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Daniele D’Alterio

Daniele D’Alterio

“Disillusione socialista” e delusione storiografica: a proposito d’un libro sulla storia del sindacalismo rivoluzionario in Italia

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Chi si è occupato in ambito storiografico di sindacalismo rivoluzionario e azione diretta in Italia aspettava da tempo, crediamo, dopo i fondamentali testi di Alceo Riosa e Gian Biagio Furiozzi di circa quarant’anni or sono1, la comparsa d’un volume in grado di fornire una nuova interpretazione “generale” e una ricostruzione “nazionale” d’un fenomeno assai complesso e variegato come appunto il sindacalismo rivoluzionario. Negli ultimi anni, infatti, è apparsa imprescindibile la necessità d’aggiornare fonti, bibliografia e approntare un discorso in grado di rendere edotti circa l’evolversi del dibattito su questi temi, in un’Italia e in un mondo che appaiono peraltro totalmente differenti dal contesto degli anni Sessanta-Settanta: sul piano politico, sindacale, culturale, sociale, dunque anche storiografico.

Il libro in questione – Giorgio Volpe, La disillusione socialista. Storia del sindacalismo rivoluzionario in Italia, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2015 – non soddisfa tuttavia tali esigenze e legittime aspettative. Fin dall’incipit, dedicato alle “origini” del movimento, l’analisi e l’approccio metodologico sono molto datati e si concentrano soprattutto sulle dinamiche politico-partitiche, ma non “sociali” e “sindacali”, limitate peraltro alla Napoli di fine Ottocento-primi del Novecento, quasi che questa matrice – studiata dall’Autore in chiave “localista” più che “locale” – possa essere ritenuta la sola, dunque in grado di segnare in maniera indelebile ed imperitura lo sviluppo dell’intero sindacalismo rivoluzionario italiano.

Questo, al contrario, da un lato non può non essere messo in feconda relazione con fenomeni ottocenteschi, di portata non solo nazionale, come il Partito Operaio Italiano, i Fasci Siciliani nonché la più ampia vicenda della I Internazionale2. Dall’altro lato, tuttavia, esso ebbe modo d’agire e operare già nel corso del primissimo Novecento grazie alle

1 Vedi Alceo Riosa, Il sindacalismo rivoluzionario in Italia e la lotta politica nel Partito socialista in età giolittiana, De Donato, Bari 1976; Id., Il sindacalismo rivoluzionario in Italia dal 1907 alla “Settimana Rossa”, “Movimento operaio e socialista”, n. 1 1979, pp. 51-86; Gian Biagio Furiozzi, Il sindacalismo rivoluzionario italiano, Mursia, Milano 1977. 2 Lo stesso padre dell’operaismo italiano, Osvaldo Gnocchi-Viani, nel dicembre 1906 inviava un fervido e indicativo “augurio” al neonato quotidiano sindacalista romano “L’Azione”, in particolare ad Enrico Leone che ne era il direttore – cfr. Il saluto di Gnocchi-Viani, “L’Azione”, 31 dic. 1906 – e scrivendo non a caso che dopo aver udito Leone in una conferenza di propaganda, egli aveva «provato la deliziosa soddisfazione di sentire che lo spirito della Associazione Internazionale dei Lavoratori [ovvero la I Internazionale] non era morto soffocato, come sembrava».

forti connessioni che alcuni “gruppi” – da Napoli a Milano, da Roma a Parma, per citare solo i più noti – in epoche diverse e in virtù di progetti politico-sindacali sensibilmente differenti, realizzarono con le lotte sociali e soprattutto sindacali che il proletariato italiano autonomamente innescava e spesso guidava, anche in questa fase “originaria”. Su tali basi infatti e a partire da questa complessa realtà “sociale” – prima ancora che “politica” o magari solo “partitica” – dell’Italia intera, sarebbe stato interessante sviluppare un discorso sul sindacalismo rivoluzionario che tenesse dunque conto di tali più ampie “origini” e successive dinamiche, mettendole in relazione alla nascita, al rapido sviluppo e sovente all’altrettanto rapido tramonto dei molti “sindacalismi” italiani.

Insomma il più vasto fenomeno dell’azione diretta, che è tutt’uno coi prepotenti mutamenti della società italiana otto-novecentesca. In virtù di questi, infatti, il sindacalismo rivoluzionario nasce, prospera e mette radici spesso solide in regioni ed aree urbane le più diverse fra loro, indipendentemente dalle «origini meridionali» di questo o quel leader sindacalista. Altrettanto datata, inoltre, è nel libro la volontà di sottolineare la provenienza «studentesca» dei sindacalisti rivoluzionari3, quasi che l’essere “intellettuali” nell’Italia giolittiana attraversata da imponenti fenomeni di modernizzazione capitalistica, quindi d’ibridazione e “migrazione” socioeconomica fra ceti e classi, fosse un termine che escludeva antropologicamente una qualche comunicazione con gli “operai” e i “contadini” che però, al pari della cosiddetta “borghesia” più o meno piccola, erano attraversati da identici fenomeni di smottamento e forte mutazione, su cui tutt’oggi ci si continua ad interrogare, magari nell’ottica della global history.

In assenza d’una simile prospettiva, ovvero non legando strettamente e problematicamente il sindacalismo rivoluzionario all’azione diretta, cioè la storia dei partiti e dei movimenti politici sia a quella delle organizzazioni sindacali sia a quella della “società” nel suo complesso, diventa complicato o addirittura proibitivo a nostro avviso studiare il sindacalismo rivoluzionario. Si corre infatti il rischio, in tal modo, di tornare a privilegiare un approccio storiografico che, a dispetto di quel che l’Autore proclama nell’Introduzione, si concentra in massima parte proprio sulla storia – forzatamente interpretata come unitaria – d’un presunto ed unico “gruppo” sindacalrivoluzionario, costituito da “meridionali”

3 Anche quest’idea espressa a più riprese da Volpe, invero piuttosto vintage, d’una dirigenza sindacalrivoluzionaria intrinsecamente “piccolo borghese” e “meridionale”, ci sembra smentita dalla profluvie di quadri operai e/o comunque centro-settentrionali che furono a tutti gli effetti sindacalisti rivoluzionari nell’arco del primo Novecento – molti dei quali facenti anche parte, non a caso, della giunta esecutiva del Segretariato della Resistenza nel 1905-1906 – fino alla prima guerra mondiale, proprio in un concretissimo piano “proletario”: a parte Filippo Corridoni, Alceste De Ambris o magari Alighiero Ciattini, valgano ad esempio i principali leader delle Camere del Lavoro e di non poche Federazioni di Mestiere italiane dell’epoca, da Zurigo Lenzini a Romolo Sabbatini, da Alessandro Degiovanni a Virginio Corradi, da Zeffirino Traldi a Cleobulo Rossi, fino ad Ercole Mariani ed Emanuele Branconi, per citare i più noti. L’approccio privilegiato da Volpe, peraltro, cominciò ad essere messo energicamente in discussione già nei primi anni Settanta da alcuni relatori dell’ormai celeberrimo convegno di Piombino e a proposito del quale cfr. Il sindacalismo rivoluzionario nel periodo della Seconda Internazionale, atti del Convegno patrocinato dal Centro Piombinese di Studi Storici e tenutosi a Piombino dal 27 al 30 giugno 1974, “Ricerche storiche”, n. 1 1975.

e da “intellettuali”, che improvvisamente muove alla “conquista” del PSI, o magari della Camera del Lavoro (CdL) di Milano ovvero del Nord “operaio”4 .

Uno schema rigido, insomma, oltre che invecchiato, direi tarato su diktat partitico-ideologici dell’altro secolo e sul quale, pure, Volpe costruisce questo suo studio in un’epoca che paradossalmente si proclama post-ideologica, post-moderna. In egual modo, egli sembra non tenere in nessun conto questioni, temi e vicende su cui la storiografia – recente e meno recente – si è cimentata, anche dividendosi e dibattendo. Totalmente assente, infatti, nel senso che non è neppure citata, la storiografia che ha indagato la dimensione locale ed anche categoriale dell’azione diretta5, o quella relativa ai temi dell’antimilitarismo, del pacifismo, del “giovanilismo” – con annessa chiave di lettura “generazionalista” – e dunque della storia della Federazione Giovanile Socialista in cui tanta parte ebbero i sindacali-

4 A p. 48 si scrive non a caso a proposito di Walter Mocchi, che egli fu «il primo esponente del gruppo de “La Propaganda” a sbarcare [sic] a Milano». 5 Mancano del tutto riferimenti storiografici accettabili inerenti categorie fondamentali come i ferrovieri, i tipografi, i metalmeccanici, i gassisti ed elettricisti, il proletariato agricolo, gli edili, i tessili, ecc.: senza avere lo spazio per poter elencare l’ampia mole di studi in tal senso, rinviamo perlomeno e per un quadro generale a Stefano Musso, Storia del lavoro in Italia: dall’Unità a oggi, Marsilio, Venezia 2002. Identico deficit riguarda la dimensione locale dell’azione diretta e del sindacalismo rivoluzionario: le aree urbane – Milano, Torino, Bologna, Brescia, Piacenza, Ferrara, ecc. e perfino la Napoli da cui tutto, in un certo senso, ebbe “origine” secondo l’Autore, che si concentra però solo sulla Napoli del tardo Ottocento fino al 1902-1903 e non sull’intera età giolittiana, non considerando perciò uno studio ancor oggi fondamentale come quello di Giuseppe Aragno, Socialismo e sindacalismo rivoluzionario a Napoli in età giolittiana, Bulzoni, Roma 1980 – ma anche intere regioni come la Puglia – da non limitare alla sola attività di Giuseppe Di Vittorio – mentre della Sicilia di Vincenzo Purpura e della Sardegna di Attilio Deffenu, ad esempio, nulla ci è dato sapere in questo libro. Quanto alla Roma primonovecento, invece, cioè quella delle molte lotte proletarie e dello sciopero dei tipografi divenuto poi sciopero generale nel 1903, temi questi su cui ormai vi è una ragguardevole mole di studi ben distribuiti nel tempo – ricordiamo, fra i tanti, quelli contenuti in Paolo Carusi (a cura di), Roma in transizione: ceti popolari, lavoro, territorio nella prima età giolittiana: atti della giornata di studio, Roma, 28 gennaio 2005, Viella, Roma 2006 – pure nel libro di Volpe, sempre nell’assenza di riferimenti bibliografici minimi, anche limitati alla sola categoria dei tipografi capitolini, troviamo solamente questo accenno: «anche nelle grandi città l’azione di [Arturo] Labriola aveva un certo seguito. A Roma, prima che vi si recassero [Enrico] Leone e [Paolo] Mantica per dar vita a “Il Divenire sociale” nel 1905, vi era Giuseppe Parpagnoli, intransigente, a capo del grande sciopero dei tipografi romani del 1903: dato il suo carattere indipendente, egli non può essere definito un sindacalista rivoluzionario a tutti gli effetti, ma il suo orientamento decisamente anti-riformista e le collaborazioni con “Avanguardia socialista” ed in seguito con “Il Divenire sociale” e “Pagine libere”, fanno in modo che lo si possa considerare quantomeno un ‘forte simpatizzante’» (p. 54). Più oltre invece, a p. 79, si accenna a un non ben specificato «periodo di gestazione del sindacalismo rivoluzionario di Enrico Leone» e alla fondazione de “Il Divenire sociale”, appunto nel 1905, ed in cui il Leone “romano” – di cui qui non si parla affatto, però – «fu affiancato alla direzione [della rivista] da Paolo Mantica, altro socialista d’origine partenopea [sic]». Sulla figura di Paolo Mantica e del fratello Giuseppe Giovanni, socialisti e massoni calabresi d’un certo peso nel primo Novecento, mi permetto di rinviare a Daniele D’Alterio, Mantica Paolo, in Dizionario biografico degli italiani. Vol. 69 [http://www.treccani.it/enciclopedia/paolo-mantica_(Dizionario-Biografico)/] e ai riferimenti bibliografici ivi contenuti.

sti rivoluzionari6; altrettanto assente, inoltre, l’ormai corposa mole di studi sulle molteplici connessioni dell’azione diretta con la storia del “sindacato” lato sensu, comprese le origini e il primo sviluppo della Confederazione Generale del Lavoro (CGdL)7 .

Anche il rapporto fra sindacalismo riformista e rivoluzionario è analizzato en passant, ma soprattutto in maniera puramente “oppositiva”, appunto perché al sindacalismo rivoluzionario così come lo interpreta Giorgio Volpe manca un saldo ancoraggio alla più ampia vicenda dell’azione diretta8. Proprio la figura di Enrico Leone, in quest’ottica, ci sembra davvero male inquadrata e la grande complessità dell’iter politico dell’intellettuale e leader sindacalrivoluzionario campano torna così da un lato ad essere inclusa oltremodo nella dimensione delle “origini” – gli anni de “La Propaganda”, in massima parte – dall’altro ad ondeggiare disordinatamente tra Labriola, Ferri e Sorel, rimanendo comunque subordinata all’iniziativa del gruppo dell’“Avanguardia socialista”, altrettanto erroneamente interpretato dall’Autore quale unico e principale fautore del sindacalismo italiano fra il 1902 e il 1907, quasi una sorta di primo mobile o magari di “centrale” rivoluzionaria da cui dipende ogni palpito del sindacalismo italiano a livello nazionale9 .

Lacunosa, poi, a dispetto dell’ambizione da cui muove il volume e dell’annessa volontà di realizzare una «biografia collettiva» del sindacalismo rivoluzionario italiano, è proprio la dimensione biografica dell’analisi, costruita in larga misura sul Casellario Politico Centrale dell’Archivio Centrale dello Stato ma che, forse, avrebbe richiesto un ulteriore “sforzo”, sia archivistico-documentario sia bibliografico10. Appena accennati, inoltre, temi

6 Non si considera nel libro di Volpe neppure quel che a tale riguardo ha scritto, fra gli altri, Gaetano Arfé, sia nella Storia del socialismo italiano (1892-1926), Einaudi, Torino 1965 sia, soprattutto, ne Il movimento giovanile socialista. Appunti sul primo periodo (1903-1912), Ed. del Gallo, Milano 1966. 7 Sarebbe infatti stato preferibile, all’uopo, che in questa storia del sindacalismo rivoluzionario italiano venisse considerato con la dovuta attenzione soprattutto Maurizio Antonioli, che ha dedicato illo tempore e continua tutt’oggi a dedicare decine di studi all’azione diretta e al sindacalismo rivoluzionario anche in una dimensione europea, all’USI, a Filippo Corridoni, Armando Borghi, Alceste De Ambris, al rapporto fra anarchismo e sindacalismo, alla CGT, ecc. ecc. 8 Si veda, in tal senso, quanto l’Autore scrive a pp. 39-43. In relazione al sindacalismo riformista invece – che è un fenomeno da considerare non solo in opposizione a quello “rivoluzionario”, bensì fortemente collegato ad esso dalla comune matrice proletaria, sovente in grado d’intrecciarsi in maniera problematica ed anche sorprendente alla storia dell’azione diretta e delle sue principali figure, magari all’ombra della tradizione operaista od anche di trovarsi in atteggiamento critico nei confronti del socialismo riformista, “partitico” e “turatiano” – non se ne analizza criticamente la vicenda, né si considerano studi fondamentali: valgano ad esempio quelli più recenti di Paolo Mattera, fra cui Le radici del riformismo sindacale: società di massa e proletariato alle origini della Cgdl (1901-1914), Ediesse, Roma 2007. 9 Curioso, peraltro, che un intero capitolo del libro di Volpe sia intitolato Riforma o rivoluzione sociale? (pp. 45 sg.) appunto sulla falsariga del celebre libro di Arturo Labriola, Riforme e rivoluzione sociale, del 1904, a sua volta “mutuato” dall’opera di Karl Kautsky e che, pure, è erroneamente citato a p. 60 del libro di Volpe con il titolo di Riforma e rivoluzione sociale, sebbene a p. 63 esso torni però nuovamente Riforme e rivoluzione sociale. 10 Crediamo infatti che sarebbe stato utile per l’Autore tener conto dell’autentica miriade di studi a carattere biografico sui principali esponenti del sindacalismo rivoluzionario, molti proliferati negli ultimi vent’anni e in relazione ai quali si veda in massima parte il Dizionario biografico degli italiani, dunque le varie voci dedicate da molti studiosi a diversi esponenti sindacalisti: fra le tante,

assai “consistenti” come il rapporto, anche solo strettamente filosofico, fra anarchismo e sindacalismo rivoluzionario11 – che non si riduce alla sola fase “anarco-sindacalista”, successiva allo sciopero generale parmense del 1908 – o la cosiddetta revisione “edonistica” del marxismo operata dai molti economisti sindacalrivoluzionari fino in epoca fascista, e su cui ci si sofferma in questo studio abbastanza distrattamente12 . Parziale, invece, la riflessione di Volpe su vicende apparentemente “particolari” come il “doppio” sciopero dei ferrovieri del 1905 e quello generale anti-sonniniano del 1906. Questi episodi, infatti, costituirono un salto di qualità dell’azione diretta operaia13 prima ancora del solo “sindacalismo rivoluzionario” o di alcuni suoi esponenti privilegiati dall’Autore, e determinarono alfine una “pressione” consistente, per quanto disarticolata, dell’intero movimento operaio italiano – in attitudine “offensiva” – sul sistema politico-parlamentare “giolittiano”. Di questa “pressione” proletaria e sindacalista, nondimeno, che contribuì a determinare una prima grave crisi del sistema di potere giolittiano, indi un suo riassestamento di lungo periodo intorno al 1907-1908, in questo libro sostanzialmente non si parla, se non per ricondurre tali vicende sempre e comunque alle movenze del “gruppo” napoletano-milanese dell’“Avanguardia socialista”, per l’Autore unico terminale del sindacalismo rivoluzionario nel suo complesso, e alla sua iniziativa, di colpo esauritasi nel 1907 e letta in un’ottica prevalentemente partitica14 .

ad esempio, quella di Giorgio Fabre, Orano Paolo, in Dizionario biografico degli italiani. Vol. 79 [http://www.treccani.it/enciclopedia/paolo-orano_(Dizionario-Biografico)/], ricchissima di riferimenti archivistici e bibliografici. Sempre a tal proposito, avrebbe dovuto essere degno di menzione nel libro di Volpe l’ormai “classico” studio di Mauro Canali, Cesare Rossi: da rivoluzionario a eminenza grigia del fascismo, Il Mulino, Bologna 1991 ed in cui l’intera prima parte è dedicata alla stagione sindacalrivoluzionaria e in buona parte “romana” di Rossi. Altrettanto indicativa, nel libro di Volpe, l’assenza del recente saggio di Federico Goddi, Tullio Masotti. Biografia di un sindacalista rivoluzionario, “Giornale di storia contemporanea”, n. 1 2011, pp. 47-74 in cui il focus è su un esponente sindacalista pure assai citato da Volpe, specie in relazione alla parabola dell’USI. 11 Sul quale si vedano ad esempio i molti studi di autori come Giampietro Berti, Gino Cerrito, Fabrizio Giulietti, Maurizio Antonioli, oltre ovviamente Pier Carlo Masini. 12 Non esiste ad esempio in queste pagine – a parte un fugace riferimento finale al pregevole studio a carattere biografico di Willy Gianinazzi, L’itinerario d’Enrico Leone: liberismo e sindacalismo nel movimento operaio italiano, Franco Angeli, Milano 1989 – un confronto dell’Autore con le ipotesi storiografiche di chi, a più riprese, ha maggiormente indagato gli aspetti “teorici”, politico-filosofici ed economici, del pensiero d’Enrico Leone: Eugenio Zagari, Marxismo e revisionismo: Bernstein, Sorel, Graziadei, Leone, Guida, Napoli 1975; Giovanna Cavallari, Classe dirigente e minoranze rivoluzionarie: il protomarxismo italiano (Arturo Labriola, Enrico Leone, Ernesto Cesare Longobardi), Jovene, Camerino 1983; Stefania Mazzone, Enrico Leone: liberalismo e sindacalismo, in Georges Sorel nella crisi del liberalismo europeo, a cura di Giovanna Cavallari e Paolo Pastori, Università di Camerino-Affinità Elettive, Camerino-Ancona 2001, pp. 363-385; Daniela Andreatta, Tra mito e scienza: la revisione del marxismo nel pensiero politico di Georges Sorel e di Enrico Leone, Cleup, Padova 1999; Luigi Marco Bassani, Marxismo e liberismo nel pensiero d’Enrico Leone, Giuffrè, Milano 2005. 13 Nei casi in cui ci si riferisce all’azione diretta, peraltro, in questo libro la si nomina curiosamente action directe, quasi si trattasse d’un prodotto d’importazione, francese appunto, e non un movimento autonomo – non meramente “spontaneo”, inoltre – dei lavoratori, in tal caso italiani. 14 Nel libro peraltro, nonostante quest’approccio prevalentemente “partitico”, specie nell’analisi del sindacalismo rivoluzionario fino al 1907, non viene analizzata affatto, ad esempio, la formazione

Assenti dal libro di Volpe o presenti tutt’al più in forma di brevi accenni, poi, riflessioni – pure a nostro avviso necessarie in un volume che voglia proporsi come una storia del sindacalismo rivoluzionario in Italia e che quindi intenda aggiungere qualcosa di nuovo sul piano storiografico – su eventi tutt’altro che secondari. In primis il cosiddetto “caso Scarano” e il rapporto, controverso ma ineludibile, di una parte del sindacalismo rivoluzionario e del socialismo nel suo complesso con la Massoneria e che obbligano a guardare con occhi diversi, o comunque maggiormente critici, il “distacco” – o non fu piuttosto una espulsione comminata dagli “integralisti” morgariani, già nel 1907? – dell’azione diretta dal PSI e dalla stessa CGdL. O, in egual modo, la “strana” presenza nella Redazione de “Il Sindacato Operaio” e poi nel Gruppo Sindacalista Rivoluzionario Romano ancora nel 1907, accanto ad Alceste De Ambris e a Romolo Sabbatini, di Cleobulo Rossi, cioè uno dei fondatori e ideatori della CGdL nel 1906; indi la parallela contiguità al sindacalismo leoniano, proprio nello specifico della CdL capitolina lungo tutto l’arco del primo Novecento, di un’altra importante figura del sindacalismo riformista italiano come Ernesto Verzi15 .

Anche quando il volume di Volpe tenta di approfondire la dimensione europea e transnazionale del sindacalismo rivoluzionario nostrano, lo fa astrattamente o tutt’al più su un piano d’analisi puramente “teorico”, limitandosi alla cronaca del dibattito-scontro prodottosi all’epoca nell’ambito della II Internazionale16. Non vengono considerate dunque né le differenze fra i movimenti operai e sindacali – non solo fra i partiti socialisti pertanto – italiani e stranieri, né quelle, di non poco conto, fra lo stesso Sorel e i cégétistes né, infine, fra le diverse opzioni politiche e sindacali scaturite dall’azione diretta nostrana e che pure Volpe finisce per includere nel presunto indelebile “meridionalismo” dei sindacalisti rivoluzionari, anzi di tutti i sindacalisti rivoluzionari italiani, sic et simplicter.

Altrettanto approssimativa la parte del libro in cui vengono prese in esame le vicende – di non facile lettura, del resto – del sindacalismo rivoluzionario successive al 1907, inquadrate sempre in virtù di stilemi in base ai quali «dalla Milano di Labriola e Lazzari ci trasferiamo nella Parma di De Ambris», mentre secondo una visione davvero discutibile «le nuove riviste [d’area, fra cui “L’Internazionale”,] smettono di avere ambizioni nazionali e divengono più simili a fogli di propaganda locale». Inoltre, in ragione dell’interpretazione che l’Autore privilegia – e in base alla quale per quanto riguarda tutto il corso del primo

e lo sviluppo del cosiddetto “blocco integralista” all’interno del PSI, che nacque proprio in funzione antisindacalista ad opera principalmente di Oddino Morgari e Francesco Paoloni; né, circa la storia del PSI, appaiono sufficienti i riferimenti bibliografici: si ignora del tutto, fra i molti ed illustri, anche il recente studio di Paolo Mattera, Storia del Psi: 1892-1994, Carocci, Roma 2010. 15 Sulla grande complessità della figura di Verzi rinviamo, fra gli altri, a Maurizio Antonioli (a cura di), “I metallurgici d’Italia nel loro sindacato” di Ernesto Verzi, Ediesse, Roma 2007. 16 Anche in tal caso, peraltro, con supporti bibliografici a nostro avviso non sufficienti: quando si parla di Francia e di Confederation Generale du Travail (CGT), a mancare completamente è la storiografia sia italiana sia francese – valga per tutti Jacques Julliard – sia, infine, anglosassone, che dagli anni Sessanta ad oggi ha indagato questi fenomeni, in maniera degna d’essere presa in considerazione. Del tutto assente, invece, una riflessione storiografico-bibliografica sulle connessioni – all’ombra della “tradizione” operaista tardottocentesca italiana – fra sindacalismo rivoluzionario e tradeunionismo o, anche, fra azione diretta nel suo complesso e il sindacalismo degli Industrial Workers of the World, già studiato anni or sono e ancora di recente, fra i tanti, da Bruno Cartosio; o, infine, il rapporto del sindacalismo rivoluzionario italiano con quello spagnolo o magari – all’ombra dell’emigrazione italiana in Sud America – latinoamericano.

Novecento, ad imporsi è l’analisi delle vicende interne ai vertici del solo PSI – improvvisamente «il luogo del contendere si trasferisce dal partito al sindacato» (p. 125), quasi che tutto il faticoso processo costitutivo della CGdL non abbia visto attivi ed operanti i diversi gruppi sindacalrivoluzionari italiani, in virtù di differenti e a volte contrapposti progetti politico-sindacali. Su questi labili assiomi, pertanto, viene tratteggiato un sindacalismo – mutato, nel frattempo, perlopiù in «anarco-sindacalismo» – dal 1907-1908 dedito alla «affermazione progressiva di un modello extra-istituzionale» (p. 126) e che, pure, abbastanza misteriosamente stando a questa ricostruzione, qualche anno dopo sarà in grado di coagularsi attorno ad una “istituzione” di rilievo e a carattere nazionale come l’Unione Sindacale Italiana (USI).

Anche per quanto riguarda l’esame più approfondito degli scioperi operai e di quelli agrari del 1907-1908, l’Autore si muove spesso con scarsa attenzione, ad esempio quando sostiene – a proposito degli «scioperi del parmense e gli scontri di Torino in maggio; il tentativo di sciopero generale, nato a Milano in ottobre, e poi esteso a Parma, Bologna e Cremona; le lotte bracciantili in Puglia, che raggiunsero il loro apice nel novembre» – che «il movimento sindacalista, concentrato sui suoi problemi interni e sull’organizzazione del Congresso di Ferrara, rimase sostanzialmente estraneo a tali eventi, se si eccettua il sostegno formale che, naturalmente, non poteva mancare. L’unica eccezione degna di nota fu rappresentata dalla rapida ascesa di Alceste De Ambris, che da lì a poco si sarebbe rivelata fondamentale»: un De Ambris, precisa l’Autore, «d’estrazione borghese, […] con un alto livello d’istruzione», quindi con una sorta d’indispensabile pedigree, tale da renderlo «sulla carta […] perfettamente compatibile con quello dei sindacalisti rivoluzionari partenopei» (pp. 126-127). Lo stesso definitivo distacco dalla CGdL, maturato in questa fase, in assenza d’una analisi soddisfacente sull’azione diretta e sulla sua dimensione “sindacale”, la quale peraltro non fu solo “scioperaiola” e “spontaneista” nei gruppi sindacalrivoluzionari ma anche – sebbene problematicamente – progettuale e perfino “istituzionale”, appare nelle pagine di questo libro sin troppo meccanico, sì che in buona sostanza «alla tattica riformista si opponeva una visione del sindacato completamente alternativa, e cominciavano ad emergere alcuni temi assimilabili alla tradizione del pensiero anarchico» (p. 129).

Anche circa il tema e la categoria interpretativa della disillusione – che dà il titolo al libro e che l’Autore intende però quasi come una sorta di puro movente psicologico, dovuto a una sorta di “stanchezza” comparsa quale fulmine a ciel sereno dopo lo sciopero di Parma del 1908 e con cui si tenta di spiegare un più vasto e articolato processo di “transizione”, non di rado dall’estrema Sinistra all’estrema Destra, ovvero un movimento complesso ed anche contraddittorio d’una parte dell’azione diretta nonché della società e della cultura italiane, poi lungo tutto il corso degli anni Dieci e oltre17; ebbene anche in tal caso ci si affida a strumenti interpretativi e ad apparati bibliografico-documentari quanto mai fragili.

Molto lacunosa, infatti, è la ricostruzione di Volpe delle vicende del sindacalismo rivoluzionario italiano fino alla guerra di Libia e alla nascita dell’USI, sì che la progressiva

17 In tal senso trovo singolare che l’Autore, anche su questi temi, non abbia sentito il bisogno di confrontarsi in qualche modo con chi ha scritto interi volumi in proposito, proponendo ad esempio la complessa e stimolante categoria interpretativa del “socialismo nazionale”: cfr. all’uopo perlomeno Maddalena Carli, Nazione e rivoluzione. Il socialismo nazionale in Italia: mitologia di un discorso rivoluzionario, Unicopli, Milano 2001.

adesione d’una parte del movimento alle idee nazionaliste è meramente “registrata” – peraltro non approfondendo affatto la storia di quella pattuglia di sindacalisti, due dei quali proprio napoletani, fra l’altro, i quali sin dal 1908 erano passati “a Destra”, costituendo poi una non risibile parte della dirigenza dell’Associazione Nazionalista Italiana: Roberto Forges Davanzati, Maurizio Maraviglia, Tomaso Monicelli18 – ma nient’affatto spiegata ed inquadrata criticamente. In egual misura non appare soddisfacente la breve riflessione relativa ai grandi scioperi operai, industriali ed urbani, degli anni Dieci, in cui magna pars fu l’azione diretta, divenuta però nel frattempo e in virtù di alchimie socio-politiche abbastanza misteriose nella forma in cui le presenta l’Autore, «[i] sindacalisti rivoluzionari di Corridoni» (p. 177), là dove si torna a parlare, alla fine della narrazione inerente lo sciopero generale nazionale del 1913, di «essenza dell’anarco-sindacalismo», ovvero di «localismo» e «spontaneismo», cui Volpe aggiunge alcune di quelle che gli sembrano le principali caratteristiche di siffatta stagione di preoccupanti violenze sociali: la «classica relazione economicismo-spontaneismo» e un sostanziale insurrezionalismo “anarchico”, del resto anch’esso piuttosto “tradizionale” in base a questo genere di lettura (p. 179)19 . Questo carattere “didascalico”, infatti, caratterizza il volume là dove esso affronta temi pure molto consistenti ed impegnativi sul piano storiografico-interpretativo, come la conflittualità sociale del 1913-1914 fino alla Settimana Rossa, indi la successiva convulsa fase dell’interventismo, nella quale una parte della dirigenza dell’USI confluì dando vita all’Unione Italiana del Lavoro (UIdL). In questi importanti snodi l’Autore spesso non sembra in grado d’identificare correttamente il ruolo del sindacalismo rivoluzionario, anche perché secondo Volpe con la Settimana Rossa «era tramontato il mito sindacalista dello sciopero generale» e perciò «la storia del sindacalismo rivoluzionario in Italia si concludeva così come era iniziata [nel 1904]: con il fallimento di uno sciopero generale nazionale» (p. 187). Così, nondimeno, si dimentica di ricordare che la vicenda – anche solo istituzionale – dell’USI, volendo aprioristicamente escludere dall’analisi l’UIdL e le cosiddette origini dei sindacati fascisti, termina in realtà nel 1925, intrecciandosi con capitoli importanti d’una storia del sindacalismo rivoluzionario in Italia: la prima guerra mondiale e Caporetto, Fiume, il Biennio Rosso – ovvero l’esperienza consiliare che, seppure in una forma grezza, aveva contraddistinto ad esempio un episodio paradigmatico come lo sciopero generale romano del 1903, attraversando poi tutto il corso dell’azione diretta italiana e riproponendosi perciò nel dopoguerra, certo in forme diverse – infine l’avvento e il consolidarsi del fascismo, il quale fu anche “corporativismo”, infine le stesse origini del PCI, in cui confluì una “frazione terzinternazionalista” dell’USI guidata da Giuseppe Di Vittorio. Il libro si chiude con una breve ma assai ambiziosa riflessione su «sindacalismo e fascismo» (pp. 189 sg.), nella quale si critica quella non ben specificata «parte della storiografia» che in buona sostanza, da Renzo De Felice in poi avrebbe studiato il complesso rapporto fra sindacalismo e fascismo da un’angolatura che l’Autore giudica errata, in buona sostanza perché in questo lungo torno di tempo sarebbe stata privilegiata una chiave di lettura in virtù della quale l’interrogativo di fondo era volto, in massima parte, a compren-

18 In merito vedi perlomeno Adriano Roccucci, Roma capitale del nazionalismo (1908-1923), Archivio Guido Izzi, Roma 2001. 19 Più oltre invece si sostiene che, sul «piano locale» e nel 1914, il sindacalismo rivoluzionario finalmente era «uscito dall’ambito prettamente bracciantile», dunque «appare evidente che il pensiero dell’action directe, per attecchire, aveva bisogno di un proletariato maturo» (p. 183).

dere «se e quanto Mussolini sia stato sindacalista[, limitando così] lo studio del problema ai soli sindacalisti che aderirono al regime» e non domandandosi piuttosto «quali e quanti sindacalisti divennero fascisti», cadendo perciò in quella che l’Autore definisce «sineddoche storiografica». Una prospettiva, questa, dalla quale oggi si può uscire definitivamente, «[cercando] di restituire la complessità del fenomeno storico, tentando di comprenderne il significato in relazione al contesto liberale a cui [il sindacalismo rivoluzionario] appartenne», compito che sarebbe stato assolto per Volpe dalla decina di pagine che egli dedica, a mo’ d’epilogo, a questo sterminato tema dalle sterminate implicazioni, e nelle quali viene tracciato un frettoloso elenco di personalità sindacaliste – non tutte, peraltro: mancano i succitati nazionalisti Forges Davanzati, Monicelli e il mai citato Maraviglia, ad esempio, ma anche il mai preso in esame Luigi Razza o Romolo Sabbatini, quasi per nulla considerato dall’Autore e che nel libro non si sa che fine faccia dopo il Congresso di Roma del PSI del 1906 – divenute alcune fasciste altre antifasciste, anche in tal caso in assenza di adeguati supporti bibliografici.

In conclusione, pertanto, possiamo dire che questo libro, molto ambizioso nei suoi obiettivi di fondo e pregevole se non altro come “tentativo” di ripensare una storia del sindacalismo rivoluzionario a quasi quarant’anni di distanza dall’ottimo Il sindacalismo rivoluzionario in Italia di Gian Biagio Furiozzi20, rimane appunto un “tentativo”, coraggioso, a tratti ardimentoso ma incapace di tener conto delle molte, amplissime implicazioni, connessioni e ibridazioni storiografico-metodologiche che una storia del sindacalismo rivoluzionario in Italia presupporrebbe. Oltre a quelle che abbiamo man mano elencato, possiamo infatti aggiungere il grande tema del rapporto fra “politica” e “cultura” in relazione all’evolversi d’uno sfaccettato movimento sindacalrivoluzionario nostrano, quindi letteratura, arte, teatro, perfino poesia dialettale, storia della fotografia e dell’“immagine”, tutti campi d’indagine più o meno esplorati dalla storiografia; o, ancora, un discorso di lungo periodo, anche à rebours, sul rapporto fra mazzinianesimo, repubblicanesimo, sorelismo e sindacalismo rivoluzionario21; oppure un tema spesso in subordine e che pure ci si sarebbe aspettato di veder sviluppato da un giovane studioso, ovvero il ruolo delle donne: quali e quante ve ne furono nel sindacalismo rivoluzionario, anche in ambito locale? Perché aderirono all’azione diretta? Erano tutte intellettuali e napoletane oppure la loro composizione geografica e socioeconomica è più diversificata? Quali i loro percorsi biografici, i loro esiti “esistenziali”22?

20 Il quale non a caso si premurò di fornire un robusto supporto bibliografico al testo, sì che la bibliografia finale di questo volume costituisce ancor oggi un utile ausilio per lo studioso interessato alle vicende dell’azione diretta e del sindacalismo rivoluzionario in Italia. Un’altra valida ricerca bibliografica, successiva, è quella di Amedeo Osti Guerrazzi, Il sindacalismo rivoluzionario in Italia (1904-1914): una bibliografia orientativa, “Rassegna di storia contemporanea”, n. 1 1996, pp. 125153. 21 Oltre agli studi di Gian Biagio Furiozzi su questo tema vedi – nello specifico romano e in relazione a un’esperienza pure d’importanza non solo locale come la Lega Generale del Lavoro, capace di riunire sindacalisti rivoluzionari, anarchici ma anche un piccolo nucleo di mazziniani – fra gli altri Roberto Carocci, Il sindacalismo d’azione diretta. La Lega Generale del Lavoro (Roma, 1907-1910), “Giornale di storia contemporanea”, n. 1 2011, pp. 26-46. 22 Cfr. all’uopo – circa la figura di Maria Rygier – il saggio di Ferdinando Cordova, Le spie del regime. Il caso Maria Rygier, in Id., Il consenso imperfetto. Quattro capitoli sul Fascismo, Rubettino,

L’obiettivo, quindi, appare mancato nel libro in questione forse perché un solo studioso, vista la straordinaria complessità del tema “sindacalismo rivoluzionario”, può apparire inadatto ad assolvere tale compito, che del resto sembra proibitivo per certi versi, specie negli ultimi anni e in seguito al proliferare delle monografie, dei saggi e delle fonti – anche on line – ed al quale potrebbero magari dedicarsi più storici, anche di diverso orientamento e con approcci disciplinari differenti, nell’ambito d’un progetto che non può non essere necessariamente “collettivo” a nostro avviso23. Una ragione in più, dunque, per studiare con rinnovato vigore e passione questi temi, liberandoli da anticaglie, obsolescenze e pregiudizi ideologici davvero del secolo scorso, e che magari rischiano – anche involontariamente – di riportare indietro il dibattito storiografico su un tema difficile ma affascinante e, al di là delle apparenze, estremamente “attuale” come il sindacalismo rivoluzionario.

Soveria Mannelli 2010, pp. 274-305; nonché Barbara Montesi, Un’anarchica monarchica: vita di Maria Rygier (1885-1953), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2013. 23 Qualcosa di simile è stato fatto in Francia, ad esempio, nel numero monografico Le syndicalisme rèvolutionnaire. La Charte d’Amiens a cent ans, “Mil neuf cent”, n. 24 2006.

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