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Roberto Bianchi

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Roberto Bianchi

Soviet, guardie rosse e rivoluzione nell’Italia del primo dopoguerra

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Fin dall’immediato dopoguerra, mentre il nuovo governo presieduto da Francesco Saverio Nitti annunciava l’abolizione della censura che aveva imperato durante il conflitto – e che sarebbe riemersa a più riprese nella fase successiva contribuendo ad alimentare la diffusione di notizie false e dicerie fantastiche – anche periodici e quotidiani davano voce agli interrogativi riguardanti le conseguenze della rivoluzione bolscevica e il diffondersi delle paure e del fascino suscitati dalla Russia sovietica anche in Italia, con un’attenzione particolare per quello che avveniva tra le classi lavoratrici e gli ex combattenti1 . In effetti, in una fase segnata dall’esplosione d’una miriade di conflitti sociali, di movimenti urbani e rurali che intrecciavano rivendicazioni di tipo annonario con richieste d’accesso a beni considerati “comuni” e al controllo delle terre produttive, sullo sfondo di un’emergente domanda di rinnovamento e rigenerazione generale che coinvolgeva tutta la società, i tumulti nei mercati e le occupazioni di terre sembravano dare corpo allo spettro di una rivoluzione sociale che troviamo negli scritti di contemporanei appartenenti ad ambienti diversi e qualificati, e anche per questo significativi2. Lo segnalò – ad esempio – uno studioso di rilievo come Raffaele Ciasca:

una delle ripercussioni che la rivoluzione russa ha avuto nei paesi occidentali d’Europa, in Italia soprattutto, è quella di aver riaccesa e resa più viva la disputa circa la destinazione economico-sociale del latifondo e delle cosiddette terre incolte. A mano a mano che dall’ex impero moscovita giungevano notizie più o meno particolareggiate e veritiere intorno alla grande rivoluzione che strappava all’aristocrazia terriera il potere politico, divideva la proprietà a furia di popolo, manometteva castelli, ville, palazzi, la stampa e i partiti conservatori si limitavano, fra noi, quasi esclusivamente a dipingere con le tinte più fosche gli eccessi e i danni immediati del movimento rivoluzionario; viceversa la stampa socialista, notando come pure in mezzo agli inevitabili eccessi, comuni del resto alle

1 Cfr. Antonio Fiori, Il filtro deformante. La censura sulla stampa durante la prima guerra mondiale, Istituto Storico Italiano per l’Età Moderna e Contemporanea, Roma 2001, p. 453; Mauro Forno, Informazione e potere. Storia del giornalismo italiano, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 72 sg.; Valerio Castronovo-Luciana Giacheri Fossati-Nicola Tranfaglia, La stampa italiana nell’età liberale, Laterza, Roma-Bari 1979, pp. 300-315, 357-398. 2 Cfr. Roberto Bianchi, Voies de la protestation en Italie: Les transformations de la révolte entre XIXe et XXe siècle, “European Review of History”, n. 20/6 2013, pp. 1047-1071.

rivoluzioni di tutti i tempi e di tutti i paesi, una secolare aspirazione del proletariato russo si compiva, l’acquisto della terra, lanciava anche fra noi il grido della “terra ai contadini”3 .

Erano riflessioni che l’autore – all’epoca ancora sotto le armi e in procinto di rielaborare la tesi in Giurisprudenza per la pubblicazione d’un libro – avrebbe avuto modo di riprendere e sviluppare in seguito; in ogni caso senza mettere in discussione l’ordinamento sociale e dimenticando che sia lo slogan “la terra ai contadini” sia la retorica del carovita che aveva riportato in auge elementi di “economia morale” d’antico regime, erano stati usati dalla propaganda di guerra fin dal 1915-1916 e furono ampiamente diffusi all’indomani di Caporetto, ovvero prima del 7 novembre della rivoluzione d’Ottobre. Forse più semplici, ma sicuramente più efficaci appaiono le parole del Gran Maestro Ernesto Nathan che, in procinto di lasciare la direzione del Grande Oriente d’Italia al toscano Domizio Torrigiani, lanciò una sorta di grido d’allarme contro «l’insidioso contagio» di parole e slogan come «bolscevismo», «terra ai contadini», «opifici agli operai»:

Siamo nel regno delle frasi del socialismo ufficiale per reclutare soldati nell’esercito inteso alla distruzione dell’attuale reggimento sociale ed edificarne sulle rovine l’arcadia degli irrealizzabili loro sogni; siamo sotto l’influsso del bolscevismo mitigato, giuntoci a traverso le steppe russe. […] Braccianti agricoli, […] mezzadri, taluni imprevidenti, poco inclini all’assiduo lavoro; altri, senza l’altrui energica preventiva direzione, inconsapevoli dei modi per sfruttare il loro podere. Quando […] fossero venuti in […] possesso del loro pezzo di terreno, […] gli uni, ebbri della nuova inattesa ricchezza sopravvenuta, non sapendo o volendo usarne, se la giocherebbero, per così dire, a morra, all’osteria; la venderebbero al miglior offerente. Gli altri […] incorrerebbero […] in debiti sempre crescenti […], per ritornare bracciante o vagabondo, senza mezzi di sussistenza4 .

Secondo l’autorevole ex sindaco di Roma, «l’onda di bolscevismo» era destinata a svanire «dinanzi al sole del progresso»; ma in quel momento stava «rovesciando tristi grandinate» sul mondo, «lasciando tristi orme di rovine e di eccidio»5 . Tra la primavera e l’estate 1919, in effetti, in Italia giungevano notizie confuse dalla Russia sovietica e dall’Ungheria della Repubblica dei Consigli – la «Repubblica dei gelati» descritta con passione da Arthur Koestler, durò dal 21 marzo ai primi di agosto; dalla Ger-

3 Raffaele Ciasca, La terra ai contadini, “L’Unità”, 27 novembre 1919. Una versione modificata del testo si trova in Id., Il problema della terra, Prefazione di Giuseppe Prato, Treves, Milano 1921, pp. 2-3; si veda anche la Premessa dell’Autore alla riedizione Cedam, Padova 1963, pp. V-IX. Cfr. inoltre Arrigo Serpieri, La guerra e le classi rurali italiane, Laterza, Bari 1930, p. 89 e Fabio Grassi Orsini, La “Lega democratica per il rinnovamento della politica nazionale”: dalla rivista di cultura al “superpartito della democrazia”, ne Il partito politico dalla Grande Guerra al fascismo. Crisi della rappresentanza e riforma dello Stato nell’età dei sistemi politici di massa (1918-1925), a cura di Fabio Grassi Orsini e Gaetano Quagliariello, il Mulino, Bologna 1996, pp. 617-695. 4 Ernesto Nathan, L’insidioso contagio delle parole. Il bolscevismo, “Nuova Antologia”, n. 285, maggio-giugno 1919, pp. 75-80; Id., L’insidioso contagio delle parole. I. “La terra ai contadini”, ibid., pp. 296-297; Id., L’insidioso contagio delle parole. II. “Gli opifici agli operai”, ibid., pp. 299306. Sulla massoneria italiana in quella fase, cfr. Fulvio Conti, Storia della massoneria italiana. Dal Risorgimento al fascismo, il Mulino, Bologna 2003, pp. 259-266; Fulvio Conti (a cura di), La massoneria italiana da Giolitti a Mussolini. Il Gran Maestro Domizio Torrigiani, Viella, Roma 2014. 5 Ernesto Nathan, L’insidioso contagio delle parole. Il bolscevismo, cit., p. 80.

mania – dove la repubblica consiliare bavarese proclamata l’8 aprile finì la sua esperienza il 1° maggio – e da Vienna – ricordo l’insurrezione del 15 giugno; dalla Slovacchia – una fragile repubblica di tipo sovietico sorta il 16 giugno, che sopravvisse poche settimane – o persino da un paese rimasto neutrale durante la guerra come la Spagna, dove in Andalusia era iniziato il cosiddetto trienio bolchevique 1918-19206 .

Erano passati appena due anni dalla visita in Italia dei rappresentanti dei soviet russi che, organizzata tra il Febbraio e l’Ottobre – quindi con la Russia non più zarista ma ancora in armi contro gli imperi centrali – avrebbe dovuto contribuire a diffondere un messaggio di sostegno alla tenuta del fronte interno per una guerra ora sicuramente “democratica”, ma che si era tramutata in una premessa per l’insurrezione torinese dell’agosto 19177 , quando in Italia il ciclo della protesta aperto nell’anno di Caporetto – che si sarebbe chiuso nell’autunno 1920 – stava giungendo a un momento di svolta proprio tra la primavera e l’estate 19198. Da allora, come è noto, sono state ampiamente discusse in ambito politico e, successivamente, studiate in ambito storico le conseguenze della rivoluzione bolscevica per le forze politiche italiane e soprattutto per i socialisti, gli anarchici, i repubblicani e, per altri versi, anche per il movimento sindacale organizzato9 . Ovviamente, non è qui possibile ripercorrere nemmeno per sommi capi la storiografia sulla crisi del dopoguerra, il cosiddetto “biennio rosso”10, la nascita di nuove forze poli-

6 Per la citazione vedi Arthur Koestler, Freccia nell’azzurro. Autobiografia: 1905-1931, il Mulino, Bologna 1990 (1952), p. 74. Per una sintesi generale può essere ancora utile Gabriele Polo-Giovanna Boursier, Rivoluzioni e moti sociali in Europa, in Enciclopedia della sinistra europea nel XX secolo, a cura di Aldo Agosti, Editori Riuniti, Roma 2000, pp. 660-668; ma anche l’Introduction e la Conclusion a Sortir de la Grande Guerre. Le monde et l’après-1918, a cura di Stéphane Audoin-Rouzeau e Christophe Prochasson, Tallandier, Paris 2008, pp. 13-19, 415-424. Per il tema che riguarda il presente contributo, cfr. Roberto Bianchi, Les mouvements contre la vie chère en Europe au lendemain de la Grande Guerre, ne Le XXe siècle des guerres, a cura di Pietro Causarano-Valeria Galimi-François Guedj et al., Les Éditions de l’Atelier, Paris 2004, pp. 237-245. 7 Cfr. Giancarlo Carcano, Cronaca di una rivolta. I moti torinesi del ’17, Stampatori Nuovasocietà, Torino 1977, p. 34; Paolo Spriano, Storia di Torino operaia e socialista. Da De Amicis a Gramsci, Einaudi, Torino 1972, pp. 410-412. 8 Cfr. Giorgio Petracchi, Il mito della rivoluzione sovietica in Italia, 1917-1920, “Storia contemporanea”, n. 6 1990, pp. 1107-1130; Roberto Bianchi, Furies, workers and organizers: Women and anti-war protest in Italy, 1914-18, in One Hundred Years of Inheriting: The First World War Phenomenon, a cura di Snezhana Dimitrova-Giovanni Levi-Janja Jerkov, SWU University Press, in corso di stampa.

9 Per un inquadramento cfr. Aldo Agosti, Bandiere rosse. Un profilo storico dei comunismi europei, Editori Riuniti, Roma 1999, pp. 21-25. Sul tema, oltre alla trilogia di Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo. L’Italia dalla grande guerra alla marcia su Roma, in 3 voll., il Mulino, Bologna 2012 (1967, 1991 e 2012), cfr. almeno Giorgio Petracchi, La Russia rivoluzionaria nella politica italiana. Le relazioni italo sovietiche, 1917-1925, Laterza, Roma-Bari 1982, pp. 57-146; Stefano Caretti, La rivoluzione russa e il socialismo italiano (1917-1921), Nistri-Lischi, Pisa 1974, pp. 183-200; Santi Fedele, Una breve illusione. Gli anarchici italiani e la Russia sovietica, Franco Angeli, Milano 1996; Corrado Scibilia, Tra nazione e lotta di classe. I repubblicani e la rivoluzione russa, Gangemi, Roma 2012, pp. 108 sg. 10 Per una discussione del termine vedi I due bienni rossi del Novecento: 1919-20 e 1968-69. Studi e interpretazioni a confronto (Atti del Convegno nazionale, Firenze 20-22 settembre 2004), Ediesse, Roma 2006 e, all’interno, Roberto Bianchi, La dimensione internazionale, pp. 249-262.

tiche, le origini del fascismo, le trasformazioni dei linguaggi della protesta, l’emergere di inedite forme di violenza politica, il rapporto diretto tra vicende italiane e internazionali, il contraddittorio rapporto fra continuità e fratture tra guerra e dopoguerra: temi che è necessario affrontare per capire caratteri e conseguenze del primo anno di pace11. Va però segnalato che sembra ancora mancare un’aggiornata ricognizione analitica della diffusione, all’interno dei movimenti di protesta che segnarono l’uscita dalla guerra, di parole d’ordine, pratiche d’azione e forme d’organizzazione che si richiamavano esplicitamente all’esperienza russa e, nel pieno del 1919, anche a quella dell’Ungheria consiliare. Perciò in questa sede, più che ai dibattiti interni alle forze politiche e alle elaborazioni teoriche che intendevano confrontarsi con la rivoluzione bolscevica e la nascita della nuova Internazionale comunista – ricordo che il partito socialista aveva subito aderito al Comintern come fecero, poco dopo, l’Unione Sindacale Italiana diretta da Armando Borghi e altre organizzazioni di matrice anarchica12 – si volgerà l’attenzione sulla presenza nei movimenti e nei conflitti sociali di linguaggi e forme d’organizzazione che si richiamavano alla rivoluzione sovietica. Per farlo, saranno rilette fonti processuali, carte di polizia, corrispondenze e decreti conservati presso l’Archivio Centrale dello Stato e in archivi di Stato o comunali, assieme a pubblicazioni ufficiali, periodici e memorie.

Sappiamo che il 1919 non fu semplicemente una «annata rossa dell’Europa» e che in Italia il biennio 1919-1920 non fu solo rosso, ma «multiforme e multicolore»13, parte integrante e momento di svolta d’un ciclo delle proteste aperto nel 1917 e chiuso con le elezioni amministrative dell’autunno 1920 – ricalcando quasi, a grandi linee, il periodo che in Russia si era avviato con la rivoluzione del marzo 1917 ed era terminato con la sconfitta dell’Armata Rossa in Polonia14. Eppure in sede storica quel biennio è stato a lungo letto guardando soprattutto alle lotte sindacali più organizzate e alle loro ricadute politiche,

11 Cfr. Mark Jones, Political Violence in Italy and Germany after the First World War, in Political Violence and Democracy in Western Europe, 1918-1940, a cura di Chris Millington e Kevin Passmore, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2015, pp. 14-30; Fabio Fabbri, Le origini della guerra civile. L’Italia dalla Grande Guerra al fascismo, 1918-1921, Utet, Torino 2009; Roberto Bianchi, Pace, pane, terra. Il 1919 in Italia, Odradek, Roma 2006. 12 Cfr. gli interventi di Serrati sull’“Avanti!”, 19 e 20 marzo 1919 e su “L’Avanguardia”, 1° maggio 1919; si veda anche “L’Ordine Nuovo”, 20 maggio 1919; “Il Soviet”, 23 marzo 1919.

Vedi inoltre Luigi Cortesi, Le origini del Partito Comunista Italiano. Il PSI dalla guerra di Libia alla scissione di Livorno, Laterza, Roma-Bari 1977, p. 148 (ora in Id., Le origini del PCI. Studi e interventi sulla storia del comunismo in Italia, Franco Angeli, Milano 1999). Sugli anarchici cfr. Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione generale di Pubblica sicurezza, Divisione affari generali e riservati (d’ora in poi: ACS, PS), 1919, K1, b. 99, ff. per provincia; Armando Borghi, Mezzo secolo di anarchia (1898-1945), Prefazione di Gaetano Salvemini, Esi, Napoli 1954, p. 187; Luigi Di Lembo, Guerra di classe e lotta umana. L’anarchismo in Italia dal biennio rosso alla guerra di Spagna (1919-1939), Bfs, Pisa 2001, pp. 25-32. 13 Per le citazioni: David Mitchell, L’annata rossa dell’Europa, Club degli Editori, Milano 1972 (ed. or. 1919: the Red Mirage, Macmillan, New York 1970); indi Crimini, “La Parola dei Socialisti”, Livorno, 27 luglio 1919. Cfr. inoltre Roberto Bianchi, Pace, pane, terra… cit., pp. 7-16 e Marco Bresciani, L’autunno dell’Italia liberale: una discussione su guerra civile, origini del fascismo e storiografia “nazionale”, “Storica”, n. 3 2013, pp. 77-110. 14 Cfr. Andrea Graziosi, L’URSS di Lenin e Stalin. Storia dell’Unione Sovietica, 1914-1945, il Mulino, Bologna 2007, p. 145; Pierre Broué, Histoire de l’Internationale comuniste, 1919-1943, Fayard, Paris 1997, p. 178.

cercando troppo spesso d’individuare le “colpe” per una presunta rivoluzione mancata e quindi le responsabilità dei dirigenti socialisti nell’ascesa del fascismo. Scissioni e nascite di partiti furono accompagnate da scontri sulle «lezioni da trarre» dal confronto tra le diverse esperienze di Russia e Italia tra guerra e dopoguerra15, e il dibattito non si esaurì tra le due guerre mondiali16. Solo in tempi più recenti si è prestata maggiore attenzione alle dinamiche interne dei più significativi movimenti sociali, al protagonismo dei reduci, delle lavoratrici e dei vari attori di tumulti e mobilitazioni che soprattutto nel primo anno di pace coinvolsero e travolsero tutta la società italiana17 . Sta di fatto che anche dal punto di vista della storia dei conflitti sociali e delle trasformazioni dei repertori della protesta, la prima guerra mondiale aveva segnato un punto di frattura. L’ultima fase del conflitto e l’immediato dopoguerra furono contrassegnati da una successione di mobilitazioni, scioperi e rivolte caratterizzati dall’irruzione sulla scena pubblica di nuovi attori e nuove idealità capaci d’incidere nel processo di ridefinizione del rapporto tra Stato e società in una fase cruciale di quella crise des sociétés impériales che coinvolse vincitori e vinti della guerra18 .

Il fenomeno non fu solo italiano. L’ingresso delle masse sulla scena, non solo europea19 , fu un evento assai diversificato al suo interno, dalle caratteristiche inedite e che può essere comparato alle rivoluzioni del 1848 o ad alcuni aspetti dei movimenti del 1968. Ma in questa sede interessa sottolineare che in quel dopoguerra riemersero antiche forme della protesta popolare intrecciate con pratiche di lotta tipicamente novecentesche.

I tumulti annonari segnarono questa fase in Italia, spesso con un ruolo rilevante svolto dalle donne, e in varia misura anche in altri paesi come la Germania e i territori dell’ex impero austro-ungarico, la Russia e il Giappone, o persino gli Stati Uniti d’America, un paese rimasto neutrale come la Spagna e persino l’isola di Malta, col Bread Riot del 7 giugno 1919. In realtà, non si trattava del riemergere di forme di rivolta primitiva, ma del

15 Vedi Aldo Agosti, Storia del PCI, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 8. 16 Cfr., ad esempio, i “classici” testi di Angelo Tasca, Nascita e avvento del fascismo, a cura di

Sergio Soave, La Nuova Italia, Firenze 1995 (1938) e di Pietro Nenni, Il diciannovismo (1919-1922), Edizioni Avanti!, Milano 1962 (riedizione della Storia di quattro anni, un saggio sollecitato da Piero Gobetti, scritto nel 1925 e pubblicato a Parigi nel 1927 col sostegno di Carlo Rosselli). Per due bilanci storiografici, tracciati negli anni di massima popolarità di questi temi, si vedano Tommaso Detti,

Il biennio rosso, ne Il mondo contemporaneo. Vol. I. Storia d’Italia, a cura di Fabio Levi-Umberto Levra-Nicola Tranfaglia, La Nuova Italia, Firenze 1978, p. 47; Idomeneo Barbadoro, Biennio rosso: lotte sociali e direzione socialista, in Storia della società italiana. Vol. XXI. La disgregazione dello Stato liberale, a cura di Giovanni Cherubini, Teti, Milano 1982, pp. 231-285. 17 Senza proporre un elenco in nota, rinvio a titolo esemplificativo, per situazioni e luoghi

diversi, ai testi di Emilio Franzina, Il Veneto ribelle. Proteste sociali, localismo popolare e sindacalizzazione tra l’Unità e il fascismo, Gaspari, Udine 2002; Carlo Longhini, Le giornate rosse. 1919 a Mantova. Storia di una sollevazione popolare e storie di rivoluzionari senza rivoluzione, Sometti, Mantova 2009; Francesco Di Bartolo, Terra e fascismo. L’azione agraria nella Sicilia del dopoguerra, XL, Roma 2009; Simona Salustri, La nuova guardia. Gli universitari bolognesi tra le due guerre, Clueb, Bologna 2009; infine ai riferimenti al caso italiano contenuti in Robert Gerwarth, The Vanquished. Why the First World War Failed to End, 1917-1923, Allen Lane, London 2016. 18 Cfr. Christophe Charle, La crise des sociétés impériales. Allemagne, France, Grande-Bretagne (1900-1940). Essai d’histoire sociale comparée, Seuil, Paris 2001. 19 Cfr. Alberto Caracciolo, L’ingresso delle masse sulla scena europea, ne Il trauma dell’intervento: 1914-1919, a cura di Alberto Caracciolo et al., Vallecchi, Firenze 1968, pp. 7-26.

rinnovarsi di forme tradizionali dell’azione collettiva che avrebbero avuto una lunga storia nel corso del Novecento e sarebbero giunte fino ai giorni nostri, come hanno giustamente ricordato i curatori della recente edizione francese degli ultimi scritti di Edward P. Thompson sull’“economia morale”20 .

Aspetto centrale per la tenuta dei fronti interni di tutte le società in guerra, la questione annonaria subì un terremoto con lo smantellamento del sistema di controlli dei prezzi, l’abbandono dei calmieri e il rapido ritorno alla “libertà” di commercio deciso dal governo Orlando. In quel contesto le proteste nei mercati, sempre presenti durante la guerra, si intensificarono con la primavera 1919 fino ad esplodere in modo clamoroso l’11 giugno a La Spezia. Dalla città ligure l’ondata di moti si estese verso Genova e tutta la provincia, per poi allargarsi lungo la costa tirrenica e all’interno della penisola, dove s’incontrò con altre proteste che stavano montando (Fig. 2. Cronologia dei tumulti, 11-29 giugno 1919)21 .

Dopo una pausa, il movimento riesplose a Forlì il 30 giugno; si estese a tutta la Romagna, le Marche e la Toscana, quasi a ricalcare i percorsi seguiti dalla Settimana Rossa; ma questa rivolta aveva caratteri e obiettivi diversi da quelli che nel giugno 1914 avevano alimentato l’azione delle folle. La Grande Guerra aveva cambiato il ruolo dei municipi e il rapporto tra sudditi e Stato; la repressione delle forze neutraliste e gli scontri tra interventisti e oppositori alla guerra avevano ridisegnato profondamente le geografie politiche nazionali e locali; soprattutto, l’esperienza al fronte aveva cambiato gli uomini – da contadini a reduci – e la mobilitazione totale aveva trasformato il rapporto tra donne e autorità pubbliche. Il movimento di luglio assunse subito una dimensione nazionale e generale (Fig. 1. Mappa dei tumulti annonari, luglio-agosto 1919). Quasi simultaneamente raggiunse tutte le grandi città, al nord come al sud: Torino, Milano, Venezia, Firenze, Perugia, Roma, Napoli, Bari, le province di Calabria, Sicilia e Sardegna per vari giorni furono scenario di scioperi, marce di protesta, rivolte, insurrezioni, prese dei palazzi del potere da parte di folle in tumulto organizzate in vario modo. Soprattutto nel Lazio e nelle regioni meridionali i moti s’intrecciarono con le lotte del mondo rurale, quindi con i protagonisti del movimento di occupazione delle terre avviato a gennaio, che rilanciava con nuova forza le agitazioni del tempo di guerra22 .

20 Vedi Jean Boutier-Arundhati Virmani, Présentation a Edward P. Thompson, Les usages de la costume. Traditions et résistances populaires en Angleterre XVIIe-XIXe siècle, Ehess, Paris 2015, pp. 9-44; Simona Cerutti, Who is below? E.P. Thompson historien de sociétés modernes: une relecture, “Annales HSS”, n. 4 2015, pp. 931-956. Su Malta, infine, cfr. Sette Giugno remembered, “Times of Malta”, 5 giugno 2009; Relevance of the June, 7 1919 riots, ibid., 7 giugno 2011; Proper site for Sette Giugno monument, ibid., 14 agosto 2016. 21 Cfr. Roberto Bianchi, Bocci-Bocci. I tumulti annonari nella Toscana del 1919, Olschki, Firenze 2001; Roberto Bianchi-Monica Pacini (a cura di), Donne “comuni” nell’Europa della Grande Guerra, “Genesis”, n. 1 2016; Maria Concetta Dentoni, Annona e consenso in Italia, 1914-1919, Franco Angeli, Milano 1995. 22 Per i dati proposti nelle carte allegate (Figg. 1-6) cfr., oltre alla stampa coeva e alle pubblicazioni ufficiali: ACS, PS 1919, bb. 61-85, 99-105 e ibid. 1920, bb. 64-71; ACS, Carte Orlando, b. 51 e Casellario Politico Centrale, ff. vari; Archivio di Stato di Arezzo, Tribunale penale, 1919 (d’ora in poi TP con indicazione dell’anno); Archivio di Stato di Firenze (ASF), TP 1919 e Corte di Assise, 1919-1920; Archivio di Stato di Grosseto, TP 1919; Archivio di Stato di Livorno, TP di Livorno e Portoferraio, 1919; Archivio di Stato di Lucca, Prefettura, 1919; Archivio di Stato di Massa, TP 1919; Archivio di Stato di Pisa (ASP), TP di Pisa e Volterra, 1919; Archivio di Stato di Pistoia, Prefettura, 1919; Archivio

Il movimento toccò il suo apice ai primi di luglio (Fig. 3. Cronologia dei tumulti, 30 giugno-8 luglio 1919), proprio mentre il partito socialista e le principali organizzazioni sindacali stavano preparando lo sciopero generale internazionale in solidarietà con la Russia dei soviet e l’Ungheria dei Consigli. Ma anche dopo lo “scioperissimo” del 20-21 luglio, nuovi tumulti esplosero in province fino ad allora rimaste un po’ più calme, o ripresero forza in aree già segnate da proteste importanti (Fig. 5. Cronologia dei tumulti, 22 luglio-31 dicembre 1919). Nel corso del 1920 si sarebbero verificate altre agitazioni e moti annonari localizzati, ma le loro dimensioni furono incomparabili con quanto già avvenuto. Nel nuovo anno il baricentro dei conflitti sociali si spostò dalle piazze alle fabbriche e si modificarono i profili dei protagonisti delle azioni di protesta: al centro della scena non ci sarebbero più stati soviet annonari e “folle in tumulto”, ma organizzazioni sindacali urbane e rurali, consigli operai e, successivamente, forme di resistenza violenta contro lo squadrismo in ascesa23 .

In Italia non si era mai vista una mobilitazione tanto intensa, estesa, capace di coinvolgere settori sociali diversi e d’insistere nonostante la dura repressione che causò decine di morti: «oltre 80» dichiarò in Parlamento il deputato socialista ferrarese Mario Cavallari24 , distribuiti in una dozzina di province, stando ai dati raccolti (Fig. 1. Mappa dei tumulti annonari, luglio-agosto 1919).

Il moto, al cui interno – in molte località, ma non ovunque – i militanti rivoluzionari, le sezioni socialiste e le Camere del Lavoro svolsero un ruolo rilevante e talvolta dirigente, si esaurì solo con l’ottenimento di alcuni dei suoi principali obiettivi, sia in ambito locale – dalle amministrazioni comunali, dai negozianti, dai prefetti – sia su scala nazionale, con i decreti del governo Nitti. Non fu una rivoluzione; e quindi in Italia non ci fu una rivoluzione sconfitta, o tradita. Ma quell’ondata di tumulti, intrecciata con le mobilitazioni contadine e le lotte operaie, fu parte integrante d’una «situazione rivoluzionaria» – per riprendere le parole di Charles Tilly – segnata dalla temporanea presenza di sovranità multiple che si contendevano il controllo degli spazi pubblici, di pezzi dello Stato e delle sue articolazioni locali25. Nemmeno in questa occasione, però, l’insieme dei movimenti sociali s’incontrò col pieno sostegno di nessuna “agenzia”, di organizzazioni politiche o sindacali dotate della capacità – e della volontà – d’unificare il campo delle proteste per guidare la contesa sul piano politico generale; un po’ come era avvenuto al movimento contro la guerra nell’anno della neutralità26 .

di Stato di Siena (ASS), TP 1919 e Prefettura 1919; Bibliothèque de Documentation Internationale Contemporaine, Nanterre, GF Delta 143/1-80. 23 Cfr. Fabio Fabbri, Le origini della guerra civile… cit., p. 150; Roberto Bianchi, Quelle che protestavano, 1914-1918, ne La Grande Guerra delle italiane. Mobilitazioni, diritti, trasformazioni, a cura di Stefania Bartoloni, Viella, Roma 2016, pp. 208-209. 24 Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, XXIV Legislatura, Discussioni, Tornata del 28 luglio 1919, p. 20059. Nel corso dei tumulti, in un tabulato riassuntivo del Ministero degli Interni fu indicata la cifra provvisoria di 36 morti: vedi ACS, PS 1919, K5, b. 102, f. Caroviveri. 25 Cfr. Charles Tilly, Le rivoluzioni europee, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 19. 26 Si veda Fulvio Cammarano (a cura di), Abbasso la guerra! Neutralisti in piazza alla vigilia della prima guerra mondiale in Italia, Le Monnier, Firenze 2015, pp. 1-15.

Come vedremo, governare i movimenti e offrire una concreta prospettiva di sviluppo ai tumulti e alle “furie”27 appare oggi un’impresa quasi impossibile, tante erano le contraddizioni e i contrasti interni, e le fratture generate da mobilitazioni che in certi luoghi colpirono anche i mezzadri, protagonisti di intense lotte proprio in quella fase. Per dirlo con altre parole, le ondate di rivolta del dopoguerra italiano ricordano poco la forza lineare delle potenti onde oceaniche che si abbattono sulle coste atlantiche con regolarità; assomigliano molto di più alle piccole, tante e trasversali onde mediterranee che smuovono le sabbie delle coste tirreniche: imprevedibili, contrastanti, pericolose e talvolta mortali, mai in sincrono nella loro frequenza.

Visto il carattere ibrido dei tumulti annonari, non deve quindi stupirci che in una delle aree epicentro delle rivolte i moti del 1919 sarebbero rimasti impressi nella memoria e nel linguaggio popolare come bocci-bocci, un termine che intreccia la parola bolscevichi – o bolscevismo – con la locuzione toscana “fare i cocci”, ovvero perdere le staffe, arrabbiarsi e rompere tutto. L’espressione sarebbe sopravvissuta nell’Italia repubblicana, prima di scomparire col Novecento. In attesa di un’adeguata ricerca etimologica, qui interessa rilevare che il termine rievoca la sovrapposizione di linguaggi e pratiche della protesta che caratterizzò i moti, generalmente considerati tipici di epoche diverse e separate. Quei tumulti ebbero conseguenze rilevanti nella ridefinizione delle relazioni tra lo Stato liberale e una società che faticava a uscire dalla guerra, come nell’emergere all’interno del movimento socialista e sindacale di nuove fratture che avrebbero portato a scissioni ed emorragie, a dispetto del tentativo d’unificare i movimenti dietro le bandiere della difesa della rivoluzione russa e di quella ungherese, contro il sostegno offerto dall’Intesa alle armate bianche, con l’organizzazione dello sciopero generale internazionale per il 20 e 21 luglio, che però si chiuse con una sensazione di fallimento28 .

Se i tumulti assunsero una dimensione inattesa, sia per la loro estensione sia per la loro capacità organizzativa, non furono un evento completamente imprevisto. Fin dall’anno della neutralità il paese era stato segnato da proteste annonarie che nel 1917, soprattutto in alcune città industriali e in molte zone rurali più o meno industrializzate, sembrarono poter mettere in crisi la tenuta del fronte interno. Nel 1919 il movimento esplose a ridosso della firma del trattato di Versailles, con la crisi del governo Orlando e prima della formazione del governo Nitti, quando peraltro circolavano voci di sedizione militare29. Questo mentre le lotte operaie e soprattutto le rivolte contadine – con occupazioni di latifondi e terre spesso non “incolte”, scontri per il controllo di risorse considerate comuni, scioperi di braccianti e agitazioni mezzadrili – erano in piena ascesa, innervate dalla presenza dei primi reduci tornati dal fronte, e quando tutto il mondo del lavoro era in grande agitazio-

27 Cfr. Enzo Traverso, Il secolo armato. Interpretare le violenze del Novecento, Feltrinelli, Milano 2012 (2011), pp. 45-64; Arno J. Mayer, The Furies. Violence and Terror in the French and Russian Revolutions, Princeton University Press, Princeton 2000, pp. 23-44. 28 Cfr. Fabio Fabbri, Le origini della guerra civile… cit., p. 96; Roberto Bianchi, Pace, pane, terra… cit., p. 194; Charles S. Maier, La rifondazione dell’Europa borghese. Francia, Germania e Italia nel decennio successivo alla prima guerra mondiale, il Mulino, Bologna 1999 (1975), p. 132; Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo. Vol. 1… cit., p. 488. 29 Vedi Giulia Albanese, La marcia su Roma, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 5.

ne, con scioperi di operai, impiegati, funzionari, insegnanti e maestri, o persino di preti e gruppi di carabinieri30 .

Obiettivi delle rivolte furono: l’abbassamento dei prezzi e l’imposizione di nuovi calmieri; il controllo delle merci e della loro distribuzione; la punizione di speculatori e “pescecani di guerra”; le dimissioni di sindaci coinvolti in scandali annonari, individuati come profittatori della mobilitazione totale o come pessimi gestori dei mercati cittadini; il ripristino di norme morali infrante col troppo rapido smantellamento della mobilitazione annonaria; l’imposizione di forme di controllo popolare attraverso soviet annonari, commissioni popolari o comitati denominati in vario modo che, di fatto, tendevano ad assumere i tratti d’una nuova forma di potere capace d’operare su scala locale e in un ambito d’alto valore simbolico, che rivestiva un ruolo centrale per le economie familiari. Nel movimento si affiancarono forme tipiche delle proteste d’età preindustriale e moderne forme di organizzazione della lotta; assalti ai castelli e sciopero generale; charivari e guardie rosse. Nella valle del Bisenzio, a nord di Firenze, nei pressi di Prato, fu persino proclamata una Repubblica sovietica che, nella sua brevissima vita, ebbe modo di organizzarsi con guardie dotate di fasce rosse sul braccio che eseguivano controlli stradali e rilasciavano passaporti per attraversare il territorio “liberato”, e con varie altre forme simboliche di presa del potere a livello locale. Tutto ciò mentre altrove erano presi d’assalto forni e botteghe, ma anche ville padronali e palazzi comunali31 .

Insomma, il termine bocci-bocci sintetizza in modo efficace la coincidenza tra gli assalti ai forni di manzoniana memoria e una possibile evoluzione dei disordini nei mercati verso un’insurrezione generale, un po’ come si diceva fosse avvenuto l’8 marzo 1917 in Russia, all’inizio della rivoluzione di Febbraio.

La contaminazione e l’intreccio tra forme, repertori e pratiche diverse della rivolta emerge chiaramente osservando i linguaggi adottati dai rivoltosi e tentando di decifrare le logiche di azione della folla. Termini come “giusto”, “equo”, “legittima” erano sempre associati a parole come “prezzo”, “guadagno”, “richiesta”, per indicare le regole cui i commercianti, i proprietari, le autorità annonarie avrebbero dovuto adattarsi per evitare il tumulto. I rivoltosi non parlavano di lotta contro l’inflazione, ma di azioni contro accaparramenti illeciti, di censimento delle merci, blocco delle esportazioni dal territorio

30 In un documento del 29 gennaio 1919 firmato da «noi tutti aderitori [sic] alla protesta», un gruppo di carabinieri di Ancona minacciava uno «sciopero generale» se non fossero state migliorate le condizioni di vita e aumentati gli stipendi, perché – si legge – «siamo buoni di reprimere [sic] qualunque sommossa, ma siamo anche in grado di crearla»: vedi ACS, PS 1919, C1, b. 61 Affari

generali, f. Agitazione Carabinieri. Cfr. inoltre le carte, per il periodo marzo-settembre 1919, ivi contenute nel f. Agitazione G.G. di Città e Carcerarie; nonché Elio Giovannini, L’Italia massimalista. Socialismo e lotta sociale e politica nel primo dopoguerra italiano, Prefazione di Gaetano Arfè, Ediesse, Roma 2001, p. 98. 31 Per i riferimenti d’archivio cfr. Roberto Bianchi, Bocci-Bocci… cit., cap. III; Id., Grande guerra, Grande dopoguerra. Lotte politiche e conflitti sociali a Pistoia (1914-1921), in Pistoia nell’Italia unita. Identità cittadina e coscienza nazionale (Atti del Convegno di studi: Pistoia, 11-13 novembre 2010), a cura di Alberto Cipriani-Andrea Ottanelli-Carlo Vivoli, Società Pistoiese di Storia Patria-Associazione culturale Storia e Città-Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, Pistoia 2012, pp. 263-290; Id., Il fronte interno alla prova. Le opposizioni alla guerra a Prato e in Toscana, in Un paese in guerra. La mobilitazione civile (1914-1918), a cura di Daniele Menozzi-Giovanna Procacci-Simonetta Soldani, Unicopli, Milano 2010, pp. 105-132.

provinciale o comunale. Al contempo era in corso uno sciopero generale, in alcune località imperavano soviet annonari e in altre comitati di salute pubblica, o gruppi di commissari del popolo impegnati a censire merci e controllare il rispetto dei calmieri, già riportati in auge durante l’ultima fase della guerra e poi spazzati via a dispetto delle aspettative di molti consumatori.

Alcuni luoghi pullulavano di guardie rosse, talvolta dotate di mezzi requisiti ai proprietari e divenuti “automobili rosse”, mentre altrove erano i carabinieri che con sindaci e rappresentanti delle Camere del Lavoro, o altre strutture sindacali, applicavano regole in fin dei conti molto simili a quelle dei rivoltosi autorganizzati. Le meticolosità dei requisitori delle merci, impegnati a rilasciare ricevute che promettevano un successivo pagamento – spesso poi regolarmente effettuato – stonavano con il caos apparentemente privo di logica di molti assalti ai negozi e ai magazzini di merci; ma erano due realtà che convivevano nello stesso movimento, che si legittimavano e rafforzavano reciprocamente. Le carte bollate e firmate rilasciate dai requisitori ai proprietari delle merci sembravano dare legalità a una nuova forma di gestione del potere su scala locale. Gli obiettivi delle folle non erano mai individuati a caso; erano il risultato di scelte razionali che discendevano dal periodo di guerra.

I primi assalti colpirono i commercianti che non avevano rispettato il calmiere dei prezzi, quelli che si erano rifiutati di scendere a patti con la folla o che si erano arricchiti col mercato nero, e soprattutto coloro che si erano pubblicamente opposti alla riduzione dei prezzi in qualità di rappresentanti della categoria in trattative precedenti32. Furono invece rari gli episodi di «vandalismo distruttore e ingiustificato», gli assalti alle cooperative di consumo, le irruzioni in negozi di lusso33 .

Riproponendo caratteristiche tipiche dei tradizionali repertori delle proteste urbane, le folle in azione intavolavano trattative coi proprietari per imporre prezzi equi e la vendita di “merci imboscate”; erano guidate da capi improvvisati – donne o uomini – oppure da militanti socialisti, sindacali o da guardie rosse – sempre uomini. Se il negoziato andava a buon fine, il commerciante otteneva una ricevuta o un rimborso immediato a prezzo concordato; in caso contrario la folla prendeva d’assalto i locali e requisiva tutto. Talvolta i negozianti si nascondevano e assistevano da lontano alla catastrofe; in altre occasioni scoppiavano risse tra gli assalitori34. Le azioni erano rapide; in molte circostanze la riuscita dell’assalto dipendeva dal numero dei partecipanti, dalla loro determinazione, ma anche

32 Si vedano ACS, PS 1919, C1, b. 75 Siena, f. Approvvigionamenti; ibid., K5, b. 102 Sciopero generale internazionale, f. Caroviveri; nonché ASS, TP 1919, f. 61; ibid., Prefettura, 1919, b. 165, f. 29; infine “Bandiera rossa-Martinella”, 12 luglio 1919. 33 Gli assalti ad alcune cooperative di Milano e in Romagna – vedi ACS, PS 1919, C1, b. 70

Milano, f. Approvvigionamenti; “L’Avvenire cooperativo”, 25 agosto 1919; “La Cooperazione italiana”, 11, 18 luglio e 1° agosto 1919; “Corriere della Sera”, 14 luglio 1919 – furono subito celebrati da Mussolini ne “Il Popolo d’Italia” del 7 luglio 1919 e da “L’Idea Nazionale” del 6 luglio 1919, poi messi in rilievo da Umberto Ricci, La politica annonaria dell’Italia durante la guerra, Laterza, Bari 1939, pp. 76-79, in cui si rielaboravano i seguenti scritti: Il fallimento della politica annonaria, La Voce, Firenze 1921; Maffeo Pantaleoni, La fine provvisoria di un’epopea, Laterza, Bari 1919, p. 299; Luigi Einaudi, La condotta economica e gli effetti sociali della guerra italiana, Laterza, Bari 1933, p. 257 e Id., Il giusto prezzo, “Corriere della Sera”, 16 luglio 1919. Su Milano, si veda infine Ivano Granata, Crisi della democrazia. La Camera del Lavoro di Milano dal biennio rosso al regime fascista, Franco Angeli, Milano 2006, pp. 22-35. 34 Per alcuni esempi cfr. ASF, TP 1919, ff. 558, 560, 595; nonché “La Nazione”, 6 luglio 1919.

dal caso. La loro forza era data dalla minaccia di violenze; non a caso furono relativamente pochi gli episodi d’aggressione alle persone35 .

La violenza del moto, dunque, non era cieca. Una logica della folla era presente anche in quei giorni36, a dispetto della popolarità d’una «psicologia delle folle» definita pochi anni prima da autori che avrebbero avuto un ampio e persistente successo editoriale, come Gustave Le Bon, o che avevano delineato nuove categorie giuridiche per interpretare, giudicare e punire con criteri più moderni i delitti della «folla delinquente», come l’ingiustamente dimenticato Scipio Sighele37 .

Non esistevano meneurs de foules, ma all’interno delle folle emergevano figure che assumevano un ruolo particolare. Ad esempio i reduci di guerra che potevano vantare una sorta di credito morale verso la patria e la società difese in tempo di guerra, specie se mutilati o appartenenti a un corpo speciale come quello degli Arditi. Nei primi momenti dell’agitazione, sulla saracinesca di un vinaio che si era barricato in bottega, due militari – forse graduati – con una folla al seguito, furono visti vibrare colpi di sciabola38. A Firenze un Ardito classe 1895, momentaneamente in licenza ma con la divisa indosso e il pugnale in mano, dall’alto d’un barroccio improvvisò un piccolo comizio mentre la folla svuotava un magazzino di stoffe nei pressi del Duomo: «con gran gesti arringò i presenti, confortandoli col dire che si faceva bene e solo così si poteva raggiungere lo scopo»39 .

Furono numerosi gli episodi di fraternizzazione tra rivoltosi e militari; alcuni soldati parteciparono direttamente alla rivolta. Soldati e marinai, schierati in servizio di ordine pubblico, più volte vennero applauditi dai manifestanti, mentre i carabinieri erano accolti con ostilità. Già durante i moti di giugno molti funzionari di polizia notarono soldati e marinai che condividevano con gli «svaligiatori» vino e sigarette: «reparti truppa non sempre secondano richieste e direttive funzionari e qualcuno mostrasi passivo di fronte

35 Si veda ad esempio ACS, PS 1919, C1, b. 62 Ancona, f. Approvvigionamenti.

36 Cfr. Mike Haynes, The return of the Mob in the Writing French and Russian Revolutions, “Journal of Area Studies”, n. 13 1998, pp. 56-81; Jean Nicolas, La rébellion française. Mouvements populaires et conscience sociale, 1661-1789, Gallimard, Paris 2008, pp. 9-22; Arlette Farge-Jacques Revel, La logica della folla. Rapimenti di bambini nella Parigi del 1750, Laterza, Bari 1989. 37 Gustave Le Bon, Psicologia delle folle, Introduzione di Piero Melograni, Longanesi, Milano 1980 (1895); Id., Psicologia delle rivoluzioni, M&B Publishig, Casciago 2000 (1912); Scipio Sighele, La folla delinquente, a cura di Clara Gallini, Marsilio, Venezia 1985 (1891). Sull’importanza di Sighele si veda Luisa Mangoni, Una crisi fine secolo. La cultura italiana e la Francia fra Otto e Novecento, Einaudi, Torino 1985, ad nomen. Nella recente e utile rilettura proposta da Emilio Gentile,

Il capo e la folla, Laterza, Roma-Bari 2016, sembrano mancare riferimenti al criminologo bresciano e al suo piccolo best seller di fine ’800. L’attuale Codice penale italiano – come quello fascista – è debitore di alcune riflessioni proposte da Sighele: penso, in particolare, al comma 3 dell’art. 62, dove si fa riferimento alle attenuanti «per suggestione di una folla in tumulto». 38 “Il Nuovo Giornale”, 4 luglio 1919; ASF, TP 1919, f. 504 ed inoltre ff. 468 e 523; infine ASS, TP 1919, f. 65. 39 L’Ardito Iozzelli, fiorentino, sposato e con piccoli precedenti penali, prima della guerra faceva il venditore ambulante. Fu arrestato e rinchiuso in galera; riuscì a fuggire confondendosi con le guardie grazie alla divisa; riconosciuto, venne nuovamente arrestato, processato e condannato a due anni di carcere e 500 lire di multa per complicità in furto aggravato e violenza privata: vedi

atteggiamento dimostranti», scrisse un Sottoprefetto al diretto superiore40. Tante voci, tra giugno e luglio, parlarono d’insubordinazioni: «si sono rifiutati di sparare», «si sono ammutinati»; qualcuno avanzò la cifra di 1.500 militari puniti, solo a La Spezia, per essersi opposti agli ordini41. Due anni dopo Caporetto, tornava così ad aggirarsi il fantasma dello “sciopero militare” ma, come nell’autunno 1917, nell’estate 1919 non ci fu nessuno sciopero militare in Italia42 .

In realtà per tutto il tumulto il ruolo dei soldati oscillò tra un adeguamento passivo agli ordini, quindi alla gestione dell’ordine pubblico, e una simpatia attiva verso i rivoltosi. Ma a differenza di quello che era accaduto con la rivoluzione di Febbraio in Russia, in Italia le forze armate non si schierarono con l’insurrezione, se non in alcuni casi locali; si tratta di episodi da non sottovalutare e che spesso sono stati dimenticati in sede storiografica da studiosi troppo spesso abbagliati dalle luci che iniziarono a sfavillare da Fiume subito dopo la fine dei moti annonari. Insomma, nell’Italia del 1919 non funzionò quello «schema evidente» richiamato in sede storica per spiegare successi e insuccessi delle rivoluzioni nell’Europa tra 1917 e 1920: le truppe non passarono massicciamente dalla parte degli insorti43 .

Non era un esito scontato, come mostrano i telegrammi spediti in tutta Italia tra prefetture, stazioni dei carabinieri, questure, Direzione generale di PS, Ministero degli Interni, ora conservati all’Archivio Centrale dello Stato e in Archivi di Stato locali. Fu il risultato d’una gestione oculata delle forze militari, fatta di consegne in caserma, tolleranza e dialogo tra superiori e inferiori, spostamenti di reparti e, in una certa misura, fu anche un prodotto delle lezioni tratte dalle vicende russe che avevano stimolato la pubblicazione e la distribuzione tra i quadri intermedi delle forze armate d’istruzioni sulla gestione delle truppe nei momenti di crisi sociale44. Fu anche la conseguenza di particolari fratture interne alle forze armate che riemergevano in quell’estate, chiusa con la spedizione fiumana. Militari parteciparono alla rivolta o simpatizzarono esplicitamente con il tumulto; poteva capitare di vedere Arditi o persino sottoufficiali dell’esercito che guidavano requisizioni e tenevano comizi contro l’ingiustizia sociale. Però, negli stessi giorni, altri Arditi e altri

40 ACS, PS 1919, C1, b. 68 Genova, f. Approvvigionamenti-disordini: Conflitto a Spezia (11 giugno 1919); Sottoprefetto La Spezia a Prefetto di Genova, 12 giugno 1919; Relazione dell’Ispettore generale di PS a Ministero dell’Interno, 21 giugno 1919. 41 Ibid., Prefetto di Lucca a Ministero dell’Interno, 16 giugno 1919; Comando in Capo del Dipartimento Marittimo di La Spezia a Ministero della Marina, 19 giugno 1919.

42 Finito il Novecento, il mito dello «sciopero militare» è stato nuovamente riproposto da Piero Neri, Speranze rivoluzionarie, tragedia bolscevica, inganno stalinista, ne Il libro rosso del socialismo. Speranze, ideali, libertà, a cura di Dario Renzi et al., Prospettiva, Roma 1998, p. 207, là dove si rinvia a Riccardo Anfossi, Le Internazionali (1864-1943). Storia di un’idea, Prospettiva, Roma 1994, pp. 76 sg. 43 Michael Hanagan, Dalla Rivoluzione Francese alle rivoluzioni, in Storia d’Europa. Vol. 5. L’età contemporanea, a cura di Paul Bairoch-Eric J. Hobsbawm, Einaudi, Torino 1996, p. 665. O ancora, come ha scritto Lev Davydovic Trockij, Storia della rivoluzione russa, Mondadori, Milano 1969 (1932), p. 143: «senza dubbio alcuno, le sorti di ogni rivoluzione, in una certa fase, sono decise da un mutamento nello stato d’animo dell’esercito». 44 Sull’uso oculato delle forze militari nei tumulti cfr., ad esempio, ACS, PS 1919, C1, b. 68

Genova, f. Approvvigionamenti-disordini, Specchi riassuntivi del personale impiegato da Marina ed Esercito nelle giornate di tumulto (senza data ma 15-20 giugno 1919).

sottoufficiali o ufficiali dell’esercito potevano ordire, con delegati di Pubblica Sicurezza, provocazioni contro i manifestanti per scatenare repressioni sanguinose, come sembra sia avvenuto a Spilimbergo e in altre località45 .

In generale, gli assalti della folla erano rapidi, miravano a obiettivi prossimi e conosciuti; è però vero che alcuni «svaligiamenti» durarono molte ore, altri pochi minuti; talvolta, alcuni negozi furono colpiti più volte. Le folle degli assalitori erano generalmente composte da gente del quartiere46. Quasi ogni assalto era preceduto da trattative, ma non è facile descrivere uno schema sempre valido per ogni episodio. Di fatto, i comportamenti delle folle erano dettati dalla volontà di ripristinare regole di mercato infrante47 .

Nelle piazze del 1919 non comparvero barricate, come era invece avvenuto a Torino nell’agosto 1917 e come si sarebbe verificato negli scontri con gli squadristi dall’inizio del 1921 in poi48. La rivolta non si militarizzò nemmeno da questo punto di vista perché non ne aveva bisogno; aveva invaso tutti gli spazi pubblici coinvolgendo una fetta maggioritaria della popolazione in moltissime località. Fu una rivolta apparentemente priva di forma, costituita da un’infinita quantità di episodi ripetitivi, solo in apparenza non organizzati; sempre codificati, dotati d’un qualche tipo di organizzazione interna o, molto spesso, strutturati con organismi di lotta creati per l’occasione e che potenzialmente avrebbero potuto rappresentare l’embrione per nuove forme di gestione del potere su scala municipale o paesana.

I manifestanti avevano la convinzione di «fare cosa lecita»; alcuni gridavano «viva la rivoluzione», «il governo siamo noi»; altri cantavano arie riprese da opere di Verdi o inni politici49. Riemergeva l’antico legame tra festa e rivolta. In molti rapporti di polizia o nelle denunce di parte lesa conservate nei fascicoli processuali si trovano insistiti riferimenti a «folle ubriache», «ebbre», «donne di malaffare», «orda di popolo avida di saccheggio e distruzione»; la folla protagonista del tumulto era insomma descritta ricalcando antichi schemi e le definizioni rese celebri da alcuni studiosi delle folle di fine Ottocento. Si tratta d’una folla femminile, primitiva, istintiva o isterica, deprivata d’ogni possibile elemento di raziocinio.

Per un grande studioso come Luigi Einaudi, sostenitore dello smantellamento d’ogni controllo sui prezzi e sul mercato alimentare, era tornata in scena «la medesima, la vecchia psicologia delle folle, che immagina di poter ribassare i prezzi devastando, sciupando, facendo baldoria per qualche giorno»50. L’interventista democratico Gaetano Salvemini – futuro antifascista, ma nel 1919 ancora più vicino alle varie componenti dell’interventismo, anche le più radicali, che non alle lotte popolari e sindacali – testimone dei fatti di Firenze, descrisse una città «sfiascheggiata», non «saccheggiata», da «gente bonaria, gioconda, lieta di potersi godere finalmente un fiasco a due lire o addirittura gratis», mentre sulla

45 Si veda Fabio Fabbri, Le origini della guerra civile… cit., p. 85. 46 Cfr. per esempio ASF, TP 1919, ff. 409, 424, 427, 432, 434, 464, 467; indi ACS, PS 1919, C1, b. 66 Firenze, f. Approvvigionamenti. 47 Vedi ASP, TP 1919 Sentenze, f. 147; nonché ASF, TP 1919, ff. 469, 473, 579, 595. 48 A Pisa e altrove furono usate assi di legno e corde per bloccare la cavalleria; ma non si trattava di barricate. Sulle barricate nella storia francese si veda Alain Corbin-Jean Marie Mayeur (a cura di), La barricade, Publications de la Sorbonne, Paris 1997. 49 ASF, TP 1919, ff. 422, 468, 492, 511, 539, 579; ASF, Processi risolti dalla Corte d’Assise (d’ora in poi Assise) 1920, b. 27, p. I, f. 12. 50 Luigi Einaudi, Cronache economiche e politiche d’un trentennio: 1893-1925. Vol. 5. 19191920, Einaudi, Torino 1961, p. 73.

sua “Unità” teorizzava contaminazioni tra l’agitata propaganda d’alcuni nazionalisti ed ex «interventisti rivoluzionari» col carattere turbinoso e ingovernabile d’una rivolta dotata di notevole forza centripeta51 . In effetti questi giudizi si appoggiavano su aspetti reali degli eventi, come mostrano gli articoli apparsi sulla stampa nazionalista e combattentista in quei giorni52; come pure sull’evidente carattere gioioso delle azioni di folla, esplose dopo i duri anni di guerra, i lutti, la pandemia di spagnola che anche in Italia aveva causato più morti della guerra mondiale; e sulla emergente volontà di rendere operanti le promesse di rigenerazione e le speranze millenaristiche che avevano contribuito a mantenere un certo ordine sociale durante il grande conflitto. Festa e violenza erano parti integranti d’un movimento tumultuoso dai tratti rivoluzionari, dotato di obiettivi prossimi e raggiungibili, ma innervato da richieste di rinnovamento generale, dalla volontà di ripristinare norme morali infrante che avrebbero potuto diventare legge e un volano per costruire un mondo nuovo, dopo una guerra che per le sue dimensioni e il suo carattere inedito aveva dimostrato concretamente come tutto fosse possibile, anche l’impensabile.

Le azioni di folla puntavano a imporre una ridistribuzione delle ricchezze, ma non necessariamente a cambiare le forme di produzione e i rapporti di classe; si indirizzarono verso espropri di obiettivi ritenuti legittimi. Le mete erano sempre merci, luoghi, oggetti; solo in rari casi persone. Le violenze sui commercianti e sui proprietari furono relativamente molto poche, considerando la situazione generale; comunque ci furono anche alcuni scontri con mezzadri che ebbero ricadute molto gravi53, nonostante i tentativi d’unificare la lotta annonaria con le agitazioni coloniche, con spirito solidale54. In generale, il carattere limitato nel tempo dell’imposizione d’un mondo alla rovescia da parte dei rivoltosi sembrò sempre presente nelle parole e nelle azioni dei protagonisti55 . Va però ribadito che dalle cronache della rivolta emerge un diffuso desiderio di giustizia sociale, portato avanti da folle eterogenee, composte soprattutto da giovani uomini e donne, non raramente guidati da donne d’età più matura, provenienti da settori sociali diversi ma sempre pienamente inseriti nelle società e nelle economie locali: gente che lavorava, generalmente un po’ più alfabetizzata rispetto alla media della popolazione censita e quasi sempre senza precedenti penali, come mostra un confronto analitico tra una porzione

51 Cfr. Gaetano Salvemini, Opere. Vol. 6. Scritti sul fascismo, Tomo I, a cura di Roberto Vivarelli, Feltrinelli, Milano 1961, pp. 17, 468-478; indi “Unità”, 10 luglio e 4 settembre 1919. Per le citazioni si veda Roberto Bianchi, Pace, pane, terra… cit., passim. 52 Cfr. Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo. Vol. 1… cit., p. 450. 53 Sull’incendio delle stalle di alcuni mezzadri, che in provincia di Firenze si erano barricati in casa e avevano preso a fucilate i requisitori, vedi ASF, Assise 1920, b. 27, p. II, f. 17 e b. 28, f. 24; indi ACS, PS 1919, C1, b. 66, f. Approvvigionamenti, Prefetto a Ministero degli Interni, 5 luglio 1919. Cfr. poi “La Patria”, 13 luglio 1919; “Il Lavoro”, 12 luglio e 27 dicembre 1919; “La Nazione”, 22 giugno 1920. Sulle contromanifestazioni d’alcuni mezzadri – che, armati di «vanghe e forconi» per difendersi dalle angherie di «false commissioni», «dalle rispettive aie spararono dei colpi di fucile in aria» – organizzate a Brozzi, Monsummano e nell’Aretino, cfr. ACS, PS 1919, C1, b. 69 Lucca, f. Approvvigionamenti, Prefetto a Ministero degli Interni, 10 luglio 1919; ASF, TP 1919, f. 810; “La Nazione”, 6 e 7 luglio 1919; Corrispondenze. Brozzi. Come à funzionato il Soviet, “La Difesa”, 19 luglio 1919. 54 Cfr. ACS, PS 1919, C1, b. 66, f. Agitazione caro-viveri, Consiglio direttivo Società dei lavoratori della terra, 12 luglio 1919. 55 Si veda ad esempio ASF, TP 1919, ff. 468, 492, 511, 552, 559, 588.

significativa d’imputati – oltre 600, vagliati tenendo conto delle varie modalità d’azione delle forze di polizia, delle selezioni che portavano dall’arresto al tribunale, dell’evidente squilibrio de facto nel diritto di pari punibilità tra uomini e donne nella prassi giudiziaria – e i dati dei censimenti generali della popolazione del 1911 e del 1921 per l’area esaminata56 .

Questa straordinaria miscela di classi lavoratrici, urbane e rurali – ma non mezzadrili – mostrò una notevole forza d’urto nei moti di quell’estate, ottenendo molti dei suoi obiettivi, fino al varo d’una serie di provvedimenti decisi dal governo Nitti; erano conquiste importanti, sicuramente maggiori di quelle solitamente ottenute dai tumulti d’età preindustriale57. Il moto si esaurì dopo aver mostrato la propria forza, punito alcuni “pescecani di guerra”, imposto nuovi calmieri e forme condivise di controllo annonario tra rappresentanti dei Municipi e delle Prefetture e delegati degli organismi di lotta.

Ma proprio con la vittoria, col suo appagamento, il moto mostrò molte delle contraddizioni che fin dall’inizio lo avevano caratterizzato. In primo luogo si deve ricordare che ovunque, nella penisola, i delegati che lo dovevano rappresentare nei nuovi organismi di cogestione dell’annona – per concordare e controllare prezzi e mercati – erano uomini adulti; restavano esclusi i ragazzi e soprattutto le donne, a dispetto del protagonismo femminile che aveva caratterizzato l’esplosione della rivolta e che in certi momenti aveva diretto la mobilitazione popolare. Va detto che nel corso dell’estate le mobilitazioni avevano assunto più forza e determinazione, rispetto alle lotte annonarie del tempo di guerra e a quelle d’inizio giugno 1919; ma erano anche divenute permeabili a forme di azione più violenta, giovandosi dell’apporto consistente e visibile di soldati e di reduci. I combattenti, col loro peso morale, guidarono la riconquista dell’egemonia maschile nelle proteste di piazza, facendo leva anche sul ruolo degli uomini nei partiti e nelle organizzazioni sindacali. In qualche modo, la storia delle proteste popolari ripropone quesiti legati al tema del rapporto tra “guerra ed emancipazione” ampiamente discusso in sede storica e rinnovato con opere uscite, o riedite, in occasione del centenario del 1914-191858 .

In secondo luogo va rilevato che il moto si esaurì sia per l’intelligente politica di Nitti, sia per l’atteggiamento tenuto dai dirigenti delle forze politiche che più di tutte erano coinvolte al suo interno. Gran parte dei dirigenti socialisti, anarchici e sindacali, nonostante il ruolo giocato nella rivolta dai loro militanti e dai periodici locali, presero le distanze da una mobilitazione popolare che non rispondeva alla rivoluzione immaginata e tanto teorizzata. Uomini di alto profilo come Ludovico D’Aragona, Segretario della Confederazione Generale del Lavoro, il riformista Claudio Treves o il massimalista Giacinto Menotti Serrati, periodici come l’organo della CGdL “Battaglie Sindacali”, o come quelli pubblicati dai ver-

56 Vedi il quarto capitolo di Roberto Bianchi, Bocci-Bocci… cit.

57 Cfr. Eric J. Hobsbawm, I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, Einaudi, Torino 1966 (1959), p. 156; George Rudé, La folla nella storia, 1730-1848, Editori Riuniti, Roma 1984 (1981), pp. 281-291.

58 Cfr. Simonetta Soldani, Donne italiane e Grande Guerra al vaglio della storia, ne La Grande Guerra delle italiane… cit., pp. 21-53; Françoise Thébaud, Les femmes au temps de la guerre de 14, Payot, Paris 2013, p. 426; Galit Haddad, 1914-1919. Ceux qui protestaient, Les Belles Lettres, Paris 2012, pp. 125-130; Ead., La guerre de 1914-18, matrice du pacifisme féminin au XXe siècle, in Dans la guerre 1914-1918. Accepter, endurer, refuser, a cura di Nicolas Beaupré-Heather Jones-Anne Rasmussen, Les Belles Lettres, Paris 2015, p. 344; Joanna Bourke, Gender roles in killing zone, in The Cambridge History of the First World War. Vol. 3. Civil Society, a cura di Jay Winter, Cambridge University Press, Cambridge 2014, pp. 153-178.

tici del movimento cooperativo, ma anche giornali come l’“Avanti!” e “Il Soviet”, diretto da Amadeo Bordiga, in vario modo si adoperarono per condannare o anche solo per prendere le distanze da tumulti ritenuti inconcludenti, da jacqueries primitive e azioni ritenute nefaste59. Persino l’anarchico Camillo Berneri giudicò severamente i moti, additati come una sorta di “distrazione” per le masse da obiettivi indicati come meno infantili e più importanti. Ripensando ai moti dopo qualche anno, la futura icona antistalinista della guerra di Spagna avrebbe scritto che «forse il governo vedeva di buon occhio questi tumulti sporadici e mal diretti, in quanto diminuivano la pressione insurrezionale, distraevano l’opinione pubblica dalle vere cause…»60 .

Dal canto suo, Serrati condannò i tumulti in nome del bolscevismo: il disordine delle folle in rivolta richiamava un metodo «nettamente combattuto in Russia dai nostri amici Lenin e Trotsky. In Russia si chiamano i saccheggiatori les requins de la révolution. In Italia i saccheggiatori non erano dei compagni, ma degli avversari»61. Con un banale gioco di parole, il dirigente massimalista trasformava i protagonisti della rivolta contro i “pescecani di guerra” in «pescecani della rivoluzione». Quasi identico fu il tono usato da “Il Soviet” di Napoli, diretto da uno dei futuri protagonisti della scissione di Livorno, che chiamò in causa addirittura «la millenaria esperienza dei popoli» per additare la «fallacia» dei «rimedi empirici»62. Ugualmente, Claudio Treves – che già all’indomani della Settimana Rossa aveva cercato di dimostrare teoricamente l’antitesi fra «la folla, la teppa» e la «rivoluzione socialista» – si premurò di spiegare che gli italiani dovevano evolversi da Masaniello a Marx; dovevano cioè abbandonare le rivolte tumultuose per prepararsi allo sciopero dimostrativo organizzato dall’alto, in solidarietà con Russia e Ungheria: «il giorno 20 e 21 di luglio, anche se non saranno così alti i rumori del successo immediato, trionferà col suo grande spirito di verità e di luce il Maestro, Carlo Marx; ossia trionferà la forza realistica della ragione sopra i miti religiosi»63 .

59 Cfr. “Battaglie Sindacali”, 12 luglio 1919; “Critica sociale”, 16-31 luglio 1919; “Avanti!”, 5 e 8 luglio 1919; “L’Avvenire cooperativo”, 25 agosto 1919; “La Cooperazione italiana”, 11, 18 luglio e 1 agosto 1919. “Il Soviet” del 20 luglio 1919 si scagliava contro lo «sciopero espropriatore», un «concetto anarcoide che nulla ha di rivoluzionario». Ben diverso l’atteggiamento di quasi tutti i giornali socialisti locali, che sostennero le ragioni della rivolta in modo convinto e argomentato, con l’eccezione del ferrarese “Bandiera Socialista”, che il 12 luglio 1919 titolava I danarosi che hanno svaligiati i negozi siano inchiodati alla gogna dalla cittadinanza, proponendo una sorta d’interpretazione complottista che troviamo pure sull’“Unità” di Salvemini. 60 Camillo Berneri, Il fascismo, le masse, i capi, “Studi politici”, giugno-luglio 1923, pp. 153-157. 61 “Battaglie Sindacali”, 20 settembre 1919; l’articolo proponeva la traduzione d’una lettera già pubblicata da “La Vie ouvrière”, 13 agosto 1919, scritta in risposta a un precedente intervento dell’anarchico Borghi: vedi anche Armando Borghi, La rivoluzione mancata, Azione Comune, Milano 1964 (1925), pp. 96-98. 62 Rimedi illusori, nonché Amadeo Bordiga, Il pensiero della Sezione socialista, “Il Soviet”, 13 luglio 1919. 63 Claudio Treves, Da Masaniello a Marx, “Critica Sociale”, 16-31 luglio 1919. In Id., La teppa e la rivoluzione socialista, ibid., 1-15 luglio 1914, inoltre leggiamo: «La folla, la teppa, anzi, si impadronisce della “nostra” battaglia, la fa propria, le dà il carattere che vuole, la volge ai fini che vuole, magari diversi dai nostri, ai fini di saccheggio e devastazione […], di reazione sciovinista, superstiziosa, brigantesca».

Insomma, con un atteggiamento mistico coloro che si proponevano di dirigere la rivoluzione riversavano le forze verso appuntamenti di tipo propagandistico e privi di mordente; mostravano così la distanza che separava i movimenti sociali del nuovo “secolo degli estremi” – innervati dalla presenza di militanti socialisti, sindacali e anarchici, che spesso li dirigevano su scala locale – dalle “agenzie”, dalle forze politiche che comunque rappresentavano un punto di riferimento ineludibile per la società in movimento: impossibilitate a comprendere il profilo ambiguo dei conflitti sociali, delle rivoluzioni e delle guerre civili del secolo che veniva, troppo diversi da quelli dell’Ottocento ormai finito.

Tra luglio e agosto ai rivoltosi fu chiesto, o persino imposto, di smobilitare gli organismi di potere annonario, i soviet, i comitati di salute pubblica, le commissioni operaie, i comitati di requisizione sorti durante la lotta, per non ostacolare la preparazione del grande «sciopero dimostrativo», dicendo di dover evitare ogni forma di collaborazione con le istituzioni borghesi. La propaganda ebbe infine la meglio e contribuì a soffocare le forme d’autorganizzazione della società64 .

Ma per capire il bocci-bocci, questo particolare episodio di “bolscevismo all’italiana”, non sono sufficienti letture solo politiche – centrate sul ruolo e le “responsabilità” dei dirigenti, o la fondamentale reazione dello Stato e l’opera del governo – o di taglio sociologico. Una analisi interna delle azioni di folla può giovarsi dell’uso di categorie interpretative come economia morale o, meglio, come nuova economia morale, per mettersi in sintonia con un’ampia storiografia internazionale che da alcuni decenni discute e aggiorna l’opera di Edward P. Thompson65; senza però limitarsi ad applicarle in modo rigido e scolastico.

Abbiamo visto il contenuto razionale dei tumulti. I rivoltosi scelsero i loro capi, selezionarono gli obiettivi, raccolsero e diffusero informazioni, imposero prezzi e norme eque in nome d’una giustizia sociale ed economica, vollero ristabilire un ordine morale nelle relazioni di scambio commerciale sentendosi legittimati nelle loro azioni di protesta dalla «convinzione di difendere, in tal modo, diritti e costumi tradizionali» e quindi «di godere della più ampia approvazione della comunità»66, lottando per il mantenimento e il miglioramento di quanto era stato concesso e pattuito da e con le autorità durante la mobilitazione annonaria del tempo di guerra.

Questi aspetti, è evidente, fanno interpretare i moti nel solco della nuova economia morale. Usare il modello in modo meccanico, però, comporta il rischio di sottovalutare le trasformazioni interne ai movimenti di protesta avvenute tra guerra e dopoguerra e, soprattutto, nel corso delle lunghe settimane di primavera ed estate 1919. Nella fase più accesa dei moti, infatti, i manifestanti non si limitarono a esprimere forme di resistenza arcaica, a guardare indietro nel tempo per restaurare un ordine sociale infranto dal corso della storia, orientandosi verso «una consolidata visione tradizionale degli obblighi e delle norme sociali, delle corrette funzioni economiche delle rispettive parti all’interno della co-

64 ACS, PS 1919, K5, b. 105, f. Torino, Prefetto a Ministero degli Interni, 10 luglio 1919. 65 Si veda il celebre saggio del 1971 e la rilettura proposta dall’autore vent’anni dopo in Edward P. Thompson, Custom in Common, Merlin Press, London 1991, pp. 185-258 e 259-351; ricordo che il secondo saggio non è mai stato tradotto in italiano. Cfr. inoltre Christos Efstathiou, E.P. Thompson: The Twentieth-Century Romantic, Merlin Press, London 2015; Didier Fassin, Les économies morales revisitées, “Annales HSS”, n. 6 2009, pp. 1237-1266; Simona Cerutti, Who is below?... cit. 66 Cito dalla traduzione curata da Edoardo Grendi: Edward P. Thompson, L’economia morale delle classi popolari inglesi nel secolo XVIII, in Società patrizia, cultura plebea. Otto saggi di antropologia storica sull’Inghilterra del Settecento, Einaudi, Torino 1981, p. 59.

munità»67. Questi elementi erano stati effettivamente presenti nei moti durante la guerra e fino alla prima metà del 1919, quando era stata predominante la richiesta di ristabilire un ordine infranto, prima dalla mobilitazione totale e, dopo, dalla smobilitazione liberista. Ma con i grandi tumulti di luglio le cose cambiarono; al loro interno svolsero un ruolo evidente molti reduci, comparvero forme inedite d’organizzazione e nell’ideologia della protesta gli elementi «derivati» assunsero un peso maggiore rispetto a quelli «intrinseci» e tradizionali68 .

I tumultuanti chiedevano il ristabilimento di norme “eque” e “giuste”, talvolta colorate da tratti millenaristici ripresi dalla retorica del tempo di guerra; però guardavano anche in “avanti”, alla possibile costruzione d’un mondo nuovo, in certi luoghi simboleggiato dai bracciali delle “guardie rosse” o dal richiamo all’esperienza bolscevica reso evidente dai soviet annonari o anche dalla piccolissima repubblica sovietica proclamata a nord di Firenze. Il bocci-bocci e l’insieme dei tumulti annonari del dopoguerra furono un fenomeno tanto ricco e ambizioso quanto ambiguo e difficile da comprendere per i contemporanei. Rappresentarono il modo concreto attraverso cui si potevano fare la rivoluzione e il bolscevismo. Furono l’affermazione di un “mondo alla rovescia” all’indomani d’un conflitto mondiale che, fin dal 1914, tanto era stato osteggiato proprio nelle zone e dai settori sociali protagonisti dei tumulti del 1919; quella guerra che per l’enormità delle sue dimensioni e caratteristiche aveva paradossalmente dimostrato che tutto era possibile, anche l’inimmaginabile. Ma per i proprietari, e anche per i piccoli commercianti e i mezzadri colpiti dalla rivolta, l’azione delle folle, i bracciali rossi degli organizzatori e il ruolo dirigente svolto in molte località dalle Camere del Lavoro, dalle cooperative e dai socialisti evocarono la forza delle masse che potevano emergere dai peggiori “ventri” delle città o da un mondo rurale che si stava risvegliando, e che mettevano in discussione ruoli sociali e una proprietà, più che privata, densa di significati e identità pubbliche. Anche per questo i moti lasciarono un segno profondo sul primo dopoguerra e la storia di più lungo periodo delle proteste sociali e dei progetti di rigenerazione politica69 .

Dopo il fascismo, lasciata alle spalle la nuova guerra mondiale, nell’Italia repubblicana i partiti e i nuovi movimenti avrebbero avuto la necessità di differenziarsi dai moti del 1919. La memoria dei tumulti annonari si sarebbe così trovata confinata nell’angusto recinto del diciannovismo, chiusa tra le sbarre di narrazioni storiche che avrebbero avuto bisogno di prendere le distanze dalla “sconfitta” del dopoguerra. Solo con la fine del Novecento la storiografia ha iniziato a studiare con nuovi strumenti anche questi aspetti di quella fase cruciale per la costruzione del mondo contemporaneo; ma il mito negativo di un 1919 diciannovista tarda a scomparire70 .

67 Ibid., p. 60. 68 George Rudé, Ideologia e protesta popolare. Dal medioevo alla rivoluzione industriale, Editori Riuniti, Roma 1988 (1980), pp. 30-31. 69 Si veda Roberto Bianchi, Bocci-Bocci… cit., p. 32. 70 Cfr., ad esempio, Lucia Annunziata, 1977. L’ultima foto di famiglia, Einaudi, Torino 2007, il cap. V dal titolo Il “diciannovismo”: la giornalista, rievocando prese di posizione del PCI nel 1977 – quando si accusavano i movimenti estremisti giovanili e universitari di «diciannovismo» animato da «untorelli» – definisce il fenomeno del dopoguerra come una «confusa ondata di mobilitazione reducistica e massimalista che aveva favorito l’ascesa del fascismo in Italia» (p. 75).

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