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Ettore Cinnella

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Vittorio Strada

Vittorio Strada

Ettore Cinnella

Per un giudizio storico sulla rivoluzione bolscevica

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Che cosa dobbiamo intendere per rivoluzione bolscevica? Il giudizio storico non può prescindere da una preliminare e rigorosa precisazione terminologica e concettuale, specie nei numerosi casi – come quello che trattiamo – in cui si sono sovrapposti più significati del termine, diversi e persino fuorvianti. È infatti largamente diffusa, non solo nella pubblicistica ma anche tra gli studiosi, la credenza che la rivoluzione bolscevica debba identificarsi con la rivoluzione russa, o meglio con il suo momento decisivo e culminante dell’autunno 1917. E tutti, o quasi tutti, ripetono da sempre che fu il partito di Lenin il principale artefice, oltre che il trionfale vincitore, del processo rivoluzionario apertosi nel febbraio-marzo e conclusosi con l’insurrezione d’ottobre e la nascita del governo sovietico. Beninteso, è antica consuetudine distinguere le due fasi della rivoluzione del 1917, quella democratica di febbraio che abbatté il regime zarista e l’altra che, dopo mesi agitati e convulsi, portò i bolscevichi al potere. Ma tanto gli ammiratori della prima, i quali rimpiangono l’occasione mancata dell’avvento della democrazia in Russia, quanto gli apologeti della seconda i quali – oggi meno numerosi – giudicano positiva l’esperienza sovietica, sono concordi nel ravvisare in Lenin il massimo demiurgo della rivoluzione russa. Ma è davvero così?

Un celeberrimo storico britannico, autore della monumentale A History of Soviet Russia in 14 volumi (1950-1978), si propose di «scrivere non la storia degli avvenimenti che hanno caratterizzato la rivoluzione – questi sono stati narrati più volte – ma dell’ordinamento politico, sociale ed economico che ne è emerso». Orbene, i primi tre lunghi libri, che volevano avere «carattere di introduzione» al resto dell’opera, s’intitolavano The Bolshevik Revolution, 1917-1923: «Il fine che mi sono proposto in essa non è di dare una narrazione esauriente degli avvenimenti di questo periodo, ma un’analisi di quei fatti che hanno modellato le principali linee dello sviluppo successivo. Per esempio, il lettore non troverà una narrazione esauriente della guerra civile»1 . In effetti, bisognerebbe intendere per rivoluzione bolscevica, senza confonderla con la rivoluzione russa, anzitutto l’esito bolscevico del terremoto rivoluzionario del 1917, cioè la presa del potere da parte dei bolscevichi guidati da Lenin. Ma è anche lecito indagare il trionfo del bolscevismo nell’autunno 1917 in una più ampia prospettiva, osservando come il partito comunista abbia plasmato la società russa e creato il sistema sovietico negli anni successivi all’insurrezione d’ottobre. In questo senso possiamo chiamare rivoluzione bolscevica, seguendo le orme di Edward H. Carr, il processo di genesi e formazione del mondo

sovietico. In fondo, ciò non è meno lecito dell’uso del termine “rivoluzione fascista”, usato dai protagonisti della marcia su Roma, per descrivere l’avvento al potere di Mussolini e la successiva edificazione del regime littorio. Nel fare ciò, occorre beninteso individuare con chiarezza sia i tratti peculiari della “rivoluzione” bolscevica, sia i caratteri distintivi della “rivoluzione” fascista, senza lasciarsi incantare dalle versioni offerte dalla pubblicistica comunista e fascista. Erronea e inaccettabile è invece l’identificazione, alla quale anche Carr propende, dell’azione politico-sociale del partito di Lenin con la rivoluzione russa, che fu in realtà un fenomeno storico ben più vasto e complesso e di cui il movimento bolscevico costituì una delle numerose componenti.

Di recente, uno storico del fascismo mussoliniano ha sollecitato gli studiosi a porre a confronto l’Ottobre russo (1917) e l’Ottobre italiano (1922):

Una storia comparata fra la rivoluzione d’ottobre bolscevica e la rivoluzione d’ottobre fascista non è stata ancora tentata. Sarebbe una storia certamente utile per comprendere le novità del fenomeno rivoluzionario nel ventesimo secolo e la nascita dei primi due regimi totalitari. Ma perché una tale storia comparata possa essere scritta, è necessario che l’una e l’altra rivoluzione siano affrontate con lo stesso spregiudicato atteggiamento mentale, e siano poste su un piano comune di adeguata conoscenza e comprensione della loro specifica individualità e del loro significato storico2 .

Debbo dire subito che anche secondo me è compito degli studiosi, fondamentale ancorché arduo, mettere a confronto i regimi totalitari del Novecento con un rigoroso approccio storico-comparativo – come da un po’ si comincia timidamente a fare – e non mediante la nebulosa e fuorviante costruzione di modelli politologici – secondo una moda un tempo in auge. Invece, la comparazione tra le due “rivoluzioni”, la bolscevica e la fascista, mi sembra meno feconda e illuminante per la profonda diversità tra i due episodi storici, accomunati dal fatto che entrambi avvennero nel mese d’ottobre e furono contraddistinti dall’audacia e tempestività dell’azione. Lo studio comparativo dei movimenti e dei regimi totalitari deve trattare la loro genesi storica ed evoluzione, oltre che l’interna struttura, per mostrarne analogie e differenze. Ma, avendo pochissimi tratti comuni, non mette conto tentare un ragguaglio tra l’Ottobre russo e quello italiano, mentre giova soffermarsi sulle poche ma indubbie affinità, oltre che sulle notevoli differenze, tra il ventennio mussoliniano e lo stalinismo. In ogni caso, la comparazione più fruttuosa sotto il profilo euristico e conoscitivo deve incentrarsi sulla Germania nazista e sull’URSS di Stalin, cioè sui due più vistosi fenomeni totalitari del XX secolo.

Per ovvie ragioni, non farò neppur cenno della marcia su Roma e del fascismo italiano. Dovrò invece provare a descrivere e definire la rivoluzione bolscevica, collocandola nella storia generale della Russia e del Novecento. Non si tratta d’un compito agevole, a causa degli innumerevoli luoghi comuni in cui essa è ancor oggi avvolta, primo fra tutti la fallace identificazione con la rivoluzione russa. Cercherò quindi d’individuare anzitutto l’ambito cronologico e i tratti fondamentali della rivoluzione russa, chiarendo poi la parte in essa avuta dall’azione del partito di Lenin. Nel far ciò, non potrò che riassumere fuggevolmente i risultati delle mie pluriennali indagini storiche, dedicate al tema ed esposte in numerosi articoli e libri.

2 Emilio Gentile, E fu subito regime. Il fascismo e la marcia su Roma, Laterza, Roma-Bari 2012, p. XI.

La cronologia che a me sembra più atta ad abbracciare il multiforme e complesso fenomeno, chiamato rivoluzione russa, ha molti punti in comune con quella scelta a suo tempo dal giornalista e storico americano William Henry Chamberlin, uno dei più probi conoscitori e narratori delle vicende rivoluzionarie, ingiustamente caduto nell’oblio3. La sua trattazione degli eventi – dal febbraio-marzo 1917 alla primavera 1921, con alcuni capitoli introduttivi sul movimento rivoluzionario ottocentesco e sul 1905 – pare più sensata e accettabile di altre, che s’incentrano sul 1917 oppure coprono un arco temporale troppo esteso e indefinito. La rivoluzione russa fu bensì un processo lungo e complesso, ma ebbe un inizio e una fine, s’articolò in diverse fasi e vide la partecipazione di numerosi protagonisti politici e sociali. Bisogna dunque ricostruire nei dettagli tale processo, seguendone i diversi momenti e ridando un volto a tutti i suoi attori, non solo ai principali, perché anche quelli trattati dagli storici come figuranti svolsero in realtà un ruolo importante.

Tralasciando le turbolenze politiche e sociali, che accompagnarono la storia della Russia dopo l’abolizione della servitù della gleba (1861), la crisi esplose nel 1905 – che dobbiamo quindi considerare l’anno iniziale della rivoluzione – dando origine ad una delle più grandiose epopee rivoluzionarie della storia moderna e contemporanea. Iniziatasi nel gennaio 1905, con la “domenica di sangue”, la prima rivoluzione russa – chiamiamola così – fu un inestricabile intreccio di rivoluzione liberale, ardite azioni di gruppi sovversivi e furiose lotte sociali, che squassarono l’immenso impero zarista ed ebbero una vasta eco nell’Europa occidentale. Il 1905 non fu quella “prova generale” del 1917, immortalata dalla pubblicistica bolscevica e dalla storiografia sovietica e pedissequamente accolta in non poche ricostruzioni generali della Russia novecentesca. A parte il ruolo secondario svolto dal nascente bolscevismo, che non aveva legami con il mondo contadino, nel 1905 fu decisiva l’azione del partito dei socialisti rivoluzionari (PSR) ed ebbe una parte notevole il movimento liberale, tanto che, per una precisa fase della rivoluzione, è lecito parlare di egemonia liberale. Inoltre, l’intellighenzia democratica s’impegnò allora nella prodigiosa e difficile impresa di gettare un ponte tra le due Russie, fino allora separate, ossia tra i ceti colti occidentalizzanti e le arcaiche masse plebee. La prima rivoluzione russa divampò con alti e bassi fino alla primavera del 1907, quando parve spegnersi e acquetarsi. Ma il fuoco che covava sotto le ceneri illuminò di nuovo, nel febbraio-marzo 1917, gl’immensi spazi dell’impero zarista. Da allora, per quasi quattro anni e mezzo, i minacciosi boati del terremoto rivoluzionario non cessarono più finché, nell’estate 1921, calò il sipario sulla rivoluzione e un silenzio di tomba e di morte scese sulla Russia. Dapprima, nel corso del 1917 e fino all’inizio del 1918, i bolscevichi sembrarono nuotare come pesci nell’impetuoso fiume della rivoluzione. Poi essi dovettero costruire possenti argini per fermare il fiume in piena, che proseguiva il suo corso e minacciava di travolgerli.

L’aspetto più marcato e vistoso – ancorché non il solo – della rivoluzione russa fu il suo carattere plebeo. Lo storico cecoslovacco Michal Reiman, generoso protagonista della primavera di Praga, ebbe il merito di ribadirlo in un chiaro e vigoroso articolo apparso nel settimanale culturale del PCI, che gli valse la perdita della cittadinanza nel suo paese4 .

3 William Henry Chamberlin, Storia della rivoluzione russa, 2 voll., tr. it., Einaudi, Torino 1943 (e successive edizioni). Negli USA l’opera uscì nel 1935. 4 Michal Reiman, Gli ostacoli che il programma bolscevico non poté superare, “Rinascita”, 24 giugno 1977. L’articolo fu poi ristampato in tedesco, con il titolo Das Jahr 1917 im Kontext der Ge-

Già nel corso della prima epopea rivoluzionaria, quella del 1905-1907, tale tratto plebeo emerse in modo forte e netto. I «disordini agrari» – com’erano chiamate nei rapporti di polizia le proteste e le rivolte contadine – assunsero in molte località, specie nella regione della Volga e nelle “terre nere”, un carattere violento e distruttivo, simile alle terribili jacqueries dei secoli precedenti. Tuttavia, per la prima volta nella storia russa la spontanea e selvaggia protesta degli abitanti delle campagne trovò uno sbocco politico, grazie all’impegno del PSR, erede della tradizione populistica, il quale riuscì a portare il suo verbo nel chiuso mondo rurale e contribuì alla nascita di alcune grandi organizzazioni di massa. La più famosa di queste, l’Unione contadina panrussa, a ragione fu vista da Lenin come un embrionale partito contadino. Anche i trudovichi (trudoviki), i deputati eletti dai contadini alla prima (1906) e alla seconda (1907) Duma, il parlamento sorto in seguito al manifesto costituzionale del 17-30 ottobre 1905, subirono l’influenza ideale dei socialisti rivoluzionari, pur restando un gruppo politico da loro distinto.

La prima rivoluzione russa, come ho già detto, non fu il prologo o la “prova generale” del 1917, secondo la formula della pubblicistica bolscevica e della storiografia sovietica. Molteplici – e autonome l’una dall’altra – furono le forze motrici dell’epopea rivoluzionaria del 1905-1907, dagli scioperi operai alle insurrezioni contadine, dal militante impegno dell’intellighenzia liberale all’azione dei partiti radicali, dalla rivolta delle nazionalità non russe agli ammutinamenti di marinai e soldati. Le ripercussioni della rivoluzione valicarono i confini del vasto impero zarista, influendo sulle vicende dei vasti Stati del continente asiatico – Persia, impero ottomano, Cina. Meglio noti sono gli echi che la prima rivoluzione russa suscitò nel movimento socialista e sindacale e nell’opinione pubblica dell’Europa occidentale: basti pensare al dibattito sullo sciopero politico generale, sviluppatosi nella sinistra europea, o all’interesse mostrato da Max Weber, il quale imparò il russo per seguire gli straordinari eventi che accadevano nell’impero zarista. Quella rivoluzione fu insieme liberale e plebea, politica e sociale, campo d’azione delle forze più radicali e terreno propizio al fiorire d’esperimenti e progetti costituzionali. Tutti gli strati della società russa, dai ceti colti e professionali alle classi più umili, ebbero modo di far sentire la propria voce e di manifestare apertamente le proprie aspirazioni. Una società fino ad allora incatenata e imbavagliata gettò via, all’improvviso, lacci e bavagli e rivendicò ad alta voce i propri diritti.

Placatosi – non senza lasciar segni nella società e nel sistema politico – il gigantesco terremoto del 1905-1907, continuarono nondimeno le scosse d’assestamento fino al 1917, quando in Russia la terra riprese a tremare in modo ben più cupo e pauroso. Se gli eventi della rivoluzione di febbraio sembrarono avere una qualche somiglianza con i fatti rivoluzionari del 1905, nei mesi successivi gli avvenimenti presero un ben diverso corso, portando in autunno alla vittoria bolscevica, ma non già alla fine della rivoluzione. La principale difficoltà nello studio delle vicende e dei protagonisti del 1917 è proprio la tentazione di vedervi una grande affinità, sia pure in un nuovo contesto, con gli attori e gli eventi del 1905. Cosa, infatti, può esserci di nuovo nell’atteggiamento di uomini, partiti e classi che avevano già fatto il loro ingresso sulla scena della storia, svelando con chiarezza i loro intenti e le loro aspirazioni? Eppure, si commetterebbe un grave errore, peraltro assai diffuso, se ci si limitasse all’osservazione delle analogie esteriori e non si cogliesse la radicale novità della rivoluzione del 1917 rispetto all’altra del 1905.

schichte Rußlands und der UdSSR, in Id., Lenin, Stalin, Gorbačev. Kontinuität und Brüche in der sowjetischen Geschichte, Junius, Hamburg 1987, pp. 13-19.

Le differenze sono talmente grandi, sotto ogni profilo, che io sono quasi titubante a chiamare “russa” la rivoluzione del 1917. Non è tuttavia ragionevole sconvolgere senza costrutto l’antica e sacra tradizione, che così etichetta il cataclisma politico-sociale conclusosi con la vittoria dei bolscevichi. E, dunque, mi attengo anch’io alla consolidata terminologia. Conviene però far chiarezza sulle formule e sulle denominazioni, anche le più antiche e venerande, per stabilire a che cosa esse si riferiscono e cosa vogliono significare. Io ho provato a farlo nelle mie opere, che vogliono offrire un’interpretazione della rivoluzione alquanto diversa da quelle in voga.

In che senso il sommovimento del 1917 non fu una rivoluzione “russa” o, per meglio dire, lo fu solo in parte? Qualcuno potrebbe obiettare che, se proprio non vogliamo considerarla in tutto e per tutto russa, dovremmo allora – com’è, del resto, consuetudine – chiamarla bolscevica, perché fu contraddistinta dal ruolo demiurgico del partito di Lenin, il quale diresse e incanalò l’impetuoso magma rivoluzionario verso un preciso sbocco politico. Una siffatta visione interpretativa, in verità, semplifica e impoverisce oltremodo il gigantesco e multiforme processo rivoluzionario, del quale il bolscevismo non fu che una delle componenti. Bisogna semmai spiegare perché il partito di Lenin abbia alla fine trionfato, in maniera per molti inattesa, e come sia poi riuscito nella mirabolante impresa di restare al potere. Oltretutto, a mio modo di vedere, il bolscevismo del 1917 era un po’ meno “russo” che nel 1905; e lo stesso Lenin era per molti versi mutato rispetto a qualche anno prima. Perché quanto detto fin qui non paia un’astrusa elucubrazione nominalistica, espongo subito la mia tesi principale. Alla vigilia del 1917, l’impero russo era un immenso vulcano in procinto di esplodere, perché non era stato risolto nessuno dei problemi politici e dei drammi sociali che avevano generato il sommovimento del 1905. In tal senso, v’è un’indubbia continuità e analogia tra l’una e l’altra rivoluzione, entrambe le quali debbono esser considerate russe di nome e di fatto. Ma qui cessano le affinità e sorge il primo arduo problema interpretativo. I due eventi ebbero luogo a distanza d’una decina d’anni, durante i quali molte cose cambiarono nell’atteggiamento e nella coscienza di uomini, partiti e classi. Ciò è naturale e quasi ovvio, gl’individui e le società essendo in perenne divenire, specie nel mondo contemporaneo, caratterizzato da una forte accelerazione dei mutamenti economici, sociali e politici. Non dobbiamo quindi stupirci se scopriamo nel 1917 idee, progetti, azioni e fatti nuovi. Ma non è questo il grande cambiamento, al quale accennavo e che non può esser visto come il mero frutto della decennale evoluzione storica della Russia.

La vera e sconvolgente novità della rivoluzione del 1917 è l’estenuante e sanguinoso conflitto bellico, in cui l’impero zarista era coinvolto da quasi tre anni. Ma quella spaventosa guerra si combatteva dappertutto e incideva, in maggiore o minor misura, sulla vita interna di tutti i paesi belligeranti. La prima guerra mondiale non fu un evento specificamente russo, ma s’abbatté sulla Russia ingigantendo e acuendo i mali di cui essa soffriva. Ciò è vero, beninteso, anche per gli altri paesi, i quali subirono tutti profonde trasformazioni economiche, sociali e antropologiche durante e dopo la guerra. Ma l’immane conflitto bellico ebbe, in Russia, ripercussioni ancor più dirompenti e tragiche, perché venne ad intrecciarsi con i cronici mali interni e con gli esplosivi problemi d’un impero bacato e anacronistico. Quando si studia il terremoto rivoluzionario del 1917, bisogna saper distinguere nei soggetti politici e nei movimenti sociali, al di là delle apparenze, i caratteri tipicamente russi dalle novità generate dalla guerra.

Anche la svolta estremistica di Lenin e del bolscevismo nel 1917 fu per molti versi l’effetto, forse il più vistoso e selvaggio, della mutazione del movimento operaio e socialista in Europa, provocata dalla guerra. Lo capì assai bene il menscevico Martov il quale, terminato l’immane conflitto, coniò il termine «bolscevismo mondiale» per designare i cambiamenti intervenuti, per effetto della guerra, nella psicologia dei lavoratori di tutti i paesi belligeranti. Il pensatore socialista osservò come i lunghi anni trascorsi, nelle trincee e sui campi di battaglia, a seminare morte e distruzioni, avessero mutato profondamente la psicologia dei lavoratori. In primo luogo, la guerra aveva generato in loro «l’assenza di un serio interesse per le necessità della produzione sociale, la prevalenza – come tra i soldati – del punto di vista del consumatore su quello del produttore». Di conseguenza, si era rafforzato il «massimalismo», cioè «il desiderio di ottenere risultati immediati massimi nella realizzazione di miglioramenti sociali, trascurando le condizioni oggettive». Di pari passo era invalsa «la propensione a risolvere tutti i problemi della lotta politica, della lotta per il potere, con l’uso immediato della forza armata, perfino nei rapporti tra le singole parti del proletariato». Il primitivo «comunismo del consumatore», col suo «disprezzo per l’esigenza di sostenere e assicurare lo sviluppo delle forze produttive», segnava «un enorme passo indietro nello sviluppo sociale del proletariato, nel processo della sua trasformazione in classe capace di dirigere la società».

Da convinto socialista, Martov aggiungeva che la responsabilità primaria del processo di degenerazione del proletariato europeo ricadeva sulle classi dirigenti, le quali «hanno distrutto le forze produttive, hanno annientato la ricchezza sociale accumulata, hanno risolto tutti i problemi di sostentamento della vita economica col metodo primitivo del ‘saccheggio del saccheggiato’, cioè con requisizioni, contributi, confische, lavori forzati a carico dei vinti». L’illusione, nutrita dalle masse operaie, che fosse possibile «migliorare radicalmente la propria posizione senza tenere conto della perdurante distruzione delle forze produttive» era in fondo il riflesso d’un analogo atteggiamento delle classi dominanti:

Distruggendo nel modo più folle le forze produttive, sprecando la ricchezza accumulata e strappando per anni dal lavoro produttivo i lavoratori migliori, le classi capitalistiche si consolavano con l’idea che questa temporanea distruzione della ricchezza nazionale e delle sue fonti avrebbe portato – in caso di vittoria – a una fioritura tale dell’economia nazionale – grazie alla conquista dell’egemonia mondiale, ad annessioni, ecc. – che avrebbe compensato al centuplo quei sacrifici5 .

La ferina esperienza dell’interminabile conflitto, la volontà sopraffattrice tipica degli uomini in arme, l’abitudine a produrre ordigni di distruzione e di morte, la mentalità primitiva e massimalistica, erano insieme manifestazioni e cause della mutazione genetica di un movimento, quello operaio e sindacale, che in passato aveva insegnato ai suoi militanti le virtù del lavoro organizzativo, della lotta programmata e della ragionevolezza nelle azioni rivendicative. Lo storico George L. Mosse indicò nella «brutalizzazione della vita» uno dei maggiori cambiamenti antropologici, indotti dalla lunga e disumana esperienza della prima guerra mondiale. Il bolscevismo del 1917 fu per l’appunto, per certi versi, l’espressione politica e programmatica degli umori selvaggi di masse popolari esasperate e incattivite.

5 Julij Martov, Bolscevismo mondiale. La prima critica marxista del leninismo al potere, tr. it., Introduzione di Vittorio Strada, Einaudi, Torino 1980, pp. 6-7 e 13-15.

Al partito di Lenin non fu difficile impadronirsi del potere a Pietrogrado quando da un capo all’altro del paese la furia del movimento plebeo, al fronte e nelle retrovie, pareva sommergere tutto. Soffiando sul fuoco della guerra in corso tra operai e padroni, tra contadini e proprietari, tra soldati e ufficiali, i bolscevichi si fecero interpreti della rabbia popolare, convinti d’aver dalla loro parte la grande maggioranza delle masse lavoratrici. Ma non si trattava che d’una apparente coincidenza d’interessi. Una volta al potere, Lenin e i suoi compagni d’arme non seppero risolvere nessuno dei problemi che tormentavano la Russia: il loro programma dottrinario e la loro mentalità settaria mal s’adattavano alla realtà sociale del paese. Solo in un campo i bolscevichi, per merito precipuo di Lenin, ebbero un grande e provvidenziale successo: il varo della “socializzazione della terra”, la riforma agraria attuata nei primi mesi del 1918.

Quel trionfo, in verità, si spiega con il fatto che Lenin, gettando alle ortiche l’astruso programma bolscevico, fece sue le richieste da sempre sbandierate dal movimento populistico. E d’ispirazione populistica era il partito dei socialisti rivoluzionari di sinistra il quale, collaborando con i bolscevichi e impegnandosi nell’attuazione della legge agraria, contribuì in maniera determinante al consolidamento e alla popolarità del nuovo governo sovietico. L’alleanza non fu però di lunga durata: aggravandosi la crisi annonaria, il partito comunista obbedì nuovamente al richiamo della foresta della sua dottrina sociale – che immaginava i contadini scissi in classi sociali antagonistiche – e dichiarò guerra alla “borghesia rurale”, cioè ai kulaki – secondo la cervellotica terminologia bolscevica – illudendosi di trovar sostegno nei poveri delle campagne. Ma i contadini in carne e ossa s’opposero con tutte le loro forze ai commissari bolscevichi, che si recavano nei villaggi a requisire i prodotti agricoli. La lotta, insieme donchisciottesca e trucida, contro gl’inesistenti kulaki ruppe per sempre la magica, e breve, atmosfera di consenso, che il partito di Lenin sembrava aver creato nelle campagne. Ebbe allora inizio una sanguinosa guerra tra mondo rurale e Stato comunista, che vide una prima vittoria dei contadini nel 1921 e terminò, cessata la tregua della “nuova politica economica” (NEP), con la barbara e cruenta collettivizzazione delle campagne all’inizio degli anni Trenta.

Rimanendo insoddisfatte le attese popolari e incrudelendo la dittatura comunista, la rivoluzione continuò il suo corso anche dopo la presa del potere da parte dei bolscevichi. Momenti della rivoluzione furono, oltre alle rivolte contadine, le proteste operaie esplose già nella primavera-estate 1918 e la formazione di governi liberalsocialisti nella regione della Volga e in Siberia nell’estate e nell’autunno di quello stesso anno. La rivoluzione russa ebbe termine soltanto nella primavera-estate del 1921, allorché il governo di Lenin riuscì a soffocare nel sangue il poderoso movimento di protesta che esplodeva in tutto il paese. Le date, si sa, spesso sono convenzionali ed hanno un valore simbolico. Ma, se proprio volessimo sceglierne una a suggellare la fine della rivoluzione russa, dovremmo a mio avviso indicare il 19 luglio 1921, quando furono revocate – perché ormai inutili – le crudelissime ordinanze grazie alle quali, mettendo a ferro e fuoco i villaggi ribelli e procedendo a fucilazioni sommarie, il generale bolscevico Tuchačevskij ebbe ragione della fiera opposizione dei contadini della provincia di Tambov. I marinai e gli operai di Kronstadt e i contadini di Tambov, che chiedevano libertà politica e migliori condizioni di vita, non facevano che ripetere le parole d’ordine echeggiate nel 1905 e nel 1917. Questa volta, però, l’onda della protesta popolare andò a infrangersi contro una tirannide, quella comunista, assai più brutale ed efferata dello zarismo. Il partito di Lenin, che fino all’inizio del 1918 era

stato parte del movimento rivoluzionario, s’era ormai mutato in un feroce armamentario d’oppressione e di reazione.

Torniamo adesso all’ottobre 1917 e alla conquista del potere da parte dei bolscevichi. Quell’evento, che tutti conoscono e chiamano rivoluzione bolscevica, fu in primo luogo un fatto politico, sia pure d’incalcolabile portata. Ma, oltre al ben noto rivolgimento politico guidato da Lenin, ci fu anche una rivoluzione sociale bolscevica, più difficile da studiare e definire. Non mi riferisco solo al fatto che, se conosciamo fin nei dettagli i “dieci giorni che sconvolsero il mondo” e l’assalto al palazzo d’Inverno, cioè la vittoriosa insurrezione di Pietrogrado, siamo meno informati sugli eventi dell’ottobre-novembre 1917 nelle altre città, dove i seguaci di Lenin faticarono ad imporsi. Ancor meno note sono le radici sociali del bolscevismo. Ho già detto che non bisogna confondere la rivoluzione bolscevica con il più ampio fenomeno della rivoluzione russa.

Bisognerebbe altresì evitare di ridurre la rivoluzione bolscevica all’insurrezione d’ottobre, vista per giunta come un abile e spregiudicato colpo di Stato. È un errore, tanto generoso quanto ingenuo, che molti seguitano a commettere. In realtà, nell’autunno 1917 Lenin si rivelò un politico abile e geniale non perché seppe organizzare al momento opportuno e nel modo migliore l’insurrezione armata a Pietrogrado; anzi, la sua isteria insurrezionalistica avrebbe portato i bolscevichi alla disfatta senza il sagace e decisivo contributo di Trockij, il quale fu il vero artefice della vittoria. Il capolavoro politico del fondatore del bolscevismo consisté nel cogliere con lucidità, prima e più di tutti gli altri protagonisti della rivoluzione, la natura e l’ampiezza della furiosa jacquerie contadina allora in corso.

Che cosa fu la rivoluzione sociale bolscevica? Essa coincise, per alcuni aspetti, con la rivoluzione plebea, nel senso che il partito di Lenin si fece portavoce delle istanze radicali e primitive degli strati più umili della società. Con l’afflusso di numerosi militanti plebei – soprattutto operai meno qualificati e soldati – sotto le bandiere del bolscevismo, il partito di rivoluzionari di professione fondato da Lenin subì anche sul piano sociale una profonda metamorfosi nel corso del 1917 e dopo la rivoluzione d’ottobre. I bolscevichi continuarono ad avere scarsi legami con le campagne, che simpatizzarono prima per i socialisti rivoluzionari (PSR) e poi per i socialisti rivoluzionari di sinistra (PLSR). Tuttavia, grazie al decreto sulla terra e al tempestivo – e temporaneo, occorre subito aggiungere – abbandono del vecchio dottrinarismo, il cui merito spettò a Lenin, il partito bolscevico riuscì a consolidare il potere conquistato con l’insurrezione a Pietrogrado. In tal modo, sia pure per pochissimi mesi, il bolscevismo si fece interprete dei bisogni e delle aspirazioni fondamentali della rivoluzione plebea contadina. Bisogna precisare – molti storici sembrano non essersene ancora avveduti – che furono i socialisti rivoluzionari di sinistra, entrati nel neonato governo sovietico, a salvare la rivoluzione bolscevica e a permettere la sopravvivenza del nuovo regime. Ma fu indubbia, e si rivelò provvidenziale, la bravura di Lenin nel rinunciare – ancorché temporaneamente – alle viete posizioni ideologiche del marxismo russo, il cui maggior limite stava nell’incomprensione della vera natura dei rapporti sociali nelle campagne.

La rivoluzione plebea fu il vasto sfondo sociale, che rese possibile sia la vittoria bolscevica nell’autunno 1917 sia il successivo esperimento sovietico. Si capisce ben poco dell’edificazione e della natura del sistema sovietico, se non si tengono presenti le sue radici sociali. La rivoluzione plebea fu una delle due forze fondamentali che plasmarono l’intera storia sovietica. L’altra fu il bolscevismo il quale, vorrei ripeterlo, sembrò per qualche mese e per taluni aspetti coincidere con la prima, ma che in realtà se ne differenziava profonda-

mente, specie sul piano ideologico e politico. Cos’è il bolscevismo? Non è semplice definire un fenomeno storico che, malgrado la vasta mole della letteratura sull’argomento, resta ancora un oggetto per molti versi misterioso. Qui basti osservare come già il “leninismo” fino al 1917, ossia il più antico strato del bolscevismo, ad un’attenta analisi risulti formato da molteplici e contraddittorie componenti: il cosiddetto “marxismo russo”, la dottrina della Seconda Internazionale, la tradizione elitaria e cospirativa del populismo giacobineggiante, l’esperienza del 1905, la fede nella creatività rivoluzionaria delle masse, il violento ripudio del socialismo europeo, il mito dei soviet, per ricordarne solo le principali.

Dall’ottobre 1917 alla morte di Lenin, il bolscevismo subì un’ulteriore profonda metamorfosi, sia ideologico-politica che sociale. Poi venne la fase staliniana dell’esperimento bolscevico, segnata da una netta impronta plebea e dal vistoso carattere totalitario. Quando, dopo la morte di Stalin, il regime totalitario decadde nell’URSS, il bolscevismo conobbe una nuova stagione con Chruščëv, il personaggio che, nella storia dell’URSS, forse più di tutti impersonò sia l’ideologia bolscevica sia i tratti plebei del sistema sovietico. Persino durante il plumbeo regno di Brežnev, quando pareva non fosse rimasto più nulla della dottrina bolscevica – esaltata nei discorsi ufficiali, ma lontanissima dal paese reale – qualcuno credeva o sperava ancora nel “crollo del capitalismo”. Soltanto all’epoca di Gorbačëv, all’interno dell’URSS, nel comunismo bolscevico non credeva più nessuno, neppure il Segretario Generale del PCUS.

La commistione e l’interazione di bolscevismo e rivoluzione plebea plasmarono l’intera storia dell’URSS, dando vita alla società sovietica e al comunismo novecentesco. La spinta dinamica della rivoluzione plebea fu talmente possente da portare, negli anni ’30, alla nascita del primo Stato plebeo della storia umana, uno Stato governato da elementi provenienti dagli strati più umili delle classi popolari. Tale carattere lo Stato sovietico lo mantenne fin quasi alla sua dissoluzione, cioè fino all’avvento di Gorbačëv: a partire dagli anni ’30, infatti, i posti di comando nel partito e nello Stato furono occupati da personaggi d’estrazione popolare. La grande spinta plebea dell’autunno 1917, combinandosi con l’azione politica del partito bolscevico, fu anche all’origine del totalitarismo sovietico. Il risultato fu la nascita d’una società dai tratti peculiarissimi, contraddistinta dalla singolare commistione di modernità e arcaismo.

È risaputo che la società sovietica conobbe un processo di rapidissima e spettacolare industrializzazione, accompagnato dalla folgorante ascesa dei ceti più umili alle massime cariche governative e partitiche. Ma la cosiddetta “promozione sociale” (vydviženie) fu anche segnata dal ritorno della servitù della gleba, abolita nel 1861, ripristinata di fatto con la collettivizzazione, e dall’introduzione del lavoro schiavistico – da tempo ignoto al mondo occidentale – fiorito per oltre un ventennio nel vasto arcipelago Gulag. Sia l’una che l’altro risultarono essenziali per l’edificazione del sistema industriale sovietico, e vennero aboliti soltanto dopo la morte di Stalin: la schiavitù decadde durante la “primavera di Berija” – come dovremmo chiamare le audaci riforme seguite alla scomparsa del tiranno – mentre la servitù della gleba tramontò sotto il regno di Brežnev. Le radici del totalitarismo sovietico vanno cercate, oltre che nel predominio del partito unico e nel selvaggio terrore poliziesco, nella nascita d’una società inedita, a prima vista ultramoderna ma per molti versi arcaica e premoderna. Del resto, tutti i regimi totalitari del XX secolo presentano tratti vistosamente arcaici accanto ad aspetti moderni, persino ultramoderni.

Al di là delle apparenze e delle mitologie, il comunismo bolscevico si rivelò una gigantesca reazione, nel senso letterale dell’espressione, perché bloccò una serie di processi mo-

dernizzanti in atto nella società russa tra Otto e Novecento. Nei suoi studi sullo sviluppo economico russo nell’età moderna e contemporanea, Alexander Gerschenkron elaborò un complessivo e interessante modello interpretativo, per mostrare come soltanto il «grande slancio» (big spurt) di fine Ottocento fosse riuscito a mutare i caratteri generali dello sviluppo economico dell’impero zarista, contraddistinto in precedenza da periodici e massicci interventi statali, che modernizzavano il paese per fini strategico-militari lasciando pressoché inalterata la struttura della società. In effetti, fu negli ultimi decenni dell’Ottocento che la Russia cominciò ad avvicinarsi ai paesi più progrediti dell’Europa occidentale sia sul piano economico che sotto il profilo culturale e giuridico. Persino il vieto e anacronistico regime autocratico subì un primo colpo, con la rivoluzione del 1905, e fu costretto a fare concessioni di carattere politico-costituzionale. Non bisogna certo sopravvalutare il livello di occidentalizzazione economica, giuridica e sociale della Russia all’inizio del Novecento. I risultati maggiori si ebbero nella cultura e nelle scienze, dove gli studiosi e i ricercatori russi raggiunsero vette stupefacenti, competendo degnamente con i loro colleghi europei. Per altri aspetti, invece, l’impero zarista restava un paese assai più arretrato degli Stati Uniti e delle nazioni progredite dell’Europa occidentale. La rivoluzione bolscevica, in ogni caso, ebbe l’effetto di annientare i germi di civiltà moderna attecchiti in Russia nei decenni precedenti, impedendone la lenta e difficile maturazione.

Il maggiore e più duraturo risultato storico della rivoluzione bolscevica fu l’imbalsamazione e la perpetuazione del mummificato impero zarista il quale, nel 1917, si stava decomponendo. Fu un autentico miracolo storico, che solo i comunisti erano in grado di compiere, grazie alla loro incrollabile e ferocissima determinazione. A questo proposito, vorrei qui citare le ironiche osservazioni fantastoriche d’uno studioso della politica estera sovietica le quali, pur concernenti il partito francese, ben si confanno alla mentalità sciovinistica dei bolscevichi russi e di tutti i comunisti al potere:

Una Francia comunista avrebbe tenacemente conservato il proprio impero, e avrebbe così risparmiato agli Stati Uniti tutte le sue difficoltà e i suoi problemi nel Vietnam e nell’Africa settentrionale. La necessità di realizzare la ‘via francese al socialismo’ avrebbe indotto Thorez e i suoi successori a entrare in un violento conflitto con Mosca; essi non avrebbero potuto, in queste condizioni, essere così ostili e sgradevoli agli americani come lo è oggi de Gaulle. Certo, si sarebbe dovuto pagare un prezzo per tutto questo: Picasso avrebbe dovuto dipingere grandi tele ispirate al ‘realismo socialista’, Françoise Sagan e Simone de Beauvoir non avrebbero potuto scrivere i loro libri, il livello della cucina francese ne avrebbe sofferto…6

Il prezzo pagato per la conservazione dell’anacronistico impero zarista fu assai più alto e sanguinoso. Orripilanti furono le gesta compiute dai comunisti russi: dalla sanguinosa collettivizzazione delle campagne alla distruzione dell’agricoltura, dalla creazione d’una mastodontica industria di Stato all’edificazione d’una società d’antico regime sotto il giogo d’una casta privilegiata, dalla costruzione d’un onnipotente Stato di polizia al soffocamento d’ogni forma di pensiero libero. La loro opera politica, malgrado le altisonanti parole d’ordine modernizzatrici, fu una gigantesca reazione, che ricacciò il paese

6 Adam Ulam, Storia della politica estera sovietica (1917-1967), tr. it., Rizzoli, Milano 1970, pp. 654-655.

indietro di secoli e recise per sempre l’esile filo che legava la Russia alla civiltà europea. Falliti i mostruosi tentativi d’ingegneria economica e sociale, il regime s’afflosciò come un castello di cartapesta.

Ma la terribile eredità del settantennio bolscevico continua a pesare sulla Russia postcomunista la quale, incapace di risolvere i suoi drammatici problemi interni, è incline ad aggrapparsi a quegli aspetti del passato comunista che, più di tutti gli altri, possono consolare i suoi abitanti immiseriti e frustrati. Si spiega così l’enorme popolarità di cui gode l’odierno signore del Cremlino il quale, con la sua tonitruante e aggressiva politica estera, alimenta i furori patriottardi d’una popolazione afflitta da invereconde diseguaglianze economiche e versante in condizioni di vita indegne d’un paese civile. Il giornalista tedesco Christian Neef, profondo conoscitore dell’odierna realtà russa, ha scritto:

Il patriottismo, che ha investito il paese, offre anche ai più umiliati russi della provincia, privi di diritti, un sentimento di superiorità sulle persone che vivono in paesi di gran lunga più democratici e opulenti. Essi si rallegrano quando Putin fa di nuovo volare sull’Atlantico bombardieri a lungo raggio, manda ogni settimana decine di migliaia di soldati in “manovre fuori programma” e parla giorno dopo giorno di “armi miracolose”; e quando l’Occidente ha di nuovo paura della Russia7 .

D’un altro effetto di lungo periodo della rivoluzione bolscevica occorre far cenno in queste considerazioni sul fenomeno storico che, forse, più di tutti ha plasmato il XX secolo. La profonda e insanabile lacerazione del socialismo europeo e mondiale, dopo il 1917, fu la diretta conseguenza della guerra dichiarata dai comunisti russi al vecchio mondo e alle correnti maggioritarie del socialismo occidentale, ree di non aver impedito la guerra e di collaborare con la borghesia. Certo, anche prima del 1917 in seno al movimento operaio e sindacale esistevano dissidi e contrasti, anche violenti. Ma la creazione dell’Internazionale comunista (Komintern) e la nascita di partiti legati a Mosca segnò l’inizio d’una frattura, destinata a durare in pratica fin quasi alla dissoluzione dell’URSS.

Quale fosse la materia del contendere, l’apprendiamo – per citare un testo fra tanti – dalle pacate e chiare parole con cui, intervenendo al Congresso di Tours nel dicembre 1920, il dirigente socialista Marcel Sembat, che era stato vicino a Jean Jaurès, perorò la causa dell’unità del partito contro l’ala estrema, desiderosa d’imitare l’azione dei bolscevichi russi e pronta a dar vita al partito comunista:

Je comprends très bien que vous tournez les yeux vers un pôle et nous vers un autre. Le mieux est de les comparer.

Je comprends très bien, je le repète, l’élan, l’enthousiasme qui – vous me méconnaîtriez singulièrement si vous croyiez trouver dans mes paroles une trace d’ironie – vous entraînent vers Moscou. Comment en serait-it autrement? […] Voici aujoud’hui que dans un grand pays, nous voyons tout à coup se dresser en maître le socialisme révolutionnaire. Comment s’étonner qu’un tel événement déchaîne l’enthousiasme? Vraiment, quel socialiste pourrait rester indifférent devant un tel fait? Je comprends donc très bien que ce pôle – Moscou – vous attire! Mais en face de Moscou il y en a un autre, qui est certainement moins brilliant, moins attirant, mais qui, tout de même nous attire, mes amis et moi: c’est l’Angleterre, c’est Londres! Je veux parler du movement ouvrier tel que vous l’avez vu organisé et agissant tout récemment en Angleterre. Nous ne sommes pas les seuls à

le trouver admirable. […] En France, étant donnés notre état économique et notre état moral, nous sommes plus proches du mouvement anglais et plus capables de l’imiter que nous sommes capables d’imiter le mouvement russe8 .

Tralasciando l’importante e complesso problema dell’influenza del bolscevismo sull’Oriente e sull’Asia e dei rapporti tra Mosca e il comunismo cinese, vorrei adesso accennare rapidamente alla questione, che qui c’interessa più da vicino, dell’impatto della rivoluzione bolscevica in Occidente. Se esso si fece sentire dappertutto in Europa, in misura maggiore o minore, vi fu un paese il cui destino storico dopo il 1917 fu legato proprio alle vicende e alle sorti della Russia sovietica. Ancor più che in Germania, dove pure sorse e agì per un quindicennio un forte partito comunista, e in Francia, dove ebbe un grande peso l’azione del PCF, l’intera storia dell’Italia novecentesca fu scandita e determinata dagli eventi russi. La mutazione genetica del socialismo italiano, ancor prima della nascita del piccolo e settario partito comunista, influì enormemente sul corso delle lotte sociali e politiche del dopoguerra fino a favorire, in maniera determinante, l’avvento al potere di Mussolini.

Se proprio si vuol comparare l’Ottobre bolscevico alla marcia su Roma, bisogna precisare che l’esito di quest’ultima fu dovuta proprio ai fatti russi dell’autunno 1917. Non perché il fascismo debba considerarsi la conseguenza o l’imitazione del bolscevismo, ché anzi il movimento fondato e guidato da Mussolini aveva forti e intricate radici nazionali e fu un fenomeno storico troppo complesso e camaleontico per esser ricondotto ad una sola scaturigine. È vero invece che l’ideologia e la prassi del socialismo italiano bolscevizzante contribuirono grandemente, forse in maniera decisiva, alla crescita e alla vittoria del fascismo. E, dopo la lunga parentesi fascista, la presenza d’un partito comunista di massa, fedele a Mosca, rappresentò un fatto anomalo rispetto agli altri paesi dell’Europa occidentale, tanto da condizionare le vicende dell’Italia repubblicana. Il che è confermato dall’improvviso e stupefacente dissolvimento dell’intero sistema dei partiti italiani in concomitanza con il crollo dell’URSS e del comunismo moscovita. Ma questi sono temi troppo vasti e complessi per esser qui anche solo sfiorati e abbozzati.

In ogni caso, mette conto accennare agl’inizi della fatale svolta nell’atteggiamento del socialismo italiano, causata dalla rivoluzione d’ottobre. Con l’azione espressa nella formula “né aderire né sabotare”, sovente vituperata da pubblicisti e da storici, il PSI in realtà aveva dato prova di grande saggezza politica: non essendo riusciti a impedire la guerra, i socialisti avevano rinunciato al disfattismo rivoluzionario, che avrebbe provocato la dissoluzione della giovane e fragile nazione italiana, senza con ciò rinnegare i loro ideali pacifisti e internazionalisti. Il PSI dimostrò in tal modo, coi fatti, d’avere a cuore le sorti del paese più di tanti esponenti interventisti e nazionalisti, i quali avevano gettato l’Italia nell’orrenda fornace della guerra.

Le cose cambiarono dopo la vittoriosa insurrezione d’ottobre a Pietrogrado. Il 14 novembre 1917, Camillo Prampolini lesse alla Camera, a nome del gruppo parlamentare socialista, una dichiarazione a favore della «concordia nazionale», senza sconfessare l’ispirazione pacifista del partito. Ma pochi giorni dopo, il 20 novembre egli fu severamente

8 Le congrès de Tours (décembre 1920). Naissance du Parti communiste français, Édition critique des principaux débats présentée par Annie Kriegel, Julliard-Gallimard, Paris 1964, pp. 34-38.

redarguito da una nota dell’“Avanti!”9. E in una circolare del 30 dicembre il Segretario del partito Costantino Lazzari esortò i militanti a «seguire attentamente e con simpatia gli avvenimenti di Russia, dove per merito e gloria di quei compagni si sta realizzando la pace e il socialismo»10 .

L’irruzione del mito leninista, il quale tanta parte avrà nel tragico epilogo della crisi italiana, accelerò la differenziazione all’interno del PSI, determinando la presa di coscienza antibolscevica della corrente riformistica. In evidente, benché non conclamata, polemica con l’incipiente idolatria della rivoluzione bolscevica, Filippo Turati pubblicò nella sua rivista una lettera del menscevico Martov, assai critica nei riguardi della concezione e della prassi politica di Lenin, accompagnandola con un commento di Claudio Treves – firmato Very-Well – che esordiva con le seguenti parole: «Nella spaventosa incultura della nuova generazione socialista in Italia questa lettera del vecchio leader marxista, del pioniere zimmerwaldista, farà l’effetto di una legnata improvvisa sulla testa»11 .

Le ragionevoli idee e proposte dei Turati e dei Treves convinsero solo frange minoritarie del socialismo italiano; così, alla fine della guerra dilagarono e s’imposero gli scalmanati e confusi e velleitari progetti di quanti volevano scimmiottare le gesta di Lenin e dei bolscevichi russi.

9 Luigi Ambrosoli, Né aderire né sabotare. 1915-1918, Edizioni Avanti!, Milano 1961, pp. 254257. 10 Ibid., pp. 410-411. 11 Lenin, Martoff e… noi!, “Critica Sociale”, XXVIII, 1°-15 gennaio 1918, pp. 4-5. Tre mesi dopo, la medesima rivista pubblicò un altro documento menscevico, anch’esso preceduto da una breve postilla di Very-Well: Menscevichi contro bolscevichi. Un appello menscevico all’Internazionale, ibid., 1°-15 aprile 1918, pp. 78-80.

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