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Vittorio Strada

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Olga Dubrovina

Olga Dubrovina

Vittorio Strada

Un centenario anomalo

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Il centenario che ricorre quest’anno – gli eventi rivoluzionari del 1917 a Pietrogrado – è per vari motivi singolare: lo Stato senza precedenti cui quegli eventi diedero i natali, noto con l’acronimo URSS (Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche), fondato per dar vita a una nuova era storica, cinque lustri or sono, dopo quasi tre quarti di secolo di esistenza, è scomparso con una sorprendente rapidità simile a quella della sua comparsa; lo spirito che lo aveva animato e che si compendiava nel concetto programmatico di “rivoluzione mondiale”, di cui quello Stato voleva essere l’antesignano, è svanito dopo aver subito una trasformazione sostanziale che dalle sue origini internazionalistiche lo aveva portato a diventare ambiguamente “nazionale” – russo; l’inattesa comparsa sulla scena europea di una nuova forza politica, anch’essa antiliberale, il fascismo e l’affine nazional-socialismo, che nel comunismo videro un modello formale da imitare e un avversario sostanziale da combattere, spingendo alla fine il comunismo a una paradossale alleanza militare con quel capitalismo che la “rivoluzione mondiale” voleva annientare; i partiti che nel mondo erano nati per sostenere ed espandere in modo organizzato e centralizzato (Komintern) il movimento rivoluzionario del 1917 col proposito di monopolizzare, adeguandoli ai propri fini, i valori e i simboli dei tradizionali partiti socialisti dai comunisti osteggiati, dopo la fine dell’URSS hanno cessato di esistere o hanno subito una trasformazione che ne ha stravolto il carattere originario; persino la ricorrenza degli eventi rivoluzionari del 1917, sempre celebrata con solennità là dove si svolsero e ovunque tra i loro propugnatori, è ora cancellata dalle festività del calendario in Russia, dove quel fatto storico è reinterpretato in un modo che ne muta radicalmente il significato originario; infine, a differenza di altre rivoluzioni, in particolare di quella francese, cui quella russa del 1917 si è più o meno giustificatamente richiamata per autolegittimarsi, le idee e gli ideali di quest’ultima sembrano dissolti senza lasciare traccia nella successiva realtà. Si aggiunga che lo stesso termine “rivoluzione russa” non regge a una riflessione analitica: per la sostanza degli eventi pietrogradesi dell’ottobre 1917 si deve parlare di “colpo di Stato” e quanto al loro luogo si dovrebbe parlare di “Impero russo”, concetto diverso da “Russia” per le sue caratteristiche politiche. Eppure è vero che nel 1917 una rivoluzione – anzi due: a febbraio e a ottobre, ma la seconda fu quella decisiva – ebbe inizio, una rivoluzione che, coinvolgendo enormi masse, sarebbe durata sette e più decenni e avrebbe sconvolto il mondo, come è vero che la Russia fu la protagonista di quella lunga rivoluzione, dalla quale venne radicalmente trasformata. Data questa situazione, priva oltre tutto di quella ricchezza di libera riflessione storica e intellettuale che ebbe la rivoluzione francese e solo di recente aperta a una ricerca indipendente – ma oggi di nuovo pregiudicata – là

dove essa si determinò, cioè la Russia, come ricordare il 1917 e determinarne il senso a un secolo di distanza, al di là dei contributi storici particolari? È opportuno accostare a questa data un’altra, non meno significativa: il 1937. Di vent’anni successiva al 1917 essa ha acquistato un valore non meno simbolico, generando un problema storico che è stato oggetto di un decisivo dibattito politico ed è tuttora aperto alla ricerca. Se il 1917 è l’anno del trionfo violento di Lenin, della sua strategia e tattica rivoluzionaria, il 1937 è l’apogeo cruento della politica e del potere di Stalin, il cui trionfo si avrà quasi un decennio più tardi con la vittoria nella guerra mondiale. Che rapporto c’è tra queste due date? Di continuità, quasi si trattasse dello sviluppo burrascoso ma organico di un processo i cui prodromi sono anteriori al 1917 e risalgono al Manifesto del partito comunista di Marx e Engels e al Che fare? di Lenin, oppure tra esse c’è uno iato, come un altro artefice del 1917, Trockij, ha dichiarato parlando di “rivoluzione tradita” e più tardi un erede di Stalin, Chrusciov, ha fatto a suo modo, parlando di “culto della personalità”? Si tratta di una questione essenziale che illumina reciprocamente le due date. Si potrebbe dire, per continuare il riferimento alla rivoluzione francese, che il nesso tra il 1917 e il 1937 ricorda quello tra il 1789 e il 1793. Ma anche qui, come per l’analogia tradizionale tra le due rivoluzioni, si tratta di un errore ottico, involontario o voluto, che una analisi storica dissipa. È diventato un luogo comune definire il XX secolo “breve” rispetto al precedente “lungo”, secondo un ciclo storico fatto principiare nel 1789 e terminare nel 1914. Senza togliere allo scoppio della prima guerra mondiale il suo significato di fatale rottura di uno sviluppo europeo che si era illuso di essere pacificamente progressivo, il Novecento non solo in senso calendariale iniziò prima del 1914 con la sotterranea preparazione di quel catastrofico conflitto. Ciò è vero in particolare per la parte del vecchio continente destinata a svolgere un ruolo di primo piano nel corso di tutto il secolo: la Russia. Qui il XX secolo, tutt’altro che breve, ebbe inizio nel 1905, con la prima delle tre rivoluzioni che ne segnarono la sorte. Anzi ancor prima, nel 1902, quando vide la luce un libro che come pochi altri predeterminò il corso della storia non solo in Russia: il Che fare? di Lenin. Il secolo era così cominciato e sarebbe durato fin quasi alla fine del millennio. E ancora non si è usciti dalla sua durevole influenza. Invece che con una sua presunta brevità il secolo da poco trascorso può essere definito in modo più sostanziale come il secolo della violenza estrema. Non della violenza tout court, naturalmente, perché di violenza è fatta la storia, in particolare quei concentrati di aggressività e furore che sono le guerre e le rivoluzioni, tanto che la predicazione della non-violenza ha il valore di una sublime utopia. La violenza registrata negli ultimi cento anni ha visto una crescita qualitativa e quantitativa straordinaria nelle sue espressioni massime che sono appunto le guerre e le rivoluzioni – e le controrivoluzioni – oltre che nella più ampia vita sociale, tanto da giustificare la definizione sopra avanzata. Si è toccato un limite che purtroppo è impossibile ritenere invalicabile.

Da questo punto di vista il 1914 fu l’anno di un’esplosione senza precedenti di violenza destinata a durare a lungo. Si erano accumulati troppi contrasti e rivalità tra le potenze nazionali e imperiali che costituivano l’Europa, teatro di lotte segrete tra le diplomazie che intessevano alleanze e approntavano conflitti sotto la superficie di una civiltà che si voleva mondialmente egemone e civilmente compatta. Fu una crisi globale di cui un’opera come Il tramonto dell’Occidente – tradotto in Russia col titolo Il tramonto dell’Europa – fu una sorta di cassa di risonanza intellettuale. Ancor prima, nel 1915, un filosofo russo, Niko-

laj Berdjaev, aveva pubblicato un articolo dal titolo La fine dell’Europa, nella scia di una tradizione culturale russa che profetizzava la catastrofe del corrotto Occidente europeo, questa volta con un fondamento d’attualità, la Grande Guerra, senza presentire però che la catastrofe avrebbe investito ancor più proprio la Russia, in quelle profezie considerata invece la incontaminata salvezza dalla decadenza occidentale.

La guerra fu combattuta con una violenza generale inaudita nelle trincee e nei campi di battaglia, lasciando un’eredità di brutale durezza negli uomini che ne erano stati vittime e protagonisti, oltre a una serie di acuti problemi politici nei trattati che sancirono i rapporti tra vincitori e vinti. È significativo che la prima guerra mondiale fece versare non solo fiumi di sangue, ma anche torrenti di inchiostro con aspri scontri intellettuali tra i maggiori esponenti delle varie culture nazionali – filosofi, storici, letterati – dei paesi belligeranti, generando una messe di opere ancor oggi interessanti. Questo fenomeno non si ripeté con la stessa vivacità e varietà nella seconda guerra mondiale, dove lo scontro fu rigidamente ideologico tra fascismo e antifascismo, quest’ultimo diviso in due: democratico e liberale l’uno, totalitario e comunista l’altro, divisione che fu prodromo della nuova guerra – “fredda” – estrema conseguenza del mutamento radicale che si era avverato in Europa e nel mondo a partire dal 1917.

Se la violenza estrema della prima guerra mondiale, sopravanzata poi dalla seconda, fu il frutto delle classi dirigenti europee – dinastie reali, caste repubblicane, potentati economici – l’altra violenza, le cui condizioni dalla prima furono create, quella rivoluzionaria, anch’essa senza precedenti, fu il frutto dell’opposizione totale a quelle classi da parte di masse popolari, ma soprattutto di minoranze politiche e ideologiche che se ne assumevano la rappresentanza e guida. La Russia fu il centro di questa violenza, poi diffusa altrove anche in forme diverse dalla originaria. Ancor più del 1914, il 1917 fu l’anno della svolta epocale. Come avvenne il passaggio da una rivoluzione pacifica che aveva abbattuto una autocrazia sopravvissuta a se stessa, per di più impersonata da un sovrano inetto a tentativi di salvarla con adeguate riforme, a una rivoluzione che, attuata in modo quasi incruento come colpo di stato, subito dopo si scatenò in una violenza totale di lunga durata? Gli storici spiegano variamente l’evolversi drammatico di una situazione che tra il febbraio e l’ottobre bruciò in Russia la possibilità di una democrazia che nei decenni precedenti aveva cominciato ad attecchire in un terreno a fatica dissodato per una seminazione della libertà. Se la rivoluzione francese aveva spazzato via l’“antico regime”, la rivoluzione russa – d’Ottobre – annientò una avviata modernizzazione socioeconomica e, dopo il crollo dell’autocrazia, una incipiente democratizzazione repubblicana nella scia dei valori liberali della rivoluzione francese.

Anche simbolicamente l’annullarsi di questa potenzialità è confermato dal primo atto del nuovo potere rivoluzionario: la liquidazione dell’Assemblea costituente, l’istituzione democratica che era stata il sogno delle forze liberali e socialiste d’opposizione all’autocrazia zarista e avrebbe dovuto stabilire la Carta costituzionale e le forme di governo della nuova Russia. Senza entrare nelle vicende che nei mesi tra febbraio e ottobre prepararono le elezioni, volute da tutte le forze politiche, compresi i bolscevichi che anzi le sollecitavano, e finalmente svoltesi in novembre, il 18 gennaio – 5 secondo il vecchio calendario – 1918 nel palazzo di Tauride a Pietrogrado si tenne la prima – e ultima – seduta dell’Assemblea, in cui la maggioranza dei deputati – 40-44% – spettava ai socialisti rivoluzionari e il 22-24% ai bolscevichi, che così vedevano sconfessato dagli elettori il loro “colpo” di Ottobre. A Lenin si presentava una scelta decisiva che naturalmente fu fatta non con l’ac-

cettazione di quello stato di cose, le cui conseguenze politiche avrebbero potuto portare a un governo socialista di coalizione, ma con lo scioglimento forzato dell’Assemblea, il che avrebbe confermato definitivamente il monopolio del potere – con l’appoggio temporaneo dell’estrema sinistra dei socialisti rivoluzionari – ai bolscevichi. La lettura dello stenogramma di quell’unica seduta mostra la fine drammatica della neonata democrazia russa, fine già segnata dai reali rapporti di forza in campo, nel senso anche militare del termine. Bucharin, nel suo lungo intervento, respinse con sdegno l’accusa dei socialisti che i bolscevichi «copiano i procedimenti dell’autocrazia» e rivendicò il diritto delle classi e dei partiti rivoluzionari di usare «i mezzi della violenza e anche, in caso di necessità, del terrore» per distruggere «la barbara società capitalistica». Per Bucharin, dato che in Russia «si stanno gettando le basi della vita dell’umanità per millenni», non poteva che meritare disprezzo la «meschina repubblica parlamentare borghese» alla quale «noi dichiariamo una guerra mortale»1. Trockij riferisce ciò che Lenin allora gli disse: «Lo scioglimento dell’Assemblea costituente da parte del potere sovietico è la piena e aperta liquidazione della democrazia formale in nome della dittatura rivoluzionaria. Adesso l’azione sarà dura»2 .

Trockij nel suo libro su Lenin ricorda ancora con scherno che i deputati socialisti rivoluzionari erano venuti alla prima seduta dell’Assemblea costituente portando con sé «candele nel caso che i bolscevichi avessero tolto la corrente elettrica e una quantità di panini nel caso che fossero stati privati di cibo». E commenta ironico: «Così la democrazia si presentava al combattimento con la dittatura: armata di tutto punto di candele e panini». Poi aggiunge: «Il popolo non pensò neppure a dare sostegno a quelli che si consideravano suoi eletti e che in realtà erano ombre di un periodo ormai esaurito della rivoluzione»3. Parole non prive di ragione, anche se una pur piccola parte di popolo manifestò fuori del palazzo di Tauride a favore dell’Assemblea e fu dispersa con violenza dai soldati rossi. Come leggiamo alla fine dello stenogramma della seduta inaugurale e finale, a un certo punto il «cittadino marinaio» del servizio d’ordine dichiarò: «Ho ricevuto istruzioni di comunicarvi che tutti i presenti devono lasciare la sala della seduta perché la guardia è stanca». Si levò qualche voce: «Non abbiamo bisogno di guardia», mentre il Presidente dell’Assemblea domandò: «Quali istruzioni? Da parte di chi?». Il «cittadino marinaio»: «Io sono il capo della guardia del Palazzo di Tauride e ricevo le istruzioni dal commissario Dybenko»4 .

Così si chiuse la breve vita dell’Assemblea costituente russa, la cui liquidazione, come scrive l’autore della fondamentale monografia sull’argomento, Lev Protasov5, nella storia della rivoluzione bolscevica è rimasta per lo più nell’ombra dell’evento principale, cioè del colpo di mano del 25 ottobre che per di più nell’immaginario generale è visto non nella realtà squallida dei suoi meccanismi di svolgimento, ma nella fantasia trionfale di certe immagini filmiche – Eisenstein.

1 Tat’jana E. Novickaja, Ucreditel’noe sobranie. Rossija 1918. Stenogramma i drugie dokumenty [L’Assemblea Costituente Russa 1918. Stenogrammi ed altri documenti], Nedra, Moskva 1991, p. 90. 2 Lev Davidovič Trockij, O Lenine: materialy dlja biografa, Moskva Grifon M, Moskva 2005, p. 75. 3 Ivi. 4 Ibid., p. 158. Pavel Dybenko, rivoluzionario bolscevico ebbe parte di rilievo nei sommovimenti del 1917 e poi ricoprì alte cariche militari nel periodo sovietico. Finì nelle repressioni staliniane nel 1938. 5 Lev Grigorʹevič Protasov, Vserossijskoe Ucreditel’noe sobranie. Istorija rozdenija i gibeli [L’Assemblea costituente panrussa. Storia della sua genesi e della sua fine], Rosspen, Moskva 1997.

Negli ultimi anni il bilancio storiografico è però cambiato: «Nella storia del totalitarismo sovietico lo scioglimento dell’Assemblea costituente è un avvenimento non meno, anzi più significativo della presa armata del potere da parte dei bolscevichi», tanto che si può affermare che l’accusa di aver usurpato il potere nell’ottobre 1917 sarebbe caduta, se i bolscevichi avessero mantenuto la loro promessa di trasmettere il potere supremo all’Assemblea costituente. Invece con la scelta repressiva «il potere bolscevico si privò della legittimità che, come è evidente in una retrospettiva storica, non gli poterono conferire i congressi falsati dei soviet» e il partito bolscevico accelerò così la sua evoluzione in una «organizzazione chiusa di tipo politico-militare»6, la sua trasformazione in una parte dello Stato, anzi la sua identificazione con lo Stato, facendo dei Soviet un decoro di facciata. Tornano opportune le osservazioni che alla fine del 1918 scrisse Rosa Luxemburg, nonostante la sua simpatia politica per i bolscevichi, fermamente critica verso quel loro atto di violenza che predeterminava tutto il loro futuro. Da posizioni opposte a quelle della Luxemburg, nell’ambito socialista, critiche ancora più sistematiche alla violenza bolscevica vennero, come è noto, da Karl Kautsky e ad esse gli «artefici della rivoluzione d’ottobre», Lenin e Trockij, risposero con violenza polemica – La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky e Terrore e comunismo – mettendo a nudo la loro posizione politica e ideologica dittatoriale e terroristica.

A conclusione di questa sommaria cronaca delle sorti dell’Assemblea costituente russa non si può non riferire un episodio insieme sconcertante e illuminante raccontato da Bucharin e riportato nel libro di Protasov. Nella notte dello scioglimento dell’Assemblea, Lenin convocò Bucharin che si recò all’incontro con una «bottiglia di buon vino» e a lungo poi si intrattenne con gli altri ospiti, dirigenti del partito: «Verso il mattino Il’ič [Lenin] chiese di ripetere qualcosa dello scioglimento dell’assemblea e d’un tratto si mise a ridere. Rise a lungo, ripeteva tra sé parole del racconto e rideva, rideva sempre. Con allegria, in modo contagioso, fino alle lacrime. Si sbellicava dalle risa. Non capii subito che era un attacco isterico. Quella notte tememmo che lo avremmo perso»7. Un’altra testimonianza riportata da Protasov dice che dopo che aveva ascoltato il racconto di Dybenko sulla misera fine dell’Assemblea, Lenin «rise a lungo e in modo contagioso». Scaricava così la sua tensione e soddisfazione sulla tomba della democrazia russa. Un’altra tomba, reale nel doppio significato della parola poiché si tratta della fossa comune della famiglia imperiale e dei quattro membri del seguito rimasti fedeli, deve essere ricordata. È vero che il regicidio è l’atto simbolico centrale delle rivoluzioni che abbattono un vecchio regime e la rivoluzione francese ne è il caso forse più risonante. Ma mai si era visto un massacro così efferato come quello che nel 1918 a Ekaterinburg, negli Urali, trasformò l’ultimo zar in un martire – è stato canonizzato dalla Chiesa ortodossa – mettendo in ombra le sue responsabilità per la catastrofe del 1917. A leggere la cronaca di quel sordido eccidio sembra di assistere a un Grand-guignol, a una strage criminale che non risparmia i bambini, e non all’esecuzione della condanna – per di più senza processo – di un sovrano che aveva perso la sacralità su cui si era retto il potere della sua dinastia, i Romanov, ma che già era stato detronizzato all’inizio della rivoluzione di febbraio, anzi aveva rinunziato lui stesso al trono, facendo della monarchia in Russia un passato senza possibilità di ritorno.

6 Ibid., p. 324. 7 Ibid., p. 318.

In piena notte, il 17 luglio, secondo il resoconto del capo del drappello che perpetrò l’eccidio, Jurovskij, dopo un’accurata preparazione dell’ambiente – fu scelto l’interrato della casa dove i Romanov erano detenuti per evitare che gli spari si sentissero fuori e una stanza con un tramezzo di legno affinché le pallottole non rimbalzassero – i condannati furono svegliati e, senza alcuna spiegazione, dopo che si furono rivestiti, fatti scendere nel sotterraneo. La stanza era stata svuotata, il che sorprese l’ex imperatrice. Allora Jurovskij fece portare due sedie, sulle quali l’ex zar fece accomodare la moglie e il figlio quattordicenne Aleksej da lui portato in braccio perché colpito da un attacco della malattia che lo debilitava, l’emofilia. Agli altri fu ordinato di mettersi in fila. Poi fu fatto entrare il plotone, fu comunicata la condanna e cominciò l’esecuzione. Ai soldati era stato ordinato di mirare al cuore per limitare lo spargimento di sangue e finire tutto al più presto. Le cose però si complicarono. La sparatoria durò alcuni minuti. L’ex zar fu ucciso con un colpo di pistola dallo stesso Jurovskij, poi fu la volta della consorte. Il piccolo Aleksej, tre delle sue quattro giovani sorelle e il medico di famiglia, il dottor Botkin, erano ancora vivi e si dovette sparar loro colpi di grazia. Una delle ragazze fu invece finita a baionettate. Poi i cadaveri, depredati degli oggetti preziosi, furono caricati su un’auto che aspettava fuori e portati nel luogo scelto per seppellirli, una remota cava abbandonata, dopo essere stati deturpati con acido solforico e in parte bruciati8. Con questo eccidio, proiezione del mondo orrido dei Demoni dostoevskiani e preludio della nuova violenza senza limite, la desacralizzazione del potere monarchico russo, iniziata alla vigilia della guerra, toccava il suo punto estremo e il nuovo potere bolscevico simbolicamente si affermava, sacralizzando se stesso nello spirito di una ideologia rivoluzionaria atea ma pervasa da un surrogato di religiosità con la fede cieca in una utopia spacciata per scienza che giustificava ogni azione le tornasse utile, miscela inebriante di rigida razionalità e irrazionale arbitrio.

Su questo episodio della rivoluzione bolscevica ci limiteremo a una testimonianza eccezionale che, tra l’altro, smentisce la versione comunista secondo cui l’iniziativa del massacro sarebbe stata presa dai bolscevichi locali di Ekaterinburg: ciò che al proposito scrisse Trockij, ormai in esilio, nel suo diario non destinato alla pubblicazione, in data 9 aprile 1935. Trockij ricorda che quando l’eccidio di Ekaterinburg ebbe luogo egli non si trovava nella capitale e al rientro Sverdlov, rispondendo alla sua domanda su chi avesse preso quella decisione, rispose: «Abbiamo deciso noi qui. Il’ič [Lenin] riteneva che non si potesse lasciare loro [i controrivoluzionari] una bandiera vivente, soprattutto nelle attuali difficili condizioni». E Trockij, rendendosi corresponsabile di quanto in sua assenza era stato fatto, commenta:

Non feci ulteriori domande e misi una croce sulla faccenda. In sostanza la decisione era stata non solo opportuna, ma anche necessaria. La durezza della punizione mostrava a tutti che noi avremmo condotta la lotta in modo spietato, senza fermarci davanti a niente. L’esecuzione della famiglia imperiale era necessaria non semplicemente per spaventare, terrorizzare, lasciare senza speranza il nemico, ma anche per dare una scossa alle nostre fila, per mostrare che indietreggiare non si poteva, che si andava avanti fino alla piena vittoria oppure verso una piena rovina9 .

8 Cfr. Pokazanija [Deposizioni], Moskva 1998. 9 Lev Davidovič Trockij, Dnevniki i pisʹma [Diari e lettere], Izdatelʹstvo gumanitarnoj literatury, Moskva 1994, p. 118.

Anche in esilio Trockij manteneva tutta la sua mentalità rivoluzionaria ispirata da una violenza estrema. Un terzo episodio, ignorato fino a pochi anni fa nonostante la sua significativa gravità, è quello della cosiddetta “nave dei filosofi” (filosofskij parochod). Il 1922 fu l’anno dell’intellighenzia russa. Un anno nefasto che pose fine alla sua presenza in patria come libera componente della vita sociale e la costrinse a ingrossare le già folte fila – circa un milione e mezzo – dei fuggiaschi che avevano trovato scampo in Europa di fronte al cataclisma rivoluzionario di ottobre, mentre una parte del vecchio continente sosteneva con calore i loro persecutori al potere a Mosca. Repressa la rivolta dei marinai rivoluzionari di Kronstadt, sedate le turbolenze delle masse contadine oppresse dalle vessazioni del “comunismo di guerra” e decimate dalla fame del 1921-1922, iniziata la persecuzione della Chiesa e della religione cristiana ortodossa, sottoposte a processo e interdetto le organizzazioni politiche socialiste – quelle liberali erano già state “liquidate” nel 1918, stabilito un monopolio sulla stampa, il potere sovietico passò ad occuparsi dell’ultimo elemento sociale ancora indipendente, anche se non attivamente ostile, un elemento numericamente esiguo, ma inviso a chi voleva il dominio assoluto non solo nella sfera politica e economica, ma anche in quella culturale. Quest’ultima operazione repressiva, come si è detto, solo negli ultimi anni è stata documentata e studiata dentro e fuori la Russia. In pochissimi casi l’abusato aggettivo “kafkiano” è calzante come nella storia della “nave dei filosofi”. Cominciamo dalla conclusione.

Il 29 settembre 1922 una nave tedesca, l’Oberburgermeister Haken, lasciò il porto di Pietrogrado diretta in Prussia, a Stettino, dove il 1° ottobre sbarcò trentacinque passeggeri russi, tutti intellettuali tra i più rinomati, con le loro famiglie. Tra essi filosofi di rilievo, alcuni dei quali destinati ad acquistare fama in Occidente come Nikolaj Berdjaev, uno scrittore come Michail Osorgin, lo storico Aleksandr Kizevetter, il sociologo Pitirim Sorokin che divenne un’autorità nel suo campo, uno dei maggiori economisti russi come Boris Brutskus, il filologo ora di fama mondiale Roman Jakobson, il matematico Dmitrij Selivanov e altri docenti universitari di valore. Non si trattava di persone che spontaneamente avevano intrapreso il viaggio o deciso di lasciare il loro paese, ma di personalità che la GPU – sigla russa di Direzione politica di Stato – cioè l’organo poliziesco che dall’inizio di quell’anno era succeduta alla Cekà – Commissione straordinaria – cioè la prima polizia politica comunista diretta da Feliks Dzerzinskij, con la consueta accusa di “attività controrivoluzionaria”, aveva espulso dalla Russia, pena, in caso di illegale ritorno, la fucilazione.

In novembre, un’altra nave, la Preussen, trasportò dalla Russia un altro gruppo di intellettuali – il filosofo Nikolaj Losskij, l’astronomo Vsevolod Strato – e, nel marzo dell’anno successivo a Odessa ebbe la stessa sorte il filosofo e teologo russo Sergej Bulgakov. Nel complesso circa 160 persone “non grate” furono allora costrette a lasciare per sempre la loro patria, ormai non più Russia ma URSS, ree non di attività politica contro il nuovo potere, ma di attività intellettuale indipendente, il che, nelle condizioni createsi dopo l’Ottobre 1917, era già di per sé una colpa grave poiché pensare in modo diverso da quello del nuovo potere era inammissibile e di per sé pericoloso. «Ripuliremo la Russia per un lungo periodo», aveva allora detto Lenin, iniziatore di tutta quell’operazione di polizia e

“pulizia”, in una lettera del 16 luglio 1922 a Stalin10. E così fu, anticipando quello che molti decenni più tardi il potere sovietico fece con i “dissidenti”.

Nelle cinquecento e più pagine del volume di V.G. Makarov-V.S. Christoforov, Vysylka vmesto rasstrela. Deportacija intelligencii v dokumentach VCK-GPU. 1921-1923 [Esilio anziché fucilazione. La deportazione dell’intellighenzja], Russkij put’, Moskva 2005, si percorre documentatamente tutto l’iter di questa surreale vicenda, che sopra abbiamo definito “kafkiana”: dalla direttiva data da Lenin alla polizia politica fino al macchinoso sviluppo burocratico e poi dagli arresti e interrogatori alla deportazione dei condannati. Una lettura complementare è costituita dalle più di ottocento pagine di documenti raccolti nel volume di Andrej N. Artizov, intitolato con le parole di Lenin sopra citate “Ocistim Rossiju nadolgo…”. Repressii protiv inakomysljascich. Konec 1921-nacalo 1923 [“Ripuliremo la Russia per un lungo periodo...”. Le repressioni contro i dissidenti, fine 1921-inizio 1923], Meždunarodnyj Fond “Demokratija” [u.a.], Moskva 2008. Due ottimi libri ai quali si può aggiungere il non meno voluminoso e altrettanto prezioso volume di V.G. Makarov et al., Ostrakizm po-bol’sevistski. Presledovanija politiceskich opponentov v 1921-1924 gg. [Ostracismo alla bolscevica. Le persecuzioni degli oppositori politici nel 1921-1924], Russkij put’, Moskva 2010. Non può essere dimenticato il piccolo, ma prezioso libro di Michail Glavackij, “Filosofskij parochod”: god 1922-j: istoriografičeskie ėtjudy [La nave dei filosofi], Izdat. Ural’skogo Univ., Ekaterinburg 2002. Interessante fu anche una mostra dedicata alla “nave dei filosofi” (Mosca 22 luglio-7 settembre 2003). Qui ci limiteremo, ovviamente, a cercare di capire il significato di un simile episodio, prendendo in considerazione anche i contributi di storici e filosofi russi odierni.

Qualche lettore di fronte alle date di questa ondata repressiva antintellettuale potrà stupirsi ricordando che quello era il periodo della Nuova Politica Economica (NEP), di quella ritirata tattica o battuta d’arresto che Lenin era stato costretto a fare davanti ai disastri che la politica del “comunismo di guerra” – con la pretesa di introdurre immediatamente i criteri comunisti nella realtà economica e sociale russa – aveva prodotto. La riammissione misurata di elementi di libero mercato e iniziativa privata non significava certo una “restaurazione capitalistica” come alcuni comunisti ingenui temevano e non meno ingenui anticomunisti speravano. Si trattava di una forzata e abile concessione temporanea per sanare una situazione economica insostenibile in vista di una più o meno prossima ripresa della marcia verso il comunismo. Come di fatto avvenne. Tutto dipendeva dalle insindacabili decisioni politiche del potere sovietico, ossia del partito comunista, tanto più che quel partito se faceva a proprio vantaggio momentanee concessioni sul piano economico, contemporaneamente rafforzava la propria autorità sul piano politico e ideologico e quindi anche poliziesco, in attesa del balzo in avanti, come, del resto, recenti studi sul periodo della NEP documentano. Ascoltiamo le riflessioni di due studiosi che alla “nave dei filosofi” hanno dedicato analisi interessanti. Il matematico e filosofo Sergej Chorudzij in un articolo del 1990, uno dei primi in Russia sull’argomento – poi ripubblicato nel suo libro Posle pereryva: puti russkoj filosofii: učebnoe posobie, [Dopo la pausa. Le vite della filosofia russa], Izdat. Aletejja, Sankt-Peterburg 1994 – dopo aver collocato l’episodio della “nave dei filosofi” nel contesto delle altre repressioni poliziesche del tempo – contro la Chiesa e, come aveva

10 Vladimir Il’ich. Lenin, Neizvestnye dokumenty. 1891-1922 [Documenti sconosciuti, 18911922], Rosspen, Moskva 1999, p. 545.

documentato Michail Heller già nel 1978 in uno studio pubblicato a Parigi, contro il Comitato di aiuto agli affamati che nel 1921 soccorreva le vittime della carestia – osserva che l’obiettivo del nuovo duro attacco del potere comunista era la società civile, ciò che ne era sopravissuto dopo l’Ottobre e che era caratterizzato non da «spirito di opposizione, ma dall’indipendenza, dal possesso di un proprio sistema di valori che si esprimeva in realtà come ‘opinione pubblica’ e un ‘codice etico sociale’», cosa che il nuovo potere non poteva tollerare. Un luogo comune vuole che in Russia, a differenza che in Occidente, fosse assente una società civile, il che in parte spiegherebbe la piega autoritaria e totalitaria che presero gli eventi rivoluzionari. In realtà nella Russia in via di modernizzazione tra Otto e Novecento cresceva un società civile, più debole, certo, che nei paesi europei avanzati, ma vivace e indipendente, tale da richiedere poi forti e duri sforzi da parte del potere comunista per essere distrutta, come alfine avvenne, trasformando la complessa struttura del popolo russo in una massa livellata e quasi interamente manipolabile.

Un altro studioso, Leonid Kogan, in un articolo dal titolo “Vyslat’za granicu bezzalostno”. Novoe ob izgnanii duchovnoj elity [“Deportare all’estero senza pietà”. Novità sulla cacciata dell’élite spirituale], “Voprosy filosofii”, n. 9 1993, definisce la proscrizione del 1922 un atto senza precedenti per il suo carattere pianificato e sistematico che, in un certo senso, decapitava la Russia e costituiva «un elemento essenziale della strategia bolscevica tesa a instaurare il monopolio della concezione del mondo del partito nella società, la sua dittatura anche nella sfera delle coscienze». Non meno pertinente è un’altra osservazione di Kogan che riguarda ciò che dichiarò Trockij il 30 agosto 1922 in una conversazione con Louise Bryant, la compagna di John Reed. Il dirigente bolscevico cercò di far passare l’operazione repressiva della “nave dei filosofi” per una sorta di atto filantropico e umanitario perché, disse, gli «elementi espulsi» erano «politicamente insignificanti», ma costituivano un’«arma potenziale nelle mani dei nostri nemici» e quindi passibili di fucilazione nel caso di un inasprimento della lotta di classe secondo le leggi della guerra. La loro espulsione era quindi un atto di «lungimirante umanità» che Trockij invitava la giornalista progressista a difendere di fronte all’opinione pubblica mondiale. Kogan taccia di «fariseismo e demagogia» queste parole, anche se non si può negare che, se fossero rimasti in patria, quegli esuli forzati sarebbero poi finiti nel Gulag o davanti a un plotone di esecuzione, come avvenne per due straordinari filosofi come Gustav Spet e Pavel Florenskij e per tante altre persone di cultura. Bene ha scritto il poeta Georgij Adamovič, che nel 1923 emigrò in Francia, nel suo Kommentarij [Commento], Russkaja ideja, Moskva 1994, Vol. I, p. 494, ironizzando su chi si diceva deluso per l’assenza di libertà nella Russia sovietica: «La verità si è palesata: della libertà non è rimasto nulla, per nessuno, e assolutamente non perché l’Ottobre abbia smarrito la strada o abbia tradito se stesso, no, al contrario: perché avrebbe tradito se stesso, se la libertà non la avesse annullata». Cruda verità che solo un narcotico ideologico può occultare nei fumi di una illusione che diventa autoinganno o falsità. Per concludere questa importante pagina di storia sovietica e chiarirne il significato profondo, conviene rivolgere l’attenzione su due episodi trascurati finora: nel 1920 esce a Mosca la seconda edizione del libro di Lenin Materialismo e empiriocriticismo edito per la prima volta nel 1909 e allora non preso sul serio come opera filosofica, ma considerato piuttosto un momento della lotta politica e ideologica interna al gruppo bolscevico. Con la nuova edizione del 1920 il libro diventava il testo basilare della filosofia marxista sovietica, un “classico” insindacabile, come, del resto, tutte le opere dei “classici” del marxismo:

Marx, Engels, Lenin e, poco dopo, Stalin. Inoltre nel marzo 1922 usciva il primo numero della rivista “Pod znamenem marksizma”, il cui titolo Sotto la bandiera del marxismo esprimeva chiaramente il suo carattere di guida della filosofia sovietica. Nel terzo numero Lenin pubblica il suo articolo programmatico O znacenii voinstvujuscego materializma [Sul significato del materialismo militante]. Si trattava di iniziative editoriali di decisiva importanza politica che andavano al di là del campo strettamente filosofico – del resto, come si è visto, la “nave dei filosofi” in realtà trasportava in esilio anche storici, sociologi, letterati, scienziati.

In realtà Lenin – la direttiva dell’operazione veniva da lui – iniziava una straordinaria azione di egemonia intellettuale che sarebbe poi stata proseguita da Stalin ed estesa a tutte le sfere culturali – come ad esempio il “realismo socialista”. Sbaglia chi pensa che il potere sovietico, anche nella sua fase staliniana, sia stato una dittatura puramente repressiva in senso poliziesco. In realtà si è trattato di una grandiosa operazione di egemonia ideologica coronata da un lungo successo con la costruzione di quella che si è chiamata “cultura sovietica” – marxista-leninista – e con le sue ramificazioni e variazioni nel mondo, in particolare in alcuni paesi occidentali. “Ripulire la Russia” era la precondizione per iniziare questa costruzione, sbarazzando il terreno da ogni “sporcizia”. Anche in questo si manifesta la genialità politica di Lenin, a prescindere da ogni valutazione etica, una genialità fatta di dinamico pragmatismo tattico e d’ideologica intransigenza strategica, guidata da un supremo criterio rivoluzionario che aveva in Marx il suo “scientifico” – e “sacro” – fondamento, ma che non è improprio definire anche “machiavellica”, nel senso di un “novello Principe” capace di padroneggiare le situazioni più difficili come nelle trattative per la pace di Brest-Litovsk e nella manovra della NEP.

Dopo l’apoteosi dei funerali e della “sacralizzazione” – ateo-materialistica – di Lenin11 e la lotta per la successione al potere – una lotta, se si può così dire, di “darwinismo ideopolitico” che vide prevalere il più forte non solo per capacità personali al di là del bene e del male, ma anche per continuità organica con una situazione che, come appare anche da quella che sopra si è vista, era già prefigurata nel senso che poi presero gli eventi – dopo tutto ciò si aprì la fase che Stalin con la schematicità efficace del suo marxismo elementare e del suo leninismo lineare enunciò nel luglio 1932 in una lettera ai fedeli Molotov e Kaganovič: «Il capitalismo non avrebbe potuto battere il feudalesimo, non si sarebbe sviluppato e rafforzato, se non avesse dichiarato il principio della proprietà privata come base della società capitalistica». E prosegue: «Il socialismo non può dare il colpo di grazia e seppellire gli elementi capitalistici, se non dichiara la proprietà sociale sacra e inviolabile»12 . Nel Manifesto del partito comunista Marx e Engels avevano dichiarato che «i comunisti possono riassumere la loro dottrina in quest’unica espressione: abolizione della proprietà privata».

Il mondo contadino era l’ultima area che andava “ripulita”, abolendo i proprietari, i kulaki: la “collettivizzazione” lo fece. La grande fame – Golodomor – del 1932-33 coi suoi milioni di vittime ne fu un effetto. Poi venne il 1937 e “ripulito” fu il partito stesso con le cruente “purghe” staliniane. La “purezza” – e l’ortodossia – della linea generale del partito

11 Cfr. Vittorio Strada, Il Mausoleo di Lenin, in Id., Lenin, Stalin, Putin. Studi su comunismo e postcomunismo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2011. 12 Iosif V. Stalin-Lazar M. Kaganovič-Oleg V. Chlevnjuk, Stalin i Kaganovič. Perepiska 19311936 gg. [Stalin-Kaganovič. Carteggio, 1931-1936], Rosspen, Moskva 2001, pp. 240-241.

erano criteri supremi: il sangue versato a fiumi non lasciava traccia. Senza limitare l’universalità del giudizio morale, la storia va indagata secondo i suoi principii di svolgimento, pena l’incomprensione. Il tribunale di Norimberga ebbe un carattere più politico che giuridico, se si pensa che tra gli accusatori c’erano i rappresentanti di un potere che, da Lenin a Stalin, avrebbe dovuto sedere anch’esso sul banco degli imputati di una sua immaginaria variante, se una grandiosa vittoria militare non avesse dato loro il diritto di occupare un posto tra i giudici. Lo “stalinismo” fu una fase della storia sovietica e comunista, una fase specifica rispondente a una nuova realtà interna ed esterna dell’URSS, e come tale va analizzata, riconoscendogli, assieme ai crimini, il fatto che fu costruito quel surreale sistema sociopolitico e ideoculturale che si chiamò “civiltà sovietica”, con milioni di vittime e una violenza materiale e spirituale inaudita – tra vari altri studi “accademici” ne ha fatto una descrizione vivace Andrej Sinjavskij nel libro Osnovy sovetskoj civilizacii [Le basi della civiltà sovietica], Agraf, Moskva 2001. Quella “civiltà”, che è stata anche una superpotenza imperiale ora finita non senza pesanti sopravvivenze, va analizzata oggettivamente nei suoi meccanismi di formazione, sviluppo e funzionamento, pur senza rinunziare a una condanna morale dei suoi crimini. Tanto più che essa ebbe una incisiva presenza nel mondo e fu attiva non solo nell’URSS, ma nello stesso Occidente europeo con partiti comunisti che, nel dopoguerra, nei paesi liberati dalla oppressione fascista ebbero la fortuna di operare in ordinamenti democratici come forze di opposizione, radicate nei loro terreni nazionali oltre che in quello sovietico. E la grande – per estensione e significato – realtà comunista che, non ancora del tutto estinta, aspetta nuove analisi come parte centrale di quel “secolo della violenza estrema” che ha introdotto nel lessico politico due neologismi che lo caratterizzano: totalitarismo e genocidio.

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