare uno scenario unico, infantile nel senso più alto e ricco del termine, d'una efficacia de corativa degna delle nostre migliori tradizioni. In questo scenario, i colori compiono grandi imprese: arrotondan o in lucenti volumi le groppe dei cavalli , qualifi ca no in toni epici le giubbe, gli elmi , i pantaloni , le spade; ma non distolgono dalla sacralità se mplice, quasi evocata n ella memoria, più che direttamente vista cogli occhi , di questi uomini che possono esser collocati sulla soglia d'un qualunque grande evento.

Pittura e grafica realizzano un connubio quale raramente è dato toccare a pupille s p alancate Non ci ri sulta che altri, oltre i grandi pittori che hanno creato battaglie e fatti militari in genere, possano insidiare a Quinto Cenni un primato in materia di uomini in divisa. E queste che abbiamo voluto offrire al lettore non sono che esemplificazioni, limitate di necessità, con rammarico; anche perché , in questa precisa sede , non avremmo potuto inserire pagine di album dedi cate ad Eserciti non itaiiani. Tra i quali , e pensiamo all'Album n. 13 , <' Le memorie », vi so no sequenze impressionanti per qualità , continuità ed anche pe r

q uantità, con centinaia di personaggi che si susseguono , pagina dopo pagina , come in un interminabile poema si nfonico.

Una lezione , qu e lla di Quinto Cenni, che non avremmo , senza co lpa, potuto tacere, o illustrare senza adeguato impegno. Ci serva comunque; e particolarmente per capire quanto è vero che il capitolo Ese rcito va letto e riletto (per chi crede di conos cerlo) an che n ella chiave che l'arte fornisce per aiutarci a guardare meg lio il mondo e so prattutto noi stessi .

Una lezion e in tono minore, e per contrasto, viene dalla produzione artigiana d 'un certo livello: quella ch e, pur impostata in funzione commerciale , persegue risultati genericamente artistici e talvolta giunge, qua e là , in alcuni pezzi, a raggiungerli Questo tipo di produzione si ispira, quasi se mpre , direttamente all'uniforme , e d iseg na e colora, o modella e colora, per giurz gere ad una uniforme portata da un modello , cioè da una figura umana , o da un figurino, che proprio e soltanto l'uniforme qualifica, distinguendone l 'identità da quella di tutti gli a ltri. Ma non è questa la cosa più importante La cosa più importante è, invece, la concezione della fonte d'ispirazione, ossia dell ' uniforme , co me punto d'arrivo , come un fine, e dunque come un archetipo attivo; non , dunque , uno schema, inanimato, una cosa o un insieme di cose, ma una forza informatrice, che oltre a precisare l'appartenenza ad un << Corpo», ad una « Specialità », dichiara , e in un certo senso, crea, un tipo umano. E' la co n siderazione che chiameremo, convenzionalme nte , << popolare » dell ' uniforme: residu o tenace, e di non valutabile durata , della plurimille naria consuetudine che vuole per ogni categoria sociale un particolare modo di vestire.

Spiccatamente, trionfalmente, « popolare » ci è parsa l'opera di GASPARE CARLINO, ceramista siciliano, di Sciacca, nei quindici pezzi che abbiamo avuto modo di studia re presso l 'Ufficio Storico dello SME, e che proponiamo al lettore concentrati quasi in una minibacheca. La presentazio n e, giova dirlo , non è compiutamente adeguata sotto il profilo iUustrativo;

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ma i limiti del presente lavoro non consentivano di più. Valga com ' è.

Ed è, secondo noi, quanto basta per consentire al lettore una verifica personale delle nostre valutazioni, le stesse che ci consen t iranno, almeno lo speriamo, di farci perdonare l'e vasione. La gloriosa tradizione dei « pu p i >> siciliani ha aperto un varco all 'unifonnologia.

Questi di Carlino, infatti , per dirla alla sua maniera , 11 pupi >> sono. E dei /( pupi » hanno , salvo lo snodo delle articolazioni, tutto: lo sguardo- tipo, tra il << metafisico » e il disanimato , il portamento più << geometrico >> che rigido , braccia e gambe fedelissime ai canoni del « teatrino » (non far niente per poter far tutto), l'aria di scena e il piglio inconfondibilmente locale; naturalmente , ovviamente, i colori, il tono dei colori.

Dall'alto in basso, e da sinistra a destra , abbiamo questi archetipi: << Corpo degli Ingegneri Militari di S.M. 1752 » - « Ufficiale di Artiglieria (dell'Armata Sarda) 1820 » - << Artigliere (dell'Armata Sarda) I 7 33 >> - << UfficiaLe del Corpo Reale del Genio I 844 » - « Ufficiale del Corpo Reale degli Ingegneri I775 » - 11 Ufficiale delLo Stato Maggiore del Genio I8I6 » - << Ufficiale del Genio in Grande Uniforme I8I6 » - « UfficiaLe del Genio del Regno d'Italia 1865 » - « UfficiaLe dei Granatieri della Guardia I 883 >> - << UfficiaLe di Fanteria dell ' Armata Sarda 18I6 >> - « Carabiniere » - <c Reggimento Piemontese Ca valleria r836 >> - « Ufficiale del Genio in Grande Uniforme I937 » - 11 Ufficiale del Genio in Piccola Uniforme 1903 » - « Alpino>>

Ma in realtà , nessuno di questi archetipi riesce a dire qualcosa; o a farla. Sembrano tutti in attesa di chi li faccia muovere e parlare: del « puparo », appunto. E la cosa sta bene così come sta: rientra in un << canone », più che in una « maniera » , nello spirito della continuità più che nell'acquiescenza del convenzionalismo. Non significa irriverenza, meno che meno « sgarbo», o superficialità; piuttosto << considerazione » spinta ai limiti dell'eccesso; senza neppur pensare ad una miti zzazione dell'uniforme, possiamo, però, par-

!are di esaltazione di essa , in senso teatra le e (absit iniuria !) di teatt·o de lle maschere. Co n trionfalismo.

Salvando le ri s pettive dim e nsioni , e i rispettivi livelli creativi , queste valutazioni possono raggiunge re non poche opere d' arte n ell e quali l'uniforme sopraffà chi la porta, se mpre per uno stesso motivo: l'autore suppone c he non l'uomo abbia scelto l' uniforme, ma l ' uniforme abbia scelto l'uomo, facendolo col vestirlo di sé. I risultati non sono da rifiutare; però fanno rimpiangere il meglio che s i sarebbe potuto e che si potrebbe ottenere rovesciando la posizione. Si ricrea e si ripropone un mondo che così ormai appare per cristallizzazione, e che è beLlo; ma poiché è l'uomo che si può rinnovare e che può rinnovare, si rischia costantemente di ricreare e di riproporre , invece d'un mondo, un 11 modo », una < l maniera » . Si rischia , in parole povere, l'esaurimento fino alla sterilità. Non è impossibile, ma non è neppure facile, per cintenderci, poter disporre d'uno che sappia sprigionare (all a lettera) dall'uniforme , tutto quello che un Morandi è riuscito a sprigionare dalla bottiglia. E poi , per avere una uniforme - natura morta basterebbe ritagliare particolari da certe opere dei più grandi; diversamente bisognerebbe pur sempre rientrare, e rinchiudersi, nella dimensione propria dei « creatori di mode »

Non siamo troppo entusiasti dell ' operazione che va sotto il nome di <l distinzione dei piani », quando venga effettuata a sproposito (molte volte); ma quando ci vuole , ci vuole. E tanto ci basti per non andare incontro a fraintendimenti. Sul loro piano, i « pupi >> uniformologici di Carlino hanno dignità e validità , come e validità hanno sul piano loro le divise, le uniformi. L ' importante è che i piani , quando è necessario , si di s tinguano; soprattutto che non si confondano mai, perché confonderli non è mai necessario, ed è sempre nocivo. Quello che conta è l'uomo in divisa, non la divisa su un uomo. Lo abbiamo già detto, ma lo ripetiamo. A chiodo grande, martellate molte , quando non si dispone d ' un mazzuolo.

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PROSA E POESIA INTORNO ALLE MARMITTE:

L' « ASSAGGIO » E LA DISTRIBUZIONE DEL RANCIO.

Della vita da soldato, di quella personalmente vissuta, ciascuno potrebbe prendere a narrare cominciando da un certo momento, particolarmente forte per lui ma non altrettanto per altri. La precedenza nell'ordine cronologico conta solo dentro certi limiti, per una media di persone , e varia a seconda dell 'ora d'arrivo e di effe t tiva aggregazione. Ciò che invece conta senza restrizioni di sorta, lasciando il segno per tutta la vita, è la novità del momento, la sua portata di annuncio, il suo « filo >> capace di tagliare in due, silenziosamente, senza dolore ma anche senza pietà, il mondo di prima, con le sue abitudini, le sue predilezioni , il suo codice, sempre un po' sommario e non di rado individualistico, dei diri t ti e dei doveri. In altre parole , mutando un giovane in << UOmO »

Per alcuni tutto cominciò dalla prima << sveglia >>: naturalmente sorvoliamo , per mancanza di ad eguato spazio , sugli eventi affini alla << sveglia » , ma non regolamentari e soprattutto fuori orario , come « il salame » ed il << presentatàrm! » La << sveglia » : pensandola , a distanza, s ulla scia della tradizione romantica, una volta si cantava <<Non sarà più la mamma l che mi sveglia , la mattina, l suonerà la trombettina l sulla porta del quartier »; una volta, cioè, quanti secoli fa? Commentandola, da vicino, faccia a faccia , la Musa dettava, sulle note del meravi g lioso <<segnale » : << La sveglia alla mattina ... » con quel che segue. Ma tra i due poli opposti, il ruotare del mondo della prima << svegli a » era pieno di sussulti e sballottament i. Sicuro! V e ramente, a tutti gli effetti: << Sveglia! » La libertà è finita. Non tutti, ma molti di quegli « alcuni » compresero più in là negli anni quanto dovevano a quel torrenziale sa]iscendi di note scelleratamente limpi-

de e penetranti che face vano correre persino le prime luci del giorno: quanto dovevano proprio in materia di vera e falsa libertà. Dividere con tutti gli altri il tempo e lo spazio, i lavandini e i gabinetti , il caffè , e rispettare coralmente i tempi dell'adunata, aveva significato ben più di ciò che talora si vuol intend ere, in modo sciatto e un poco volgare, con la massima: << Impara ,a campare». Aveva significato, piuttosto, l'impossibilità (pratica! )' d'es ser liberi da soli, contrastando indiscriminatamente gli altri solo perché tali, o ignorandoli.

Per altri , tutto cominciò dalla prima << libera uscita », in ferreo collegamento con la prima « ritirata ». Dapprima tutto quel doversi curare delle scarpe, dei bottoni, della bustina, dei consigli e degli ammonimenti ricevuti per un regolamentare comportamento; poi la cappa di piombo del dover camminare , salutare, parlare, bere, essendo ormai il soldato Tale (prima il cognome, poi il nome) , ma soprattutto essendo le Forze Armate, l ' Esercito, il Reggimento per il signor Colonnello, il Battaglione per il signor Maggiore, la Compagnia per i l signor Capitano, il Plotone per il signor Tenente, ed anche per il Sergente, nonché la Squadra per il Caporale; infine l'incubo dell'orario e del « segnale », grazioso ma decisamente mesto, e che si può anche non sentire. « Lascia la bionda 1 che passa la ronda l ritirati, cappellon! l Tutte le sere così! » Tremendo, per certuni, quel « tutte le sere così ! » . La bionda, poi, c ' era più nella canzoncina che nella realtà; ma ronda c ' era per davve ro, e la sentinella e il capo - posto, anche a volerlo, non potevano scherzare.

Per altri ancora , tutto cominciò dal primo « silenzio » . A proposito di questi , si è sempre

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ritenuto trattarsi di nostalgici, di temperamenti cosiddetti poetici, di « mammoni ))' di « deboli >> , nella cui tenerezza le note del celebre << motivo n, autentico capolavoro anche nella semplice edizione d'ordinanza, affondavano come lame calde in pani di burro. Strano! A noi risulta , sulla base d'una solida esperienza personale ed interpersonale, che « il silenzio » sia stato l'initium della storia militare proprio per i cosiddetti << duri », quelli della prosa, della vita scomoda, per i quali la notturna era la voce di un ordine, d'un vero e proprio comando , però dato con voce dolce, carezzevole, e pertanto tale da essere apprezzata dal « romantico '> che si sveglia in fondo al cuore d'ogni « duro » in procinto d'addormentars i : quando c'è buio, o gran penom.bra, al coperto, è inutile far la faccia feroce ai sentimenti. Comunque sia stato, o sia, un fatto è certo : tra i momenti della vita da soldato, quello del « silenzio >> è particolarmente prodigo di echi, di risonanze; sulle stesse solitudini che scava, isolando, getta ponti in tutte le direzioni, e così finisce per unire, integrare, dilatando il mondo che chiude. Possibile che non ci siano testimonianze artistiche della sua importanza, reale e mistica, di ciò che ha sempre significato? Intendiamo tes t imonianze a degno, adeguato livello.

Noi non ne abbiamo trovato, purtroppo. Del resto, coi limiti di tempo e spazio entro i quali abbiamo dovuto pensare e concretare, il più unitariamente o il meno rapsodicamente possibile, questo saggio - proposta, non potevamo aspirare, o pretendere, ad una pur vagheggiata compiutezza. Non abbiamo trovato testimonianze adeguate, nella prospettiva dichiarata in apertura , di molti altri « momenti ». Per esser più precisi : di alcuni abbiam trovato solo << documentazioni », (< illustrazioni » ; di altri abbiam trovato, ma non abbiamo potuto raggiungere , le testimonianze cercate, vere opere d'arte, anche se non capolavori; di altri ancora , niente, neppure tracce. Eppure continuiamo a restare, giudiziosamente e non senza caparbietà, dell'avviso che sia possibile reperi re , attraverso una capillare ricerca, le opere d'arte necessarie ad un completo poema figurativo sulla vita dell'uomo ita l iano in divisa,

del soldato italiano. Se ne possono reperire quante basterebbero per una grande Mostr a e persino per una grande Galleria (o Esposizione permanente): un vasto spazio in cui, non solo l'Esercito, ma anche le altre Forze Armate italiane , tutte le Forze Armate di tutto il popolo italiano, potrebbero ininterrottamente essere presenti nella dimensione dell'arte , quasi in una loro seconda, non meno vera, realtà

A titolo di fedeltà a un impegno, preveniamo una possibile osservazione e precisiamo, nel meri t o , la nostra posizione. Con la sola opera di GIOVANNI FATTORI si potrebbe raccontare, più o meno compiutamente, il ciclo della vita del soldato italiano; ed altrettanto si potrebbe fare, quantunque non allo stesso livello, con l'opera dello stesso Q ui NTO

CENNI

Sull'arte del Fattori avremo modo di intrattenerci più avanti, in una ce r ta sede che ci consentirà di valutare anche la sua tematica, e il modo di svolgerla , in relazione ai fini di questo saggio- proposta. Quanto al Cenni, ci torna doveroso confermare che la copiosa produzione dedicata proprio ai motivi del nostro impegno, non ci sembra che raramente ai livelli dell'arte del c< Codice>> . Inoltre, entrambi i due maestri raccontano di un tempo che, pur essendo nostro, comincia ad esser lontano, ad avere sempre più va lore di introduzione così che le loro opere vanno considerate come capi toli, non tra i primissimi, ma certo tra i primi dell'intero << libro >>. Accettando la possibile osservazione e por t andola alle sue logiche con seguenze , fini remmo per fare quel che in realtà finora s'è fatto e che, invece, vorremmo proprio si finisse, si cessasse, di fare: cioè, bloccare, inchiodare la produzione artistica ispirata ali 'Esercito I t aliano , e la relativa storia, ad un manipolo di nomi ed alle rispettive opere, in parte, peraltro, già acquisiti alla storia della pittura preromantica e romantica, a prescindere dall'impor t anza che possono o meno avere per l'Esercito in quanto particolare dimensione del popolo italiano.

Chiusa questa parentesi, procediamo, in direzione di un « momento» del quale non ha tanto importanza dire se è stato, o meno, quello da cui, per alcuni, " tutto cominciò ))' quan-

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to, piuttosto, che è, incontestabilmente, un momento centrale per tutti: quello del << rancio », all'insegna emblematica delle marmitte.

Le marmitte non sono soltanto, nel mondo soldatesco, il corri$pettivo delle pentole in quello familiare : sono anche questo, ma racchi u so , come nucleo, in una diversa qualità, dentro ben dentro, nel cuore di essa. Le marmitte sono, simbol icame n te e d i fatto, un valore << pubblico», nella misura in cui le pentole sono, anch'esse simbolicamente e di fatto, una realtà « privata »

Nelle pentole si condensano, in sintesi nutritiva (quanto semplice e insieme folta, piccola e ampia, universale, la pienezza di questo aggettivo!), le capacità e le possibilità socioeconomiche tradizional i e nuove , quelle etologiche, e persino quelle religiose, dei nuclei familiari, regionali, e d'i n tere aree culturali omogenee. La sintesi nutritiva di queste capacità e possibili t à sigilla una serie di scelte che han fini t o per trasformarsi in vere e proprie insegne, in documenti di identità che non di rado fondano e difendono egemonie, rivendicazioni, orgogli e gelosie. E tanto , perché queste scelte sono insieme effetti e cause di un modo di vivere che deriva da un lungo e cocciuto sforzo di verifica e di collaudo di affinità con l'ambiente sposato, di osmosi con esso, nonché di proporzione ed equilibrio tra le aspirazioni, i des ideri , e le concrete disponibili t à . << La cucina di m amma >> o « la cucina d i m ia moglie >> o, riassun tivame nte , << la cucina di casa » , co n riferimento costante anche a cer te pentole un po' ammacca t e, un po' affumicate anche se lustre, son frasi che si prestano, giustamente , a giudizi di varia natura, anche umoristici, se prese in superficie, scaricate. Ma se ricondotte alle fonti, se lasciate cariche, possono anche giustificare qualche preoccupazione in quanti hanno a cuore le sorti d'un mondo , come i l nostro , impegnato in un sempre più aspro conflitto tra e collet t ività, tra privato e pubblico, tra molteplicità e unità. Nelle pentole familiari si cuocciono , a fini nu tri t ivi in ogni senso, anche i pe ricol i d'un modo di concepire e vivere l'intimità, l'autonomia, la libertà, così esclusivamente e preclusivame n te da rendere necessario il moltiplicarsi delle leg-

gi cui si affida la possibilità di convivenza di uomini e cose troppo diversi tra loro per non polverizzarsi nel caos. E il moltiplicarsi più o meno seft,aggio delle leggi è già preludio al caos: lo è sempre stato, lo sarà sempre. Non per darci la zappa sui piedi rispolverando certe memorie, ma solo per puntellare solidamente il discorso, ci rifacciamo a una « questione di pentole>> coinvolta in ben altre questioni, ma a ragione ben veduta e con un giudizio di impressionante sinteticità: quel << mangiatori di sego >>, sparato come una pallottola di tiratore scelto contro nemici di allora , poteva essere metaforico, simbolico, e violentemente offensivo , solo perché, con un metro alimen t are, giudicava una cultura, addirittura una civiltà.

E la stessa ormai nostrana « polenta », non comincia solo ora ad essere messaggera di unità su scala veramente interregionale? Persino i cc crauti >> sono in marcia di rivincita.

Eh la pentola! Quando si dice « la pentola >>

Quando, invece , si dice << la marmitta », è come se si varcasse una frontiera Addio, piccola patria di profumi, sapori , stimoli ed eccitamenti, di fumanti lusinghe dorate, candide, sanguigne, sia pure goduti solo di tanto in tanto, a scadenze domesticamente stor iche, infantilmente attesi e virilmente onorati! Si entra nel regno dei « tubi >> , delle << pallottole », della « colla», dell' << acqua cotta >>: in imperiosa sintesi, della « sb ob b a >> . Eppu re . ..

Sarà anche ve ro, anzi, è senz'altro vero che, per il solo fatto d'essere legati alla giovinezza di ciascuno di noi, certi passaggi d'invisibili confini finiscono per esser ricordati con piacere, con gioia, ed anche con nostalgia, influendo su un giudizio che spesso si configura , nel suo insieme , in modo con trastante, o almeno assai diverso da quello dato << allora>>

E ' difficile, però , negare che, alla d ista nz a giusta , sufficiente per una stima già storica, si potrebbe, teoricamente e praticamente, isolar si dal senso d i piacere, di gioia nostalgica, ed esprime re un giudizio identico o molto simile. La marmitta è il corrispettivo, in termini di nutrizione, nei confronti della pentola, di ciò che la lingua è, in termini di vita di relazione, di comunicazione, nei confronti del dialetto.

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E se, com 'è possibile e compre nsibile, il rapporto può sembrare azzardato, ricordiamo quanto costi a moita gente (ancor oggi) masticare Lingua nazionale invece di lingua materna; non meno, decisamente, dì quanto sia costato e costi a molta alt ra il passaggio dalla pentola alla marmitta.

Una piccola, necessaria, parentesi: il nostro dis corso va riferito, ovviamente, al << tempo >> storico e artistico che inquadra la materia trattata. Tante e tante cose sono mutate. Se, come speriamo, questo nostro modesto avvìo incoraggerà qualcuno all'impresa auspicata, in una prospettiva di necessità più ampia il « rancio >> passerà dal passato prossimo al passato remoto; mentre, intanto, la « mensa» aspetterà chi ne faccia materia d'arte.

Vinte le prime resistenze, constatato che l'appetito è veramente il miglior condimento, la marmitta comincia a saper di umano e ciò che intorno ad essa si svolge comincia a saper di cerimonia. Tra brontolii, mugugni , parole intere o a mezzo, occhiate d'ogni calibro e portata, la realtà comunitaria si fa strada, cresce, si fa consisten te. Mangiare è necessario di per sé; mangiare insieme le stesse cose lo diventa inizialmente per forza, ma può continuare ad esserlo solo per amore. Dalla disponibilità a lasciarsi trasformare, dentro, un 'obbedienza a denti stretti in aperto consenso , si può misurare la capacità di diventare c;eri soldati in quanto, anzitutto, veri uomini Anche il rancio docet: e queste non sono chiacchiere. Occorre, però, essere vigilanti , perché il rancio non è detto che debba essere cattivo. La cerimonia si svolge, quando è completa, in due tempi, il primo dei quali è talmente importante, talmente decisivo, da restare stampato a fuoco nella mente di tutti coloro che ne hanno potuto avere esperienza: parliamo dell'assaggio. 11 secondo tempo, non val neppure la pena di dirlo, è totalmente riempito dalla distribuzione.

Sul tema << rancio >> abbiamo trovato un éerto numero di testi, alcuni dei quali piuttosto validi, artisticamente. Ci siamo soffermati, però, su questi che proponiamo al lettore, perché entrambi, ciascuno nell'ambito suo proprio, hanno) almeno a nostro avviso, una ca-

rica espressiva che va oltre il valore della loro compiutezza, .e l'hanno ad integrazione per contrasto: come la prosa e la poesia, appunto, che non ci siamo peritati di incomodare nel titolo. Sarebbe interessante sapere se esistono testi sui momenti che circondano, precedono e seguono la cerimonia del rancio: la c< corvéespesa », la preparazione del minestrone o della pastasciutta , la lavatura di gavetta e gavettino con terra e acqua, e quella, epica, delle marmitte. Se fossi pittore, mi ricorderei, con un bel salto mortale all'indietro nel tempo, d'un « fante universitario>> di mia stretta, intimissima, conoscenza, già con la barba (ma nera lucente invece che bianca), intento a rifinire con una mezza cc gillette >> la disincrostazione d'una marmitta degna dì Polifemo: testa in giù, dentro il mostro sacro con tutte le spalle, avrebbe potuto far pensare, per la vaga somiglianza con un simoniaco dantesco, che esercitasse, uno tra tanti, la compravendita del <<s acro pasto » nei giorni più fortunati e propizi. Ma chi ci pensa più?

11 testo dedicato all'assaggio lo abbiamo scovato (bisogna proprio dire così) tta le decine di migliaia di cartoline che formano la singolare « raccolta» posseduta e curata dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito: ne è autore GwsEPPE NovELLO e l'originale si trova presso la Sezione milanese dell'Associazione Nazionale Alpini. E' un <<pezzo" apparentemente, come si dice, senza pretese, una « vignetta » umoristica la cui efficacia si affida a segni, più che sobrii, essenziali, sbriga ti vi; ma non è affatto un << pezzo » qualunque, e merita d'esser gua rdato, letto , con cura.

Tutto ciò che abbiamo detto sulla marmitta, sulle sue signifìcazioni, ed anche quello che abbiamo detto sulle tappe del rancio, è ormai « arrivato>>. Ma c'è ancora un residuo affanno, come se la strada non fosse ancora veramente percorsa per intero. E infatti, la distanza tra la bocca della marmitta e quella del Comandante non la misura e non la percorre, nella sua quasi inesistenza, la prima cucchiaiata di << brodo >> : la misurano e la percorrono, alla stregua del le grandi distanze, i cucinie r i. Siamo in parete, sul " liscio l>: o quello getta

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una corda, o son pasticci. Il primo personaggio da considerare è proprio quello che dovrebbe gettare la corda della salvezza definitiva: un autentico, « vero >> personaggio, e tutt'altro che da << vignetta» intesa nel senso più svalutato. Solido, poderoso , diverso solo di grado da tutti gli altri « veci», sta piantato a gambe larghe davanti alle marmitte come davanti a due da strigliare e magari da punire: sì, non c'è dubbio, assaggiare è giudicare un intero ciclo di lavoro fondamentale per l 'intera comunità, quindi egli come giudice deve stare e come giudice, in effetti, sta . Ma guardiamo meglio: quale strano contrasto tra l'imponente impianto della figura e la grazia con la quale una bella manona regge il cucchiaio che quasi scompare! Il braccio destro è in posizione da compiuta etichetta conviviale, si vede che fa di tutto per portare mano e cucchiaio all'altezza delle labbra, come si conviene, in sintonia con la serietà del rito. Ma il braccio sinistro s'è cacciato soldatescamente dietro la schiena, quasi a puntellare istintivamente la mole che preme sulle ginocchia e dolcemente le piega. Il comandante è un « vecio » come i suoi alpini, ha la loro grinta, ma anche il loro formidabile appetito: e s'intuisce. Rinuncerebbe a un po' di posa (quel tanto che basta, però indispensabile) , ma deve tutelare i diritti degli altri. Già! perché quelli che lo circondano sono, anch'essi, suoi alpini, ma sono i cucinieri; gente maledettamente in gamba, ma qualche volta un po' troppo. Il rancio sarà una << sbobba » ma dev'essere una « buona sbobba » . Tutte cose che i cucinieri sanno bene, anzi benissimo. Guardiamo l'uomo di sinistra: non si sente tranquillo. Non è veramente fermo, sta per muoversi, per fare qualcosa, non si capisce che, ma qualcosa. Le sue braccia proseguono, in grande, con le spalle, lo stesso « circonflesso » appena accennato del sopracciglio; anche le gambe; non sarà fifa, ma non è certo sicurezza, spavalderia; neanche se teniamo conto del fatto che la mano destra tiene il mestolo , né più né meno , come un randello. Che anzi , proprio questo fatto maschera, sotto un gesto abitudinario, familiare, una forte apprensione . Evidentemente c'è sotto qualcosa , e qualcosa che assolutamente non va. Basta guardare at-

tentamente, alla nostra destra, in secondo piano, quella figura veramente « audace n di uomo dall'apparenza minacciosa e, in primo piano, l'altra, mirabile di sintesi espressiva, di uomo che trascina, aggrappato con tutt'e due le mani alla maniglia, una marmitta di rincalzo. Che sta per fare, o che vorrebbe fare , l'audace? L'atteggiamento, con quel pugno sinistro chiuso, parrebbe quello d'uno che sta guardando un avversario da coprire di botte: il che, ovviamente, non può essere, è assurdo. E allora? Secondo noi, nessun dubbio che l'atteggiamento non è pacifico: della rabbia c'è, anche se fortemente annacquata dì ansia, neutralizzata da eccesso di tensione. Il vecio pensa: <l Vediamo se anche stavolta ha il coraggio di dire " Ottimo! " e di inghiottire senza fare almeno una smorfia. Accorto se n'è già, ma deve anche dirlo che il rancio è cattivo: e non per colpa nostra, semmai degli ingredienti che ci danno, noi non possiamo fare miracoli». Oppure pensa un'altra cosa: « Sta a vedere che avrà il coraggio di dire che è cattivo, dopo la sgobba ta che ci è toccato fare. Sù , sù, bello! dacci un po' di soddisfazione: tant o è naja per tutti ». Tutto sommato, pensa tutti questi pensieri insieme. E' il primo della fila per la distribuzione e pensa anche, forse, a qualcosa che non· riuscirebbe mai a dire, qualcosa di grosso . Dietro di lui c 'è uno cui l'appetito soffoca ogni reazione : sembra schifato, ma è solo un realista incallito. Il personaggio - chiave è però quello di scorcio in primo piano, che ha tutta l'aria di chi si volta di scatto, perché ha sentito qualcosa o s'è improvvisamente ricordato di qualcosa. Forse il comandante ha già fatto qualche osservazione, ha tJÌSto qualche corpo estraneo; il che spiegherebbe meglio lo stato d'animo de!l'audace minaccioso, rid ucendo il tutto alla rappresentazione d'uno che cerca di vedere il l< corpo estraneo» per potersene difendere in tempo. Forse il trascinatore di marmitta, uno di quei mezzi colossi che parlano cantando con cristalline voci tenorili, aveva dimenticato, del tutto o quasi, di mettere il sale, o di capare riso o pasta prima di met t er giù. A t e, lettore!

Non si può guardare una scena simile senza sorridere e goderne in più o meno santa

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semplicità. C'è dentro un intero mondo , e tanta parte di tutti noi. C'è, in una di quell e ese mplificazioni artistiche cui giunge spesso l'umorismo, con so rpr ende nti risultati, la « prosa l> del momento nutritivo dell 'es istenza, con tutti i sottintesi, ma anche con tutte le chiarezze d'un dis co rso intorno alle difficolt à estreme del mangiar e insieme le stesse cose, specie quando c'è mo tivo di dubitare che siano cose del tutto buone Vera a r te, ve r a vita.

Il testo dedicato alla distribuzione del rancio lo dobbiam o ali' affettuosa premura dello stesso autore del ciclo iniziale sui momenti dell'iscritto di leva: BRUNO BARATTI. E' , anzi , purtroppo, era un pannello in ceramica, un a piastra esposta anch'essa alla Mostra romana del 1942. Ne riproduciamo forse l'unica foto esistente, anch'essa in bianco e nero , rinviando , per la considerazioni del caso , a quanto detto nel primo capitolo.

Diciamo subito, sempre sorridendo, ma stavolta a fior di labbra: << Marmitta torna pentola ))' rifacendoci, senza irriverenza alcuna, al << Zolla ritorna cosmo >> di Arturo Onofri. Meno frequentemente, ma torna anch'esso, nella memoria , così com'era ricor so nella vita, il senso forte , maschio eppure venato di strane delicatezze , de lla poesia del rancio. Sarà stato il gusto dell'appartarsi in solitudine con la gavetta tra le mani , per intimi colloqui sognati; o quello de llo stare a gruppi affiatati , selezionati, per liberi scambi di pensieri e battu te; o anche quello, veramente goduto, di un cibo trovato ottimo perché di stribuito nel mezzo d 'una faticosa marc ia , e innaffiato con un gavettino di << quasi buono », o con una razione di grappa. Sarà stato quel che è stato, volta a volta; e nella memoria tutte queste cose insieme. L a poesia si sco n ta con la prosa; ma la prosa dà diritto alla poesia . In ogni tipo di vita; perché non in quella da soldati? Specie all'aperto, al campo o nei suburbii non ancora devasçati dalle ruspe, marmitta torna pentola e gavetta e gavettino e borraccia tornano << servizio >> familiare. Invece di dire, intitolando il capi tolo, « prosa e poesia intorno alle marmitte >>, avremmo anche potuto dire << guerra e pace intorno alle marmitte » Nel primo testo abbiamo potuto leggere d'una cer-

ta gue rra ; qui lc::ggiamo, 10 tutta l'estensione del termine, pace.

Proprio la pace ci sembra che BARATTI abbia ricuperato , attraverso la poesia, dal profondo d ' un mom ento che possiamo dir e tutt 'al tro che magico, ma non tutt'altro che misti co. Non capita spesso, ma capita, nell a vita da soldati come in ogni altra vita, di r icevere la nostra parte di cibo e di guar darla e co nsumarla pensando a quanto vale il cibo per ogni creatura; a che cosa esso è, che cosa sign ifica, che cosa rappresenta, che cosa costa, che cosa non è stato e sarà cos tret to a fare l'uomo per averne il diritto e l'effe ttiva disponibilità. E non è necessario pe nsare alle guerre, alle stragi, da Caino in poi Chi h a soffe rto, alme n o una volta, la fame, può com prendere bene ce rte cose. Ecco, in questa opera di Baratti c'è una rappresentazione del rancio non come fatto ovvio, scon tato, ma come fatto trasfigurato, però in p erfetta aderenza alla realtà . Guardi amo l' impianto forte, so lido, per volumi, dell a co mposizione, la sicurezza calma che spira da tutte le figure, compresi i tre colombi, la marmitta e la stessa gavetta che, di fianco , le si sposa Gli sguardi e gli orientame nti dei gesti conve rgono sul cibo per il tram ite del suo contenitore, facendon e il cen tro della sce na. Ma questa , pur nella sua com p atta unità, ben inscrivibile in un archetto, è non solo sca nd ita, ritmicamente, ma liberata, anche spazialmente oltreché intimamente , alitata creativamente , da ciascuna figur a, auto noma pur nelle strette co nnessioni con le altre.

Anzitutto, la figura del cuciniere suggerisce una valutazi one partico lare , che fa leva sulla posizione occupata (di tre quarti , così d a lasciare solo intuire il viso attraverso il profilo del lato destro lascia to filare dalla fronte in giù dopo averlo fatto uscire dal tiepido dei capelli giovanili) e su lla morbidezza della trattazione, che al naturale levigato della ceramica aggiu nge una preziosa animazione di panneggio, squisitamente pittorica. L'accento dell' Autore ci sembra posto sul se rvizio che il cuciniere rende più che su l cuciniere stesso. Una sorta di voluto 11asco11dimento, che ric orda quello della m adre di uno dei partenti , nella prima scena, rappresentata di spalle per con-

sentirle di meglio nascondere la commozione. In evidenza, la mano che tiene, non con tanto « mestiere )), il mestolone.

Di fronte al cuciniere, stagliato in controcanto più che in contrasto tonale, di colore, quello che prende il rancio, che ricet'e il servizio. Un volto mansueto, usuale, soffuso, più che illuminato di bontà << naturale » : il classico u buon carattere ,, capace di gratitudine e di normale contentatura. E ', con ogni probabilità, uno di quelli che abbiamo guardato partire, porta già la divisa con estrema disinvoltura, e si appresta a mangiare con la stessa semplicità con la quale lavora e dorme. Non si può non notare l'amabilità con la quale viene incontro al commilitone che lo serve facendo aderire il bordo della gavetta all'orlo della rÌ1armitta, perché tutto « vada a finire dentro " · Nel suo sguardo e nel suo atteggiamento globale è chiaramente implicita la continuità della sua esistenza attuale nei confronti di quella trascorsa nel clima domestico. E' uno di quelli che alla << naja » portano e portano gene rosamente. Diritti, tutti; pretese, nessuna. Tra le due teste e le due mani, e, sì l tra il mestolo da svuotare e la gavetta da riempire, c'è non solo assenza di ostilità, non solo pace, ma dialogo , silenzioso ma fitto, efficacissimo. L'assaggio, se c'è stato, dev'essere andato bene, oppure non ha lasciato strascichi. Il rancio, dopotutto , non è un banchetto dì nozze: è rancio; può essere cattivo, e può essere anche

buono. Come d matrimonio assimilato dalla ca nzonetta al « mellone ,, che, con buona pace di venditori e consumatori, « può uscire bianco e può m·cìre anche rosso '' · Due filosofie, spicciole, ma sode; c soprattut to senza vera malignità.

Intorno a due esemplari umani di tal genere, come intorno a tutti i " puliti » , niente paura , in pace; quanta , invece, con ogni probabilità, in guerra. Ecco qu a i due colombi , dipinti a soffio , fatti d ' aria: che hanno di meno della loro illustre collega picassiana? La firma , e basta. Di deliziosa fattura, creano, tra i piedi dei soldati e il piede del pannello, uno spazio- momento di limpido lirismo. Né giova che quello di sinistra sia come impennato, alla maniera d'un galletto, più che d'un colombo; e che quello di destra stia palesemente in attesa della " mestolata '' di mangime; né che entrambi siano lì per motivi decisamente prosastici. Sono poesia, sono il sottofondo mirabilmente spirituale che Baratti impiega per meglio esprimere il valore delle cose materiali. D'altronde, il terzo colombo, perché e su che vola? Per la gioia di volare e per la necessità (se fosse possibile) di predare: come tutti i re e i sudditi dell'aria. Ma intanto vola, ad ali aperte. Sul rancio: sulla distribuzion e del rancio. Su due semplici soldati e su una marmitta fumante. Vola. Come l'arte, quando c'è, che ha bisogno solo delle sue ali, e di qualcosa da cui attingere il nutrimento.

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LA PULIZIA È SALUTE, ANCHE PER LE ARMI.

Avremmo dovuto far riferimento a questa tavola di QurNTO CENNI, raffigurante la cerimonia della « Doccia », fin dal II capitolo, là dove abbiamo cercato di proporre elementi di valutazione per la condizione storica dell'uomo nudo, dell'uomo coperto e dell'uomo t' estito, in funzione del nostro discorso sull'uomo in divisa o uniforme, del soldato. Ma abbiamo preferito puntare sull'efficacia del confronto diretto e inatteso, alla sprovvista, tra uomini nudi e uomini in div-isa, tra i due estremi del discorso medesimo, reso possibile dalla proposizione d'un testo in cu i questi estremi si integrano e fanno unità, a contrasto, sprigionando tra veli di delicato umorismo e di patetica serietà un buon getto d'acqua di tlerità.

Di cerimonia sì tratta, non c'è possibilità di dubbio; una cerimonia d'altro tempo, comportante una vera e propria operazione, ma sempre cerimonia. Del resto, oggi, per quanti vivono in zone raggiunte dal progresso (tra gli altri ci sono quelli che s'accontentano d'una pozzanghera) il complesso delle operazioni che rendono possibile la cerimonia (e non solo questa) è nascosto, perché si svolge altrove , per automatismi al coperto, ma c'è, e come! Cerimonia; cerimonia rituale. Tutto deve svolgersi nel più fedele rispetto della solennità di ciò che è doveroso e della festosità di ciò che si fa liberamente, spontaneamente, per convinzione se non per amore. In ogni cerimonia rituale, infatti, la solennità, o più propriamente la maestosità, attiene alla carica di obbligatorietà, religiosa o laica , di ciò che si svolge, e che si fa in comune; mentre la gioia, quando c'è, la vivacità, l'eccitazione, attengono al grado di comunione di chi partecipa. Chi le contesta, lo fa inscenando, a sua insaputa, una cerimonia alternativa bell'e buona; e se riesce ad abolirle, presto o tardi le sostituisce con altre di suo gradimento o comodo; quando non le con-

testa e le abolisce proprio perché fanno concorrenza alle sue cerimonie, già ricorrenti.

Insomma: le cerimonie ci vogliono, ma in realtà son volute, sì vogliono; perciò chi vi prende parte , in maggiore o minore misura ne gode, fa festa.

L'abluzione, ufficialmente o no, è sempre stato un fatto religioso . Il << bagnetto » che facciamo (o che facemmo, ohinoi !) ai figli, in restituzione di quel che fecero a noi i nostri genitori (senza offendere le madri, anche molti padri), nonostante il vezzeggiativo che, accentuando la festosità, sembra attenuare la solennità, è sempre un avvenimento, una vera e propria cerimonia. Così all'inizio, così durante, così al termine dell'esistenza. E' vero: non è ques t a la sede per un discorso sui riti, misterici e no, imperniati sul!'acqua che lava e purifica, pulendo, rinvigorendo e nobilitando il corpo dell'uomo. Ma come non invitare il lettore a tenerlo presente, questo discorso, come già fatto, nella lettura di questo così garbato Cenni , un testo sereno ma illuminante quanto insolito?

Consideriamo insieme l'impostazione della scena.

In primo piano, più di spalle che di tre quarti perché è sufficiente la presenza ben corposa, collocata in una posizione, l'addetto alla vigilanza: anzi , ,, la vigilanza». Subito dopo, l'insieme materiale ed umano del <<servizio» che occupa la maggior parte dello spazio ed è dominante al centro della scena; non di proposito, ma di fatto, quasi a significare che l'importanza di ciò che avv iene si concentra nella messa a disposizione e più ancora nella imposizione, appunto « rituale », dell'acqua. La pulizia è un dovere, fa parte della coscrizione obbligatoria . Sei di quelli che da bambini si chiamano (( nati puliti »? Tanto meglio per te: che goduria l O sei forse di queg l i altri,

IV

dei quali si dice, curiosamente , che (( sono nati sporchi >> ? Beh, abbi pazienza: meglio tardi che mai; farai l'abitudine e finirai per desiderare questo momento. I quattro, dal « vigilante >> in giù, sono benignamente seri; e proprio per questo, deliziosi. Si guardi quello che pompa: quanto crede in quello che fa! E quello che manovra la doccia? Solo un distratto potrebbe scambiarlo per un pubblico giardiniere intento ad innaffiare aiuole. Sì, è vero che se lo guardiamo coprendo con una mano i << nudi » somiglia a tanti che << innaffiano n come se salvassero un mondo dalla siccità; ma è anche vero che se lo guardiamo più attentamente ci accorgiamo dell'occhiata << d'ordinanza » che dà al primo dei <• nudi », in atto di chiedere, ci sembra, più acqua, o di osservare che « è troppo calda >> o << troppo fredda >> .

L'équipe del << servizio>> è in divisa; del capo bisogna dire veramente che è in uniforme, completa di mantello e di sciabola. La dimensione è perfetta, nelle sue allusioni. Sotto il vestito, e particolarmente sotto la divisa, bisogna che ci sia un corpo ben lavato Non ci si veste per coprire qualcosa che non deve esser visto, per ingannare con panni puliti il mondo in cui viviamo; ci si veste per crescere, qualificarsi, comunicarsi. La divisa va portata come una garanzia visibile di nitore invisibile ma esistente. La tua vita da soldato ti fa faticare e sudare, costringe il tuo corpo a gemere umori con particolare generosità E dunque, sotto la doccia, march! Non esattamente così, ma in un clima « così >> . D'altronde, per un soldato anche la salute è un valore da tenere costantemente « nei ranghi >> : conservarla, nei limiti delle proprie possibilità, è un dovere tra i doveri e l 'Esercito, mentre te lo impone, ti aiuta ad assolverlo, a compierlo. Sotto la doccia, march! Non si sa mai : non tutti i possibili nemici sono uomini; ci sono anche le bestie, nella specifica rappresentanza degli insetti. Difenditi, opponiti, con un corpo uscito ancor più giovane e splendente dai lavacri, alle insidie di tutti i parassiti del corpo e dell'anima. La disciplina ti libera anche in questo senso, in questa direzione.

Un cotale dispiegamento di mezzi e di Impegno, di organizzazione e di sapienza, che

riempie il più dello spazio dell'intera sequenza, si riversa con tutto il suo ca ri co di se ri età sui sei di turno nel « servizio a nudo )) che è, qui, incontestabilmente, la pulizia del proprio corpo: un servizio pubblico , sociale, e solo così, ben di diritto, servizio militare (l'infinito aggettivato, che strumento espressi vo!). Dopo, sotto a chi tocca; i turni si susseguono, ci sono già entrati o ci entreranno anche quelli che stanno dall'altra parte, dietro il parapetto con tanto di pedana.

E i sei, deposte le vestimenta, fanno di tutto per non sembrare più quello che ancora restano e continueranno a restare (come tutti) ogni volta che saranno al centro di simili .attenzioni: bambini al rito del << bagnetto». Occupano un ristretto margine dello spazio che ci sta davanti , sono la conciusione del discorso figurato; ma in definitiva sono i protagonisti, non solo del contrasto, ma dell ' intera signifìcazione del testo: uno per uno.

In fondo , rapidamente ma efficacemente disegnato, c'è uno che << fa le forze>> , a braccia conserte, per fronteggiare la violenza del getto d'acqua non semplicemente da soldato, ma da intrepido soldato. Al suo fianco, ma volgendogli le spalle, c'è uno dei tanti cui, sotto la doccia, pizzicano gli occhi; e se li copre con una mano, ma tenendo il braccio in modo che a noi sembra si sia accordato col Cenni per farne cornice a mezza testa del << forzuto> >. Onestamente, questi primi due non sono molto reattivi. Ma eccolo, subito dopo, il « reattivo >> , uno di quelli che sotto la doccia << lavorano )) sul proprio corpo. Il Cenni del << Codice >> offre ben di più in materia di sfruttamento dello spazio; ma anche in questo caso non scherza e dà un piccolo saggio della sua capacità di disegnare su un coriandolo dicendo qualcosa di comprensibile se non proprio di chiaro. Il << lavoratore », stretto, << infilato >>, tra il secondo e il terzo personaggio in piedi, si china agguantandosi la gamba da detergere con presa ginnica; a dire il vero, potrebbe anche cercare il pezzo di sapone scivolatogli sul più bello. Ma quello che gli sta dinanzi come una piccola torre, << duro e piantato lì come un piolo», non se ne cura minimamente; è il più disinvolto , quasi indiffe-

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rente, l'unico, si direbbe, a sentire la faccenda come ordinarissima amministrazione; i suoi antenati sono forse nati nei pressi d'una cascata. Il quarto, anzi, il quinto, ancora più assente a tutto ciò che non sta in lui e per lui , se gode, la doccia; è un buongustaio dell'abluzione; e ci si compiace con tutto il corpo che il Cenni gli ha ben disegnato, non senza una dose di vanità. Il sesto riassume visibilmente la miscela psicologica sulla quale infuria l'acqua alla maniera e con gli effetti d'un fascio di luce: l'eccitazione d'un residuo pudore disturbato, con un senso di liberazione Iudica in cui la giovinezza si propone come ultima infanzia, un po' ·di gratitudine, un po' di sfida, un po' di beffa. Il tutto fa festa; accenna a danzare, infatti, istintivamente , quanto il tutto dei quattro in divisa fa, senza una grinza, << ordine chiuso>>.

Ci si pone, marginalmente ma non troppo, un problema, che giriamo al lettore. E' possibile che l'uomo abbia sentito il bisogno di lavarsi (non la curiosità e il piacere di bagnarsi) solo dopo essere stato, per un certo tempo , coperto, o addirittura solo dopo essere stato, per un certo tempo, vestito? E per amore del corpo o per amore dei vestiti? E' un grosso problema, con dentro una sorta di dramma in cui appaiono anche gli olii preziosi e i profumi, e che era ancora in cartellone per tutto il Settecento e l'Ottocento; con non quotidiane repliche nel primo Novecento. Un grosso problema, troppo più grande di noi

Qui ve ne sono posizioni e spunti risolutivi diversi. Alla nostra destra sembra si dica:

« Per godersi la divisa, bisogna spogliarsi, sentirsi nudi e indifesi, lavarsi e rivestirsi ». E sembra lo si dica in tono piuttosto perentorio, ma in atteggiamento di servizio, sia pure con vigilanza. Alla nostra sinistra sembra si dica:

« Per capire quanto si può esser liberi completamente nudi e indifesi sotto una buona doccia e godersi questa libertà; per capire quanto sia bello sentirsi puliti dalla testa ai piedi, bisogna portare la divisa , stare in divisa notte e giorno, persino dormendo. Appena ci saremo rivestiti, ci sentiremo nuovi di zecca ». Insomma, c'è chi non vede l'ora di spogliarsi e chi non vede l'ora di rivestirsi. Ma sì, è un pro-

blema. Quante cose già risolte non restano , sostanzialmente, problemi?

Molti anni separano il mondo, candido e sornione, della doccia d i Quinto Cenni da questa « Pulizia alle ar:mi » di DARIO CEccHI. Quasi, o senza quasi, quanti sono quelli che separano il m:ondo dei primi anni Quaranta dal mondo d'oggi. O ancora di più? Comunque sia, il valore della testimonianza artistica ne esce incrementato. Anche questa << Pulizia alle armi », insieme ad altri due bozzetti ad olio , << Pratica d'armi» e <<Maschere antigas », che non abbiamo reperito , fu esposta alla Mostra romana del 1942. Fino a che punto è vero dire « trentacinque anni fa »? Fino a quando, crediamo, saremo noi a dirlo ; noi testimoni viventi di quelli e di questi giorni ancora, perché portati dalla planetaria ondata di marea che è riuscì ta a lambire e spruzzare le coste della Luna dopo aver fatto la doccia ai cinque continenti.

Il fatto è che dopo ogni flusso c'è il corrispettivo riflusso; e tutto il gigantesco, il colossale, il planetario, di certi atti storici, dopo aver sommerso le piccole cose, le operazioni elementari di tutti i giorni, si ritira e le scopre: così esse tornano ad essere, e ad essere al sole, non importa molto se là invece che qua e con le debite trasformazioni. Ciò che importa molto, sempre e dovunque, è il rapporto tra l'uomo e i suoi problemi e gli strumenti, visibili e invisibili, della loro soluzione.

Una << pulizia alle armi >> immaginata col pensiero rivolto alle armi d'oggi, in generale, sarebbe certo tutt'altra cosa. Ci vorrebbe ben altro che una camerata per scenario! E bisognerebbe evocare personaggi di ben diverso tipo. Roba, al limite, da laboratori scientifici, e da scienziati; in ogni caso, da officine e da tecnici specializzati ad alto e altissimo livello. Ma su quale terrazzo , o gradone, della terrificante piramide degli armamenti attuali? Giù, alla base de1 mostro, nello sterminato territorio che essa è , ci sono i milioni e milioni di uomini per i quali la <<pulizia alle armi >> consisterà sempre, sino alla fine, nel pulire e lubrificare il proprio corpo, una mitragliatrice, un fucile, una pistola, nell'affilare un coltello. Al dunque, l'uomo che deve difendersi perché

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gli eventi gliene impongono il dovere prima ancora di dargliene il diritto e i mezzi, finisce per situa rsi anzitutto psicologicamente nella tattica, non nella strategia. Specie in clima bellico, u armi >> significa cc le mie armi >> , (( la mia arma » : il potenziale su cui poter contare ai punti estremi per non socco mbere.

Di fronte a quest'opera di Dario Cecchi, di sapore decisamente 1915- 18 nonostante il tono e il gusto anni Trenta , vagamente « ermetico » , il nostro discorso diventa st ranamente c< facile »; sgorga e fila come una vena d'acqua sorgiva, sotti le sottile, in un lieve declivio erboso: scende dalla memoria, dalla nostra, così com'è sceso dalla memoria dell'Autore. Quanto diverso da quello, pur facile anch'esso, che abbiamo potuto fare sulla doccia del Cenni!

Il quale ha fatto, sì, anch'egli, come ogni artista, l'operazione dì memoria che è alla base di ogni creazione; ma ha fatto, in risultanza, opera da memoria più che di memoria. H a scelto una realtà « effettuale » e l'ha interpretata per tramandarla. Il Cecchi, invece, assediato da qualche particolare ricordo, lo ha dolcemente assecondato, ha soffiato basso sulla brace e ha cercato di ravvivare il fuoco. A quanto pare, è arrivato al « bozzetto» e ci s'è fermato, di proposito, perché s'è accorto di starei bene. Era la dimensione che voleva ricreare, giusta, precisa; ma non nella direzione degli elementi individuanti, a cominciare dai volti dei commilitoni fino agli oggetti di contorno; piuttosto in quella d'una particolare situazione umana , entro la condizione militare, qua li ficata da un clima di sogno, da un abban.dono attivo, da un rilassamento operante, vicino sempre epperò mai sulla soglia dell'otium di antica memoria. Chi ha vissuto certe esperienze, non avrà alcuna difficoltà ad accetta re queste notazioni dalla c< apparente » formulazione ermetica: la vita di caserma attraversava, lo ricordiamo anche noi , zone come di languore, di inspiegabili o spiegabilissimi struggimenti, che l'abitudine assorbiva in chiave di saggezza e travasava intimamente in meditazioni più o meno profonde a seconda dei soggetti interessati, o in fantasticherie brulicanti sotto la tenda di certo tipo di occupazioni. Una dì queste occupazioni era proprio la pu-

lizia alle armi, programmata, ad orano, ma considerata e vissuta in un clima di « tempo libero » mi generis , ad una generica e non eccessivamente chiara insegna di <c libertà » Ciascuno dì noi potrebbe spiegare anche in più d'un modo il fenomeno: ma sarebbe, più che una spiegazione, una rievocazione, la ricostruzione d'un momento personale entro la vita comunitaria; ancora il fatto, non la sua sp1egaz10ne.

Giova, però, se non tentare appunto una spiegazione, respingerne subito una tra le possibili: quella c he, riallacciandosi al discorso da noi fatto, lo traviserebbe capovo lgendone addirittura la sostanza. La pulizia alle armi proprie, di reparto e personali, o <<individuali » che dir si voglia, si svolge nel clima che abbiamo evidenziato, e lo alimenta, perché (secondo la spiegazione che respingiamo) essa catalizza, con un processo da manuale, la genesi di tutti i sentimenti negatit•i nei confronti delle armi: dall'indifferenza e dal fastidio all'odio, e all'amore fanatico, passando per la noia, la nausea, la trascuratezza punitiva. Non co-ncordiamo. Concedendo le eccezioni, com'è giusto, noi crediamo che il soldato italiano abbia sempre considera to la pulizia alle armi come una faccenda domestica, di famiglia: una delle tante che si sbrigano secondo un rituale automatico, sta ndardizzato , ma non per disamore, per apatìa o per tic; piuttosto, al contrario, per la carica di tranquillità che danno sempre le azioni intimamente ritenute necessarie perché produttive, non perché obbligatorie. La padronanza artico lata, capillare, dei gesti da compiere, inoltre, assicura della bontà del lavoro che si compie, anche se, mentre lo si compie, si discorre, si fantastica, si canta Nessuno ce ne voglia: la donna di casa non si comporta diversamente nel quotidiano disbrigo delle sue faccende; borbotta, o strilla, o ride, o canta, o coccola qualcuno dei pensieri preferiti, ma senza che l'esecuzione del lavo r o ne soffra.

Un testo che ci proponesse la <• pulizia alle armi » in altra prospettiva e significazione, rischierebbe seriamente di camparsi in aria, di campirsi nel vuoto di tutto ciò che è falso: la rettorica lo renderebbe persino ridicolo.

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Questo di Cecchi, invece, si raccomanda proprio per la sua serietà alla buona : diciamo all'italiana, a mo' di elogio. La scena è vista come dietro un velario, il velario della memoria rinfocolata ma non sino alla fiammata; e di tutto ciò che si vede dietro un velario ha la delicata poeticità e la forte suggestione. Si noti subito l'atmosfera in cui si ritrovano e tengono anche i segni- appunti per figure non sviluppate, la te sta un po' più cresciuta e quel vagheggiamento di fisionomia che non riesce a spuntare dal margine destro del quadro. E' una bella giornata: il ricordo d'una bella giornata. Cos'è il tenero che spalanca, attraverso la finestra, la camerata? Un mare - cielo, un cielo- mare; o soltanto un fondale onirico su cui meglio proiettare, a dolce luce, l'evocazione intensamente nostalgica dei quattro commilitoni irresistibilmente risucchiati dall'aperto? Può essere anche tutte queste cose insieme; l 'i mportante è che esso diventa il segno di tutta la composizione. Lo sentono i due sicuri, concentrati ma rilassati, che, con tanto di manuale a portata di mano, fanno toletta al fucile mitragliatore. Lo sentono i due seduti e placidamente, da « anziani», assorti in conversazione. Lo sente quel cc tutto soldato >> in piedi , con le piattaforme ad angolo e tra le ginocchia il suo « paziente » sotto gli esperti sondaggi dello scovolino. Lo sente chi guarda, chi legge, perché è l'elemento di paragone per la pazienza che anche a lui comunica la scena. Ecco, la pazienza. Chi vuole ripercorrere la sua vita fino ai giorni e alle situazioni in cui

visse e condivise con i più diversi esemplari del nostro popo l o questa t' irtù in lento declino? Da non confondere, sia chiaro, con le imitazioni cui van dati altri documenti d'identità: come la pigrizia, l'indolenza, la pavidità, la viltà. Ora, chi non è disposto a sottoscrivere ogni affermazione che ribadisca, se non un primato, un'egemonia, certo una nostra posizione di avanguardia, di testimonianza perenne, in materia di pazienza come virtù? E proprio nelle manifestazioni semplici, elementari, in quelle non- eroiche, cioè non ai confini tra vita e morte. la vera pazienza, la pazienzavirtù, si rivela. Si può, diciamo si può, diventare eroi per forza; ma non si può assolutamente essere pazienti per forza. E se il paziente è un eroe in potenza, l'eroe può anche essere un paziente.

Anche il testo di Dario Cecchi è da collocare tra quelli che raccontano la vita dell'Esercito Italiano su moduli senza pretese, a volte apparentemente dimessi fino alla sciatterìa, ma all'insegna d'un vero sforzo conoscitivo, d'un sincero amore, d'una onestà, anche artistica, incontestabile.

Poiché parliamo di pulizia alle armi , in chiave d'igiene, non sarà fuor di luogo considerare che anche l'arma arte trae un grande giovamento per la sua salute e per la sua efficienza da una cura costante della sua pulizia.

Lo sporco, per essa, è sempre rappresentato dalla rettorica, dalla falsità; e dalla presunzione, dalla megalomanìa.

LE ESERCITAZIONI: LA STORIA SI FA PREPARANDOLA.

ALLA SCUOLA DEL CA V ALLO. E DEL MULO.

La pulizia è salute , ma la salute va difesa; e il miglior modo di difenderla è conquistarla, continuamente, verificandola , mettendola alla prova. Tutto il senso delle esercitazioni è qui. Nessun uomo normale può desiderare, tJo/ere la guerra; ma nessun uomo normale può smettere di esercitarsi anche alla guerra per il semplice motivo che non la desidera, che non la vuole. Le esercitazioni , in ogni campo, consumano guerra in pace. Ogni atto è fine a un altro atto; ma può anche valere, proprio per la sua carica, per la sua tensione, anche se non si riversa in quell'atto, dal momento che produce sempre qualcosa, non fosse altro che se stesso.

Anche la libertà, quando non è difesa di se stessa in una guerra vera e propria, è consumo di guerra in pace. E che consumo, e di quale guerra! La libertà è la più alta, la più integrale salute; ma è un'interminabile ese rcitazione con se stessa, attraverso le sue inesau ribili incarnazioni La libertà passa per la disciplina come l'aria per le vie respiratorie e il sangue per le vene. C'è sempre, in assenza di fini vistosi, o mancati , un fine senza pari: la vita, la vita da uomini , liberi tra i congegni e le armi della necessità.

Ci soccorre ancora , co n questo « Mane ggio », QurNTo CENNI. Libertà contro libertà, si direbbe. E non ci formalizzeremo nella distinzione tra libertà di animali e libertà di uomini, perché saremmo costretti, poi, a formalizzarci nella distinzion e tra i vari gradi della nostra libertà , e addirittura tra vera e falsa libertà.

L'uomo libero ce rca soci, compagni per l'avventura dell a libe rtà: umanizza il cavallo. Tra tutti gli animali, infatti, solo l'uomo ha bisogno, per sé e per gli altri, di disciplina ;

perché è l ' unico a co noscersi. E quando rifiuta, in parte o in tronco , la disciplina, vuoi dire che ha deciso, sia pur e inconsciamente, di rinunciare alla lotta per la vita in libertà: in altre parole, vuoi dire che ha deciso di porre fine alla sua e all'altrui vita. Si guardi con quanta forza organizzata e concentrata questi uomini si impegnano nella cattura dei cavalli, di quelli che saranno i loro cavalli . E si guardi , anche, l'esplodere negli occhi, più che nel galoppo, degli inse guiti, d'un desiderio di fuga mitigato da un misterioso se nso di piacere, da un entusiasmo Iudica spiegabile, per assurdo, soltanto con un inconscio desiderio d'esser presi, d'essere arruolati. Cavalli - coscritti, cavallireclute, cavalli -soldati , cavalli- combattenti, cavalli - eroi : ma è s tato l 'uomo a cercare ii cavallo, o non piuttosto il cavallo a cercare l'uomo? Noi siamo spesso tentati di dare la seconda risposta Ormai , del resto , sembra che il cavallo sappia che l'uomo, dopo avergli razionato lo spazio, glielo restituirà; non solo: ma che sarà lui, il cavallo, a riportare nello spazio libero ogni uomo che non abbia del tutto rinunciato alla libertà in cambio di certe dorate stalle, di certi stregati maneggi coperti. Naturam expelles furca . Certo, è un mistero , un gustoso, annitrente e sca lpitante mistero. Ma come non accorgerci che in tanta fierezza di lanci e di prese di laccio la nota dominante è un infantile bisogno di aver la meglio solo per poter meglio vivere in profonda comunione? << Ho biso gno di te, ma come faccio a dirtelo in altro modo? >>. Una sentenza , e ci sia consentita: così fa l'uomo con la donna; anzi, la donna con l'uomo. E così (si scandalizzi chi vuole e può), nel rispetto più assoluto della libertà, fa Dio con l'uomo e con la donna. L ' Essere , l'esistere , il vivere, tutto al-

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l'insegna delle esercitazioni : anche il monre, cioè il mutare dimensione.

Chi direbbe, senza averci ragionato un po· co intorno, che questi delle « Esercitazioni mi· litari » di GIOVANNI FATTORI siano, o quanto· meno possano essere gli stessi cavalli del ma· neggio cenni ano? Si fa per dire, evidentemen· te. Una cosa è certa: sui piani alti dell'equitazione, per rendersi conto di quel che sia il cavallo bisogna assistere al classico rifiuto dell'ostacolo; diversamente, si è portati a credere che la volontà del cavaliere è assolutamente sovrana . Ma qui sembra che i cavalli abbiano raggiunto lo scopo perseguito: portare gli uomini ad esercitarsi. E con quale semplicità, con quale disinvoltura! Merito del Fattori , si comprende Del maestro livornese è stato tan to detto, ai debiti livelli di competenza, che non osiam9 avventura rci in considerazioni equivocabili Ci sembra opportuno !imitarci a sottolineare quella che ci sembra la caratteristica di questo testo: Punità nella quale, amorosamente, si sciolgono tutti gli elementi compositivi. In tale unità, che coinvolge paesaggio, cavalli, soldati, paesani, e persino quel disincantato cane campagnolo, l'esercitazione militare è sdrammatizzata, ridotta all'osso: quanto dire che appare nella sua luce più giusta e vera: è un momento di vit a, della vita. Non è ritagliata, staccata, perché possa imporsi come su un piano diverso dagli altri piani. Si svolge, in casa, quasi in famiglia, come un qualunque evento fondamentale, importante. Ed è qualcosa di corale, ai limiti, se vogliamo, del generico, ma senza che ne venga sminuito il tono dell'apparizione, la concretezza della presenza di tutti e di ciascuno Sì, non c'è dubbio neanche per il Fattori: esercitarsi non è che vivere; tutto d eve compiersi e per compiere bisogna fare. Del resto, il maestro non ha fatto che esercitarsi, anche lui, per tutta la vita; e ne ha lasciato, di quadri! Può proprio essere vero che l'opera migliore la si produce preparandosi al capolavoro che può non venir mai.

Il capolavoro, viceversa, può consistere (diciamo può) in tutto un ciclo di piccole cose fatte e anche subìte e anche desiderate e solo tentate. Il mulo fatto per camminare quanto il cavallo è fatto per correre; il mulo fatto per

sparar calci quanto il cavallo è fatto per impennarsi; il mulo dimesso quanto il cavallo è appariscente; il mulo fatto per le lunghe sgobbate quanto il cavallo per le sfuriate brevi, intense e brillanti, è non tanto il simbolo quanto la sintesi vivente di ciò che possiamo esaltare all'insegna della continuità, della resistenza, della durata. Amico, superbo e umile, del soldato più umile e superbo, del più semplice e del più complesso e contraddittorio tra i soldati, l'alpino, il mulo ha meritato e avuto un monumento. Perché un grande monumento è quello che PrETRO CANONICA ha fatto al deriso ma veramente nobile animale. Ci siamo permessi di riproporlo, in questo saggio, nonostante considerato tra i motivi più scontati deL•..lrte ispirata all'Esercito, proprio perché non siamo affatto convinti che sia scontato. Non siamo convinti neppure che << Il mulo » conti, entro un certo ambito, nella misura che gli spetta, doverosamente, per quel che vale. Ci permettiamo, sempre, e con qualche scusa, di invitare il lettore a riguardare questo autentico modello di equilibrio plastico, di riduzione totale della materia a forma, a linea, a musica, per misurarne la compostezza, la forza; e persino la dolcezza. E' possibile, anzi, è probabile, che il sottofondo dei nostri sentimenti sia influenzato profondamente da tutto ciò che il Canonica è riuscito a far intendere in questa sua creatura felice: l'umiltà, la grandezza nascosta, l'amore sepolto nei recessi di una coscienza oscura, abissale. Così esce al sole sol t anto ciò che è autentico, al punto da inserirsi nella vita senza che nessuno se ne accorga, ma di non poterne uscire senza lasciare un vuoto.

Al sole, e trionfalmente, riescono, in quest'altra tavola di QuiNTO CENNI, ancora all'insegna delle << Esercitazioni », uomini e cavalli colti in un momento di slancio Gli uomini restituiscono ai cavalli il loro spazio, ma i cavalli trascinano in questo spazio gli uomini, ai quali fanno riprovare la gioia d'una libertà fisica nel vivo dello sforzo disciplinato. Ormai non insistiamo più, col lettore, e lo facciamo di proposito, nella analisi di ciò che proponiamo. Cominciamo a puntare su alcuni risultati della nostra ricerca , per quanto riguarda noi

stessi; e cominciamo a puntare su alcune speranze nei confronti di chi ci segue. Il nostro discorso , una volta impostato, e non senza un certo sforzo, mira a consolidare una sua sintassi , in senso proprio e anche in senso analogico e di comparazione. Il lettore si troverà di fronte ad alcune occasioni di riscontro personale su modi assai diversi di raccontare la vita dell'Esercito; non soltanto in chiave storica, ma anche di gusto e soprattutto in chiave di visione del mondo. Vorremmo dire che una quota di trionfalismo è addirittura necessaria,

in tutti i nostri modi di esistere e di comunicare agli altri le nostre gioie ed anche i nostri dolori, le tragedie. Ma non deve, secondo noi, essere più d'una quota.

Deve, in definitiva, essere la parte di luce che la realtà, la verità, progressivamente ma lentamente, allarga sulla scena dell'esistenza, singola e collettiva. Anche in questo, l'esercizio, le esercitazioni, si manifestano come la necessità di stare al proprio posto secondo i modi richiesti dalle nostre mansioni. Disciplina, per la libertà.

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VI

DI PATTUGLIA IN PACE E IN GUERRA.

In certi momenti è stra no a pensars i : come se la cosa non solo non riguardasse, personalmente, ciascun uomo, a cominci are da me, da te, ma non ri guardasse neppure l'umanità in generale. La ricerca del nemico, dell e ca u se di insicurezza, di pericolo, di morte; in un a parola, di ostilità, di avversità, comincia sempre, istintivamente, d a qualche palmo fuori di noi, mai da d entro di noi. Per trovare casi di ricerca dell 'elemento os tile che cominci di den tro in vece che di fuori bisogna andare in mezzo ai più autentici tra i religiosi, quelli che sono insi eme asceti e mistici. Perché anche tra gli uomini ufficialmente o dichiar atamente teligiosi, o uffi cialmente e dichiaratamente filosofi (nel vero senso d ella parola, non in qu ello troppo allargato, a sacco, in cui oggi ri entrano anche i semplici « informati >> e « informatori >> sulla e della materia), anche tra questi la ricerca , gira e rigira, comincia sempre da fuori. Bisogna guardarsi intorno, non dentro.

E' la realtà, che finisce per diventare principio, dalla qual e si ge nera il fenomeno << pattuglia >> Un fenom e no intenso, ricco di spinte e di suggestioni , capace, come momento della vita da soldati, di concentrare in sé alcuni tra gli elementi, reali e simbolici, più significativi d eli 'i ntera esistenza.

Infa tti, è cosa strana a pensarsi solo di tanto in tanto: or dinariame nte , è un'operazione di prima necessità. Il problema d ella conoscenza, cessato il dormiveglia primordi ale, si è probabilmente posto come bisogno di uscire « di pattug lia n nello spazio circostante , sempre più ampio , se mpre più attraente , ed anche sempre più difficile, inquietante , minaccioso. Il mond o cresceva, e crescevano in esso le « pattuglie», si moltiplicava il numero degli uomini bisognosi e bramosi di conoscere, di sapere, per potersi difendere e sop ravviv ere

in sempre piU spietata concor renz a. Perfettamente logico, dunque, il fatto che l'operazione si sia, col consolidarsi della organizzazione umana, istituzionalizzata, e che gli eserciti, dai primi , costituiti di lapidatori e bastonatori, a quelli odierni, costituiti di manovratori di sempre più p erfette macchine per lapidare e bastonare, abbiano continuato a lavorar di pattuglie , in pace e in guer ra. Sono usciti « di pattuglia » avventurieri e d esploratori , scopritori di nuo ve terre e di nuovi mercati; in nome di Dio e di id eali supremi, apostoli e missio nari , scienziati (i non troppi da chiamare con questo n ome), archeologi, ambasciatori, artisti. Conosce re e sapere per conoscere, conoscere e sapere per difendersi; piccole cose per piccoli gruppi, g randi o enormi cose per popoli, per tutta l 'uma nità; in una sintesi poderosa di lun ghe anal isi , in un'analisi labirintica di folte sintesi, senza tregua, se nz a quartiere. La scienza disarma armando; le armi si scientizzano disarmando. Da quanto tempo sia mo « di pattuglia >> ?

Anche qu ei formidabili esemplari umani che sono gli astronauti, a n ch e loro, li abbiamo mandati fuori della Terra, sulla Lun a, « di pattuglia )) Sempre più difficile, sempre più scientifico, sempre più complesso, sempre più lontano; ma sempre la stessa sostanza. Pattuglia l'intelletto perché il mistero alimenta l'eternità; pattu glia la volo ntà di bene, perché il male batterà tutte le strade del mond o fino alla consumazione del tem po.

Non crediamo che gli artisti delle cui opere ci occupiamo abbiano avuto questi pensieri per la mente nel crea re le loro pattuglie. Crediamo, invece , perché lo sappiamo, e vogliamo anche dirl o, che questi pensieri ci sono nati g uardand o, leggendo, i loro testi, parlando in silenzio coi loro personaggi. Si tratta, in ve rità , di quattro 11 stra ni >> testi, diversi, anzi,

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diversissimi, tra loro, eppu re complementar i , be n più di quanto non lo faccia ritenere il legame che li stringe nel contesto del capitolo, este rno perché voluto da noi. Ma forse saranno proprio le nostre considerazioni a parer strane: secondo noi, infatti , è come se ciascuno autori ci pr op onesse una piccola sintesi sto ri ca del te pattu gliare >> att raverso (nell'ordine) due , ancora due, sette, tre autoritratti. E non nel se n so, scontato , della soggettit,ità d'ogni ve ra opera d'arte , e del -suo esser sempre, in qualche modo, autobiografia; in quello letterale. Come se ogni autore, dal di dentro d'ogni personaggio , volesse dire: « Ecco , questo è esser di pattuglia. Te lo dico io, che ci sono>> In termini convenzionali, da tempo s uperati ma ancora bu o ni quando si voglion dire certe cose difficili a dirsi : (( poesia », non 11 narrativa » ; << poesia lirica ))' non << epica )) . Se nel parlare, in sede più o meno critica , interpretativa, d'arte , di opere d 'ar te , fosse lecito e oppo rtun o fare d ei complimenti, quanto detto sarebbe un com plimento. La massima aspirazio ne, non solo dei poeti (che solo ogni tanto ci riescono), ma di tutti gli artisti, è e resta pur sempre qu ella di raggiungere e varcare la soglia della p oesia : ovvero , trasmettere u n mucchio di cose in più di quelle che si è riusciti a dire.

Per questo motivo, e per n ess un altro , non ce la sentiamo di co ndividere alcune interpretazioni del primo testo: « Carabinieri >> di PHILIPPE MALIAVINE. Si tratta, a nostro parere, di gi udizi sommari, e soprattutto di collocazioni entro simbolici schemi di giudizio dall 'este rno: non fanno torto , ma neppure rendono giusti zia all'Autore e all'o p era; non sono s uperficiali, se tali appaiono, ma sono senz'altro limitati vi ed an c he un tantino fuorvianti. Maliavine , un ru sso trapiantato in Europa dopo la prima guerra mondiale, ru sso era e russo rimase , co m e pittore perché come uomo, anche in m ezzo ai vitali « >> di una città come Pari g i (la Parigi del primo trentennio del Nove ce nto, pregna di tutti i germi, bacilli e fermenti dell'ultimo Ottoce nto). Egli aveva, pertanto, la sua spettanza di misticismo e di pred isposizione alle visioni s imboliche, alle trasposizioni ideal izzanti. Ave -

va, però, anche la sua congrua spettanza di esiste n zialismo, latente almeno, di coscienzialismo (q uesto , fuor di dubbio, patente, strarip ante); il dramma del colore, della luce, dell ' anima, nei contrasti col co rpo, lo portava nelle viscere. E qualcosa di viscerale , di cupamente luminoso e di luminosamente cupo, abbiamo sentito fin dal primo sguardo affondato in quest 'o p era. Vale a dire, qualcosa di diametralmente opposto a ciò che si sente in presenza di opere che si propongano di rappresentare, attraverso figure (o gest i, o sguardi ) di uomini, i val ori , gl i ideali , gl i ammaestramenti, dei quali g li uomini raffigurati sono portatori ed esempi. Opere del ge nere sono tra le più insignificanti e stucchevoli di tutta la s toria dell'arte; né potrebbe essere diversamente, dal momento che l'arte, capacissima di darci la luna nel pozzo, non potrà mai darci idee, concetti, valori , ma so ltanto uomini ai quali idee, concetti e valori si possano riferire e attribuire dentro la dimensione della verità artistica. La quale dimensione è una dimensione co ncreta, corposa nella sua « materialità >> particolare, nella sua individuabilità; sempre astraibile, suscettibil e di astrazione, mai veramente astratta, come invece è, per sua natura ancora part icola re, la dimen sio ne dei concet ti , delle idee, dei valori.

Questi sono, e mirab ilmente , due Carabinie ri; ma non visti e rappresentati uniformologica mente, e come tali destinati ad una raccolta, per album o pareti, di figurini didatticosimbolici. Questi sono due veri Carabinieri (anzi, ca rabinieri), due uomini colt i nel pieno d'un momento di vita, nel vivo di un servizio: sono due carabinieri di pattuglia, fermati dall'artista nell'atto di intimare l'alto a qualcuno o ad alcuni che è inutile f ar ve d ere; inutile e in perfetto contrasto co n l'is pirazione. Perché l'episodio può essere uno d e i tanti e tanti , ma i due personaggi no; almeno per l'artista nel momento in cui ne è talmente « preso » da far se ne plagiare o addirittura assimil are. I due personaggi sono due unici irrepetibili in una situazio ne che si è g ià ripe t uta e si continuerà a rip etere Quando un artista sente, dentro di sé, che una illuminazione di particolare intensità può non verificarsi mai più nella sua

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vita, nonostante l'alto grado di probabilità che tornino a verificarsi certe condizioni esteriori, occasionali, che l 'hanno resa possibile, la fronteggia, le intìma l'alto, la ferma; da artista. Sono i personaggi che contano, e in mod o preminente, dominante , i loro volti; e nei loro gli occhi, dalle cui scaturigini l'artista stesso guarda, e guardando chiede e dà identità. La tecnica del « primo piano », inventata dalla pittura e ben app resa ed esaltata dal cinema con l'ausilio dei suoi potenti mezzi, era a questo punto, più che formalmente di rigore, l'unica a garantire una soluzione, una resa, adeguata all'ispirazione. Chi, se non lo stesso Maliavine, è costretto a vedere così tagliate ed incombenti le due figure? A sentirsi penetrato, frugato, sviscerato e svuotato d'ogni velleità, senza scampo, da qu ello sguardo a due, composito ma unitario? Gli capitò d'esser fermato , non importa se in Italia? E' ben probabile. Se al buio, o nella penombra, ti si parano di fronte due veri carabinieri di pattuglia, e inattesi, silenziosi, perentori come due apparizioni, è quanto si può vedere, in tutta la sua forza: una nera trincea di mantelli sciolti l'uno nell'altro, due neri simboli- copricapo, d'antica, misterica, fattura, con accensioni di bianco, rosso e giallo, e in mezzo due volti di soldati, di combattenti, che parlano con quattro occhi fusi in uno, e, al loro fianco , una mano che ha il potere di quattro. E se la scena, o meglio l'evento, dei due volti, si staglia su un violento fondale che sembra quello d'un miniaturizzato cataclisma di colori fatti pietra, di cui la mano è quasi parte ma viva, esso prende a sapere di mito; di mito nascente, non di allegoria morta.

Comunque, sia o meno il ricordo autobiografico d 'un altolà ri cevuto, chissà dove e da chissà quali altri soldati, l'opera è turgida, tesa, di motivi ancestrali e di altri non recenti ma non ancora nel profondo; e fa, veramente, barriera. Nel volto di sinistra c'è una specie di transfert che dali' artista va alla figura; in quello di destra ce n'è un altro in direzione dell'artista. Sotto il nembo dei mantelli c'è un intero mondo sepolto per continuare a vivere. La trama dei transfert è sottile ma robusta. Più robusta, però, ci sembra la ve rit à,

artistica e storica, del testo. Il carabiniere di destra non ci sembra meno deciso dell 'altro. Si guardi bene la sua mano: è una mano che non ammette disobbedienza all'ordine, e richiama la mano invisibile con la quale l'altro già impugna, per ogni evenienza, l'arma cui gli occhi già inchiodano un bersaglio. Non è un altolà qualunque , d'ordinaria amministrazione; per noi ha tutto il necessario per esser letto come un altolà conclusivo e decisivo. Saremmo tentati di dire , immedesimandoci, che la pattuglia ha portato a termine il suo lavoro: missione compiuta. L'uomo a destra , dato di voce, comanda con la mano; ma col volto trasmette: << Ci siamo; in guardia! )> L 'uomo a sinistra risponde: « Sembra anche a me; ci sto!»; e la sua diffidenza, nel volto che lascia sporgere solo il naso e gli occhi sbarrati , è già temibile certezza. Giusti e implacabili, incorruttibili, entrambi; ma entrambi coscienti , pur nella loro solidità e fermezza, di camminare su un filo, che è poi, proprio, quello della loro abbastanza svelata umanità . Quell'unico ammanto nero fermentato di rosso! E' importante per tutt'e due; un po' di protezione fa sempre bene. Sotto di esso, intimamente fuso col mondo dell'artista, c'è anche il loro mondo. Quello squarcio apocalittico, in fondo, con lo zolfo di quella astrazione gialla, dice che vengono da lontano e che lontano dovranno andare. Ma ogni volta, come questa, è almeno possibile che il peggio stia alle spalle .

Il secondo testo, « Carabinieri nella tormenta » di GrusEPPE BERTI, consiglia, o piuttosto vuole, un altro modo di leggere. E non soltanto perché si tratta di scultura, e le ragioni plastiche sono ben distinte, pur se complementari, da quelle pittoriche; ma anche e soprattutto perché ci troviamo di fronte a due figure viste, guardate e trasposte in modo, diremmo, diametralm ente opposto a quello in cui son viste, guardate e trasposte le due figure precedenti. Là erano due volti a dire tutto, anche dell'artista e dei suoi problemi; due volti tutt'occhi e una mano. Qua il racconto è affidato all'insieme, non solo di ciascun personaggio, ma dell'unità di entrambi Le persone vanno n ella tormenta, nuotano a tutto spazio con un impegno che è costretto a d istri-

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buirsi proporziona lmente ed equilibratamente dalle teste ai piedi; il centro creativo ha coinciso, d ' obbl igo, con la loro concentrazione mentale, e quindi nascosta, rappresentabile soltanto attraverso l'eloquenza dell ' intero modellato. E nel modellato rientrano, fino ad ingannare con un'apparente inespressività, i due volti , dai quali un osservatore , istintivamente, vorrebbe segni più vistosi, appariscenti, dello sforzo, del piccolo dramma che è pur sempre un andare nella tormenta. Bel guaio, per i due carabinieri, se Berti avesse anch'egli indulto all'esigenza istintiva di caricare dall'esterno le due fisonomie! C'era, in agguato, il pericolo d ' affrontare più spavaldamente la tormenta, magari con la faccia feroce, ma alla stregua di due pupazzi, non di due carabinieri, « di pattuglia» , sì, e nella tormenta , ma tenuti e obbedienti, in proprio ormai, ad uno stile secondo il quale il coraggio è anzitutto compostezza, padronanza, dominio, nonché dei sentimenti, degli stessi muscoli facciali. Lo sforzo c'è, la tensione è completa, ma non appare: si diffonde, emana, modula dall'interno la composizione quanto dall'esterno il vento modula il morbido panneggio dei mantelli . Faremmo torto al lettore se lo invitassimo a non dimenticare che il pregio d'un ' opera d'arte, specie d'una scultura (per via della maggiore elementarità dei mezzi espressivi) , è anzitutto nella misura. Questi « Carabinieri nella tormenta » , come i personaggi di qualche altra opera plastica della quale parliamo, presentandola, più avanti, guardati troppo di passaggio, accendono più il desiderio d'averli per soprammobil e, di gusto e di valore , che il bisogno di contemplarli, anzitutto, come un'autentica opera d'ar t e. Abbiamo, meditatamente, fatto posto al fenomeno « soprammobile » per avere, come ulteriore punto di riferimento, la componente ornamentale che, sempre inclusa dall'arte, non sempre include l'arte. A chi non piacerebbe tenersi come « soprammobile >>, su un adeguato mobile, beninteso! il « Puttino »? Ci accontenteremmo del <<Pescatore » o dell' « Acquaiolo » di Gemito. E persino del bronzetto nuragico raffigurante « La madre dell'ucciso», o in cotal modo denominato (in originale!). Ma è un altro discorso.

A molte opere d ' arte capita quel che capita a molte donne belle , ma veramente , epperò poco vistose: prive di trucco , vestite cqn eleganza (cioè, con sobria proprietà, rispond ente al « personale n , alla carnagione, al colore dei capelli, all'età) , un po ' st acc a te , magari per mod estia, e magari pure per timidezza, dall'andatura poco pendolare. Donne simili non fanno voltare i passanti, non mugohno e non urlano con · le curve e coi colori; ma avvicinate, sono spesso un vero splendore. Così certe opere d'arte. N on parliamo di quelle ormai celebri , (( arrivate )) ' da secoli o da decenni, e delle quali tutti riescono a godere per merito dei non molti che si fermarono e le avvicinarono. Parliamo di quelle che ancora o tuttora si barcamenano in musei o collezioni, viste da tutti , guardate da pochi: non hanno, povere! sex - appeal e se non fossero quadri o statue « resterebbero zitelle >>

Il paragone possa non suonar molesto, perché, in fede, cal z a; e in questa sede si può proprio dire che calza a pennello e pure a scalpello.

A voler strafare in una buona lettura, si potrebbe indicare, in questa opera, qualcosa << che non va >> : un eccesso di eleganza, una finezza decisamente aristocratica, più da sfilata in alta uniforme che da pattuglia sotto la tormenta. Ma è un eccesso così veramente elegante , una finezza così veramente aristocratica, di fattura, beninteso, di modellato, che si fa perdonare senza troppe esitazioni. D'altra parte, e non possiamo tacerlo , una dose (un buon pugno! ) di allegorismo il Be r ti l 'ha messa, nell'impasto, e non ha saputo o forse non ha voluto nasconderne, mascherarne, la presenza. Ma che diciamo? Lo ha messo bene in mostra, nella certezza di non uccidere, neanche così facendo , l'arte, la sua arte. Basta guardare con attenzione i due per accorgersi che si somigliano come due gemelli: salva qualche impercettibile sfumatura, sono due copie d'uno stesso ritratto. Ora , uno scultore come Berti non aveva certo difficoltà a modellare due teste diverse, magari a contrasto esteriore, in contrasto intimo, espressivo. Se non l'ha fatto, pur sapendolo fare, l'ha fatto a ragion veduta: voleva che dalle due figure ,

dalla loro interiorità, emanasse una forza simbolico- allegorica, senza bisogno di imporre ad esse, dal di fuori, nel modellarle, le camicie di forza, vale a dire i gesti, gli atteggiamenti convenzionali di tutte le opere che debbono significare, rappresentare, tutto tranne se stesse e il lor o autore. Un solo carabin iere in due persone; due carabinieri in una sola persona. Una sola maestà d'incedere resistendo al vento, una sola potenza di passo nella solitudine ingrandita dalla tormenta, una sola intensità di pensieri concentrati sullo scopo della pattuglia. Un autoritratto sdoppiato, in cui la doppia figura è quella dell'Autore , assimilato al compagno di marcia che, alla sua destra (a sinistra di chi guarda), appare più raccolto in sé, quasi più solo.

Un'allegoria, un simbolismo, dunque, che l'arte ha risolto, di prepotenza, a vantaggio di se stessa. Sotto il panneggio del carabiniereautore, evidenziato a sbalzo, a morbido e vigoroso sbalzo, c'è quel braccio sinistro che abbraccia e stringe la sua persona, i suoi sentimenti, i suoi pensieri, non al modo d'un monumento celebrativo a schema obbligato, d'una figura allegorica, ma al modo d'un vivente, che sta affrontando, ora e davvero, una prova.

E che la stia affrontando con eleganza, con finezza, insomma, con grande stile, significa non solo che l'artista ha voluto rendere un omaggio ad una realtà in siffatta dimensione da lui collocata,. ma anche, e forse di più , che in tale dimensione si sente idealmente collocato egli stesso.

Quando l'arte, vorremmo dire per concludere, è poesia, è sempre testimonianza. Ma il testimone bisogna ascoltarlo, specie quando è sicuramente veritiero, con religiosa attenzione. Soltanto così è possibile affrontare la responsabilità d'un giudizio, sia sul testimone, anzitutto, sia sui fatti che egli illumina per noi.

E' tutto, sempre e in tutto, meno semplice di quanto noi vorremmo e di quanto non lo rendano certi nostri curiosi sforzi di semplificazione. Di certi silenzi, non di certe parole, bisogna aver paura.

Ed eccoci ai due testi dedicati alla pattuglia in guerra. Il primo è un grande quadro a tempera (tre metri per due) di AooLF'o GIUSEPPE

RoLLA: << Pattuglia (di territoriali) in perlustrazione sul fronte greco».

E' un'opera ingannevole, insidiosa, nei confronti d 'una lettura e del relativo giudizio: forse proprio per questo motivo ci è parsa interessante, importante, e valida insieme come fonte di godimento estetico e come test.

La prima reazione, da parte di molti lettori (come, a suo tempo, da parte rtostra) potrebbe tradursi in questi termini: « Si tratta veramente d'una pattuglia in perlustrazione su un fronte di guerra, oppure d 'una pattuglia all'opera durante un'esercitazione tattica? >>. E a dire il vero, l'opera, che piace subito, piace sostanzialmente per la pace, la quiete, la curiosa serenità che la luc e, i colori, il silenzio tangibile e auscultabìle del paesaggio, anzi, dello spazio pittorico in tutta la sua estensione, danno ai personaggi così palesemente, dichiaratamente, « in armi ))' e che questi, a loro volta, trasmettono immediatamente a chi guarda. Un confronto mentale, anche rapido, coi due testi precedenti, coi carabinieri dipinti e con quelli scolpiti, si conclude con l'afferche là siamo in guerra e qua, invece, Siamo m pace.

La seconda reazione, perdurando il senso di godimento, di piacere estetico, è di perplessità: nascono dubbi e riserve più strettamente pertinenti alla qualità artistica dell'opera, legati alla coerenza, all'unità tra la materia e l'espressione; e diciamo, senza falsi timori, tra il tema e il suo svolgimento. Non vorremmo malamente inciamparé e cadere sulla partenza, ma, ecco: si è tentati di attribuire il go dimento, il senso di piacere estetico, al ritmo, alla danza lenta di sette figure che ci si potrebbero trasformare, sotto gli occhi, in quelle di sette attori in una qualunque delle personificazioni di cui sono capaci. Un balletto : sì! un balletto classico, un coro mimato sul pedale a bocca chiusa della montagna innevata.

Sostituiamo ad una terza reazione una lettura meditata, che si avvalga, però, e della prima e della seconda reazione.

L'opera ha, e dà, un certo senso di pace, di quiete: pace dentro, quiete fuori L'opera ha un andamento elegante, un ritmo pieno di linea, di nitore, un ritmo lucido e sicuro, come

se fosse il maturo, naturale, risultato d'una ispirata ma faticata regìa. I sette di pattuglia stanno dove son stati collocati, ma così bene che sembrano entrati tutti, realmente, dal punto in cui sta finendo di entrare l'ultimo

L a prima reazione, e l'obiezione che la traduce, nascono da uno schematismo dominante, più o meno ovunque, da sempre e per sempre, in virtù (o per colpa) del quale tutto ciò che si compie in pace, poiché dot•rebbe compiersi pacificamente, è pacifico; tutto ciò che si compie in guerra, invece, poiché dot' rebbe compiersi bellicosamente, è bellicoso, guerresco. C'è un'imper territa, in correggibile, tendenza a credere, e anche a esigere, che in pace non ci sia guerra e che in guerra non ci sia pace; mentre è vero, purtroppo, solo che ci liberiamo dai troppi schemi mentali e psichici, che guerra e pace, nonché alternarsi, vanno ogni giorno a nozze insieme, dentro ciascun uomo e in mezzo a tutti i popoli: C'è più ferocia in certe pacifiche discussioni di cortile o di mercato che in certe operazioni belliche . E ' che noi incaselliamo il modo organizzato di fare il viso dell'arme dimenticandoci di tutte le volte che noi stessi per primi lo facciamo fuori casella.

La seconda reazione, e la relativa osservazione con giudizio, nascono anch'esse da uno schematismo, analogo a quello che ha generato la prima, secondo i cui condizionamenti tutto ciò che nella vita, in guerra o in pace, si presenta, si muove, suggestio na in un certo modo, somiglia ad un balletto, sembra un balletto; oppure è teatrale, perché il teatro è così e così; oppure è un'altra cosa ancora; mai, o quasi mai, ciò che è, perché questa è la sola verità: che ciò che si presenta, si muove, suggestiona, in un certo modo, è ciò che è presentandosi, muovendosi, suggestio nando in un certo, cioè, in quel modo. Non è lo stesso caso del fiore finto che sembra vero e del fiore vero che sembra finto per quanto è bello . Somiglia , ma non troppo da vicino. E' sempre la solita questione, e ci torniamo perché è uno dei punti fondamentali di questo saggio- proposta: bisogna guardare, leggere, il mondo, quello reale, concreto, con tre, quattro, cinque miliardi di protagonisti , e co n almeno cento, mille alla

portata di chiunque. Chi va al balletto o al teatro di prosa, è costretto a guardare, e finisce poi, se una volta fuori non continua a guardare, ma di sua iniziativa, per inquadrare tutto in ciò che lo lzatz costretto a guardare, immobile su una poltrona, per farlo divertire. La danza comincia dal risveglio e termina quando ci addormentiamo. F acciamo teatro a casa, per la strada, sull'autobus, in tribunale, in Parlamento o nell'assemblea del condominio, e persino in chiesa (teatro sacro, l'azione , il dramma della liturgia).

Dunque, bisogna ribaltare il rapporto. Balletto o teatro di prosa sono ritagli, sintesi e riproposizioni di ciò che ciascuno di noi fa senza, spesso, sapere veramente di farlo.

E allora, un artista che produce un'opera partendo dai possibili schemi del balletto, del teatro di prosa, del cinema, applicandoli, imponendoli dal di fuori, può sperare , specie se tecnicamente dotato, di far colpo. Un altro , invece, che parte da ciò che la vita gli suscita, o addirittura da ciò che egl i ha personalmente sperimentato, vissuto, pagato, può rischiare di veder la sua opera giudicata e giustiziata attraverso la sepoltura in uno schema che è solo di chi guarda, o crede di guardare, mentre vede, appena, e non proprio bene. E' polemica? Sicuro! E bisogna pure farla, di tanto in tanto. Non per << spiantar Milano», ma per non spiantare l'arte di tanti veri artisti trascurati in omaggio ed olocausto proprio agli schemi in cui certi trascuratori sono accuratamente ingabbiati.

Cos'è la guerra? Come si comportano gli uomini in guerra? Nessuno può sa perlo meglio di chi c'è stato, di chi l'ha fatta.

Ecco perché, ad una lettura meditata, e lievitata col meglio delle prime impressioni, i « territoriali » di Rolla, appaiono per quelli che sono: soldati in guerra, al fronte, impegnati in quel rischioso << gioco )) che è la perlustrazione. La montagna, in pace o in guerra, è maestosa, e dà pace, finché non aggrotta malamente la fronte e monta in collera. L'uomo concentrato nel silenzio indispensabile quando il rumore più piccolo è carico di pericolo, spira pace e suggerisce quiete, immobilità: il fenomeno diventa più intenso quando

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sono· più uomini a concentrarsi nello stesso tipo di silenzio. Uomini in questa condizione che si staglino in urr vastò e silenzioso spazio montano, suggerendo un'aggiunta di silenzio coi passi cauti nella neve che sa scricchiolare, sono un 'intensa fonte di suggestione pacificante, anche perché, in parte debita, paralizzante. Il quadro è dipinto di dentro a ciascuno dei sette protagonisti, vissuto attraverso ciascuno; o rivissuto. La paura, da che mondo è mondo, è stata sempre la più fedele compagna del combattente: quando è buona, partorisce coraggio, quando è cattiva, tante altre cose, tra le quali Ja viltà. Lasciamo al lettore la cura di verificare, volto per volto, modo per modo di tenere l'arma, modo per modo di camminare senza far sc ricchiolare la neve , le si ngole personalità. Noi sottolineamo la presenza della paura e il nascere del coraggio in tutla la pattuglia. L'Autore si riassume nel capo- pattuglia, forse, così inte ro , risolto, nella perfetta padronanza di sé, nella semplice eloquenza di quel gesto intimante !'alt; ma ci si riassume dopo avere, e soltanto dopo, fatto sbucare l'ultimo se stesso da proiettare sulla struggente luce d'un 'alba o d'un crepuscolo. Perché così ha potuto analizzare intimamente, nella memoria, e liberare nella dimensione dell'arte, i suoi rapporti con la vita attraverso quelli con la morte in agguato. Danza? Certamente. Ma bisogna vedere chi la mena. Anche in questa composizione, il momento « fermato >> è di quelli pieni di destino. Ci vuoi poco, in quei momenti, ad uscir di scena, proprio mentre è estremamente importante, per se stess i e per gli altri, restarci. Tutt'intorno il clima sembra bruciare a fuoco lento; quello, assurdo, della neve tenuta tra le mani. Sullo sfondo, a destra, un tratto di ponte e l'imboccatura d'una galler ia mettono il mistero del profondo in com unione col mistero dell'alto. Chi c'è davanti ai sette? Che cosa? C'è la parte ostile del mondo, a contrasto, visibile più che se fosse in vista, con questa pace incessantemente minacciata, con questo ritmo alla cui bellezza la vita si difende dalla morte.

Il secondo testo dedi cato alla pattuglia in guerra è un disegno a matita di GrAN LuiGI Uaowr: « Pattuglia», nel quale sembra sca-

tenarsi tutto ciò che abbiamo visto premere, urgere, chiuso in una serie di incantesimi , nei tre testi precedenti.

Abbiamo tre uomini presi in un drammatico dinamismo di fuga o di inseguimento: braccano o son braccati da chi li ha scoperti in piena azione di spionaggio dentro le sue lince. Il segno è nervoso, lungo ma scattante; abbozza e sfreccia creando il groviglio della macchia che fa da sfondo e da teatro, in un minuscolo palcoscenico; precisa e sosta dando un'identità, un'anima, al soldato dalla falcata possente, atletica, a quello, èentrale, mezzo raggomitolato , felino, e all'altro che s'inerpica su un greppo, e ne sta affiorando, sulle orme dei compagni. Quest'ultimo è, ci pare, l'ultimo << autoritratto » del capitolo, la sosta minima dell'Autore che segue, per la minicarrellata, l'azione. Una lirica breve in un cavo di epopea, c'antata con una mirabile efficacia sulle due corde d'una matita; un ricordo , ma più d'un appunto. Evoca squilli di tromba eccitanti ad un assalto; o fischi sibilati nell'ombra da sabotatori che abbiano finito di innescare il plastico.

Ci è parso doveroso « ricuperare >> questo testo grafico, sia per la sua indiscutibile bellezza, e sia, pure, per la sua validità di « campione » d'una serie, probabilmente ricca, di testi autentici dei quali giovarsi, in modo e con intenti comple mentari , per rileggere dall'interno, come abbiamo detto , ripetuto, e come ripeteremo, il gran libro dell'Esercito Italiano.

Così, e non altrimenti, in certi cervellotici modi, si so n mossi i nostri soldati. Così, e non altrimenti, si passa sulla Terra, nel mondo, nei momenti che giustamente chiamiamo << della verità >>.

E' come quando si lasciano delle orme, delle impronte, proprie personali o dei mezzi a disposizione impiegati. Tutto ciò che prescinde da quelle impronte, o che le deforma per strumentalizzarle in modo distorto, entra e fa entrare nel caos che è sempre alle spalle e ai fianchi dell'intelligenza.

Così, anche a volerlo, non ci è concesso di considerarci mai al nostro ultimo servizio di pattuglia . Semmai, perennemente al primo.

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L A SOSTA: UN COMPLICATO FENOMENO SEMPLICE.

Dimmi come sosti e ti dirò , non chi sei, ma da quale e quanta fatica provieni, e quale e quanta fatica devi ancora affrontare. Su questa base, dopo sarò forse in grado di dirti anche chi sei.

L'uomo, in genere , può mascherare, più e meno, entro certi limiti , qualunque lato del suo essere, in un momento o per un certo tempo; ma la stanchezza può so lo illudersi di masc herarla , sia essa fisica, o psicofisica, sia essa spirituale, o morale, o sia, sbrigativamente , sta nchezza, vera stanchezza, e basta. Nella maggior parte dei casi, anzi, non c'è miglior modo di dar segni di stanchezza che sforzarsi di nasconderla; infatti, ciò facendo, finiamo per perdere, nelle parole e nei gesti, la nostra identità abituale , senza riuscire, peraltro, ad averne un'altra accettabile. Una so rta di sdoppiamento. Chiunque abbia memoria di qualche marcia forzata sa che la storia del « dormire marciando affardellati >> non è una balla. Ne abbiamo avuto esperienza e ne abbiamo un ricordo tipicamente, classicamente, onirico. Naturalmente, stiamo parlando di « stanchezza», di quella coi baffi; voce di sirena e pugno da K.O.

La sosta ha i connotati della stanchezza cui rimedia, fino alle sfumature, e i suoi diversi modi rivelano altrettanti uomini. La sosta è riposo , ma non è « il >> riposo; non solo non è il congedo, ma non è neppure la licenza, sia pur breve. La strada percorsa tira giù l'affaticato in sosta; ma quella da percorrere , come una smania, o come uno sguardo di ghiaccio, lo tira e in sù e in avanti l modi del sostare si diversificano a seconda delle miscele di abbandono e resistenza che si creano, volta a volta, in ognuno e in ciascuno. E la mi sce la , perciò abbiamo di proposito scomodato il verbo cc cr eare n, è opera della persona-

lità, dello spirito singolare e di quello di corpo del sostante. Ci viene spontaneo di dire che la sosta appartiene, più che al riposo, ai modi di vivere la fatica. E ci viene pure spontaneo pensare a certe opere d'arte, anche di nobile discendenza, che rappresentano soste, più o meno esplicitamente, ma non , diremmo , come modi di vivere la fatica , bensì come intervalli t r a certe faccende che potrebbero, in fondo , essere certe altre. Su di esse non abbiamo ritenuto di doverci soffermare, nelle nostre ricerche, e manteniamo le nostre riserve. Quando si stempera la verità, cioè, quell'intimissima coerenza tra intuizione e rappresentazione d'un fatto (è un fatto anche una linea, in arte) che va perseguita con fedeltà non meno rigorosa di quella con cui la persegue un vero scienziato, si può anche salvare la faccia della pittura e della scultura; però si gioca, ci si diletta, per non dire che ci si balocca, ma non si crea. Quantomeno, dopo aver dichiarato di voler fare una cosa, se ne fa una parte, o se ne fa addirittura un'altra . E ', in genere, il limite di certe opere che si propongono di rappresentare soldati nei vari momenti della loro vita, ma che in realtà riescono solo a fare delle colorite prediche paesistiche, panegirici del volume, eleganti passi fermi di danze; in definitiva, cose nelle quali i soldati possono essere sostituiti, a piacere , con personaggi di qualunque altro ge n ere, tipo , impegno. Non vogliamo dire che tali risultati siano privi di valore; vogliamo dire, soltanto, che essi ci parlano guardando altrove, come se non si accorgesse ro, o volessero, di proposito, non accorgersi di noi che pure siamo lì dietro formale invito.

I testi scelti rappre se ntano soste di uomini che stanno facendo la guerra; e ciò vale anche per i due del primo testo , sostanzialmente in

l
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guerra nonostante siano formalmente in pace, perché si tratta di uomini appartenenti alla stessa dimensione dei quattro delle prime due « pattuglie >> precedentemente presentate: dìremo presto perché.

La sosta tra le fatiche di guerra è il più vero tra i modi di vivere la fatica in sé: essa rappresenta insieme la sintesi concreta e l'immagine- limite di quell'ininterrotta fatica che è l'esistenza, da nessuno consumata senza nutrirne la morte. Ne proponiamo cinque raffigurazioni: la prima è concentrata sulla lotta per la difesa della legge come perenne residuo, nei tempi di pace, delle tensioni morali della guerra; la seconda sembra uno «spuntino>> di memorie e problemi in un angolo di « guarnigione »; la terza racconta, a bassa voce ma in tono epico, di soldati che anche nel sonno continuano a marciare verso la linea del fuoco; la quarta, pervasa di tormento, sconvolge ogni cosa coinvolta nella finta calma che precede immediatamente lo scatenarsi della battaglia; nella quinta, infine, tanto più drammatica quanto più vorrebbe essere umoristica, un uomo che ha già visto in faccia Madama, sfangandola, e che sa di doverci presto rifare, schioda e reinchioda i suoi complessi da trincea in una mescita di retrovia, e trova che la femmina di turno è tutt'altra cosa.

Cominciamo da « La sosta » di MARIO Bucc1 e diciamo subito perché l'abbiamo contemplata tra le soste di uomini in guerra.

Non c'è pace, per il carabiniere, neppure in tempo di pace; il carabiniere è un soldato che trascorre tutta l'esistenza nella dimensione della guerra. Cos'è, infatti_, la guerra? In ciò che, solo, può giustificarla e farla accettare, essa è la lotta contro il male visto nella sua più appariscente ed incessante manifestazione: la negazione ad oltranza, per principio, del << tu » o del <( voi », al fine di affermare ad oltranza, incondizionatamente, l' « io» o il «noi». Tale negazione, che tende, in progressione, a dividere per distruggere, lavora per la morte anche quando, truffando tutti e tutto, suona i violini e i flauti della selezione naturale e storica indispensabile per la continuità della vita, che intanto offende e devasta. Un lavoro a vastissimo, universale, raggio, e ca-

pillare, che consiste praticamente nella imposizione programmatica di tutti i doveri al (( tu » o al « voi >> e nella attribuzione di tutti i diritti ali' << io )) o al << noi ».

La lotta dell'uomo contro il male non ha tregua. Ma in stato di guerra ad essa è tenuto e chiamato, direttamente o indirettamente, un intero popolo: fatiche , dolori, sacrifici, fino alla morte, si distribuiscono , pur se mai equamente, tra milioni di cittadini. Quando, invece, lo stato di guerra è cessato, quando sono finite giuridicamente , ufficialmente, le ostilità, quando « ritorna la pace», quei milioni di cittadini riprendono le consuete attività, tornano alle normali occupazioni, e ci tornano, nella stragrande maggioranza, felici, affamati di bene, di opere, di amori, di svaghi entro un ordine che garantisca il sacro equilibrio tra i diritti e i doveri di rutti e di ciascuno. Perché questa è, in parole povere, la sostanza del vivere in pace. Il male, però, non firma nessun trattato di pace, e neppure armistizi, con nessuno; i suoi « no >> continuano, imperterriti, come le raffiche d'un sistema di mitragliere ad alimentazione perpetua. Su scala ridotta, al coperto o non troppo allo scoperto, con sempre nuove, aggiornate, risorse trasformistiche, l' « io » o il « noi >> restano sul sentiero di guerra. Se non ci fosse chi accetta e rintuzza anche in pace la sfida mortale, la nostra storia sarebbe ben presto nulla più che una lunga marcia di rientro in caverna.

Il carabiniere (non lui solo, ma particolarmente lui) sceglie di restare ininterrottamente in guerra perché tutti gli altri, anche i miliziani del dio No, possano , almeno in pace, vivere in pace Chi non capisce queste verità elementari, non potrà mai capire quale sia il segreto, prima ancora che del prestigio o dell'efficienza, della forza intima, morale e anche spirituale, dei nostri carabinieri. Come certi religiosi cui d obbiamo, volenti o nolenti, tante buone e grandi cose della nostra storia, i carabinieri entrano nel mondo e si schierano perennemente in campo aperto soltanto dopo, si direbbe, una dura, severa, ma profondamente umana e civile meditazione delle due bandiere.

Hanno scelto il c< sì >> : sono per un tutto in cui l' « io>> e il « tu >>, il « noi » e il cc voi >>

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tendano ad affermarsi reciprocamente, senza assurde illusioni o pretese , per realizzare il massimo consentito di unità e di libertà nel rispetto di quei veri e propri patti giurati che sono, come minimo, concedendo a qualunque disincantamento, le leggi. Il << no)) ' pertanto, è il nemico di sempre; ad esso, dic hiarata una volta per tutte, guerra è e guerra sia. Anche sostando.

Il testo di Bucci dà subito il senso anche di questa verità. Basta considerare subito, prima ancora dei due personaggi e dei loro cavalli, la pressione interiore esercitata dalla ristrettezza d ' uno spazio che chiude, rinchiude la scena pur lasciando intravvedere la vastità del territorio da perlustrare C'è un po' di cielo, una linea (senza ricercatezza grafica) di rilievo collinare, un albero come una colonna mozza a destra , un altro accennato, obliquo, a sm1stra, troppo palesemente oppressivo, ostruente, per non esser voluto, un altro ancora, di fattura deliberatamente sommaria, il tanto da creare, con un piumoso verde, il contrappunto alla doppia colorazione ten era della casetta; la quale, sia giusto nei colori, sia nella collocazione, così in cassata e, più che nascosta, protetta, vigilata, mette una nota lievemente infantile nel contesto. Così le figure non hanno molte possibilità di muoversi; stanno come dentro una simbolica nicchia , che dà loro sicurezza, defilandole, ma soprattutto custodendo la concentrazione, vera protagonista incarnata . del quadro. Sul quale son state date interpretazioni più o meno condivisibili proprio relativamente alla trattazione delle due figure umane come di due esemplari, diciamo, antropologici, etnici. A noi sembra, e la nostra è ovviamente un'impressione personale, che la chiave giusta per la lettura di questo testo sia un'altra. Mentre c'è una ben evidenziata diversità tra i due cavalli « in libertà vigilata », con due soste, o modi di sostare, per i due uomini c'è una, e una sola sosta: una sosta a due. Ecco , questo ci ha subito colpito nell'opera di Bucci: la verità sulla sosta di due carabinieri in perlustrazione. Chi è più stanco, dei due? Quello seduto? O non, piuttosto, quello semplicemente ma solennemente, vigorosamente , in piedi? Il se du to è rilassato, mentre il diritto è teso?

Il primo, infatti, sembra perduto dietro qualche ricordo , mentre l'altro sembra « in posa » davanti al Bucci che lo ritrae. Vorremmo dire che, in verità, il carabiniere in piedi , e in piedi alla maniera palese dei non pochi (non -solo tra gli uomini in divisa; per esempio tra gli uomini dei campi e specialmente tra i pastori) che hanno la capacità di riposarsi stando fermi in piedi, integra il relax del carabiniere seduto col suo esser già pronto a muoversi ed eventualmente anche a scattare. Il carabiniere seduto , invece, sembra prestare in silenzio all' altro l'assicurazione della sua vigilanza, e, in parti uguali , anche il <<permesso breve » a qualche pensiero. In definitiva, secondo noi , i due stanno in modo mirabilmente unitario , complementare. Le mani del seduto sono, plasticamente, due mani pronte ad agguantare, non meno di quelle del diritto, divise tra la briglia e la criniera. Lo sguardo fiero dell'uno è anche pensoso; lo sguardo pensoso dell 'altro è, in realtà, pensoso con diversa ma uguale fierezza. Tra due che un impegno profondamente sentito profondamente unisce, sempre , e tipicamente nel mondo dei carabinieri, la diversificazione è un'ulteriore prova di unità, di vera unità. C'è, e non crediamo di inventarla , ovvero di proiettare un'impressione sulla oggettività intima, una grande coerenza anche nel rapporto dei due cavalli tra di loro e coi rispettivi cavalieri. Un primo piano di testa notevolmente bello sul fondo d'uno scorcio disegnato a linee dolci, musicali; il primo, realistico, d'una familiare pateticità, il secondo più << evocato », con una leggera punta di fiabesco; l'uno e l'altro con una resa coloristica veramente felice. Il cavallo del seduto sembra svagato, meno concentrato, come il suo amico in divisa, ma sta, a suo modo, in piedi e <s affardellato » ; l'altro punta il suolo, fo rse qualche ciuffo d'erba, ma la cosa più importante che sta facendo è, a nostro avviso , la seconda nota lievemente infantile della scena: il romanticone si sta godendo le rudi ma affettuose cc carezze » sulla criniera. Decisamente, questo ci sembra un elemento di rilievo, di tutto rilievo. L'unità è çlunque completa: una sosta a quattro, con tanta umanità. Il fiero in piedi è uno cui nulla potrebbe sfuggire con

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facilità, ed è ben teso; ma il suo cavallo è il suo cavallo, la mano sulla criniera tradisce un incontenibile sentim ento . E se è vero che l'altro sembra perduto dietro qualche ricordo , è vero anche che proprio su quella mano e su quella crinie ra semb ra volto il suo sguardo. Così come sul piede sinistro del seduto sembra dirigersi, in uno dei moti di collo ùpicamente equini, il muso del dolce (sì, è decisamente dolce) animale, non più giovane e, a guardarlo, il più stanco dei quattro.

E' la sosta di due, anzi, di quattro , che si conoscono bene e continuano a condividere gesti, pensieri, affetti, che condividono da tempo e che per molto tempo, forse, continueranno a condividere. L'unico vero contrasto, nell'opera, ove ci fosse , potrebbe essere indicato, e come una nota positiva, nel modo di portare la divisa, da parte di ciascuno dei due, anche in perlustrazione, in aperta campagna, con la strada già fatta e con tutta quella sugge rita dallo sfondo ancora da fare. Non è una « battuta >> : è una cosa importante, che atùene alla comp rensione d'uno stile, e non certo in se n so- formale.

Quanto diversa l'angolazione cui ci costringe il testo di UMBERTO FRANCI dedicato a « Soldati di guarnigione» l Anche qui, poco spazio e qualcosa di incombente che incapsula per far vedere un clima che si potrebbe solo sentire e ben di dcmtro , nel profondo del cuore. Oltretutto, trattandosi d'una silografia, non c'è possibilità di scampo attraverso i colori. Sulla destra, l'apertura indica un sistema di altre chiusure: si è protetti, ma ciò che protegge è anche ciò che favorisce le insidie: attacchi improvvisi, agguati, taglio di rifornimenti. In questa sorta di antico castello naturale, i soldati hanno un curioso essere, stare e muoversi d'armi geri vecchio stampo. Infatti, con una interessante fedeltà mimetica all'ispirazione, il Franci ha messo al centro della scena un « narratore», che a giudicare dall'ampio, pacato gesto oratorio e dall'intento ascolto dei commilitoni, è dotato di eloquenza. Accosciato ma con mi certo garbato stile, che salva, quasi uno strascico, il panneggio della « palandrana >>, è evide nte che dice cose di grande importanza: in quei punti, fisici e spirituali,

dell'esistenza le cose importanti attengono alla vita o alla morte, con un taglio netto; e quando se ne parla in un certo tono , si finisce per profetizzare. Profetico, infatti, è l'atteggiamento di quel volto e di quel braccio levati, in sintonia, verso il commilitone che ascolta in piedi, appoggiato al fucile come ad un bordone, e verso la materia del narrare, invisibile ma dominante. Entrambi i due in ascolto, anche quello seduto, mezzo disteso, ma col fucile ben st r etto nella mano sinistra, sono in atteggiamento da discepoli; non è un « chiacchierare»; è, pur se l'argomento fosse una previsione sulla durata delle operazioni, o su una << pattuglia >> imminente, o la comunicazione di notizie da casa, un vero e proprio filosofare, nel quale so n coil).volti persino i muletti ai quali guardano, rilassati, i due che, uniti da un gesto fraterno, si appartano in vena di confidenze. Intanto, sulla sinistra, un altro soldato sembra in atto di scivolare dalla scarpata, aiutandosi col fucile, quasi attratto da qualche rum ore sospetto, o dal bisogno di muoversi. Sentiamo di dover confermare : ci sem brano , tutti, armigeri d'altro tempo; sono veri, verissimi, però in una ec,ocazione operata dallo stesso narratore, a sua volta autoevocato, poeticamente. Se non fosse per i fucili (ce n'è uno lungo disteso per terra, in primo piano, è quello del narratore) penseremmo ad un bivacco di pastori al pascolo montano. « Se non fosse per i fucili>>, abbiamo detto; ed aggiungiamo che le immagini di pastori ex combattenti, o solo militari in congedo, ancora quasi in divisa, non sono state infrequenti in certi periodi e in certi luoghi. Questa è una sosta con distacco, nella quale anche l'impegno più grave e sacro diventa già legno da far ardere nel fuoco della memoria, in quella pace particolare che aleggia intorno ad ogni operazione di memoria. Di un ritmo così preciso, forte ma non rumoroso, questa scena rischia di nascondere, ad una lettura poco ;1ttenta e provveduta, la sua autenùca bellezza. Si guardi, in primo piano, la fattura preziosa ma non leziosa degli scarponi, delle gambe fasciate, la naturalezza delle diverse positure; e poi si diano, subito, i rispettivi volti, la rispettiva identità, ai gesti, agli atteggiamenti: tutto è in -

tenso, respira e popola lo spazio che gli spetta come se il momento fosse, invece, un piccolo assoluto. In una simile condizione, la sola voce in grado di far sobbalzare e scattare dovrà essere quella d'un allarme. In guarnigione, ripensiamo, si può essere distanti in ugual misura da casa e dalla linea del fuoco. Ma soltanto la linea del fuoco può crearsi, e abbagliare mettendo in fuga ogni evocazione, da un'ora all'altra: la casa è un valore da difendere, lottando, sempre da lontano Ma l'uomo è, fortemente, memoria; e la memoria è, fortemente, creativamente, evocazione: un risultato di cui si giunge a temere, però, a maggior ragione, and1e e soprattutto una centrale di energia senza la quale avremmo, specie nelle circostanze più gravi, tanto più buio e tanto meno coraggio.

Non loderemo mai abbastanza gli artisti che, nelle loro opere, si sono lasciati « prendere » dagli uomini, da se stessi e dai loro simili, più che dalle cose. I <<campi di battaglia», le grandi nubi di polvere e fumo, i marosi di cavalli e di mezzi d'og n i genere: bene, a volte benissimo; ma i soldati, guardati, amati, interpretati, rivissuti, ricreati, questo è meglio, sempre meglio. Finché non si dia la sciagura più sciagurata, quella che ci farebbe perdere ogni vera identità, l'Esercito è anch'esso, in tutte le sue articolazioni, i soldati.

I soldati come questi, ecco, come i « Fanti in sosta su lo Scindeli >> di ANGELO PINCII\OLI. Il pensiero corre, fulmineo, ad alcuni fra i più struggenti ed epici motivi alpini: « siamo arrivati sul Monte Canino -e a ciel sereno abbiamo riposa' >>; « Tra le rocce, il vento e la neve - siam costretti la notte a vegliar>> di « Monte Cauriol ». E' naja, sempre naja, della specie più dura; ma è soprattutto dramma, sempre dramma, della specie più alta. Piccoli uomini alle prese con cose tanto ma tanto piu grandi di loro: con la natura in veste di maestà gelosa e suscettibile e poco propensa alle confidenze eccessive; con la guerra da fare, spesso, spremendo proprio cuore, dal profondo delle origini, tutto ciò che deve supplire alle carenze di vario genere, dalle armi alle munizioni al cibo. Piccoli uomini, più eroici di tanti « eroi » , perché al sicuro, per elezione

e per scelta, dai pericoli di tutto ciò che può e non può esser c•ero , autentico; piccoli uomini che diventano uomini in tutta e nella migliore estensione del termine. La loro grandezza si sprigiona dall'offerta, senza complessi di debolezza, della loro debolezza, della loro fragilità di creature bisognose di tante cose, e particolarmente di riposo, di qualche ora, almeno, di sonno; dall'offerta della sosta in cui tutto, corpi, anime , armi, fardelli, si stringe , si unifica in un inconscio ma non meno vero abbandono di preghiera.

L'opera è di quelle che noi, senza chiedere autoriz z azioni accademiche, chiamiamo esemplari. Corale senza sovrappopolamenti, inutili e spesso nocivi, si affida ad una distinzione senza confusioni: un quintetto, nel quale le cinque voci fondamentali entrano in comunione profonda , capace di ottenere, sostanzialmente e con rigore assoluto , tutto ciò che può essere espresso da centinaia e anche da migliaia di esecutori; e qualcosa di più. Comunione profonda anche in altro senso, non musicale ma strutturale, compositivo in senso architettonico: il trattamento per volumi delle figure , particolarmente redditizio nella resa della forza, della solidità, della concretezza (senza bisogno di ricorrere alle soluzioni materiche di certe avanguardie), si scioglie, si libera, dalle sue intrinseche pesantezze, attraverso l'aiuto della orizzontalità, in cui meglio riesce ad esprimersi la stanchezza come incentivo al ricupero di se stessi attraverso il sonno. E' forte, solido, pieno di comunione, anche il colore, basso, un po' cupo, di tono, da < ( notturno», ma di una proprietà indiscutibile.

Certo, la stanchezza di questi soldati è di quelle che iperbolicamente ma efficacemente si chiamano « mortali » « Sono stanco da morire », « sono morto di stanchezza»: sono modi di dire di consumo quotidiano che risalgono a circostanze sempre drammatiche, nelle quali l'uomo più sicuro di sé si ridimensiona, e al tempo stesso si rivaluta, in un superiore equilibrio che gli consentirà, attraverso la migliore conoscenza dei limiti, un più fruttuoso comportamento. E drammatica, altamente drammatica, è questa circostanza. Si va, si viene, si ritorna : il punto di riferimento è

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sempre la linea del fuoco, lunga , ininterrotta, o spezzata, frammentat a . Questi uomini h anno già combattuto , a distanza , forse anche a corpo a corpo, sulla << s triscia azzurra »; e torneranno a combattere. A stanchezza mortale , sonno di piombo. M a la testa è ancora piena di << botti » di mortai o, dì trapani di mitragliatrici, di mille <( ta- pum >> riprodotti a centinaia dì migliaia dag li echi; e di gemiti, di urla improvvise, di silenzi più ghiacciati e agghiaccianti della n eve. A stanchezza mortale , in questo caso, dormive gl ia , so nno allucinato, un salisce ndi di sensazioni e immagini tra inconsc io e lucidità; ma un saliscendì stranamente fisso come tutti i moti vortìcosi. E fissa , dolorosa nella sua epicità, è la scena: pittura su fondamenta di scultura. Suggeriremmo una lettura che parta dal soldato che veglia, a destra, facendo il suo turno di guardia, e ad un tempo mangia qualcosa e si scalda con l'alito le mani, avendo ai piedi il fardello e il fucile. Seguendo i tre del secondo piano e poi quello del primo piano fino alla punta del suo piede destro, si traccia una linea che vorrebbe , e non riesce, sbloccare tanta staticità con un tentativo di serpentina. E' un cresce ndo. Il primo dei tre in gruppo, oppresso, s'è liberato del fardello e s'è appoggiato alla spalla del compagno che sembra proteggerlo, per agevolargli il riposo , col calore d ' un braccio. Lui è più solido: il gomito dell'altro braccio sul ginocchio, la guancia sulla palma della mano, tiene per due. Il terzo non ha fatto neanche « zaino a terra»: porta l'elmetto c he gli altri due non portano e stringe leggermente il fucile appoggiato tra coscia e bra cc io , pronto al minimo evento; gli basta appoggiarsi , senza abbandonarsi, con la testa sulla mano. Ma tutta la potenza della scena è ca ricata, comp ressa , nella figura distesa in primo piano: una specie di autoritratto in cui Angelo Pinciroli, fante reduce dal fronte greco , ferma in modo indelebile una decisiva esperienza della sua vita. Si capisce (come potrebbe non essere?) che dietro questa magnifica figura distesa di dormi ente tra la vita e la morte, c'è tutta la storia della più grand e arte italiana. M a come assimilata e fatta propria , co me restituita con gli intaessi, come , nelle sue più alte conquiste, usa-

ta, impiegata, al momento gi usto nel più felice dei modi! Sono morti di stanchezza, e dormono lo stesso quasi- so nno irrequieto , anche il fardello incollato alle spalle e sapientemente sfruttato come ·cuscino e spalliera, e il fucile , supino e sempre a portata di mano. Se c'è chi vuol chiamare in causa le varie « Deposizioni » di cui si onora la grande pittura , lo faccia pure. Noi abb iamo parlato, più sopra , di offerta , di rendimento : ci siamo , sembra. Una sosta religiosa, nel se nso che tutti possono accettare. D a que sta figura in particolare e da tutto il gruppo in generale, spira un altro elemento che possiamo definire « religioso » : la fiducia. E' un dramma; non, però, una tragedia. E', lo ripetiamo, un momento sussu rrato d'un' « epopea» che era stata e sa rebbe stata ancora, << detta » a voce alta e alt iss ima , a volte gridata. L ' uomo deve vincere; ma anche quando perde , per sventura o per altro, ha sempre, può sempre avere almeno un modo di vincere ugualmente, nonostante tutto.

Di tutt 'al tra qualità (psicologica, non artistica) il quarto testo, la silogra fia di PIETRO SANCHINI ispirata alla sosta che precede lo scontro cruento e che s' intitola, proprio , << Pr ima della battaglia >> Una scena senza ripensam enti , disegnata col respiro corto, tormentando il legno fino a farlo percorrere da un incessante ritmo di tremiti e di sussulti che sbalza sul piano gli uomini, allontanando il paesaggio, culminante in alto a destra sulla posizione da conquistare, sotto una rete « dantesca » di tronchi, rami, profili di pietre e asperità: lo stesso cielo è reso con << brividi » di strisciature in fuga. E' veramente una sosta : gli uomini hanno raggiunto la base di par tenza per l'assalto decisivo e vi attendono il segnale. Sono otto, evidenziati e di st inti in quattro coppie, due delle quali in si le nzio e a contrasto, due assorte in dialogo: affollano, letteralmente, violentemente , dal basso verso l'alto, i due terzi della scena, che nel restante terzo è graficamente terremotat a fino all'unico punto in pace , il vertice in alto a destra. L'albero a sini stra , oltre a servire da divi sorio , con le sue ramaglie, al tea t ro d ello sco ntro, peraltro invaso da un'altra ramaglia sulla de st ra , separa,

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tra spalle e schiene, i due della prima coppia a contrasto, e, secondo il nostro modo di leggere, esprime tutto il tema, lo dichiara. Il combattente quasi ingabbiato tra il tronco e il confine della tavola, dal profilo appena visibile sotto il carico dell'elmetto, volge le spalle all'obiettivo e lo si intravvede, e più lo si intuisce, tempestosamente concentrato e pronto a esplodere solo al momento giusto. Il suo <1 antagonista », emotivo, tutto estroverso, già lancerebbe la bomba pronta, ben stretta in pugno, contro il nemico sul quale non vede l'ora di scagliarsi; sarà il primo a scavalcare il (( ridotto »; è un (( capo >> nato, il suo dovere è trascinare, dare l'esempio e pagare per primo, o per primo conquistare la posizione . Subito dopo, su un piano leggermente più basso, due piccole masse d'urto, anch'esse già in piedi, una delle quali, la più alta, ha anche un volto, sia pure soffocato per metà dall'elmetto, un volto deciso ma ca lmo , da veterano; somiglian o entrambi a quello nascosto dall'albero, anche lui, forse, un veterano. In questi quattro si realizza il collegame nto degli uomini col paesaggio. Poi, sce ndendo , in secondo e in primo piano, il sottofo ndo , il commento corale ma risolto come in un lungo, sepolto, brontolio staccato dal piano orchestrale. La prima coppia si compone di due elementi, caratterizzato il primo dalla testa scoperta, una testa vigorosamente disegnata, il secondo dalla bomba tenuta tra le due mani come un oggetto qualunque e come tale guardato: stanno parlando, e giureremmo che non stanno p arlando dell'as sa lto; anche al rischio mortale, è vero, si fa un certo tipo di assuefazione; i due siedono come quasi certamente son soliti sedere davanti a un fiasco. La seconda coppia dialoga, per interrogativi, proprio sulla battaglia.

C'è un po' di smarrime nto nello sguardo dell'uomo di sinistra; quello di destra, dal profilo ostinato, regge, con ansie ma regge.

L'imminenza d'una battaglia, come quella di tutti gli eventi che possono essere definitivi per un'esistenza, determina reazioni raramente prevedibili. E la sosta in cui tale imminenza si consuma non la si può inventare; bisognerebbe essere veramente grandi artisti, dotati , ma veramente::, di genio. Nella normalità dei

casi, e parliamo, sia chiaro, di t'eri artisti, è necessario poter ricordare ciò che si è vissuto, trasfigurarlo, interprctarlo, tutto ciò che si vuole, ma sempre sulla base d'un'esperienza diretta, personale c interpersonale di alcuni tra i mille e mille modi di reagire a certe sollecitazioni, di alcuni tra i mille e mille modi di affrontare, a freddo, in sosta, la morte, che anche in battaglia ha mille e mille modi diversi di falciare. La rettorica, la falsità, dì tante e tante opere d'arte, si potrebbe risparmiare a se stessi e agli altri scegliendo di fare opere d'altro contenuto, rifiutando certe «ordinazioni >> o trattando/e diversamente; ed anche evitando di commettere certe opere ad artisti bravi ed anche qualificati, capaci, ma non di fare quelle opere. Un mangiatore, al limite , e solo per fare un esempio per analogia, potrebbe pur sempre confondere, se non ha mai sofferto veramente, la fame, questa con l'appetito, di cui, evidentemente , deve avere una grossa esperienza, ma che non ha nulla a che vedere con la fame.

Forse è per questo che ci capita di vedere, su uno stesso tema, opere di autori celebrati che non reggono affatto il confronto con opere di autori cosiddetti di poco conto. Tant'è.

Siamo così alla lettura del quinto testo: << Retrovi e » dì PIETRO MoRANDO, un artista e un soldato (ardito della « Grànde Guerra ») di cui diremo più avanti, e che siamo spesso tentati di considerare un po' come l 'Ungaretti del disegno.

Questa tavola raffigura una sosta dopo la battaglia, dopo le battaglie, e l'abbia mo scelta, senza esitazioni, per due precisi motivi: per le sue qualità grafiche, tipicamente morandiane come avremo modo di dire; per un'altra qualità, in totale contrasto con il suo aspetto letterale: il candore.

Partiamo, come ormai ci capita di fare, dal fondo. Trascuriamo l'insegna della mescita, che pure ha un suo valore di impaginazione, e consideriamo quelle due figure che paiono inquadrate con una essenzialità estrema su una prospettiva marittima, portuale, intensamente evocativa e provocatrice di reazioni emotive. Potrebbero esse fare da insegna, ma non ad una mescita, bensì ad un intero stand

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dedicato ad un amaro capitolo della nostra storia e intitolato « Retrovie 191 7 >>.

Il principio fondamentale della danza e della mimica è basato sulla possibi lità di esprimere e comunicare at traverso le sole espressioni del volto e attraverso i gesti, e quindi ancora attraverso le sole movenze del corpo. Lavorare di contorni, delimitando un'area espressiva nella quale si concentri un'intera personalità umana suggerita per segni elementari ma stracarichi di contenuti, significa fare qualcosa di simile, ma a fermo e da fermo, come è costretto a fare il disegnatore. Evidentemente, per ciò fare, bisogna avere analizzato e assimilato tutto il complesso sistema dei segni attraverso i quali ciascuno di noi si mostra e appare così come, più o meno, è e appare agli altri. Bisogna aver fatto questo da artisti, cioè da uomini dotati della qualità indispensabile a tracciar linee come facendo delle vere azioni , facendo fatti concreti Dentro i contorni di quelle due figure vivono due esemplari umani che noi ben conosciamo, che abbiamo quasi da sempre conosciuti: il loro dramma ci si trasmette per una forza elementare e diventa cosa nostra, ci appartiene. Appartiene anche al personaggio di profilo a sinistra della donna , un grumo di noia, grigiore, mediocrità e bisogno di riscatto che si avv ia verso l 'uscita come verso una qualunque uscita dalla sua condizione. Quella dimensione tutta subì t a, passiva con rancori malamente masticati, è divisa da un mezzo bicchiere di vi no da un'altra dimensione, abitata dal protagonista della scena, da un suo compagno che lo fronteggia ghignando, e da una donna emblematica ma al tutto t'era, reale, la cui presenza è una presenza di ruolo, portata con un leggero disgusto di sé e degli altri, ma con pena non minore di quella che affligge un po' tutti Puttana, meretrice, prostituta, sgualdrina? Tutti nomi grossi, anche se scontati. Ci sembra più proprio dire, intonandoci a quel clima, « donna da soldati » << donna per soldati ». « Sei sempre stata coi vecchi alpini - non sei figlia da maritar! )) Questa è una delle tante versioni, tutte poetiche, dell'Osteria che ((c i sta>>

con buona pace delle accademie, « di gua e di là dal Piave » e nella quale, ed è quel che conta, << c'è da bere e da mangiare - ed un bel letto da riposar )) . Si guardi attentamente la sequenza, nei dettagli, perché in tanta sintesi ciascuno di essi è sostanza. La sedia, la sediaccia, vale un trono per l'uomo retro cesso dalla trincea, che si gode un po' di tranquillità dopo aver vissuto in condizioni primordiali e con la pelle appesa a una ragnatela. Egli siede tutto comodo, e mette in mostra un piedone, o meglio una « fangosa » gigante che calca sull'impiancito con evidente so ddisfazione. E ' uno di quelli con un naso tendenzialmente alla Cirano, dall'accenno di « scucchia » si indovina che le donne gli sono sempre piaciute. Ora, dopo il lungo penare, la sua mano sempre facile diventa facilissima, e non fa lo schizzinoso; tanto, non ha molto da sceglie re. Lassù l'unica Donna era « una poco di buono » ancor più di questa cui tenta saggiare il morbido; così poco di buono che andava evitata come il suo s te sso nome. Questa, in fondo, al confronto risulta affascinante. Il gesto, così triviale in sé, nel contesto risulta di una normalità sconcertante; poi appare patetico; infine risulta persino drammatico, come il sogghigno un po' sapiente e un po' corrosivo del << barbuto n che forse ha più pretese, forse è talmente disincantato da passare neutro in quel clima d'angoscia mal repressa.

Una sosta che sembra ancora più incrostata di fango di quelle concesse in trincea dalle pause tra i bombardamenti e gli assalti alla baionetta. Ma con un desiderio di risveglio , del mezzo sbadiglio che apre certe giornate. E anche dell'amore, che passa pure per il corpo d'una donna e che spesso , quando lo spirito dorme per grandi dosi di droga violenta quanto può esserlo la dimestichezza con il sangue e la strage, ci passa e ci si arresta , incapace di volere e di fare qualcosa di più e di meglio.

Una sosta che riassume tutte le altre rhe si pongono come modi di vivere la fatica; ma quella particolare fatica che è, per l'uomo, vivere a lungo senza amare e senza essere amato.

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LA BATT

TUTT I E CIASCUNO IN DIFESA DELL'ULTIMO CONFINE.

Prima e dopo di ogni guerra, si fa politica, filosofia e storia: ma durante ogni guerra si fa la guerra, si combattono le batt51glie. In battaglia, la miglior difesa è l'offesa; dunque l'offesa è difesa; anche l'attacco; e la vittoria non è che la difesa più garantita, nello spazio e nel tempo. Sono in molti a credere che si combatte per attaccare un sempre ultimo confine: l'espansionismo , d'altronde , è una categoria storica. In realtà, l'espansione non è che l'apparire della concentrazione. Infatti, la concentrazione dilata e la dilatazione concentra, fino all'esaurimento del ciclo: questa, a noi , sembra una legge bell'e buona. Ora, tutto ciò che si è concentrato, che si ha (progressivamente), lo si difende, contro altri che nutrono gli stessi pensieri . C'è una sola obiezione, anzi, una sola presa di posizione, ed è sacra: c'è difesa e difesa , di veri e di falsi diritti. Ma chi difende falsi diritti non dice mai che attacca i veri diritti altrui : dice, al contrario, che difende i veri diritti suoi. Al dunque, quando si è smesso di discutere e si comincia a sparare (ma ormai si spara anche mentre sono in corso le discussioni), non c'è chi non sia disposto a giurare che sta difendendo l'ultimo confine. Giusto: perché sta difendendo il confine tra la vita e la morte, tra quelle proprie e quelle degli altri. In battaglia la verità, la nostra verità, quella che tutti fabbrichiamo giorno per giorno con le nostre azioni e persino coi pensieri più nascosti, si scatena, esplode: la nostra storia si identifica con la natura. Le chiacchiere stanno a zero; la rettorica, semmai, aspetta nelle retrovie la fine dell'atto per entrare in scena; dell'atto o dell'intero dramma. Tra tutti i misteri dei quali è impastata la storia dei popoli e di ogni singolo uomo, quello che si condensa in una battaglia è il più spesso: for-

se proprio per questo l'uomo continua a uscirne, quando ne esce, ancora uomo, e non di rado più uomo. Sull'ultimo confine, la verità abbaglia, consuma tutte le apparenze, mette a nudo ogni essenza, riesce addirittura a smascherare false bontà e ad accendere insospettabili luci in coscienze ritenute morte. Ci sia consentito di dire che, nella estrema difficoltà di spartire il bene e il male della nostra storia, è più facile segnalarne e va l utarne la presenza, volta a volta, nei momenti in cui l'esercizio della vita e della morte non ha possibilità di rinvii o di mezzi termini risolutivi.

Gli artisti han sempre sentito queste verità: in modi diversi , a seconda dei tempi , delle circostanze e anche della particol are personalità di ciascuno, ma sostanzialment e in uno stesso spirito. Gli illustratori e i commentatori le han sentite di meno, restando sempre alla superficie (sempre simile) di eventi che di volta in volta, nel profondo, sono da rivivere come novità.

Proponiamo al lettore due serie di testi, di diversa ispir a zione e tecnica, sui quali conterremo di proposito il nostro intervento entro i limiti dell'an notazione. Questo saggio- proposta, nel suo svo lgimento terminale, cresce in immagini, e ciò per due motivi : anzitutto perché entriamo nella dimensione più affollata e più visitata delle testimonianze artistiche sulla vita dell ' Esercito; in secondo luogo , perché ormai le conclusioni del discorso finora fatto sono, per consenso o dissenso, affidate alla discrezione di chi abbia avuto la cortesia di seguido almeno con benevolenza. Per noi è questione di coerenza.

Riteniamo opportuno, per ogni buon fine, dare l'ordine di successione dei testi medesimi. Eccolo, qui d i seguito

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.. La battaglia d i C ustoza >> di GrovAKI'I FATTORI - c< Il 23 giu g no a San Martino » di MrcHELE CAMMARANO - << La carica dei Carabinieri a Pastrengo >> (sec onda versione) di SEBASTIANO DE ALBERTIS - l< Studio di battaglia >> di SEBASTIANO DE ALBERTIS - << Carica di cavalleria » di GIOVANNI FATTORI - cc Cavalleria bombardata » di GIUSEPPE - << Cavalleria all'assalto >> di GIUSEPPEcc d'assalto >> di PIETRO MoRAl\"DOu Assalto alla baionetta >> di GIUSEPPE CoMINETTI - <<Trincea dopo il combattimento >> di GIUSEPPE CoMINETTI - « Due squadre portaferiti » di GIUSEPPE CoMINETn - << Episodio del carabiniere Ruffo >> di G IUSEPPE BERTI. Riconosciamo volentieri che si tratta d 'una piccola giungla di provocazioni, d'un intrico più per accetta che per braccia. Ma come in ogni battaglia, il lungo fiato dell'ordine corre sul caos, incessantemente; l'ordine, infatti , non è un assetto nel senso statico, raggiunto, ma piuttosto un'attività continua sul caos, che è come la sua materia prima, dalle scorte, si direbbe, inesauribili : più che « ordine ,, dovremmo dire 11 metter ordine >>, 11 ordinare n. Scegliere, meditatamente; e anche sbagliare, relativamente; ma vivendo e dando vita.

Nella « Battaglia di Custoza » sembra che il paesaggio, come sempre in certo Fattori , assorba, beva tutti i rumori; e che sciolga in sé anche i gesti, le operazioni degli uomini. La natura prova a divorare la storia, nella sua finta, strana, pace. I morti, uomini ed animali , fanno da contrappunto ai viventi all'interno d'una lenta, quasi pesante, armonia. Tutto è misurato; quasi statico; la morte è ovvia quanto la vita, in una sconcertante ma vera unità. Non è che l'Autore abbia preso le distanze; è che ha puntato essenzialmente sulla resa d'un mistero di forza , e di forza coraggiosa; per questo, calma, senza orgasmi. Una sconfitta militare, non una disfatta degli uomini.

D'altra intonazione (( Il 23 giugno a San Martino>>. Tutto si muove, compreso il paesaggio che l'indiscutibile sapienza prospettica del Cammarano spinge, più che non sfondi, in grandi slanci, fin dove è possibile giungere sotto quel cielo gonfio di lieviti. Qui, in clima di vittoria quasi scontato, fatale , il terreno , gli

a lbe ri , sono luogo di passa ggio, punti di riferimento per qualcosa che avanza , sì, in direzione d'un obiettivo imperiosamente additato , ma dal di dentro , col vigore limpido dell'entusiasmo. Il grave, il drammatico di questa giovanile rincorsa è tutto e soltanto nei solchi profondi (matericamente trattati, con torm ento) che le ruote del pezzo lasc iano come il sigillo della storia sulla natura dominata. Un senso di certezza senza possibilità di smentite è in tutti questi uomini. Per i due dal cappello piumato , usi a bruciare col solo sguardo ostacoli e distanze, ora si vive; la morte può attendere.

Le due opere, profondamente diverse, si prestano mirabilmente a stabil ire , per comparazione, quanto e fino a che punto sia possibile e quanto fecondo un proposi to di lettura unitaria della battaglia nell' arte , sulla base di alcuni elementi costanti , se non proprio fissi: tra i quali, a titolo di ese mpio , la qualità e anche la quantità del paesaggio- teatro, sia come dimensione obbligata sia come dimensione scelta; e la sua importanza nei confronti degli uommt m aztone.

La famosa, meritamente famosa, « Carica dei Carabinieri a Pastrengo >> di SEBASTIANO DE ALBERTIS è disponibile all'eventuale esercizio del lettore per una sorta di verifica, quasi di controprova. Ci siamo risolù a ripresentarla , rassegnati anche all'accusa di incoerenza , solo a questo fine. D elle quattro versioni abbiamo scelto la seconda, sia p erché è la meno scontata, sia perché anche a noi, come a molti altri, sembra la migliore. E l'abb iamo accompagnata a questo < l Studio di Battaglia>>, prezioso acquerello dello stesso Autore, che è verisimilmente uno studio per la << Carica », proprio perché i rapporti scena - azione, a raffronto in due visioni dello stesso episodio, acquistano un valore tutto particolare. E' l'azione ad essere inserita in un paesaggio o è il paesaggio ad essere attribuito ad un'azione? Sì! l'interrogativo può sembrare addirittura idiota. Ma può esserlo assai meno di quanto può sembrare. Delle qualità liriche assegnate alla « Carica >> unitamente a quelle epiche , nella resa effettiva del testo da noi scelto non sembrerebbe restare granché: c'è uno spazio che si dilata quasi all'infinito , ed è spazio epico , supporto e condi-

zione alla c, bellezza » de ll a scena. Perché l ' opera è bella, indiscutibilmente bella. Ritornando sul motivo del fiore finto e del fiore vero cui abbiamo in precedenza dedicato alcuni pensieri, diremmo: « Sembra un film! »; così come avremmo dovuto dire , fin da molti anni fa , vedendo tante (e tante!) sequenze filmiche , di westerns e no; cc Sembra la carica di Pastrengo!».

D 'altronde, nell'unità dello spirito, la sublimazione anche in bellezza dello stile di dovere e di sacrificio con impeto da forza di natura, a tutto spazio, è rigorosa, sacrale Il De Albertis non ha certo bisogno di noi per c< far testo». Tanto è vero che .testo, definitivamente , ha fatto.

Chiediamo, a questo punto, se in ug'ual misura ha fatto testo il Fattori Al maestro « macchiaiuolo )) non sarà inoppor tuno né inutile dedicare, a competente livello, in debita sede, un supplemento di attenzione e di studio che pr ecisi meglio la sua posizione di pittore di soldati. Noi, qui, non lo possiamo fare e in un certo senso ce ne rammarichiamo. Questa « Carica di cavalleria », che affidiamo, fiduciosamente, al lettore, è, per dirla, ma a ragion veduta, con espressione abusata, « emblematica)>. La apparizione centrale, un uomo tra eroico e dolente montato su un cavallo bianco sfuocato dalla folata di mischia, erompe o sta per sprofondare: il solito mistero resiste, dal caos, all'ordine lanciato a tormentoso galoppo Tutti eroi e tutti uomini. E' un'altra dimensione. Ci limiteremo ad osservare che, a nostro parere, l'opera di FATTORI ispirata all'Esercito, ai soldati, va riletta, e riletta nella sua propria chiave, diversa, sempre a nostro parere , da quella dell'opera restante. Potremmo errare; e no.

Nella Storia, e in ogni storia personale, c'è e non c'è soluzione di continuità Il momento della crepa, dello spacco, dell'aprirsi d'un baratro, è innegabile se non di proposito, per principio; ma non è un'interruzione, è un momento, anch'esso, della continuità sotto la regìa della libertà e pertanto sdegnosa dei nostri schemi, specie quando essi altro non sono che il tentativo di condizionare a nostro favore ogni possibile svolgimento.

Così, la viSIOne risorgimentale della battaglia e dei suoi episodi esplode e salta, frantumando certe unità e moltiplicandole attraverso la frammentazione. Non è soltanto merito o colpa della maggiore velocità dei processi: sarebbe troppo semplice. E d'altra parte non sembra neanche un vero e proprio giudizio di valore sullo stesso fenomeno, la battaglia, la guerra, dal momento che molti dei testimoni del fatto non sono meno combattenti che artisti; e non di rado combattenti volontari. Dunque, cresce la pietà per l'uomo, per sé e per glì altri, il sentimento drammatico della vitamorte s'impenna in tragedia , e la tragedia si slancia alla furiosa ricerca d'un suo più alto e profondo significato. La bellezza si sporca , si incolpa per meritare redenzione.

Ecco i testi apocalittici di GIUSEPPE CoMINETTI: « Cavalleria bombardata » e r< Cavalleria all'assalto » L'ordine piomba imperioso nelle stesse viscere in tumulto del caos e rischia d'essere assimilato. La vita animale e umana si scatena, cozza, forza la sua stessa struttura, si spappola: sembra venir meno la gravità, ma il galleggiamento è falso, non è calmo, si rifiuta e ribeHa; tutto si fa mostruoso , e l'uomo più d'ogni altra cosa. Non, però, in << Cavalleria bombardata», dove l'uomo torna uomo proprio mentre precipita nel vuoto aperto dalla forza nemica: un burrone cui fan da cigli i cavalli già strumenti del suo dominio ed ora ridotti a slabbrature. Notevole, ai fini della lettura, il cavallo di sinistra: ricorda nella sua posizione, ma trag icamente, un « ammaestrato » da circo che si drizzi davanti al domatore. Nel primo e nel secondo testo il paesaggio è << in bottiglia», pressurizzato: si riduce, congestionatissimo, a teste di cavalli sottoposti a tortura, a teste di nubi costrette in vagheggiamenti di sembianze umane terrorizzate . Uno spazio scomodo sia per la vita che per la morte

Non muta il tono del discorso in << Assalto alla baionetta>>; anzi, l'assenza dei cavalli ed un certo ritorno d'ordine, di simmetria, nella composizione, esaltano la peculiarità umana dell'evento , in tutte le sue implicazioni: l'animale sparisce, assimilato dall'uomo, e riappare nelle scariche di necessità, di meccanicismo

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st ravolto, attraverso le quali l'uomo stesso pena l'ennesima volta per uscire dal caos , per trionfarne a prezzo di sa ngue. Spazio da tremendo . E non apporterebbe contributo apprezzabile alla lettura la collocazio ne del testo in un quadro da droga. Sarebbe come , secondo noi, collocare nello stesso quadro la verità in genere Veda il lettore.

Ma prima di approfondire , di sprofondare bene, lo sguardo, e di se ntir si s pinti alla struggente pietà di << Trin cea dopo il combattimento >l, gioverebbe soffe rmarsi, sostare, davanti alla « Ondata ·d'assalto >> di PJE.TRO MoRANDO. Le differenze stilistiche , di temperame nto , di personalità, non servono ad altro che a dire in modi diversi le stesse cose. Qui non c'è ancora il corpo a corpo, la strage in atto; le armi sono pressoché invisibili , ma ne senti scrosciare le raffiche sui capi chini, sui dorsi, se ne antici pano , a contrattacco, gl i scatti asciutti (quando le bombe a mano usciranno dai tascapani), e i brividi ghiacciati dei pugnali. Ogni figura è un confine tra vita e morte, resa con maggiore semplicità, con più contenuta forza, ma scoperta, dissimulata nella sua verità. Qui non si celebra, non si ricorda a ono re e a gloria; qui si culmina, si vive il dunque, corale solo perché strettamente perso nale nell'unità. Al limite, si direbbe che c'è tempo , sia pure un soffio d'attimo, per un'estrema, lucidissima coscie nza del punto. Una delle lezioni di MoRANDO, questo ardito, più volte ferito, pluridecorato, fatto prigioniero, evaso, riatciuffato e sopravvissuto, che ha disegnato in trincea come Ungaretti ha sillabato in tr in cea: le testimonianze più valide e alte , i mòniti più sacri. Non c'è nulla da sprecare: quattro o cinque segni valgono un pens iero vastissimo . E fanno da spartiacque tra l'accettazione del sacrificio e tutte le restanti finzioni.

La << Trincea dopo il combattimento >> fa un silenzio e una pace senza possibilità di veri comme nti (quel caduto prono a breve distanza da quello supino di cui parlano le gambe pendule !), e carica la drammatica sollecitudine (da << deposizione >>) delle << Due sq uadre di portaferiti >> Torna ancora il CaM INETTI, ma un Caminetti decantato , filtrato da una spietata pietà, religiosa nella più ampia significazione:

il caos è ridotto ancora all'ordine dall 'amore, sulla morte.

Concludiamo ques to capitolo prevalentemente visivo con un t es to - limite, utile ai fini del nostro discorso quanto artisticamente valido e quanto, anche, dirompente nella struttura del capitolo m ede s im o. Questo << Episodio del Carabinie re Ruffo >> di GIUSEPPE BERTI è un assolo in una grande corali tà. Ad indicarne la fattura preziosa , la br avu ra « berniniana >> di cui testimonia a pro d'un Autore indiscutibile, rischieremmo di offendere il lettore, lo stesso Autore e un po' noi stessi . L 'evidenza non ha bisogno d'essere dimostrata perché è essa stessa strumento di dimostrazione e dimostrazione tout court. Ciò di cu i non possiamo fare a meno è, invece, la proposizione dell 'opera come esempio di arte non- prohlematica, di arte come giudizio su un fatto fornito attraverso la ricostruzione di esso nei momenti più oggettivi e, possibilmente, più evide nti. Si tratta d'un modo di leggere la realtà e, successivamente, di raccontarla , senza l'ombra d'un dubbio, senza il minimo desiderio critico . Ed è una cosa importante se considerata nel quadro dell'attuale situazione dell'a r te, e particolarmente della scultura. Chi oserebbe negare validità << artistica >> ad opere simili? E d'altra parte chi oserebbe negarne ad opere che sembrano, con la loro altrettanto innegabile validità « artistica ))' escludere la validità delle altre?

Torniamo all'assunto di fondo del nostro saggio: c'è tanto da rileggere e da reinterpretare. E proprio per la presenza di ope re solari fino all'ovvietà, che hanno giusto in questo loro co ntrassegno la disponibilità alla provocazione, attiva e passiva. Ceno, le cose continuano a procedere , ad esser fatte e a fare , a loro volta , anche se l'arte le propone o ripropone in un suo modo, sempre diverso. Ma attraverso l'arte le cose vengono tramandate a chi, senza l ' arte, non potrebbe averne più memoria. E non è faccenda di po co conto

Speriamo nella benevolenza del lettore; in una benevolenza, possibilmente, attiva , partecipante, integrante.

Siamo, infatti, nella zo na cui più si addice il discorso impostato nella Premessa relativam ente alla demitizzazio11e e al ripemamento,

alla scoperta e rùcoperta delle parole e dei valori, alla riconquista della parola- fatto. In questa zona, l'arte (e anche la critica d'arte e la storia dell'arte) è costretta a schierarsi, per sé> dalla sua propria parte, o dalla parte (quale che essa sia) del giudizio di valore già dato o da dare sull'avvenimento proposto alla fantasia creatrice o al mestiere obbediente. Mentire, falsare, travisare e trasfigurare si può e si potrà sem pre, almeno intenzionalmente; ed anche preterintenzionalmente. Ma quanto, e fino a che punto, se una critica verace e una spregiudicata storia intervengono a ristabilire le giuste proporzioni? Che un artista rappresenti una battaglia per libera scelta o su commissione poco importa, o importa relativament e : ciò che importa prima durante e dopo l'opera è, invece, la contrapposizione, innegabile, tra l'artista e la battaglia come fatto la cui caratteristica è quella di essere non fatto ma da fare. Ora , la storia militare d'una battaglia non può affidarsi che alla storia militare: l'arte è chiamata, evidentemente, a dare un contributo diverso da quello della storia militare. Ma quale? Di che tipo? A queste domande possono rispo ndere solo le opere d'arte, di volta in volta, singolarmente, e periodicamente in modo non proprio unitario ma complessivo. Il che pone grossi problemi sia alla critica d'arte che alla storia dell'arte; il più grosso dei quali riguarda proprio la reale possibilità o meno di sganciare l'opera d'arte dall'intero contesto in cui viene concepita e prodotta , così da poterla leggere in modo radicalmente autonomo, quanto dire in chiave d'a ssoluto. In tal caso non sa rebbe né difficile né scandaloso, al limite, affermare che, apportando alcune modifiche, una battaglia può trasformarsi in un qualunquè altro assembramento di uomini, valido più o meno ugualmente per le sue intrinseche qualità formali, pittoriche o plastiche. E si potrebbero, per analogia (pur considerando le notevoli differenze tra musica e pittura o scultura) rich iamare i t< riversamenti » in opere drammatiche di « motivi » scritti per opere comiche, o viceversa: sempre al limite. Ma tant'è: il problema esiste; e non è il solo.

Questo che significa? Per noi significa, anzitutto, che dobbiamo leggere i testi artistici

sull'Esercito e le sue battaglie in chiave artistica e in nessun'altra chiave; subito dopo, che dobbiamo immettere i risultati di tali letture nella stessa dimensione in cui, volta a volta, immettiamo i risultati di tutte le altre letture sull'argomento per confro nto e integra zione progressivi. Diversamente, potremmo anche raggiungere qualche risultato, ma non quello fondamentale, che è la comprensione dei nostri atti, valida in sé, come verità, anche quando (purtroppo per noi) non siamo, o non vogliamo essere, in grado di farne strumento di crescita .

Significa, però, anche altre cose, collaterali, di valo re apparentemente tattico, ma sostanzialmente strategico.

Eccone una: le diversità su un assunto cui ci sentiamo vincolati non molestano solo noi, ma si molestano a vicenda; e mentre sembrano chiuderci lo specchio del nostro bersaglio , in realtà ci allargano il campo d'azione. Ed eccone un'altra: la nostra posizione (qualunque sia), più è chiusa, preci sa, più è isolata e più è vulnerabile, anche se munitissima. Più sei come gli altri e più gli altri sono come te (come o con); chi gode di tanto spazio non può secondo giustizia temere di vederlo popolarsi . E un'altra ancora: in tutti i tempi e in tutti i luoghi, l'arte « serve» a qualcosa nella mi su ra in cui le si garantisce di non dover servire a niente. Ciò perché l'arte, come le più alte manife stazion i umane , realizza la più completa libertà personale possibile solo attraverso la libera accettazione della più rigida e autentica disciplina: quella che assicura la continuità della vita inquadrandosi nei ranghi della verità. L a disciplina dell'universo.

Se a ripensare e verificare i nostri valori siamo noi stessi, e tempestivamente, gli altri giungeranno in ritardo, oppure non riusciranno che ad avanzare giudizi concorrenziali e resi dallo stesso ritardo anco r più discutibili di quanto non lo sarebbero, comu nque, di per se stessi.

No, non sono parole dure; e il ricorso al fiancheggiamento dell'arte non è davvero un artificio. E ' soltanto un profondo bisogno di tutto ciò che contribuisce ad assicurare misura , equilibrio. - 90-

Nei primi del 1941, a Torino , nella caserma di Via Cernaia, un generale, piuttosto quotato, teneva un discorso a un battaglione di fanti universitari, « rapati )) e << vestiti )) di fresco. Ad un tratto, interrompendo un'argomentazione, lasciò cadere una pausa di silenzio sugli ascoltatori. Poi, con voce impassibile, declamò: << Chi per la Patria mlllor vissuto è assai )). Si fermò ancora e, alzando la voce in un grido, sentenziò : << L'è una ba'la! Per la Patria bisogna vivere, non morire! )) . Santa, fondamentale, verità.

Per qualunque scopo, per qualunque ideale, bisogna vivere, non morire. Il che significa, anche, il possesso, o l'acquisto, meglio la conquista, della capacità di morire, del saper morire. Il che, però significa soprattutto che la vita apre e chiude tutto; che se l'amore, il gusto, della vita, qualifica l'uomo, ciò non si dà né per caso né per necessità, ma solo, e non ci atterrisce l'idiota ma meravigliosa tautologia, per la Vita . La quale, se è creazione, è amore; se è amore è libertà, perché solo l'identità Amore- Libertà è ragione attendibile di tutto; se è amore e libertà è personalità, in principio come P rincipio e sempre come conseguenza nella durata. Tutta l'evoluzione è stata una progressiva individualizzazione: giunta all'uomo, si accetti la creazione o si accetti il clamorosamente ovvio salto di qualità, essa è esplosa e continua ad esplodere in una inarrestabile personalizzazione Le cavallette, quando invadono (ne abbiamo ricordi apocalittici), passano fiumi m p1ena asfaltando il corso del-

l'acqua di morti in una vicenda di voli a raffiche cieche, finché le ultime annate vanno come sull'asciutto. Ma noi non siamo cavallette; di masse si può parlare e anche disporre, ma vi vive di persona per persone. E morire in senso assoluto sarebbe il più gaglioffo nonsenso.

Certo, tutto ciò non si può dimostrare. Ci mancherebbe altro! Più di ogni dimostrazione già data, e dì ogni dimostrazione possibile , conta proprio ciò che rende possibile qualunque dimostrazione: la Storia, per intenderei, è tutta da dimostrare e crediamo sia ben chiaro che l'analisi non è una dimostrazione , essendo radicalmente da dimostrare essa stessa.

L'arte non dimostra e non si dimostra: propone, propugna, protesta, professa, provoca; soprattutto produce e proclama; e più s'impregna e si spregna di morte, meno vuoi saper di morte. Animale, l'uomo; ma un ben strano animale, l'unico che non vuoi morire, e se accetta la morte, l'accetta solo come vita.

Vada, anche questo, come una delle tante chiavi di lettura per tutti quei capitoli dell'arte, particolarmente di quella ispirata all'Esercito, dominati dalla fenomenologia della morte, con e senza aggettivi particolarmente qualificativi. Il gusto estetico! E cos'è? Una pedata più vigorosa alla vanga, oppure un più rabbioso morso di ruspa, e giù, sempre più giù, ecco qualcosa che manovra e spiega anche il gusto, quello vero e quello falso.

Chiediamo venia: in nome della vita, naturalmente; e d eli'amore che genera la libertà.

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QUANDO PARTIRE O TORNARE

NON È CHE UN UN ICO DRAMMA.

Parte ritorna e riparte l'aria del respiro, parte ritorna e riparte il sangue; e subito al di là dei due circoli (che fanno pensare troppo ad una monotona cronaca d 'un automatismo) c'è il nostro corpo; e subito al di là del nostro corpo c'è tutto il mondo, assolutamente miracolosa vicenda di partenze e ritorni intessuti su se stessi dei propri stessi fili visibili e invisibili. Camminare, far strada, è, più che la condizione, il premio dell'es se r vivi sapendo di esserlo. Persino quando ci illudiamo d'esser fermi bruciamo le distanze in ogni direzione; ché nulla , neanche la luce , è capace di partire , fare il giro dell'universo , tornare e ripartire, come il pensiero, senza battere tempo.

Pure, per la neppur concepibile ricchezza della creazione sempre << in principio>>, ogni momento della realtà è come la realtà intera , perché ogni cosa ha bisogno di tutto e tutto ha bisogno d'ogni cosa. Ad ogni grado della coscienza, della consapevolezza, corrisponde una crescita di ca pienza da parte nostra, ed anche di produttività: dapprima più dolore che gioia, poi più gioia che dolore , infine più serenità che gioia, più verità che serenità Ma nella verità c'è la risata e il sorriso, c'è la lacrima e il singhiozzo e l'urlo, c'è il sos piro, il canto a bocca chiusa e quello a gola spiegata, c'è il semplice sguardo e lo sbracciarsi frenetico. C'è tutto, in perfettibile unità, e senza veri limi ti. Il « tragico », il « dramm atico» e il <<comico >> non sono certo momenti assoluti, autonomi: sono, semmai, gli elementi, gli ingredienti (alla lettera: ciò che mtra) di ogni nostro momento. Lontani , però , come siamo (purtroppo!) dallo stadio di verità, stra- analitici e stra- analizzati invece che unificati, riusciamo solo ad essere, volta a volta, o solo <c comici >> o solo " tragici >> o solo '' drammatici »;

e buon per noi (e per gli altri!) quando riuscia mo ad esser solo « comici>>. Quel mostro d'un Dante Alighieri ce la fece ad esser tutto ; battendo persino Michelagnolo; persino Lionardo! I dittatori d'ogni tipo e misura, invece, prediligono e privilegiano il tragico, qualunque sia la loro parte in commedia.

Insomma , a parte il comune e universale bisogno di distensione come terapia per il mal di lavoro, d ' una risata o almeno d'un buon sorriso come difesa dal pestifero mal di serietà, questo « Commovente distacco ,, e questo « Gioioso ritorno » di A. CERVI son due testi che presentiamo a te sta alta, senza che neppur ci sfiori la mente il pensiero di giustificarci e meno che meno di scusarci, perché traboccano di tJerità: infantilmente, deliziosamente. Ben !ungi dall'offendere la diversa, diversissima, qualità dei testi successivi, fanno da nutrita e nutriente introduzione alla loro lettura. E siamo anche in questa circostanza grati all'Ufficio Storico dello SME per quel piccolo « pozzo di San Patrizio >> che è la sua cartolinoteca , dalla quale abbiamo tirato sù « L'assag gio del rancio >> di NovELLO e dalla quale , con più ampia disponibilità di spazio, avremmo tirato sù (senza rimandarlo giù) altro materiale degno d'essere proposto al degno lettore.

In che co n siste il <<comico >> di queste due << cartoline >>? In una serie di finzioni che tali sono soltanto per eccesso di misura, rappresentando in realtà una serie di rapporti veri.

I cavalli sono assimilati all'uomo (e di genere femminile , ben palesemente) nel cc distacco >>; gli uomini sono assimilati ai cavalli (e di genere maschile, ben paksemente) nel « ritorno». Nei due fatti, le effusioni sono seriamente amorose , e i ruoli s'intrecciano e s'inverto-

IX
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ros-

no. Si guardi, nel primo, sulla sinistra, la cavalla ridotta <( uno straccio )) sul collo e sulla schiena del suo fedele; sulla destra, quella mezza Santippe e mezza <<tardona )) a quattro gambe che scarica il dispiacere -disappunto cominciando a fare ciò che dovrà continuare a fare in sostituzione del partente. Si guardi, nel secondo, la sottile caratterizzazione delle tre coppie, specie di quella centrale, nella quale sembra culminare l'allegra « carica '' tipicamente maschile che si profila sul fondo. Non è il caso, ci mancherebbe! di scomodare la psicanalisi, di qualunque chiesa e parrocchia; ma ce n'è di materiale, tra detto e alluso! Comico, sicuramente, ma, come sempre, cum grano salis. Ogni e qualunque unità che si spezza rattrista; ogni e qualunque unità che si ricostituisce rallegra. Non ci turba, forse , a volte, per alcuni, fino all'angoscia da presentimento più o meno superstizioso, la rottura d'un qualunque oggetto, d'una cosa? E' unità che parte e non si sa se ritorna. E chi è nello st adio della verità, così da ricordarsi, o vedere, che ogni resto d 'una rottura ricostituisce, a suo modo, un'altra unità? Siamo ancora, tutti , chi più chi meno, nello stadio << io))' al più in quello < ( noi»: siamo sommari, spicciativi, in tutto, per istinto; e l'istinto ci è caro, al punto che ce ne fidiamo più che delle nostre restanti potenze (la ragione non è la sola!). Ora, l'istinto, indispensabile in ogni sintesi, perché è la componente .fissa d'ogni nostra operazione, l'ineliminabile e provvidenziale automatismo, ci truffa di frequente (colpa nostra) ergendosi a strumento primario delle sintesi: eppure, contro tutte le apparenze e le prove, quanta analisi (e divisione) produce il sintetico istinto! Per questo, e solo per questo, l'amore e l'unità se lo trovano di continuo tra i piedi, come certe che più cercano d'aiutare e più 1mprcc1ano.

Più si è chiusi, limitati, più si soffre e più si gode; più si è aperti, ampi nei rapporti, anche quantitativamente, meno si soffre e meno si gode. In pace, stranamente, la maggior parte di noi finisce per chiudere e limitare pt0gressivamente la propria dimensione: senza credere di farlo, anzi, a volte credendo di tare l'opposto, incrementa, in luogo dell'unità che

sola garantirebbe la continuità della pace, un:ì serie di attaccamenti , dì preferenze e di esclu· sioni che a un certo punto, sommandosi, ricreano condizioni da guerra. In guerra , pure stranamente, la maggior parte di noi finisce per aprire e slargare la propria dimensione; la rompe con un sistema di attaccamenti, di preferenze ed esclusioni a struttura più o meno obbligata e incrementa, in luogo delle credute divisioni, nuovi processi di unità in una più favorevole molteplicità.

Bisognerebbe realizzare ciò che si realizza in guerra senza fare le guerre . Già! In guerra si parte X, si ritorna Y e si riparte Z. Sì, è proprio strano; ovverossia, è proprio un dramma; e nasce dalla commedia.

Il <<Fante che parte per la licenza >> di ARTURO GrBELLINO esemplifica generosamente il nostro discorso; che probabilmente, per qualcuno, sarà stato troppo grosso tenuto conto delle immagini cui si riferisce , cosi ((modeste))' di scarse pretese. La scena è letteralmente dominata dal sentimento del distacco In alto, tra !abili segni di reticolato , un cielo di polvere umida, quasi assente; presen te- assente anche l'uomo in postazione all'arma: quello di sinistra, disteso, e quello di destra, in piedi in fosso, appena evocato. Caposaldo, prima linea; è guerra tutta guerra, fronte tutto fronte. E' difficile, per non dire impossibile (ma quanto è vero!), comprendere se i quattro. che restano e si levano a salutare (ci spuntano direttamente dal cuore , come rami, quelle braccia e quegli sgorbi di mani) siano meno lieti per il compagno che può rivedere la famiglia di quanto non siano tristi per se stessi inchiodati a un'unità di rischio e dovere. Tutto ha groppi e nodi in gola, anche la pietra, il cemento, anche il segno grafico. Il partente sembra sotto il segno, minuscolo ma ben evidenziato, di quella crocetta spuntata, miracolosamente, come uno strano fiore, in quel cantuccio. Quante cose non spuntano, miracolosamente, nella solitudine spesso allucinante d'un caposaldo!

E lì c'è la presenza ingigantita d'un compagno che ha fruito di ben altra licenza, che è veramente partito per un assoluto ritorno. Rivedere la famiglia e i luoghi amati è il sogno più concreto d'ogni normale combattente. Ma

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dividere, spartire, a lungo, vita e morte, col fiato, cog li odori più intimi, lega più del sangue. Il partente sembra, ancora, chiedere venia; la sua gioia è velata; la mano che, in tempo di pace, con lo stesso gesto avrebbe detto:

« Vi lascio la stecca » , ora dice, e sinceramente: << Arrivederci, tutti! A presto! >>. Perché in questo tipo di dramma la cosa meno sicura, partendo, è di trovare, al ritorno, tutti quelli che si son lasciati. Lo pensano, in primo piano a sinistra, gli altri due commilitoni che non hanno neanche il coraggio di mascherare il loro pensiero.

Nella << Partenza >> di MicHELE AGNOLETTO si può configurare il riflusso di questa marea esistenziale dal- fronte- a- casa. Tornano, e m prtmo ptano, personaggt compnman, coprotagonisti che avevamo lasciato dopo il primo capitolo, profondamente annidati nella memoria di ciascuno dei nostri uomini in divisa, ma occultat.i tanto più quanto più erompenti nel segreto delle viscere : una madre, una sposa, un figlio ancora lattante. E tornano in ispirito di verità, composti, veri, pieni di tenerezza ma anche di solidità. Pensiamo ad analoghe scene dipinte o scolpite in epoche meno inficiate di rettorica ufficiale, secondo canoni di tecnica e di gusto cui sorrise molto il successo: la « goccia di glicerina >> lungo il naso, le forzature degli occhi e dei gesti! Qui tutto sta in reale equilibrio sul filo d'un sentimento inattaccabile dall'esterno. Il « puttino >> è veramente , per non scomodare termini difficili, c< una pennellata», ed è il pu nto più profondo

in cui culmina il crepaccio aperto dal distacco. Il commilitone già sul treno prefigura il mondo da raggiungere: il fronte, o solo un accantonamento , un campo. n paesaggio, ovvio, se vogliamo , nei suoi elementi , ma trattato con finezza da miniatura , come , del resto, lo stesso puttino, ed anche i profili delle due donne, va, secondo noi, apprezzato proprio per la sua ovvietà. E' pronto per esse r ricordato , è già materiale da memoria: ecco, è già, sfumando verso i monti e il cielo, un ricordo, lo spazio di quelli che tornano in sogno a noi quando noi non possiamo tornare concretamente ad essi. Il volto di questo soldato, con quello sguardo, non si può facilmente dimenticare. Con altro piglio pittorico, in chiave sempre semplice ma più smaliziata, ci si ripropone la sicurezza del mondo da cui abbiamo preso l'avvio per questo saggio.

Tutto ciò che ci siamo permessi di affermare per introdurre alla lettura di questi testi riesce probabilmente a spingersi oltre, a raggiungere le terre abitate da quelli che seguono, nell'altro capitolo. Così come nella commedia c'è già il dramma, nel dramma c'è già la tragedia. I fianchi malcelati dal sottanone della ancor giovane mamma, il sonno sognante angeli del puttino, la piccola mano dell'ancora acerba sposina, le mani e i piedi poderosi del partente , il paesaggio da poesia di bambino: troppe cose, troppi valori insieme, l'acqua fermenta e lievita nei fondali, come quando sta per scatenarsi, dalla bonaccia, il ponente o il pazzo maestrale. Tutta la vita è naja; ma va vissuta.

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I PREZZI Più ALTI.

E sono prezzi, umanamente, assoluti. Non pagano l'acquisto di questo o di quel bene; non pagano nessun acquisto; pagano, per assurdo, una perdita, che a volte è, per molti, riparabile, a volte, per molti, irreparabile. Sempre assurdamente , prezzo che paga se stesso; come un miliardo nel deserto , privo, nonché di valore, di senso. La ritirata, per sconfitta o per rinuncia da impotenza, e la prigionia mettonò in crisi tutte le domande e risposte sui possibili acquisti della vita e sui relativi prezzi; infatti dicono, senza attendere obiezioni, affermano, perentoriamente, che l'umanità non ha altro prezzo che se stessa, perché di se stessa è moneta e merce, la sola valida, la sola degna. Per questa umanità Gesù, l'Uomo- Dio di noi cristiani, ha pagato lasciando morire in Cr oce la sua umanità: prezzo unico , non trattabile, definitivo; e a fondo perduto sia come prestito sia come investimento E' vero: per noi è questione di fede. Ma all'interno della fede sta una logica talmente poderosa che vi si possono fondare tutte le possibili matematiche di tutta la n ostra possibile storia.

Credenti o meno, scettici, agnosttcl o atei, tutti_ quelli che hanno patito una ritirata o una prigionia sanno, comunque, lo credono, che nulla è più terribile del non sentirsi più (poco a poco o d'un tratto) uomini. Du n que , essi sanno che soltanto un a ltro uomo vale un uomo; e non ci sono <c ma » che tengano. I conti della verità quadrano sempre.

Da cc La lunga marcia verso l'Ovest>> di Giacomo Raimondi abbiamo scelto una tavola di rara potenza nella quale ci sembra che, ancora una volta, l'autobiografia, l'estrema partecipazione personale, libera, ad una testimonianza corale, si avvalga , per esplicare tutta la sua efficacia, proprio dell'inquadramento in una estrema disciplina cosmica. Un vento senza pace incalza e piega tutti questi uomini an-

cora tanto lontani dagli amici quanto già dai nemici cui volgono le spalle. E sono tutti ridotti a segni, a macchie, nero su bianco striato di nero, in lotta col più spietato, impassibile , dei nemici : lo spazio metallizzato dal gelo, dilatato fino al parossismo dalla solitudine e dalla stanchezza. Tutto il coraggio, tutta la forza, che non sono bastati a vincere militarmente , si stringono , si appallottolano su se stessi per resistere a quel vento alle spalle e a lle raffiche della disperazione dal cuore, per vincere nell'ultima istanza: quella umana , tenacemente, in alienabilmente umana, irrinunciabile. Torna la virtù dei c< giganti » morandiani, la pazienza, il sentimen t o del tragico illuminato, sia pur fiocamente, dalla speran z a. Bisogna giocare cc l'ultima mano»: e tutti coinvolti, . compresi i fedeli animali, i mezzi meccanici, le slitte. Chi cade definitivamente e deve esser lasciato sulla pista, troverà o ritroverà Qualcuno mai incontrato o dimenticato, da sempre pronto all'ult imo va rco di ctascuno.

Esodo, migrazione, e qualcosa di più: la strada dei progenitori fatta a ritroso, perché l'Eden c'è, ci deve essere. Come dire: la Storia ipotesi di esistenza; non tanto vita quanto ricerca sperimentale della vita. Ma quanta grandezza anche nei più piccoli segni- uomini appena visibili sotto il taglio feroce d eli' orizzonté!

La tavola a fronte, di GIAMBATTISTA P ieCARDI, pur se d'altra mano, sembra nata dopo l'epilogo del dramma già in atto nel gruppo centrale, in primo piano, della tavola di R aimondi. Tratta, anch ' essa, dalla cartolinoteca dell'Ufficio Storico dello SME , potrebbe fare a meno d'un titolo. Ma noi le diamo questo: « Veglia funebre> > N on è, convenzionalmente, bella. Vogliamo, però , (anzi, lo dobbiamo) dire di essa ciò che spesso si dice di certe donne: " Non è bella , ma è più e meglio che se

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fosse bella » Non ci sfiora neppure il pensiero, affermando ciò, di giustifica re la scelta. E' sem pre e soltanto tutta co lpa della fame e dell a sete di verità, di umanit à; bisogno irrefrenabile di proclamare ce rti primati. Ancora un ricordo del 1941. Nella Caserma degli Alpini , a Pinerolo, qualcuno av eva scritto su una p arete dei gabinetti (di decenza, sì!) ovverossia delle latrine , a carbone: .. Il mulo e l'alpino sono due animali pazienti». Ci nasce della reve renza , al ricordo; o rinasce, o si rinfocola. Era una scritta all ' acido muriatico: però , oltre alla pazienza, quanta umiltà , e solennità non fasulla! Se qualcuno sente leggendo quel che sentiamo noi scrivendo, usi pure il dorso della mano , anche se non è solo. Non c'è affatto da vergognarsi; anzi, è nobile. Certo, bisogna ro-vesciare ce rte prospettive; anche in materia di lettura e critica d 'ar te s iamo chiamati a convertirci. L'arte la fa c hi la fa, se nza bisogno di patenti o licenze; ma poi chiede occhi e cuori semplici. Così.

Il motivo della prigionia , rimeditato, ci ha imposto, tra tante testimonianze, un'altra dell e deposizioni - profezie di P rETRo MoRANDO: c< Verso l'esilio » Ci permettiamo, scusandoci col lettore, di richiamare l'attenzione sulla dedica: « A G. Puccini - A Plinio NomelliniA Ildebrando Pizzetti - All'avvocato A. SardiA V. Gemito = Gran Uff. A. Cagno/i ». E sulla data: 1917. Sono trascorsi sessant'anni di questo secolo di secoli; ma ne potranno trascor rere tanti e tanti altri: questa è arte e resta. Il volontario del 38° Regg imento Fanteria Pietro Morando, tre volte decorato al valore, fatto prigioniero durante la ritirata del Piave, si avvia con altri compagni e fratelli d'arme verso il campo di concentramento di Nagjmejer in Ungheria (di dove , con la medaglia d'oro Stefanella e il tenente Del Vescovo , riuscirà ad evadere, per essere riacciuffato mentre stava per raggiungere la Romania). Il suo discorso grafico, come al solito, va per le spicce: è necessità ed è vocazione. Calca e crea, tocca e crea , sfiora e crea, senza un cedime nto né alla stanchezza né alle lusingh e d e l narcisismo così facile a traboccare dall e v iolente e mulsioni delle g randi sofferenze. Sotto qu es to cielo smagliato da voli di corvi il paesaggio i n fuga per piani

allusi, sugge r iti, ha già divorato e assimilato i volumi e le superfici degli uomini : schiene, schie ne e teste ch ine come framme n ti di territorio; corpi di caduti come interruzioni, asperità del sentiero, come già terra sulla terra. Per uno di essi i due uni ci sguardi della composizione, fradici di tutti i possibili sentimenti. Ora, veramente, sop ravvi ve re è il solo modo di se r vire, di militare. Che giova rendersi ulterio rmente conto di quanto gra nd e sia la piccola Terra, e dell'importanza di scoprirla, attraversarla, conquistarla per uma nizz arla, goderla , dal momento che è stata preparata proprio per noi? Tra poco rischi eremo d'essere pietre , alberi, e stecchiti, al più animali da cortile, in uno spazio da tomba, in un tempo di piombo. Un prezzo spaventoso, di per sé; e tendente a sali re con la fame , la sete, la sporcizia, il colèra, le torture, la nudità al palo con qualunqu e tempo. Di tutto ciò il MoRANDO ha lasciato un m emoriale di grande altezza, del quale , come in un vero e propri o preludio, sono qui presenti i motivi e i mòniti. Ma egli per primo ha pagato se stesso co n se stesso ed è sopravvissuto ed ha ripreso a vivere. Dunque, ha fatto bene a non mentir e, per sé e per gli altri. Anche per questo , è gi usto rinverdirgli un onore che gli spetta, come sol dato e come artista : come uomo.

Degnamente, ci sembra, il << preludio » mo-randiano può essere integrato da questo « intermezzo » : l'abbiamo preso da « Venti mesi tra i reticolati » di MARCELLO ToMADINI e porta una didascalìa pietosamente ironica: « Si cominciano a vedere i segni della denutrizione » . L a finta pace succeduta alla c< gra nde » guerra ha maledettamente s pi ga to in una Grande Guerra : tra il '17 e il '44 d el secolo di secoli so n tra sco rsi 27 anni , m a se mbra un 'unica sto-ria; i prezzi si mantengono alti, anzi si fanno sempre più alti. Non so no i nudi della « Visita medica » di BARATTI , non è <c La doccia » di QuiNTo CENNI : è una patetica fiera di esemplari declassati dalla siccità e dalla carestia; un canneto umano trapiantato in serra, all'asciutto, e vivificato da rad e e stente piogge artificiali. L'insiem e d ella co mposizione è di quelli che colpiscono a prima vista, ma poi , ad un seco ndo sguardo , de stano qualche perplessità

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per un che di ripetitit•o, di riprodotto, di moltiplicato, cui sembra artificiosamente affidato l'effetto. Ci vuole una terza visione, calma, una tranquilla, distesa, lettura: ed ecco, le perplessità si sciolgono dentro la prima impressione che torna, arricchita e unificata, in un lento malessere, in una musicalità rassegnata, con un sottofondo di pudore umiliante più che dolente, quasi di gioia mortificata. L'impianto, la linea del disegno e certo levarsi di braccia ricordano un po' il clima di alcune illustrazioni di scene dantesche: su un filo esilissimo di n dannazione » sbiadito dalla poca acqua, una danza di anime purganti . Ma ciò può attenere a un «g usto», ad una formazione artistica e soprattutto a un tipo di tecnica, di cc mestiere ». Tutto il resto, il meglio, è « comme-

dia dell 'ar te », cc recita a soggetto», autonoma, personale, autentica. Fa cam po di concentramento, fa c• baracca » pur se c< bagno >> : è diario; è forse l'autobiografia condensata di quel dolente cristiano che si piega sulle ginocchia, scheletro tra scheletriti e protende il volto più barba che carne per guardare, ricordare, tramandare. C'è tanta for za di misericordia nel suo atteggiamento: verso i compagni ed anche verso se stesso, verso quel che rimane, via via , di se stesso nel cedere, dopo il superfluo, il necessario ai limiti dell'indispensabile. Per comune consolazione, sembra dire a nome di tutti: cc Finché c'è acqua c'è vita, però ; e speranza ». I segni della denutrizione si cominciano a vedere : è già qualcosa, anzi, è ancora tanto. -119-

Osservare all'alba il mondo che nnasce, mentre tutto ciò che è stato nella notte resta vero diventando ricordo; attendere ciò che accadrà sorvegliando ciò che intanto accade; ricuperare tutte le dimensioni, tranne quella immutabilmente riservata all'imprevisto.

Constatare (sul principio, nel mezzo oppure al termine d'una giornata , o dell'intera vita) che l'unico fatto preciso, dopo la nascita, è la morte, il non esserci più; che tutto il resto sembra preciso ma in realtà risulta sempre misurato male; salutare ciò che è finito e specialmente chi è morto, o meglio si è definitivamente sottratto al nostro solito modo di osservare, e staccarcene, accettando senza comprendere o comprendendo senza accettare.

Tra queste due operazioni, diremmo, si svolge tutto, a seguitare; e da esse, a vicenda o simultaneamente, vediamo scaturire la forza che, spingendoci verso il cosiddetto avvenire, fa brulicare di creazione l'inesauribile presente Il dramma accadere- accettare- comprendere è l ' ombra che il corpo vita- morte proietta al nostro passaggio sulla Terra anche senza il Sole, persino alla luce del buio.

Tutti i nostri problemi nascono dall a morte , non dalla vita; i valori nascono dai problemi; dunque è la morte che li inquadra, li illumina, li quota. L a nostra morte. Su questa si fonda la stessa politica, perché tra immortali il potere verrebbe totalmente risolto nel volere e il volere in fare, senza veri limiti, senza leggi. E vi si fonda anche l'arte, che dopo l'amore è il più reciso rifiuto d'ogni cessazione, d'ogni sparire, libro mastro tra i più antichi e attendibili dei valori della vita nel loro guadagnare, dall'abisso, lo specchio della coscienza e il fiore del pensiero.

I valori più alti sono, pertanto, da sempre e per sempre , quelli che l'uomo esprime nei momenti in cui, invece che l'ombra del dram-

ma accadere- accettare- comprendere, il suo corpo vita- morte proietta luce perché alla luce si arrende , dalla luc e si fa attraversare e riempire fino all'assimilazione. Quando, cioè, l'uomo smette di chiamare « Io » tutto e tutti, uscendo dalla sua vera galera, diventando , da ·consumatore, produttore di storia.

Osservatore all'alba >> di P rETRO BrFFIETTA, !mposta delicatamente, con dolce forza, la prima parte del nostro discorso. La figura ha una modulazione lieve, lirica; l'abbandono un po' sognante, misterioso, è però compatto, raccolto; affiora dalla notte di veglia in una luce trepida ma già reale per il contrasto tra il tenero e il duro dei gialli, dei verdi, dei viola. L'arma è nel pugno con la sicurezza e la

XI I VAL ORI Più ALTI.
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noncuranza delle abi tud ini; lunghi pens ten vanno e vengono tra notturne reminisce nze e ferme presenze di oggetti sot to lo sguardo esperto, maturo, di veterano d'un se rvizio tra i più carichi d i responsabilità. Ancora un inizio, un'altra apertura. Tutto può succedere e di fronte ad esso, an co ra solo possibile, quanto è sicu ram ente già accaduto è come se se lo fosse preso la notte. Il breve squar cio di paesaggio, in fondo, nasce appena, o forse sta per nascere. Passamontagna e mantella sprigionano e imprigi on ano a un tempo il bisogno di sonno; ma il tratto un p o ' gelatinoso del disegno non riesce a mentire. Così si sta s pesso s u mol t i tratti dei confini dell' esiste nza , quando si sa che sia m o particolarmente responsabili di tutti i co nvi ve nti. E come un res pir o di bambino, come un impercettibile tremore, tra freddo e caldo, alitiamo o ricordiamo una preghiera, canto di co nfine.

<< L'u ltimo saluto » d ello stesso PIETRO BIFFIETTA chiude, invece, là prima parte del discorso. Non sappiamo co me il lettore acco-

g lier à qu esta « cosa da nulla )) Noi confessia mo che semplicità di questo ge n ere ci sconce rt ano , sempre; e non so lta n to all'inizio , ma anche al termine d ella lettu ra. Come si fa a rappresentare i l silenzio? Perché proprio il silenzio precede immediatame nte e immediatamente segue i fatti veram ente più importanti, quelli che splendono, a in cand escenza, di valori. Occorre conoscerlo, averlo vissuto: quello grande , interiore, che un solo gesto in più può rompere, violare, profanare; quello ch e sa lva dove e quando tutto il resto è, invece , rumore ; quello ch e spaven ta o solo m ette i n soggezione di fronte non tanto alla morte quanto al morto, propri o perché è, per assurdo , la vera voce dei valori che il frastuono della <• vita » così spesso soffoca e s penge . Il fante in ginocchio, poco più d'un ragazzo , «si scari ca » rassettando la terra sotto la croce come se ricomponesse la salma; il graduato , un po' più anziano, •< si ca ri ca )) imme tte ndo nella memoria quanto può della vita del morto e della morte in agguato sui passi d'ogni vivo. Anche qui , e ci ripetiamo nei confronti di qualche altro passo di questo saggio, amore si fa pietà , pazienza grazia.

Chi innalza un si mbolo innalza la co munità c he vi si riconosce e se n e fa rappresenta re , proc lama la sua appartenenza ad essa e si impegna solennemente a re nderl e te stimonianza; egli è g iusto, nel senso antico e perenne del termine , martire della comunità. E qual e che sia il simbolo, il segno, sempre importante, l'atto dell' innalzarlo è ancora più importante di esso: se, infatti, << il Sabato è per l 'uomo», anc h e il simbolo è per l'uomo, allo stesso ti tolo; da uomini e per uomini è stato ideato, proposto, scelto. Questo, !ungi dallo s minuirlo, ne fi ss a il valore e lo difende da qualunque conte stazi o ne Qualunque s imbolo decade e scompare soltanto quando non c'è più n essuno disposto ad innalzarlo in nome di qua n ti (molti o pochi che siano) lo ri co noscon o e gli rendono testimonianza a qualch e prezzo: perché dietro ogn i simbolo c'è una qualche verità e nessuna verità è se nz a testimoni. N el mondo degli uomini , i testimoni fa nn o la verità; e sull a base di ciò che cos ta farla , se ne stabilisce il valore. Il simbolo sin-

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tctizza, pragmaticamente, sia il far la verità, sia la verità, sia il suo valore. Anche il simbolo è un punto di partenza già stato punto d'arrivo, un centro di gravità risultante dalla condensazione di una molteplicità di già gravitanti. Anche per questo è così difficile, sempre, sconfiggere un simbolo, batterlo veramente in breccia, ed è talvolta impossibile distruggerlo.

Tra i simboli, la bandiera è uno dei più ricchi e caris matici Ma è anche uno dei più ambigui; in se e per se, naturalmente. La sua fortuna nella storia dei simboli è senza pari; il suo potenziale unificante e rappresentativo è tale che il suo stesso nome , in traslato, metaforicamente, riesce a far da segno di qualunque aspetto dell a realtà e persino delle intenzioni , dei pensieri segreti. La sua ambiguità è il prezzo pagato alla sua fecondità, prolifera come poche cose al mondo. C'è la Bandiera, e ci sono miriadi di bandiere e bandierine e banderuole. Ma quella che conta è la Bandiera , al punto che nessuno è più capace di farne a meno. Nei momenti più acuti del ricambio sto rico , quando si fanno saltare con la violenza cerniere, strutture, contenuti e segni del mondo sottoposto a giudizio marziale, si giunge a bruciare una Bandiera; però se ne crea e inalbera un'altra. I cortei politici che hanno sostituito le antiche processioni sono ormai navigazioni d'uomini e d'armi in oceani di bandiere. L'ambiguità c'è e come (nei nostri atteggiamenti, non nella Bandiera) ma la demitizzazione è sempre ed esclusivamen te una pura e semplice sostituzione. Mito per mito? Evidentemente il fatto ci risolve e soddisfa assai meno di quanto andiamo proclamando da sempre o quasi; al punto che non possiamo proprio fare a meno di levare al disopra di esso, e di ciascuno dr noi, e di tutti noi, un 'idea materialmente intessuta, multi o monocolore, nella quale siano e il fatto e il da- fare e il mai- fattibile. Di una Bandiera potrebbe fare a meno (ma in pratica, no) solo gente che prega, che sa pregare perché crede veramente in Dio. Ma chi non sa o non vuole pregare; chi vive, combatte, vince, perde, spera, dispera prima di morire nel ventre della realtà effettuale, leva come orazione la sua

Bandiera. Se la Fede è qualcosa di mtt1co, la Bandiera è allora l'ostensorio della F ede, Speranza e Carità laiche, rigorosame nte ma religiosamente umane. Non è materia di discussio ne politico- sociale, ma di culto civico e civile. Se la Storia è l'unità progressiva di tutte le nostre ipotesi d'esistenza in cerca di verifica attraverso la morte , la Bandiera è il simbolo di tutti i problemi che da tale ricerca erompono e dei loro rispettivi valori.

L'alzabandiera è dunque la preghiera storica, laica, del cittadi no , particolarmente del cittadino in di visa, del soldato: dove l'accettazione della disciplina come obbedienza sostituisce l'adorazione , ma dove domanda e ringraziamento sono presenti nella lode. Ed è preghiera di unità: particolarmente in guerra, al fronte, quando , per la distanza spesso enorme dalla propria terra , l'unità è tutta dentro, e i segni che scand isc ono lo spazio sono avversi, ostili.

Non siamo riusciti a dire qualcosa di meglio, o d'altro, proponendo al lettore « Alzabandiera in Russia » di ALVARO GIORDANO. Dov'è , qui, la Bandiera? E cos'è? E' tra le braccia del soidato che ci guarda tenendola ben stretta, si identifica con lui, se ne distingue solo per il colore. Ed è qualcosa di proprio, di intimo, non di c• ufficiale », non di cerimonioso: nasc e o rinasce da una disposizione d'anima rudemente, anzi, rozzamente, espressa, in un ambiente ridotto quasi a schema, d'una dolce- amara poeticità, non come un mito , ma come un oggetto caro , un'esperienza d'amore. Il massiccio, quasi informe, combattente, dal viso di terracotta e l'elmo fuori misura, jn bìlico, la tiene come una donna, come un figlio, mentre il compagno di spalle, di mi r abile impianto plastico, manovra come può, impacciato da tutto, la cordicella: delicato, in forte contrasto, nelle mani che a malapena si differenziano dali 'albero. Sotto altra ispirazione, o meglio in assenza di ve ra ispirazione, l'Autore avrebbe forse avuto paura di cadere nel dolciastro d'una romanticheria; forse anche di mancar di risp etto al simbolo: ecco, di demitizzarlo. Così, invece, ha dipinto come si cammina, come si respira: tutto normale, tutto naturale. La Bandiera è

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qui ed è sù, dove sta per andare, ma dove intanto già la contempla il <1 suo » soldato sotto le braccia protese e le mani che fuggono. Qui , solta nto qui, sono i due uomini , le gambe come gli a lberi, come le palizzate, i co rpi come muri maestri, i pensieri e i sentimenti domestici, pudichi, pi ù infantili che giovanili: perché questo può ben essere un ritratto d e lla fede, ed essi, con la loro fede, dànno valore a ciò che fanno. La loro presenza occu pa quasi per intero lo spazio in cui agiscono, in compagnia d ' un solo muletto, come se dove ssero qualificare il mondo inte ro. Si può vincere e si può perdere, ma la prima cosa è testimoniare. Quando non sei tu che sul campo hai s parso se mi di errore, se testimon i bene , veracemente, può essere che tra gli errori nasca s ul campo, per te , qualche verità. Onore , sempre , al simbolo innalzato bene, con cuore semplice e con mani pure. E il qualunquismo, se ntiamo il dovere di agg iunger e, è proprio tutt'altra cosa .

I testi che seguono : << La Mes sa>> di PIETRO MoRANDO e << Natale 1944- La M essa di mezzanotte» di M ARCELLO Tm.tADI NI , si stampano sul fondale dell'Assoluto, prospettano il supremo dei problemi, da cui germoglia un valore di abissale misteriosità e di tanta se mplicità da resistere alla mente più agguerrita e da cedere al cuore più inerme. Credere o non credere non agg1unge e non toglie nulla alla possibilità di sapere , di ca pire. Pure , n ea nche p er chi non crede l'Elevazione è l'equivalente religioso dell'Alzabandiera. Simbolo può esse re il sacerdote , il prete per alcuni; simbolo, ancor più che delle ce rtez ze, delle speranze, del bisogno di conforto, di conso lazione , del biso g no di pace almeno psi cologica. Ma quel pezzo di pane, quel ca lice di vino , per chi è nato e cresciuto n el clima della cultura cristiana, si a pur e genericamente, non possono essere simboli: o n on sono proprio niente, o sono pietra d 'inciampo , di scandalo, o sono una Verità total e per via d'una loro totale, nostrana, assurdità . Un fatto, irriducibil e a qualunque tipo di discorso che non si generi e si svolga dentro la dim ensione cui si accede per la « porta stretta »; un fatto che si ripete da venti secoli nelle più ovvie e nelle più im-

pensabili situazioni geografiche, sto riche , es iste nziali , a tutti i livelli e in tutte le collocazioni sociali, economiche, politiche, culturali, antropologiche; i n pace e in guerra; nella g ioia più magma incandescente e nel dolore più pietra , più metallo; resistendo ai crolli di tutte le di ghe che hanno inesorabilmente s pazzato non pur truffe, menzogne e miti , ma anche uomini e cose portatori e portati di verità. Anzi, acqu istan do una consistenza sempre più concreta, fattuale, proprio nel vivo delle crisi che vedono tanti punti interrogativi sostituire le scienze sul tabellone di marc ia della Verità. Una cosa per noi sempre tropp o alta o troppo profonda, troppo a d estra o troppo a sin istra; eppure così s tretta che vi stiamo dentro come in sandwi ch.

E' che la « cosa » non sta né sù né giù, né a destra né a sinistra di tutti e di ciascuno: essa sta, invece, in tutti perché sta in ciascuno. Prendete e mangiate: questo è il mio corpo; prendete e bevetene tutti: questo è il m io sangue, versato per tutti in remissione dei peccati Questa c< cosa >>, o la chiami Cibo o non sai proprio co me devi chiamar La . E il cibo p assa per le mani e per la bocca; solido o liquido è corpo che e ntra nel corpo e div enta corpo e sa ngue: è ciò che garantisce la Vita. Ma è corpo e sangue di Dio Figlio diventato uno di noi restando Dio; con quel corpo e con quel sangue noi ci uniamo a Dio restando noi, uomini ma figli di D io. Che possibilità c'è di discuterne? Per poterne discutere, la fac cenda dovrebbe poter figurare in un qualunque or dine del giorno di tipo nostrano: per esempio, in quello d ' un congresso di pazzi. Inv ece si tratta , molto semplicemente, di prendere o lasciare: è così da venti secoli. E chi lascia dice più o meno quello che dissero, secondo il capitolo sesto di Giovanni , gli ebrei (i Giudei! ) commentando il più rivoluzionario e pazzesco discorso dell'intera s toria: « Come può mai costui darci a mangiare la sua carne >>? Gesù, infatti, stava loro dicendo: « Io so no il pane della vita. I padri vostri mangiarono nel des erto la manna , e morirono. Questo è il pane di sceso dal cielo affinché chi ne man gia non muoia. Sono io il pane vivo disceso dal cielo Se uno mangia di questo pane , vivrà in

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eterno; e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo>>. E tra quei commenti insisteva, rincarando la dose : cc Perché la mia carne è veramente cibo e il mio sangue è veramente bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me ed io in lui >> Non era certo materia per esercitazioni accademiche. Però, secondo Giovanni, « queste cose disse Gesù insegnando nella sinagoga di Cafarnao » , nel vivo del suo poco accademico triennio di cattedra terrena . E fu sb rigativamente contestato; anzi, peggio, fu snobbato. cc Molti adunque dei suoi discepoli>> (figu r iamoci gli altri!) « udito che l'ebbero, esclamarono: Questo linguaggio è duro ! Chi lo p uò ascoltare? >> Infine, dopo avergli addirittura sentito dire << nessuno può venire a m e se non gli è concesso dal Padre >> tra il prendere e il lasciare scelsero questo. << Da quel punto molti dei suoi discepoli si ritrassero e non andavano p iù co n lui>>.

Ora, la Messa è tutto questo. Chi prende, non gl i passa per la mente neanche il minimo sospetto della possibilità di discutere. Stupenda, sublime opera, la cc Disputa del Santissimo Sacramento >> : un lusso, uno scialo vertiginoso di genio pittorico! Ma c'è più verità nella tavola di Morando. Quante navate scandiscono questi alberi- colonne in mezzo alla neve? Ce n'è di architettura! C'è persino un solen ne Altare della Confessione degno del Tabor, del Getsemani e anche del Golgotha. Ci sono sop r attutto , a ridosso del Cappellano che compie il meraviglioso gesto assurdo, questi uomini, questi « giganti » morandiani disegnati come anime, ripiegati su se stessi perché non hanno bisogno di cercare sù o giù, a destra o a sinistra, Q uello che o credono o rispettano dentro il cuore, nelle viscere. Essi stanno in cima alla loro esistenza, a picco; e sotto c'è un abisso da De profundis. O è vero l'inverso? Non è difficile, in ogni caso, sentirli di re: « Signore, che Tu ci sia o non ci sia io non lo capisco, n on l o posso capire. Io non capisco niente, tranne questo, e penso che Ti basti: Tu hai versato il Tuo sangue e lo stai versando di nuovo. Ebbene, anche noi: c'intendiamo. Dai un'occhiata, Ti prego, ai miei vecchi, alle donne e ai bambini; e danne una

anche a me. Non tener conto di qualche mòccolo; sono le labbra , non è il cuore. Se domani non la sfango, mi piacerebbe proprio incontrarti. Mà vedi tu. Qui l'è dura; ma fu dura anche per te, anche peggio. Allora! >>. E non è difficile neppure unirsi a tanta preghiera. A cielo aperto.

11 testo di T omadini si precisa, per la sua chiusura, o, più prop r iamente , clausura, ed anche per la sua insegna natalizia, in termini non così epici (neanche, però, meno drammatici) , bensì, certamente, più paradossalmente angosciosi. L a stessa Eucaristia si celebra, in una baracca da prigionieri, nella memoria liturgica del primo grande atto dell'umana liberazione : una « occasione » che, nella nostra cultura, è potentemente, prepotentemente, domestica; anzi , addirittura casareccia, carica di abitudini , significati, ricordi, obblighi , con puntualizzazioni ineliminabili in volti, musiche, sapori, profumi e commozioni. Una immensa, incomparabile e probabilmente insostituibile sagra d'umanità che il « Bambinello» (qui, sì! sovente più simbol o che realtà) unifica segretamente, nascosto (tanto per cambiare!) nel cantuccio della servitù Non è cc La Messa »; è « La Messa di mezzanotte >> ; ed è Natale in prigionia.

Giova ripetere, anche qui, un'osservazione: se la Fede fosse sempre gioia, sia pur sepolta, qui non ci sarebbe Fede. Una grande tristezza lega tutti ques t i uomini intorno all'altare; non toglie nulla allo squallore di cui è fradicio l'ambiente: sfuoca le fisionomie; spenzola dalle cordicelle con gli << stracci >> stesi ad asciugare; accentua la << distrazione » di tutti e di ciascuno; sembra, dal gesto, molestare particolarmente il celebrante . Ma non può essere che questa, la verità. Il fronte è lontano, ormai; ma anche la patria, la propria casa, dunque tutto il mondo: succede come successe a Lui e a Maria e a Giuseppe.

La fede pura, la fede completamen te nuda, ai limiti dell'annientamento totale , può conoscere quella che noi chiamiamo, ordinariamente, gioia? E ' il salto nel buio , coscientemente accettato: è il punto zero d 'una realtà nuova sulla massima quota della realtà consueta. Anche di certa gioia, a volte, bisogna vi n cere la

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tentazione. Avviene quando, sia per chi crede sia per chi non crede nella Risurrezione, la libertà, che qualifica ]'uomo e che è la fonte della gioia in tutti i suoi modi, si confronta giusto col rischio dell'annientamento totale , con la morte personale, pur di proclamarsi , di celebrarsi, come l'unico accettabile significato dell'esistenza, singola e collettiva. Siamo in cima alla guglia della disciplina, dove l'obbedienza alla legge più alta si confonde con l'obbedienza al nostro mistero, con la scelta del mistero; e stiamo per staccarcene, per fare il « salto nel buio » che del buio è la più irriducibile negazione, sempre e dovunque .

Proponiamo al lettore il noto quadro di ALBERTo DE AMICIS, raffigurante un episodio della Resistenza, la « Difesa di Porta San Paolo)), del 1943, tra due alte testimonianze di verità artistica: « Figure di fucilati per un gruppo scultoreo » di GIUSEPPE MAZZULLO, e «Fucilazione» di MARIO MAFAI.

Non si tratta, per noi, di « Omaggio alla Resistenza >> : ripeteremmo, troppo comodamente, ciò che altri, a ben altro livello, ben più degnamente, han fatto. Si tratta di legare questi testi alla storia del nostro familiare discorso, in modo che risultino come i terminali sacri del capitolo sui valori più alti , a un tempo sigillandolo e spalancandolo alla meditazione ed alla prosecuzione da parte del lettore.

Il DE AMICIS ha fatto cronaca: di storia nuova tra le viscere della Storia perenne. Memento; per tutti, senza distinzioni; i debiti van pagati. E' criminoso quanto sciocco fingere d'ignorare quanto è costato ciò di cui godiamo.

Gli uomini del potente disegno di MAzZULLO, fermati nell'atto in cui non muoiono ma emergono dalla pietra della schiavitù,

amiamo presentarli con le parole dell'Autore: c( L'ispirazione alla Resistenza non rappresenta per me qualche cosa di occasionale e di commemorativo, ma un soggetto che appartiene alla zona più intima e sentita della mia coscienza di artista. 11 sentimento di slancio verso l'ideale del riscatto dallo straniero e della libertà, di orrore e di indignazione per l'offesa alla natura umana che avvenne allora , di fraterna immedesimazione per le sofferenze subite in quel tempo, è un sentimento che direi si identifichi alle stesse forme e ai problemi stilistici della mia scultura »

Ci permettiamo di aggiungere, di nostro, solo questo: leggiamo il testo in senso ascensionale, da destra a sinistra, come se un solo patriota, dopo essersi raccolto nel suo sacrificio, si scuota e poi si sollevi, offrendo a noi tutti la libertà.

Anche la preziosa, essenzialissima, pittura di MAFAI giova presentarla con le parole dell'Autore. Essa fa parte « di un gruppo di circa 30 opere che furono dipinte dal 1939 al I943· I s9ggetti rappresentano diverse fasi di una rivolta umana dopo l'amara constatazione che nello stesso tempo, nello stesso spazio e nella stessa società in cui vivevo si era scatenata una tempesta di male. Sadismo, cinismo, ferocia ne erano i dominatori e la pietà, l'amore e il sacrificio non riuscirono a fermarli. L'uomo ha dentro di sé un contenu t o misterioso e sacro e il male non si può giustificare in nessun modo, né in nome della razza, né dei popoli, né delle ideologie. P iù tardi, dopo il ripetersi di nuove violenze e la conoscenza di quelle ant i che, ho pensato che il male è una malattia delruomo e che per eliminarlo bisogna rinunciare all'odio che ne è all'origine. Ma questo è difficile , quasi impossibile».

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Le parole di MAFAI con le quali abbiamo chiuso il capitolo precedente sono drammatiche nella loro purezza e tragiche nella loro sostanziale disperazione. Dopo l'esaltante dichiarazione che « l'uomo ha dentro di sé un contenuto misterioso e sacro», per cui « il male non si può giustificare in nessun modo», sì sente l'Artista dire che « il male è una malattia dell'uomo>> e che << per eliminarlo bisogna rinunciare all'odio che ne è all'origine». Un tetto di saggezza, o forse addirittura di sapienza: dove, però, la diagnosi rappresenta il risultato estremo, l'ultima conquista; l'indicazione della terapia risulta, infatti, perfettamente inutile , in quanto rinunciare all'odio << è difficile, quasi impossibile». Anche quel «quasi », nel contesto, ci sembra inutile. Se rinunciare all'odio è impossibile, dobbiamo accontentarci di sapere che siamo ammalati di male, cioè dì odio, prenderne atto e regolarci di conseguenza.

In verità, di <<eccidi >> è seminata e fecondata la nostra storia, che alla superficie tende a coincidere con la storia del male, del nostro male. Ma chi rinuncia all'odio, elimina o no il male? Se il male è l'odio, sì: non quello altrui, ma quello proprio; comunque, sì. Chi, però, non rinuncia all'odio, sia o non sia compiuta l'identità odio- male, non elimina né l'odio né il male; né il proprio né l'altrui. Tra chi rinuncia e chi non rinuncia all'odio c'è un rapporto, stretto, anzi strettissimo; e lo si può mettere all'insegna matematica di tutte e quattro le << operazioni >>: addizione e sottrazione, moltiplicazione e divisione; quest'ultima è decisiva ed è finale. Uno strano discorso: il culmine dell'odio- male è la morte, orrendamente e sconciamente (sul piano etico), impassibilmente e perfettamente (sul piano matematico) distribuita. Non è una fine , non è un modo o un altro di finire : è la fine; e

amen. Non è una tempesta di male periodica, magari ciclica, stagionale; per quanto ci riguarda, è << la bufera infernal che mai non resta ». Accettando la nostra condizione come una dimensione chiusa, la morte frustra, beffeggia, ridicolizza, prende per i fondelli, globalmente, la nostra umana natura, e di essa, partÌcolarmente, « l 'ideale del riscatto dallo straniero e della libertà», ideale perenne, mai spento, per il quale il sangue dell'uomo è sempre scorso, scorre e scorrerà, veramente, a fiumi. E di qual mai bestiale truffa saremmo vittime, da qualche milione d'anni, se alla fin delle fini c'è la fine, di ciascuno e di tutti? E i valori più alti ai più alti prezzi? E il valore, il valore - base, il valore fondo di garanzia d'ogni nostra ideale moneta? La strage di chi vuole la libertà, seguita dalla strage di chi non la vuole, e ancora dalla strage di chi la vuole? Allora la negazione dell'odio, la rinuncia ad esso, che sarebbe poi la proclamazione dell'amore come radice del bene, è soltanto un momento dialettico dell'odio, destinato a far la sua stessa fine, dal momento che persino ai tempi più lunghi possibili è scientificamente certo che il sole si spengerà.

Dev'esserci, Il Valore; perché c'è Il Problema e c'è Il Prezzo.

Ritorniamo un momento al forte, struggente, sconvolgente testo pittorico di MAFAI ed alla sua esplosività d'amore. Non per un discorso critico sul pittore Mario Mafai che non ha proprio bisogno di noi per essere quello che è e continuerà ad essere nella storia dell'arte; no; soltanto per una lettura, umile ed affettuosa, di questo « Eccidio » fatta nel modo più indifeso, non solo senza paura di ]asciarsene suggestionare, ma addirittura desiderando e confidando che la suggestione agisca.

E' impossibile, anzitutto, non accorgersi di quanto il testo si distingua da altri testi di ana-

XII IL VALORE.
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logo contenuto (e di grossi autori) proprio per una sorta di sovrapposizione di due ispirazioni e di due vision i ciascuna delle quali è stata « lavorata)) in un modo particolare fin quasi all'autonomia. Roba da mistici orientali: un dualismo che è unità e un'unità che è dualismo; cioè un dualismo che non è dualismo e un'unità che non è unità.

Il mondo già coinvolto e travolto nell'eccidio (una scrittura di macerie, un cupo frammento di cataclisma), stampato su un cielo , o meglio su un abisso primordiale che può essere (o è già stato) indifferentemente aria o acqua, è uno spazio pesante di pennellate sperimentali , a ricerca , sotto una volontà di confusione, di cecità, popolato di spunti, allusioni, forme possibili, umane, animali. Una distruzione che riceve, inghiotte, assimila, fa sparire: i colori son chiamati a testimoniare in proprio, a sfogarsi in cupo; c'è il bruciato e c'è il marcescente; ed anche la speranza dell'effetto.

Gli uomini che su un tale fondo, più che campirsi, bruciano e splendono, sono invece dipinti a sole , col sole. Color sole, più che carnicino; color sole, più che color fuoco, che color incendio, sono i sette nudi, profetici quanto più tragici , soggetti, più che oggetti, di pietà, variamente atteggiati a supplici , a mansueti immolati, a offerenti , a rivelanti, a giudicanti proprio nell'atto di passare (il terzo da destra). L'ottavo, tutto disteso, è sole su sangue, come saranno subito gli altri : è il compimento. Un forte, aspro, amaro sapore di trionfo dell'imperituro luminoso sul cupo in macerie, che è ormai l'aldiqua, non l'aldilà, il deserto già attraversato. Alle anime in libertà si addice una forma che l'artista si sforza di rendere nel tremulo del liquefarsi ma con la forza suprema di condensazione che è nella luce. E la luce rompe da tutti i problemi, ponendosi e restando come il problema decisivo: il problema, l'interrogativo vivente; il buon dèmone di Socrate, e di tanti artisti.

Come accettare, amare, vivere veramente, la vita senza rifiutarne un istante, se fossimo degli incurabili? La nostra è una strada, solo a pensarci bene, che ognuno percorre solo dopo averla configurata dentro di sé come con-

ducente al meglio perpetuo: dal buio alla luce, dalla morte alla vita, dalla malattia alla salute , dalla povertà alla ricchezza, dall'obbedire al comandare, dalle sconfitte e dalle umiliazioni al successo e alla gloria , grandi o piccoli. E sempre a pensarci bene, la percorriamo, la vogliamo percorrere , sulla scorta della nostra prefigurazione , in direzione diametralmente opposta a quella reale. L'aspirazione dominante è una sortita, un'irruzione, che travolga tutto e ci assicuri tutto. Che possa o no chiamarsi odio, la carica, la spinta che ci lancia, universalmente considerata come segno di perfetta salute, è pur sempre qualcosa cui non si può ragionevolmente negare la qualifica di egoistico, di orgoglioso, ed anche, in definitiva, di irrazionale. In questo quadro non è facile (tutt'altro!) inscrivere una storia di speranza, personale e collettiva, che porti la nostra firma quotidiana e finale. Più facile, e vorremmo dire perfettamente logico, inserìvere la storia che ci è più familiare, dalle nebbiose origini ad oggi, a questi esemplari , perentorii, nostri giorni. Il V alore?

Questi e tanti altri pensieri ci si son levati come un vento nell'anima contemplando l'opera che proponiamo al lettore, testo di chiusura e di apertura, al termine del nostro lavoro. E' il monumento « Agli eroi >l di EDMONDo FuRLAN e si trova ad Aquileia. Questa è la copia che domina il Sacrario del Museo della Fanteria in Roma, vista con delicata e drammatica sensibilità dal fotografo dell'Ufficio Storico dello SME, maresciallo Vittorio Pontiggia.

Amiamo molto la semplice, umile, forte , dolce e misurata creazione di Furlan; vorremmo che molti altri condividessero il nostro amore per essa. C'è arte , autentica, c'è poesia, e c'è tanta fede, cristiana ed anche soltanto umana: Fede. Ma non intendiamo leggerla in chiave religiosa esclusiva; o meglio, non riteniamo giusto leggerla anzitutto in chiave religiosa. Ci permettiamo, ed il lettore , per un'ultima volta , sarà comprensivo, di suggerire un primo sguardo alla profonda unità, e di intuizione e di modellato, in cui vivono le tre figure.

Il caduto, cui l 'ultimo respiro sembra ancora lievitare il petto e far vibrare il volto e

le mani, esprime dal folto del dramma un leggero brivido di gioia nascente: il suo abbandono, nelle membra giovani, belle, è totale , come quello del Cristo, che però è più buio, abissale , come quello di Chi nel più profondo abisso è voluto scendere per riscattare fino all'ultimo peccato. In mezzo, una figuraponte tra una stupita orizzontalità ed una tormentata verticalità sta per rialzare il caduto e per deporre il crocifisso come se le sue forze fossero pari al suo desiderio. E', per noi, lo stesso caduto- disteso, plasticamente colto nel momento di fruizione della Redenzione, ed è la mano schiodata del Crocifisso che, sfiorandogli il capo non più spento, lentamente lo fa risorgere, ne fa una nuova creatura: torna il vigore nelle gambe ben fasciate, tornano le giberne strette alla vita, il torace è ampio, le spalle sono una pietra angolare, tutta la persona sale dal sonno della morte totale a lasciarsi assimilare nel sonno di Chi la morte ha già vinto e si prepara al trionfo definitivo. E il vincitore della morte già come tale è visto nell'impianto della persona, che è atletica, da lottatore, pur nell'assenza più completa di violenza, nella mansuetudine più profonda che ne modula la struttura fin nei dettagli.

Subito dopo, ci sembra opportuno soffermarsi sulla linea intima dell'intera opera: una linea , e potremmo dire, musicalmente, un c< motivo», che si concretizza in un vero e proprio festone di braccia, un arco improprio, dove le mani sono insieme struttura e decorazione , segno di gioco e strumento della potenza più irresistibile. Là dove sembrerebbe cogliere una soluzione di continuità, proprio là, c'è la saldatura assoluta ad opera della Mano che ha mutato il corso della storia toccando, stendendosi, stringendo, benedicendo, trasformando pane e vino nel corpo e nel sangue dell'Uomo- Dio. E' la stessa mano che Michelangelo ha fermato alta nel giudicare , nel Giorno conclusivo: è La Mano, la Destra del Padre.

Proprio questa Mano, questa Destra del Padre, è il centro artistico- religioso della composizione, che ne risulta come suggellata, consacrata. C'è dunque una soluzione, in certo senso, pragmatica, attiva, pur nella dimensio-

ne mistica, dell'opera. C'è un fatto: la morte , sul campo di battaglia e sulla croce; e c'è un altro fatto , opera di mani: la risurrezione da morte. Le mani , insieme strumento e simbolo della vita che è creatività, non sono fatte per la morte ma per la vita. Possono essere impiegate per la morte ; sono state , sono, saranno ancora usate per dar la morte; ma dopo la Redenzione sono state , sono e saranno usate per restituire la vita, per dare, definitivamente , la Vita. Con mirabile coerenza artistica e religiosa, la Lampada votiva che sta ai piedi del Crocifisso nello stesso Sacrario della Fanteria, opera dello stesso Furlan, è impostata su una mano: il lettore ne troverà una riproduzione sulla faccia posteriore della sovraccopertina.

La nostra morte e le nostre mani: questo è il più pietroso problema. Le nostre mani e il fare e dare la vita; le nostre mani e l'amore: questo è il Valore. Credenti o no, bianchi, gialli, neri , olivastri, genii o deficienti, dopo la Redenzione siamo tutti nella Vita, nella vita eterna. La terribile vicenda in cui si alternano , coinvolte, tutte le generazioni, non è dunque un unico , inutile, assurdo macello. E' un'ipotesi d'esistenza sbagliata, formulata pervicacemente su dati inaccettabili, su pretese camuffate da diritti e come diritti spacciate e imposte. E' un'ipotesi d'esistenza da sostituire, perché già sostituita, con un nuovo modo di esistere, sperimentale in via diretta, senza troppe mediazioni ritardatrici o devianti. Colui che lo ha proposto, questo nuovo modo di esistere; Quello che risuscita i milioni e i miliardi di combattenti caduti in tutte le guerre pubbliche e private, che dà senso e speranza a qualunque sacrificio _l'uomo debba ancora accettare o subire; Quello che non ci vuole morti ma vivi , ha fatto a ritroso la nostra strada, liberandoci anzitutto dai nostri pregiudizi e dalle nostre illusioni. Ndla dimensione infinita che Egli ha spalancato, mandando a ramengo , con amore perfetto, il labirinto dei nostri schemi , c'è tempo e spazio per tutti i nostri valori buoni , autentici : per tutto ciò che è, ma realmente, umano. Distruggere i vecchi schemi per sostituirli con nuovi schemi non è cosa seria. L'unica cosa seria è credere ferma-

mente che nnunc1are all'odio non solo è facile, ma è necessario, urgente. E' facile perc hé l'Amore e la Libertà sono già dentro di noi : basta lasciarsi toccare da quella Mano. E' necessario, urgente, perché non sembra proprio che ci sia altro tempo da perdere, né alternativa di sorta: tranne una e tutti sappiamo qual è.

Vogliamo disarmare? Magnifico! Ma di dove e da chi si comincia? Da noi, da ciascuno: cioè, per esser serii e concreti , dall'unico punto a nostra disposizione, che è il nostro cuore, sempre più fradicio di odio. Cosa vale di più, una Patria nutrita d'amore o una superpatria nutrita d'odio; una entità mondiale, planetaria, ancora tutta da pensare veramente, o una realtà presente nella quale siamo, stiamo, e i cui atti, vogliamo o no, portano le firme di tutti e di ciascuno?

Si può voler difendere per amore e sì può vole r non- difendere per odio oppure per amor di se stessi e delle proprie egoistiche velleità. Un discorso né vecchio né nuovo: un discorso perenne. Ce lo facciamo, in intimittà, alla buona, anche con l'ausilio dell'arte, specie di quella che attraversa i tempi passando tra due muraglie d'acqua come gli Ebrei di Mosè nel Mar Rosso: meglio ancora, di quella che si lascia toccare il capo, ai piedi della Croce, dalla Mano che gronda di sangue proprio, non altrui, e soprattutto d'acqua di Vita.

L 'arte ci coinvolge nella sua capacità di distacco e di isolamento dal « mondo )) (è la misura d'una sua certa totalità e r elativa autonomia); ma lo fa nel tempo stesso in cui ci coinvolge in ogni possibile, unitaria, vicenda umana (è la misura della sua diaconìa) Che essa sia documento, tutti lo sanno e lo accettano; che essa sia strumento, tutti lo sanno ma non tutti lo accettano; che essa sia ciò che nessuno riuscirà a sapere che sia, nessuno di noi lo sa o l'acce tta veramente. Perèhé, tra l'altro, essa con la scusa dell'autonomia tende a prender la mano sia a chi la fa sia a chi ne gode; mentre con la scusa della diaconìa tende a << servire )> (a far comodo) sia a chi la fa sia a chi ne gode. Così negli uni sprigiona, per contrasto, la libertà; ne gli altri, sempre per contrasto, la condiziona; e in ogni caso mette

a soqquadro i progetti personali e quelli collettivi. Si possono fare tutti i più bei discorsi di questo mondo, ma di tanto in tanto ci sorprendiamo a sentirei costretti, ossessivamente, proprio dall'arte, a moraleggiare, a eticheggiare , a ideologizzare e a far politica e religione (persino economia e commercio!), pur essendo impegnati, spesso in perfetta buona fede, a non far nulla di tutto ciò; anzi a negarne recisamente la legittimi tà, la liceità, l'opportunità, l'utilità, o addirittura la possibilità nuda e cruda. Ed è che l'aver inventato qualche parola, . o meglio qualche vocabolo in più, ci fa sicuri di inconsci a libi da produrre per difenderci , poi, in fondo in fondo, da noi stessi Vogliamo leggere e far legge re nella nostra li n gua, volta a volta, dimenticandoci sempre, immancabilmente, che le radici , anche della lingua, ci amano al punto non solo da sfidare ma da desiderare e sollecitare le nostre potature e i nostri innesti Bisogna (e chiediamo venia di questo verbo pesante) imparare a !asciarci leggere e scoprire, a !asciarci portare alla luce, come a mangiare e a bere, sicuri che nella trasparenza funzionano i filtri migliori della vita La gerarchia dei valori si fonda su un Valore che accredita tutti gli altri. Si possono ipotizzare valori infiniti, ma non si può postulare che un solo Valore; perché diversamente nessu n confronto è credibile: si ricade nelle pretese, nelle preclusioni e nell'odio. Bisogna cercare, sénza riposo, tutti gli aspetti, tutte le voci, tutte Je occasioni impedite, e farsi ricreare di continuo dalla Verità che alla distanza annienta tutte le resistenze stolte e colloca al giusto posto ogni realtà disponi bile nella libertà dell'amore.

Qual è il vero volto dell'Esercito, la sua vera figura, la sua persona nel vivo delle altre persone della nostra storia, di tutta la Storia? Lasciamolo legge re e scoprire, ]asciamolo portare alla luce anche dall'arte, da tutta l'arte, specie da quella meno conosciuta o addirittura sconosciuta. E facciamo in modo che la lettura sia unitaria , cioè compiuta, cioè molteplice, cioè zuppa fradicia di verità, da gemerne al so lo guardarla. E' il momento giusto anche per questa operazione: un tremendo ma grande mome nto, per tutto e per tutti .

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CONCLUDENDO, MA NON PER CHIUDERE.

Questo libro comincia qui; la conclusione può essere soltantQ, e d'altronde vuol esserlo, un rifl ettore spietatamente sbarrato sulle zone vuote della mia ipotesi e del saggio- proposta di lavoro: Dò per scontate tutte le critiche, tutte le obiezioni, come se le avessi già sentite, anzi, ascoltate, desiderando e sperando fortemente che proprio da esse cominci, ad opera di uno o più dei tanti di me più d egni, il vero libro intitolato << L'Esercito Italiano ne li'arte » .

E' vero che esistono cose più importanti, anche assai gravi, cui pensare e provvedere; ma non è meno vero che l'arte paga sempre, o meglio rimunera semp re , e da grande signora: in moneta sonante di contributo invisibile alla realizzazione dei nostri concreti fini, volta a volta e continuativamente in senso globale, unitario. Non si può amare ciò che non si conosce e non si può difendere ciò che non si ama. A ciascun uomo e a tutte le comunità capita, periodicamente, di dover difendere cose e valori che sono, in pratica, pure e semplici astrazioni; o peggio ancora, oggetti di disprezzo e persino d'odio. La storia è piena di tragici esempi al riguardo. La carica di conoscenza, di coscienza, di consapevolezza, necessaria per potere, quando occorre, difettdere ciò con cui possiamo id entificarci, non perché lo dobbiamo, ma perché lo vogliamo , è una carica che non si può affidare alle improvvisazioni ingenuamente o irresponsabilmente giocate sul tavolo di pr es unte ovvietà di consensi. Essa deve avvalersi di tutto ciò che fa l'uomo, concretamente, anche se non sempre ostentatamente, clamorosamente : ha bisogno anche dell'arte, sia per esser piena, completa, sia per assicurarsi una vera continuità, una vera durata. Ci hanno saggiamente ammoniti che Natura non facit saltus, fin dall'infanzia. Ma forse che la storia (la Storia) li fa? Ricu-

perand o un certo pudore, ci vergogneremmo , forse, d'avere i « salti di qualità» troppo facili sulle labbra, sulle tastiere delle macchine per scrivere e sulle ciglia delle cineprese. La storia umana non è una storia di canguri. Ciò che non è stato seminato, da te o da altri, non sperar mai di raccoglierlo; e non tentare sc ioccamente Dio.

Riconoscere l'importanza dell'arte, della sua funzione, implica anzitutto il preciso dovere di rispettare l'arte e di rispettarla non solo sostanzialmente ma anche formalmente , dandole il posto che le spetta. Dicendo « posto )) intendo riferirmi anche, ed anzitutto, ad una collocaziòne nello spazio, in un particolare spazio, la quale, nel tempo stesso in cui si pone come seg no di riconoscime nto della funzione, garantisca la possibilità che essa venga adempiuta. So di metter la mano su un braciere , ma sento il dovere di farlo; anche perché il problema dei Musei non chiama in causa soltanto l'Esercito, anzi ; tutte le Forze Armate , ma l'intero comprensorio dei nostri Beni culturali, a tutti indistintamente i livelli di responsabilità, diretta e indiretta.

Il fenomeno più diffuso è quello della co abitazione , in uno stesso Museo , ed anch e n elle medesime sale, delle opere d'arte coi più disparati materiali di documentazione sto ri ca e didattica , tra i quali mi sem bra giusto, nonché opportuno, includere anche opere che sono imparentate con quelle d'arte, perché si tratta di quadri , di sculture , ma solo per l'aspetto tecnico- formale della loro realizzazione. Tanti << ritratti » , « busti )), « figurini», importanti, ed anche molto , come documentazion e, starebb ero , anzi, stanno bene in un insieme documentario: sono un sussidio conoscitivo affine agli autografi, alle fotografie, alle piante e mappe originali, pertanto tutt'altro che inutili , ma assai meno affine alle opere d'arte; le

quali sono sì, anch'esse, strumenti di conoscenza, ma su un altro piano, che se non va separato, staccato, va, però, distinto e chiaramente. Un Museo che possieda opere d'arte ha il dovere, e tutto l'interesse, di collocarle unitariamente, come tali, nello spazio più appropriato, con la luce giusta ed ogni accorgimento utile alla contemplazione estetica, un po' diversa, mi si consenta, da altri modi del guardare, ad esempio da quello del guardare fucili, cannoni, o ricostruzioni di fortezze e di battaglie.

Posso sbagliarmi, ovviamente, ma credo, più che non ritenga , di essere nel vero dicendo che quel fenomeno (e non solo quello) è nel cervello d'un altro fenomeno che non è più diffuso solo perché è il fenomeno di fondo , stallone e fattrice di tutti gli altri: la polverizzazione del materiale artistico in una veramente troppo molteplice molteplicità di Musei e dì Gallerie specialistici in un senso, e decisamente eclettici in altri sensi; tutto sommato, in verità, particolaristici, con fini discutibili almeno quanto nobili. Infatti, chi non ha la fortuna di possedere una quantità -limite di opere d'arte non ha la possibilità materiale di allestire una vera e propria, dignitosa, Sala d'arte, e pertanto si vede costretto ad inserire, ad incastrare , quello che possiede in tutto il complesso del materiale posseduto. Ora , che giova tanta dispersione? .E' più facile dire quanto nuoce. Che ogni « co rpo », ogni « specialità », col ti vi le s ue tradizioni e le sue glorie, tenga viva la sua storia, è sacrosanto. Ma quanti eserciti abbiamo? Non ne abbiamo uno solo, per caso? Due Musei d'una stessa entità militare che sorgano a pochi metri di distanza l ' uno dali' altro sono necessariamente destinati , e condannati, ad ammalarsi di solitudine; per un insieme di ragioni che sarebbe offensivo per il lettore enumerare. Almeno per quanto attiene all'arte, almeno per questo, una inversione di tendenza, una conversione mentale , una metànoia, almeno come punto di partenza, non solo è opportuna, ma si impone. Una Repubblica, un popolo, un Esercito. E' semplicistico? No: è soltanto semplice; ed è altrettanto produttivo. Mai, come oggi, abbiamo avuto bisogno di sa lvar e l'unità: neppure , per

assur do ma non troppo, nel Risorgimento. L'unità, però, bisogna anche veder/a, guardarla, poter/a leggere, dentro e fuori di noi, in un contesto che unitario sia o possa dit,entare, essere. Ad essa, mettiamocelo bene in mente e nel cuore, non si contribuisce, non si è mai contribuito, permettendo alle distinzioni di trasformarsi in divisioni e alle divisioni in separazioni bell'e buone. Non è serio. Riflettiamo. Il « momento militare » è un momento obbligato, integrativo, fondamentale, della vita d'ogni cittadino: almeno fino a quando non potremo godere di « nuovi cieli e terre nuove>>. E per i militari di carriera, la loro « professione » è forse la somma di tutti i possibili momenti della loro vita? Facile o difficile che sia la risposta, io credo fermamente, in tutta sincerità e coscienza, che anche per essi dobbiamo parlare di « momento» militare: un mom ento temporalmente più esteso, ma qualitativamente identico nella stessa esistenza di cittadini.

L'avvocato tutto e soltanto avvocato, il metallurgico tutto e soltanto metallurgico, .l'agricoltore tutto e soltanto agricoltore, l'impiegato tutto e soltanto impiegato , non potrebbero essere che quote, frazioni di cittadini. D iversamente, la totalità, unitaria, d'un popolo non riuscirebbe mai a sussistere e consistere, non potendo mai nessuna « professionalità » altrui esser recepita come necessaria, fondamentale, integrazione della propria. Un popolo risulterebbe, anche in linea di principio, costituito da quanto si riuscisse ad ottenere mettendo insieme una congerie di elementi non soltanto autonomi ma addirittura sepa rati , e per giunta in conflitto, in guerra più o meno fredda, più o meno calda : in un'ipotesi ottimale, in conti nua concorrenza. Le attribuzioni e la consiste nza degli uni non potrebbero mai essere conside rate al servizio di tutti gli altri: una mera vi glia!

Il piano « civile >> è quello su cui acquista senso e valore anche la professionalità militare, la sua (ma sì! diciamolo) spiritualità di « momento>> che qualifica un'intera vita di « servi zio » Ecco, questo è il segno di tutte le distinzioni unificate. Infatti , anche in termini ufficiali, parliamo di sert•izio militare.

E in materia di se rvlZlo , il migliore non è chi cerca il primato, o se lo attribuisce , ma chi più serve, sa servire, con la più ampia dei comuni e dei personali bisogni.

L'arte è come il pendolino in mano al rabdomante: si muove, segnala, solo quando sente, in profondità, che c'è l'uomo, tutto l'uomo. F a parte del suo mistero. Le sue verifiche sono per noi pressoché indispensabili, anche se talvolta ci cogliamo a pensare che in fondo ci sono tante e poi tante (quali?) cose che valgono assai più dell'arte.

In que st'ordin e di considerazioni; nello stesso spirito in cu i mi son permesso di proporre l'unificazione di tutto il patrimonio d'arte ispirata all'Esercito disperso e avvilito in troppe ripartizioni; nel clima di gratitudine verso gli artisti dei quali ho « ricuperato » alc un e opere per questo lavoro , mi viene spontaneo il ri cordo della 11 Prima Mostra degli artisti italiani in armi » della quale ho già fatto cenno nel primo capitolo. E col ricordo , altrettanto spontan eame nte , mi nas ce il desiderio di vedere il lettore alle prese col Catalogo che della Mostra cu rò , nella primavera del r942, l'Ufficio P ropaganda dello Stato Maggiore del R. Esercito: alle prese per una valutazione personale di ciò che la mostra stessa si proponeva , di ciò che fu, e di ciò che i suoi frutti sono e saranno, oggi e domani. A riprova della validità del riferimento al 11 pendolino » . Dalla Presentazione dell'allora Maggiore di fanteria Francesco SAPORI risultano fatti d'importanz a storica non indifferente, proprio per il perenne rapporto tra l'arte e le ordinazioni, le commissioni, le circostanze e i relativi orientamenti, o pilotaggi. Furono invitati u6 artisti con un complesso di 797 opere, delle quali il Catalogo riprodusse solo 300, purtroppo, per noi , esclusivamente in bianco e nero. Vedrai tu stesso, lettore, quale possa essere il valore d 'una rilettura di certi tempi fatta in chiave d'arte; e quale possa essere, in qu alunque prospettiva, passata, presente, futura, il mi stero dell'arte vera, il potere magico dei filtri della trasparenza dentro qualunque spessore, fosse pure quello d 'u n muro di piombo. Era guerra, guerra fu: ma

gl i artis ti vedevano , videro, se stessi e tuttl t loro simili nell 'occhio d'un ciclone. Soldati essi stessi, ci han consegnato soldati, uomini ai confini , ai punti estremi dell'esistenza: con un loro discorso, con un loro (oh veramente!) messaggio, con una loro partecipazione della verità Nutrirai ancora dubbi su una cer ta irrinunciabile funzione dell' arte?

Su un altro versante, e per questo di interesse tutto particolare, dopo circa un quarto di secolo, ancora a Rom a, ne gli ambienti del Palazzo Barberini , la Rassegna di arte figurativa contemporanea e retrospettiva, « Il Soldato italiano », organizzata dal Mini stero della Difesa e rimasta in piedi dal 1° novembre al 30 dicembre 1g65. Grossi nomi, di viventi nell'altra e in questa dimensione. Anch e di tale Rasse gna, lettore, c'è il Catalogo, curato dal Ministero della Difesa, con una Lettera d'apertura dell'allora Ministro del settore Giulio ANDREOTTI, ed una Introduzione alla Rasseg11a di Valerio MARIANI, e desidero vivamente vederti alle prese con esso; per un ripensamento, nel caso in cui avessi po tuto godere dell'esposi zione; per una acquisizione co noscitiva, pur sommaria, se anche a te , come a molti altri, la manifestazione fosse per un qualche motivo sfuggita Si e ra in pace e si lavorava per la pace: eppure, il repertorio era, con qualche eccezione, di guerra. Non è un giudizio: è solo un'osservazione, una considerazione. E te la porgo, con pudore e discrezione.

Tant'è: la vita militare occupa, nell'opinione comune, il posto d'onore tra le varie vite riducibili entro ri gidi schemi. Ben pochi si accorgono di co me e quanto la quasi totalità delle vite è così. Su un milione di uomini, quanti sfuggono alla cate11a di montaggio? Persino tra gli ozios i, tra i cosiddetti « liberi pensatori », tra i professionisti dell'amore ormonico attivo e passivo, solo una minoranza riesce a esistere in libertà. Le cosiddette vite, come condizione di fondo, si equivalgono. E' di dentro, solo di dentro, che si differenziano le condizioni esistenziali: non c'è scampo, ormai, se non nello spirito. Ma quanti vogliono realment e cercarlo? Gli schemi siamo noi.

Questo libro co mincia qui. Scrivilo, scnvetelo.

RINGRAZIO, ormai all'ìmpiedi, tutti quelli che mi sono stati d'aiuto. Anzitutto, e davvero non pro forma, l'Ufficio Storico dello Stato Maggiore deJl'Esercito, che in parte invitandomi, in parte spingendomi a que sto vero e proprio « percorso di guerra » di giova nile memoria, mi ha in un certo se nso costretto a godere di certi scavi abbastanza pesanti. Lo ringrazio soprattutto per l'apertura e la disponibilità con le quali, a cominciare dal Capo, i suoi addetti mi so no venuti incontro specie nelle difficoltà.

Subito dopo, ringrazio Maria Grazia PASQ UALITTI, direttrice della Biblioteca dell ' Istituto d'Arch eo logia e Storia dell'arte, ed i suoi collaboratori (dei due sessi) che mi hanno agevolato nelle ricer che In modo particolare, la mia gratitudine va a Gabriella DE NARDIS, che del peso di molte ri ce rche mi ha, ma veramente, alleggerito, con intelligenza, professionalità e sensibilità squ isite nonché pazienti e tenaci.

Un pensiero, spontaneo più che dov eroso, al Pr esi dente del Museo Storico dell'Arma dei Carabinieri, Generale Francesco PoNTANI, ed ai suoi collaboratori; da essi ho ri cev uto, oltre a quello d e lla collaborazione, il co nsueto dono di uno stile che ci onora

Non minore , in nessun senso, gratitudine debbo al Generale Attilio BRuNo, Presidente del Museo Storico della Fanteria, ed al suo diretto collaboratore, Maggi o re Antonio M usm.

A tutti accomuno il Soprintendente alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna, Italo FALDI, che , insieme ai collaboratori, è andato ben oltre il contributo professionale in certo senso dovuto ai ricercatori io genere.

Infine, ma non co me ali 'ultimo, un grazie di cuore al Maresciallo Vittorio PoNTIGGIA, fotografo dell'Ufficio Stori co dello SME. Fotografo di razza , vero scrittore con la luce, lavoratore instancabile, inco ntentabile, assetato in ugual misura di libertà e di servizio, Pontiggia ha testimoniato ancora una volta il grande amore dell'arte che lo qualifica e come uomo e come soldato.

Però, e nessuno me ne voglia, il grazie più profondo è per te, lettore : per il tuo coraggio, per la tua pazienza, per la tua comprensione, o benevolenza. Senza di te, che sarebbe mai d'uno scrittore? E magari potes si motivatamente sperare che anche tu, a qu es to punto, ti sentissi spinto a dirmi, sottovoce : << Grazie anche a te, sconosciuto Giovanni Floris » Ne sarei, se non proprio felice, pago.

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INDICI

INDICE DEI CAPITOLI

PRE?-..fESSA CON GIUSTIFICAZIONI. - I. Chi vuoi guardare, legge. - 2. Difficoltà d 'u n tema. - 3· L'Esercito Italiano. - 4· L'arte. - 5· L'Eserci to Italiano nell'arte. - 6. Per finire e poter cominciare

t'isita medica, abili arruolati, in grigz overde

V
Partenza da ca sa,
))
« In dit,isa » o meglio (<in uniforme
tutti uguali,
czascuno è qualcuno La lezione di Quinto Cenni )) 13 III. Prosa e poesia intorno alle marmitte: l' <( assaggio>> e la distribuzione del rancio )) 32 IV. La pulizia è salute, anche per le armi )) 41 V. Le esercitazioni: la storia si fa preparando/a. Alla scuola del cavallo. E del mulo )) 49 VI. Di pattuglia in pace e in guerra )) ss VII. L a sosta: un complicato fenomeno semplice )) 71 VIII. La battaglia: tutti e ciascuno in difesa dell'ultimo confine )) 86 IX. Quando partire o tornare non è che un unico dramma )) IO) X. l prezzi più alti )) II3 XI. I t'a/ori più alti )) 120 XII. Il Valore . )) 1 35 CoNCLUDENDO, MA NON PER C HIUDERE )) 140 - 14722.
Pag.
r.
II.
»:
ma

INDICE DELLE OPERE RIPRODOTTE

PREMESSA CON G IUSTIFICAZIO_ l

Pag. V: 11 Una vedetta», di Pietro Morando. - Pag. VII: (l Un eroe », di Pietro Morando.

Pag. VIII: 11 Tiratore isolato in postazione », legno di Anonimo della Val Gar dena. - Pag. IX: 11 Sfruttamento degli appigli in roccia », legno di Anonimo della Val Gardena. - Pag. X: << Piccolo artigianato di prigionia: dalla bilancia alla graticola, dai mestoli ai fornelli, dai sandali agli scacchi. Il tutto con barattoli usati, legno, fil di ferro e .. . molta pazienza», di Marcello Tornaclini. - Pag. XII: f( Natura morta>> (in basso) e <l L'Alpino» (in alto), di Pietro Morando. - Pagina XIII: a s inistra, (( Artiglieria>> di Pietro Morando; a destra , (( Monumento al mulo », di Pietro Canonica (particolare). - Pag XV: (( Trincea », di Pietro Morando. - Pag. XVII : (dall'alto) (( Paesaggio di guerra», di Pietro Morando - (( Granatiere ferito n, di Paolo Caccia Dominioni - << Canzone nostalgica >1, di Pietro Morando. - Pag. XX: « L'Italia ringrazia ri Carabiniere », medaglione di Antonio Berti. - Pag. XX I: " San Martino , Patrono della Fanteria», di Angelo Balzardi.

CAPITOLO I

Pagg. 3, 6, 8, ro (ne11'ordine): << Partenza da casa» - « Visita medica >>,, Consegna del corredo » - 11 Partenza dal Distretto », di Bruno Baratti.

CAPITOLO Il

Pagg rs, I9, 23: (\ dall'Album n. 3 )) ( I talia r86r - I903) del " Codice Cenni ». - Pag. 27: « Pupi- mzùtari », del ceramista Gaspare Carlino.

CAP IT OLO III

Pag. 37: << L'assaggio del ranczo », di Giuseppe Novello. - Pa g. 39: u La distribuzione del rancio », di Bruno Baratti.

CAPITOLO IV

Pag. 43: « La doccia n, di Quinto Cenni. - Pag. 45: " Pulizia alle armi », di Dario Cecchi.

CAP IT OLO V

Pag. 50: " Maneggio coperto», di Quinto Cenni. - Pag. 51 : " Monum ento al mulo», di Pietro Canonica (su11o sfondo, '' Monumento all'Alpino», dello stesso Autore). - Pag. 53: <l Esercitazioni milùari » , di Giovanni Fattori. - Pa g 55: (< Artiglieria a cat•a/lo in esercitazione ''• di Quinto Cenni. - Pag. 57: uno scorcio del " Monumento all'Alpino >>, di Pietro Canonica.

CAPITOLO VI

Pag. 59: cc Carabinieri H, di Philippe Maliavine. - Pag. 63: cc Carabinieri nella tormenta », di Antonio Berti. - Pag. 65: cc Pattuglia ( di territoriali ) in perlustra zione sul fronte greco », di Adolfo Giuseppe Rolla. - Pag. 69: " Pattuglia », di Gian Luigi Uboldi.

CAPITOLO VII

Pag. 73: cc La sosta » , di Mario Bucci. - Pag. 77: " Soldati di guarntgwne li, di Umberto Franci. - Pag. 79: <c Fanti in sosta su lo Scinde/i li, di Angelo Pinciroli. - Pag. 82: " Prima della battaglia », di Pietro Sanchini. - Pag. 84: « Retror•ie » , di Pietro Morando.

CAPITOLO VIII

Pag. 91: u La battaglia di Custoza 11, di Giovanni Fattori. - Pag. 93: <c Il 23 giugno a San Martino)), di Michele Cammarano . - Pag. 95: « L a carica dei Carabinieri a Pastrengo 1>, di Sebastiano De Albertis (seco nda versione) e, in basso, ,, Studio di battaglia», dello stesso Autore. Pag. 97: ,, Carica di cavalleria li, di Giovanni Fattori. - Pag. 99: <<Cavalleria bombardata 1>, di Giuseppe Comi netti. - Pag. 100: << Cavalleria all'assalto », di Giuseppe Com i netti. - Pag 101 : cc Ondata d'assalto >1, di Pietro Morando. - Pag. 102: << Assalto alla baionetta», di Giuseppe Caminetti. - Pag. 103: << Trincea dopo il combattimento >l e, in basso, << Due squadre portaferiti li, di Giuseppe Caminetti. - Pag. 104: •• Episodio del carabiniere Ruffo », di Antonio Berti.

CAPITOLO IX

Pag. 107: « Commor •ente distacco )) e rc Gioioso rttorno )), di A. Cervi. - Pag. IO<): r< Fante che parte per la licenza », di Arturo Gibellina. - Pag. r 1 I : cc Partenza », di Michele Agnoletto .

CAPITOLO X

Pag. 114: da u La lunga man·za verso I'Ot'est >l (disegni di guerra), di Giacomo Raimondi. Pag. ns: " Veglia funebre)), di G. B. Piccardi. - Pag. u7: " Verso l'esilio li, di Pietro Morando. - Pag. 1 r8: " Si comincia no a vedere i segni della denutrizione )) (da << Venti mesi tra i reticolati - disegni di guerra )) ), di Marcello Tomadini. - Pag. li<): cc Ossa al sole)) (dall'albu m sopraindicato), di Marcello Tomadini .

CA PITOLO XI

Pag . 120: <<Ossertlatore al/'alban, di Pietro Biffietta.- Pag. 121: « L 'ultimo salutOH, di Pietro Biffìetta. - Pag. 123 : « Alzabandiera in Russia )) , di Alvaro Giordano. - Pag. 125: << La Messa n, di Pietro Morando. - Pag 126: «Natale '944 - La Messa di mezzanotte 1>, di Marcello Tomadini (dall'album sopraindicato). - Pag. r29: " Difesa di Porta San Paolo», di Al: berto De Amicis. - Pag. 131: <c Fucilazione 1963 >> (studio per un gruppo scultoreo), di Giuseppe Mazzullo. - Pag. '33: cc Eccidio 1944 )) , di Mario Mafai.

CAPITOLO Xli

Pag. 137: " Agli Eroi n , di Edmondo F urlan (copia m bronzo del monumento eretto m Aguileia).

1:--l SOVRACCOPERTI A

1 ella faccia anteriore: <c Studio di battaglia 11 , di Dc Albertis. - Nella faccia posteriore: « Lampada votit1a )) (pe r il Sacrario del Mu seo Storico della Fanteria in Roma), di Edmondo Furlan.

- I49-

INDICE DEGLI ARTISTI E COLLOCAZIONE DELLE OPERE

AcNOLETTO Michele.

La « Parten za >> (pag III), che fu esposta alla " Prima Mostra degli artisti itaiiani in armi >> - Roma , 1942 - si trova nel Museo Storico della Fanteria, in Roma. Abbiamo fotografato l'originale

BALZARDI Angelo.

La statuina di « San Martino, Patrono della Fanteria '' (pag XXI) si trova nel Museo Storico della Fanteria, in Roma. Abbiamo fotOg rafat o l'originale.

BARATTI Bruno.

Per i « Momenti dell'iscritto di leva» (pagg 3, 6, 8, 10), esposti alla citata « Prima Mostra degli art1st1 italiani in armi >> e andati dispersi durante la guerra, abbiamo utilizzato delle riproduzioni in b ianco e nero apparse nel n. 7-8 ( lug lio- agosto XX) dell'anno IV della Rivista mensile «La ceramica >>, di cui abbiamo reperito una collezione presso la Biblioteca dell ' Istituto di Archeologia e Storia dell ' Arte, di Roma.

Per la « Distribuzione del rancio >> (pag. 39) ci siamo avvalsi d'una foto in bianco e nero gentilmente concessaci dall'Autore.

BERTI Antonio (non Giuseppe!).

Il medaglione raffigurante << L'Italia che con un bacio ringrazia il Carabiniere » (pag. XX) e il g ru ppo che esalta « L 'episodio del carabiniere Ruffo >> (pag 104) si trovano presso il Comando Generale dell ' Arma dei Carabinieri. << Carabiniet·i nella tormenta >> (pag. 63) è esposto nel Museo Storico dell'Arma dei Cat·abinieri, in Roma. Abbiamo fotografato g li originali.

BIFFIETTA Pietro.

<< Osservatore all'alba » (pag. 120) e « L'ultimo saluto >> (pag 121) si trovano nel Mu seo Storico della Fa nteria, in Roma. Abbiamo fotOgrafato gli originali.

Buccr Mario.

<< La sosta>> (pag. 73) SI trova nel Museo Storico dell ' Arma dei Carabinieri, In Roma. Abbiamo fotografato l' origina le.

CAcCIA DoMINION! Paolo.

Per il << Granatiere ferito >> (pag. XVII) abbiamo utilizzato una riproduzione es istente presso l'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito.

CAMMARANO Michele.

<< Il 23 giugno a San Martino >> (pag. 93) si trova nella Galleria Nazionale d'Arte moderna, m Ro ma. Abbiamo fotografato l'orig inale.

150-
-

CANONICA Piet ro.

Il «M onumento al mulo» (pag . 51) e il «Mon umento aii'Alpmo ' ' (pag. 57) sorgono, all'aperto, in Roma, nella Villa Borghese, in fondo al Viale Aqua Felix, sullo spiazzo prospiciente la cosiddetta ,, Fortezzuola >> nella quale visse e morì (nel 1959) lo scultore. Ab b iamo fotografato dal vivo.

CÀRLINO Gaspare.

La mini · collezione di « Pupi- militari>> ( pag. 27) si trova presso l'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito, in Roma , dove l'abb iamo fotografata.

CECCHI Dario.

« Pulizia alle armi" (pag . 45), l'abbiamo re perito nel deposito della Galler ia Nazionale d'Arte moderna m R oma e qui l'abbiamo fotografato .

Il C. figu r ava tra g l i espositori alla '' Prima Mostra degli a rtisti italiani in armi "·

C ENNI Quinto.

Il u Codice Cenni », dal quale a bbiamo tratto le tre tavole del Cap itolo Il, è custodito presso l'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito , in Roma Quando i l nostro saggio- proposta era già i n corso di stampa, abbiam o appreso che l' Istituto d i Patologia d el libro, di Roma, aveva inizia to l' opera di restauro dei 25 a lbum dei quali il " Cod ice >> s i compon e . Il fatto supe ra , ma al t empo stesso conforta, il d iscorso di cu1 al Capitolo II; ino lt re, sospendendoli per q ualche tempo, assicura il godimento e lo s tu dio del prezioso unico nel tempo futuro ad una larga sch iera d i appassiona ti e d i studiosi d'ogni P a ese Rinviamo il lettore desideroso d' una informazione di fondo, sufficientemente comp iu ta, all'intelligente, vib ra nte e misurata p r esentazione che del u Codice >> ha fa tto, sulla rivista " Accademie e Biblioteche d'Italia >> , il Ten. Col. CAM IL LO BRI ALDI, già addetto all'Ufficio Storico dello Stato Maggiore delf'Eset·cito l v in cc Accademie e Bi b li oteche d' Ita l ia )), anno XLIV, n. 1 (gennaio - febbraio), 1976 : c... BRI.'\LDI, il << Cod ice Cenni >> . L'artico lo è preceduto da un corsivo a fi rma (giovanni f loris) da l ti t o lo cc Presso l'Ufficio Storico dello Stato Maggiore delL'Esercito u11 irrepetibile capolavot· o inedito>> 1.

Per le altre ope r e del Cenni (pagg. 43, 50, 55), in parte espost e e in parte custod ite nel Museo di Ca stel Sant'Angelo, in Roma, ci siamo serv iti delle ottim e r i p r oduz ioni raccolte in album presso il suddetto Ufficio Storico.

Ragion i editorial i facilmente comprensi b ili ci hanno imposto il bianco e nero, in luogo del colore, per la " Doccia " (Cap itolo IV) e per « Maneggio coperto >> (Capi t o lo V) Non è neppure il caso di chiede r scusa al lettor e: è bene che l' optimum resti sempre qualcosa da r agg iu ngere!

CERVI A.

Abbiamo tratto " Commovente distacco » e " Gioioso ritorno " ( pag. 107) dalla cartolinoteca dell'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito.

CoMINETTI Giuseppe.

l << disegni di guer ra » riprodott i (pagg 99, 100, 102, 103) st trovano, unitamente a molte altre opere, quasi tutte del Com i nett i, a Dusino San Michele, in Provincia d i Asti, ne l Castello- Museo d i p r op ri età del dr. Renato Gilardo e da lui abitato con la fam iglia Ospite della fa mi glia Gi lardo, che rin g raziamo di tutto cuore, i l nostro fotografo ha potuto lavo rare sug li orig i na l i

DE ALBERTIS Sebastiano.

<< La cat·ica dei Carabinieri a Pastrengo» e lo <<St u dio di battaglia>> (pag. 95) si trovano nel Museo Storico dell'Arma dei Carabinieri, in R oma, dove abbiamo potuto fotografare gli o r igina li. Delle ragioni che hanno m ot i vato una particolare scelta abbiamo già discorso nel contesto del Capitolo V III ; né questa sede ci se m bra appropriata per un amp li amento -

151-

DE AMICIS Alberto.

La "Difesa di Porta San Paolo>> (pag. 129) S I trova nel Museo Storico della Fanteria, 111 Roma. Abbiamo fotografato !"originale.

FATTORI Giovanni.

" Esercitazioni militart >> (pag. 53), "La battaglia di Custoza » (pag. 91) e " Cartctt di cavalleria >> (pag. 97) SI trovano nella Galleria Nazionale d'Arte Modema, in Roma. Abbiamo fotografa to gli originali

FRANCJ Umberto.

" Soldati di guarntg1one " (pag. 77), esposta alla << Prima Mostra degli artisti Italiani in armi », !.I trova nel Muuo Storico della Fantena , in Roma. Abbiamo fotografato l'originale.

F uRLAN E dmondo.

La copia in bronzo del M on umento "Agli Eroi» d i Aquileia (pag. 137) domina il SacrariQ de l Museo Storico della Fanteria , in Roma. Ai suoi piedi, al centro del Sacrario stesso, si trova la " Lampada votiva " (sovraccopertina, faccia posteriore). Abbiamo fotografato dal vivo.

GIBELLJNO Arturo.

Il « Fante che partt: per la licenza » (pag. 109) si trova nel Museo Storico della Fanteria, in Roma. L'opera fu esposta alla " Prim a M ostra degli artisti italiani in armi ». Abbiamo fotografato l'originale

GIORDANO Alvaro.

« Alzabandiera in Russia » (pag. 123) si trova nel Museo Stonco della Fanteria , in Roma. Abbiamo fotografato l'originale. Il G. figurava tra gli espositori alla << Prima Mostra degli artisti italiani in armi »

MAFAJ Mario.

Abbiamo incontrato "Eccidio 1944 >> (pag. 133) in una preziosa cartella (ben degna d'essere ripresa e rilanciata con uno studio particolare), di riproduzioni a colori di opere di artisti tra i più prestigiosi del Novecento italiano. dedicate alla Resistenza. La raccolta, intitolata appunto " Omaggio alla Resistenza » , uscì a Roma nel 19i)4, in edizione speciale numerata di 150 copie, per le u Edizioni d ' Arte - Circolo di Cultura Colonna Antonina » , a cura dell'Unione Donne Italiane, con una densa Presentazione di Salvatore Quasimodo. Dobbiamo all'appassionata sensibilità di Gabriella De Nardis la segnalazione cd anche la concessione (in guardingo prestito!) del la sua copia numerata, con le firme autografe degli Autori nella maggior parte delle esemplari riprod uzion i. Nella raccolta non figura alcuna indicazione relat i va a Diritto d'Autore. M a per riconoscenza, a prescindere dai doveri, per amorosa gratitud ine, ringraziamo, oltre alla Dc Nardis, gli ideatori e i realizzatori dell'edizione. i parenti e gli amici di Mario Mafai , nonché i proprietari dell'opera ( fa parte della Collezione Pire/11).

MALJA VJNE Philippe.

" Carabmieri ), (pag. 59) si trov a nel Museo Storico dell'Arma dei Carabin ien Abbiamo fotografato l 'origina le.

MAZ ZULLO Giuseppe.

« Fucilazione 1963 " {studio per un gruppo scultoreo) (pag. 131) fa parte della cartella di cui alla nota su Mafai, ed è un altro nobile omaggio alla Resistenza. Valga anche per Mazzullo il ringraziamento. Anche il nostro ha voluto e vuoi essere un omaggio, e sincero.

MoRANDO Pietro.

Abbiamo riprodotto {pagg. V , VII, Xli, Xlii, XV, XVII, 84, 10 1, 117, 125) dal troppo dimenticato " l Gtganri - disegni di guerra di Pietro Morando " · S. A. Stab. Arti Grafiche Alfieri & Lacroix, Milano (s.d.).

Il vo lum e si apre con una lettera all'Autore di E. F. d i Savo ia, datata: Torino. r8 agosto r<p6 , reca una " Prefazione » di Leonardo Bistolfi e la seguente dedica: Questi disegni. che Giovanni Ba/bis volle in gran parre radunare nel Museo Storico della Guerra di Rovereto, sono dedicati in umiltà alla (aera memoria di quelli che non tornmwzo. In appendice, una miscellanea di articol i sono il tirolo: <<L'opera di Pietro Mm·ando pittore e la cntica »

Abbiamo reperito il volume (o forse lo abbiamo affettuosamente sveg l ia to) nella Biblioteca dell'Istituto di Archeologia e Storia dell'Arte, in Roma.

NovELLO Giuseppe.

Abbiamo riprodotto << L'assaggio del rancio >> (pag. 37) da uno degli album dedicati agli Alpini della car· tolinoteca dell'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito , in Roma.

PICCARDI G . B.

Per " Veglia funebr e '' (pag. 11')). indichiamo la s tessa fonte di cut so pra.

PINciROLI Angelo.

"Sosta di fanti s u lo Scinde/i >> (pag 79), già esposta alla « Prima Mostra degli artisti italiani 1n a rmi >> , si trova nel Museo Storico della Fanteria , in Roma. Abbiam o fotografato l 'o riginale.

RAIMO NDI Giacomo.

A bb iamo tratto la tavola ri pro dotta ( pa g u4) dall'album di diseg ni di g u erra << La lunga marcia all'Ovest l> (no n verso l'Ovest). l " rico rd i>> di Giacomo Raimondi. A.G.A. Ed itrice. Cuneo, febbraio 1971.

RoL LA Adolfo G ius eppe .

<< Pattuglia (di territoriali) in perlustrazione su l fronte greco >> (pag. 6;), g ià espost o all a << Prima Mostra degli artisti ita liani in armi >> , si trova ne l Mu seo Storico della Fanteria , in Roma. Abbiamo fotog rafato l'originale

SANCHINI Pietro.

« Prima della battaglia >> (pag 82) si trova nel Mu seo Storico della Fanteria, in Roma. Il S. figu ra va, con altre opere, tra gli esposi tori alla " Prima M os tra degli artisti italian i in armi »

ToMADINI Mar ce ll o.

Abbiamo riprodotto (pagg. X , n8, 11 9, 126) da « Venti mesi tra i reticolati - 60 tavole del cap. prof. M. Tomadini - Con prefazioni di don Pasa e dell'avv Cappelletti ». Ed. S.A.T., Vicenza, 1946.

UsoLDI Gian Lui gi «Pattuglia'' (pag. 69), g i à esposto alla << Prima Mostra degli artist i ita l ian i 10 armi », si t r ova nel Museo Storico della Fanteria, in R o ma. Abbiamo fotog ra fato l'o rig inale.

VAL GARDENA (anon imi della).

« Tiratore isolato in postazione 11 (pag. VIII) e « Sfruttamento degli appigli in roccia » ( pa g. IX) si trovano nel Museo Storico della Fanteria (Sale degli Alpini) in Roma. Abbiamo fotografato gli or iginal i.

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