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Luciano Pellicani

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Ettore Cinnella

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Luciano Pellicani

Gramsci e Mondolfo di fronte alla Rivoluzione bolscevica

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La rivoluzione d’Ottobre irruppe sulla scena internazionale come una dichiarazione di guerra lanciata contro la civiltà liberale e tutte le sue istituzioni, dalla proprietà privata alla libertà individuale, dalla democrazia parlamentare alla laicità dello Stato. Mentre l’Europa sembrava impegnata ad autodistruggersi in un raccapricciante bagno di sangue, una élite di rivoluzionari di professione addestrati dalla ascetica scuola leninista proclamò alto e forte d’aver trovato il metodo per far passare dalla potenza all’atto l’Evento – il rovesciamento violento del capitalismo – profetato dai classici del “socialismo scientifico”. L’Utopia collettivista si era fatta Stato. Iniziava una nuova epoca della storia universale: «l’epoca della offensiva mondiale, l’epoca del trionfo della rivoluzione mondiale»1 che si sarebbe conclusa con la «liberazione di tutto il mondo proletario e di tutti i Paesi oppressi»2 .

L’annuncio era esaltante. Per generazioni e generazioni, i socialisti erano stati educati all’idea che la «dissoluzione della società capitalistica era ormai questione di tempo» e che la «creazione di una nuova forma di società», centrata sul piano unico di produzione e di distribuzione, «non era più solo qualcosa di desiderabile, ma era diventata inevitabile»3. Ed erano stati altresì educati a raffigurarsi la transizione dal capitalismo al socialismo come una «guerra civile prolungata»4, che si sarebbe immancabilmente conclusa col trionfo del proletariato mondiale.

Tuttavia, colui che veniva considerato il massimo campione dell’ortodossia marxista – Karl Kautsky – aveva categoricamente escluso ogni forma di volontarismo, sviluppando il seguente ragionamento:

Noi sappiamo che il nostro fine può essere raggiunto soltanto per il mezzo di una rivoluzione, ma sappiamo che è altrettanto poco in nostro potere questa rivoluzione, quanto è in potere dei nostri avversari di impedirla. Perciò noi non possiamo affatto provocare o preparare una rivoluzione. E poiché noi non possiamo fare la rivoluzione a nostro arbitrio, non possiamo dire alcunché a proposito di quanto, in quali circostanze e in quali forme la rivoluzione avrà luogo. Noi sappiamo che la lotta di classe fra la borghesia e il proletariato non terminerà fino a quando quest’ultimo non arriverà al pie-

1 Vladimir Il’ič Lenin, Quarto Congresso straordinario dei soviet, in Id., Opere complete. Vol. XXVII, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 177. 2 Nikolaj Ivanovič Bucharin, Il programma dei comunisti, Tindalo, Roma 1970, p. 211. 3 Karl Kautsky, Il programma di Erfurt, Samonà e Savelli, Roma 1971, p. 123. 4 Karl Kautsky, La révolution sociale, Rivière, Paris 1912, p. 109.

no possesso del potere politico, di cui esso si servirà per costruire la società socialista. Sappiamo che questa lotta di classe dovrà diventare sempre più ampia e intensa, che il proletariato cresce sempre di più di numero e forza morale ed economica, che perciò la sua vittoria e la sconfitta del capitalismo sono inevitabili, ma possiamo fare soltanto delle ipotesi vaghe sul quando e sul come saranno combattute le ultime decisive battaglie di questa guerra sociale5 .

La conclusione che il “Papa rosso” aveva estratto dalla sua lettura della teoria marxengelsiana della rivoluzione proletaria mondiale – una conclusione largamente condivisa nel seno della Seconda Internazionale a dispetto dell’attacco contro l’ortodossia lanciato da Eduard Bernstein – era che la Spd era «un partito rivoluzionario, non già un partito che faceva le rivoluzioni»6 .

Diametralmente opposta a quella di Kautsky era la teoria leninista del partito rivoluzionario: questo, anziché attendere che anime e cose fossero mature per il salto dialettico dal regno della necessità al Regno della libertà, doveva lottare accanitamente contro le tendenze spontanee della storia per invertirne la direzione di marcia7 .

Una tesi, quella leninista, contro la quale Rodolfo Mondolfo scese prontamente in campo ricordando che, per il materialismo storico, il potente motore del mutamento sociale era lo sviluppo delle forze produttive, non già la volontà politica. Lo era a tal punto che Marx era giunto alla conclusione che «una formazione sociale non perisce finché non siano state sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso»; e che «nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate nel seno della vecchia società le condizioni materiali della sua esistenza»8 .

Pertanto, nulla era di più estraneo all’insegnamento marxengelsiano dell’idea che una rivoluzione potesse essere realizzata indipendentemente dalle condizioni oggettive della società definite dal grado di sviluppo delle forze produttive. Il che portava Mondolfo a interpretare il materialismo storico come «un consiglio di prudenza ai rivoluzionari»9. E, a conferma della sua tesi, egli ricordò quanto Engels aveva scritto nella Guerra dei contadini:

il peggio che possa capitare al capo di un partito estremo è di venir costretto ad assumere il potere quando il movimento non è ancora maturo per il dominio della classe che rappresenta e per l’attuazione delle misure che la signoria di questa classe richiede. Quel che esso può fare non dipende dalla sua volontà, ma dal punto che i contrasti di classe hanno raggiunto e dal grado di sviluppo delle condizioni materiali di esistenza, della produzione e del traffico, sulle quali si fondano i conflitti di classe. Quel che esso deve fare, quel che il suo partito chiede da lui, nemmeno questo dipende dalla

5 Karl Kautsky, La via al potere: considerazioni politiche sulla maturazione della rivoluzione, Laterza, Bari 1969, p. 71. 6 Ivi. 7 Tutta la strategia leninista della conquista del potere si basava sulla tacita convinzione che le rivoluzioni non le facevano le classi, bensì i partiti. Di qui l’idea che, per abbattere il dominio della borghesia, era imperativo creare un soggetto demiurgico: il Partito dei rivoluzionari di professione. Cfr. al riguardo Luciano Pellicani, La società dei giusti. Parabola storica dello gnosticismo rivoluzionario, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012. 8 Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1957, p. 11. 9 Rodolfo Mondolfo, Studi sulla Rivoluzione russa, a cura del Centro Studi di Critica Sociale, Morano, Napoli 1968, p. 25.

sua volontà, ma dipende dal grado di sviluppo della lotta di classe; esso è legato alla sua dottrina, al suo programma, i quali, a loro volta, non originano dai conflitti di classe in quel dato momento, dallo stato più o meno casuale della produzione e del traffico, ma dalla maggiore o minore intelligenza e penetrazione dei risultati del movimento politico e sociale. Esso si trova così preso in un insolubile dilemma: quel che esso può fare contrasta con tutta la condotta precedente, con i suoi principi e con gli immediati interessi del suo partito; e ciò che esso deve fare non è attuabile… Chi si trova in tale disgraziata posizione è perduto10 .

Ebbene, a giudizio di Mondolfo i bolscevichi al potere si erano venuti a trovare nella posizione descritta con tanta chiaroveggenza da Engels. E questo perché essi, anziché attendere che la rivoluzione capitalistica portasse a termine la sua funzione storica – che era quella di fomentare il massimo sviluppo delle forze produttive – avevano cercato di forzare i tempi, ricorrendo alla violenza quale ostetrica della società socialista. Il risultato non poteva che essere un aborto storico.

Lenin, in altre parole, aveva dimenticato l’insegnamento fondamentale contenuto nella teoria materialistica della storia, secondo il quale le condizioni oggettive del superamento del capitalismo si sarebbero presentate in maniera piena e compiuta

solo quando lo sviluppo fosse stato maturo per la rivoluzione, cioè quando la formazione sociale preesistente avesse sviluppato la pienezza delle forze produttive, che essa era capace di dare, e preparato così alle classi più numerose, interessate al mutamento dei rapporti di proprietà, le loro condizioni materiali di esistenza. Allora la maturità spirituale delle classi rivoluzionarie avrebbe corrisposto alla maturità delle condizioni materiali: la rivoluzione era possibile perché preparata in tutto, incombeva come una necessità storica, e si attuava col fecondo risultato di un aumentato benessere per il quale si consolidava contro tutti i tentativi di ritorno al passato, non meno che contro i possibili strascichi di moti convulsi che la crisi poteva recare seco11 .

Pertanto, marxismo e leninismo erano incompatibili. Infatti, mentre per il primo lo «sviluppo maturo e competo del capitalismo era condizione necessaria della maturità della coscienza socialista»12, per il secondo la «forza politica era onnipotente: le condizioni economiche una materia duttile e malleabile a volontà»13. Il leninismo, quindi, si basava sul rovesciamento del rapporto dialettico fra la struttura – economica – e la sovrastruttura – politica. Con la conseguenza che non era la classe il soggetto protagonista della rivoluzione, bensì il Partito concepito come «avanguardia cosciente» che doveva costringere la società capitalistica a partorire la società socialista.

In tal modo, la politica – più precisamente, la violenza dello Stato-Partito – prendeva il sopravvento sull’economia e pretendeva assoggettarla ai suoi imperativi. Imboccata la strada del più estremo volontarismo, i bolscevichi avevano accumulato contraddizioni su contraddizioni, sino a sfigurare orribilmente il volto generoso del socialismo. La loro rivoluzione non era – e non poteva esserlo a motivo dell’arretratezza economica della società

10 Friedrich Engels, La guerra dei contadini, in Karl Marx-Friedrich Engels, Opere complete. Vol. 10, Editori Riuniti, Roma 1977, pp. 478-479. 11 Rodolfo Mondolfo, Studi sulla Rivoluzione russa, cit., p. 28. 12 Ibid., p. 37. 13 Ibid., p. 70.

russa – una rivoluzione socialista. Tutt’al più, poteva essere considerata una rivoluzione borghese in ritardo, grazie alla quale la Russia cercava di ridurre la distanza che la separava dai paesi già industrializzati, eliminando dal suo seno i residui del feudalesimo che ne frenavano lo sviluppo e creando un regime sui generis: il «capitalismo di Stato»14 . Un tale sistema – concludeva Mondolfo – non doveva essere confuso con il socialismo, dal momento che in esso permaneva l’alienazione degli operai rispetto agli strumenti di produzione, che appartenevano come un tutto a un nuova classe dominante: la burocrazia dello Stato-Partito.

Quando prendiamo in esame la lettura dell’Ottobre bolscevico contenuta negli scritti di Gramsci, entriamo in un universo ideologico radicalmente altro rispetto a quello in cui si muoveva Mondolfo. Mentre Mondolfo insisteva sul primato delle strutture economiche sulle sovrastrutture politico-ideologiche, Gramsci – chiaramente influenzato dalla critica idealistica del positivismo – non aveva dubbi di sorta sul ruolo decisivo dei fattori soggettivi nel processo storico. Tant’è che non ebbe esitazione alcuna a definire l’Ottobre bolscevico «la rivoluzione contro il Capitale», ossia la confutazione pratica dell’interpretazione deterministica della sociologia marxista.

I bolscevichi – a giudizio di Gramsci – non avevano punto tradito l’autentico pensiero di Marx, il quale, essendo «la continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco»,

poneva sempre come massimo fattore di storia non i fatti economici, bruti, ma l’uomo, ma la società degli uomini che si accostavano tra di loro, sviluppavano attraverso quei contatti (civiltà) una volontà sociale collettiva, e comprendevano i fatti economici, e li giudicavano, e li adeguavano alla volontà, finché questa diventava la motrice dell’economia, la plasmatrice della realtà oggettiva, che viveva e si muoveva, e acquistava carattere di materia tellurica in ebollizione, che poteva esser incanalata dove alla volontà piaceva, come alla volontà piaceva15 .

La volontà, dunque, era tutto per Gramsci, sicché l’arretratezza economica della Russia – sulla quale Mondolfo tanto insisteva – non era affatto un problema. Vero è che Gramsci riconosceva che, data la «mancanza di forza motrice e di attrezzatura industriale», i bolscevichi erano stati costretti a sciogliere i Consigli di fabbrica e a imporre ad ogni operaio la «disciplina dell’esercito rivoluzionario, con la sua fraseologia e il suo entusiasmo guerriero»16. Ma ciò, lungi dall’essere una alterazione del progetto originario, era il solo modo efficace per «arginare e combattere la psicologia piccolo-borghese e le tendenze sindacaliste-anarchiche di una parte arretrata della classe operaia russa»17. Del resto era cosa apodittica che, volere l’abbattimento del capitalismo, significava volere la rivoluzione; e che volere la rivoluzione, significava accettare sino in fondo la logica della guerra di classe. «La rivoluzione – così si esprimeva Gramsci in un articolo pubblicato sull’“Avanti!” del 24 settembre 1920 – è come la guerra; deve essere minuziosamente preparata da uno stato maggiore dell’esercito: le assemblee non possono che ratificare il già avvenuto, esaltare i successi, punire implacabilmente gli insuccessi. È compito dell’avanguardia proletaria

14 Ibid., p. 291. 15 Antonio Gramsci, Scritti politici. Vol. I, Editori Riuniti, Roma 1973, pp. 130-131. 16 Antonio Gramsci, L’Ordine Nuovo, Einaudi, Torino 1975 , p. 129. 17 Ivi.

tenere sempre desto nelle masse lo spirito rivoluzionario»18. E l’«avanguardia proletaria» era – ex definizione – il Partito comunista, il quale doveva necessariamente essere organizzato in «ferrei battaglioni di militanti»19 esattamente come «un esercito in campo»20 . Questa – la militarizzazione della lotta per il socialismo – era per Gramsci la grande lezione contenuta nella vittoriosa rivoluzione guidata da Lenin.

Come si vede, mentre per Mondolfo l’esperimento bolscevico era destinato a fallire in quanto aveva violato il fondamentale principio marxista della maturità economica, per Gramsci esso era la dimostrazione storica che, grazie al demiurgico intervento del Partito comunista, la classe operaia cessava di essere un «sacco di patate, un indistinto generico, un conglomerato amorfo di individui senza idee, senza volontà, senza indirizzo unificato»21 e «si dissolveva come classe per divenire umanità»22. Dimostrava, la rivoluzione in atto in Russia, che i fattori soggettivi – la volontà, l’ideologia, l’organizzazione, la strategia, la leadership – erano di decisiva importanza.

Era imperativo, pertanto, «fare come in Russia», cioè prendere a modello il soggetto – il Partito bolscevico creato da Lenin – che, abolendo la proprietà privata, aveva posto le basi del «primo nucleo di una società nuova»23. Ed era altresì imperativo «aderire all’Internazionale comunista; aderire alla concezione dello Stato soviettista e ripudiare ogni residuo dell’ideologia democratica»24. Donde la perentoria sentenza con la quale Gramsci concludeva il suo invito a guardare alla Russia bolscevica come a un modello da imitare: «La Rivoluzione proletaria è imposta e non proposta»25 . Iperdemocratica nel suo fine ultimo – la società senza classi e senza Stato – la rivoluzione comunista non poteva esserlo nel metodo. Infatti, a giudizio di Gramsci, «aderire all’Internazionale comunista significava essere persuasi dell’urgente necessità di organizzare la dittatura proletaria»26 poiché la classe operaia, «per compiere la sua missione, voleva tutto il potere»27. Tale richiesta – affatto incompatibile con quella che Gramsci definiva «la legge suprema della società capitalistica: la libera concorrenza fra tutte le energie sociali»28 – era una esigenza imprescindibile, se si voleva effettivamente abbattere il giogo del Capitale e aprire il cantiere della costruzione della società socialista.

«Noi siamo persuasi, dopo le esperienze rivoluzionarie della Russia, dell’Ungheria e della Germania», così suona la giustificazione della dittatura di transizione avanzata da Gramsci,

che lo Stato socialista non può incarnarsi nelle istituzioni dello Stato capitalistico, ma è una creazione fondamentalmente nuova per rispetto ad esse, se non rispetto alla storia del proletariato. Le istituzioni dello Stato capitalistico sono organizzate ai fini della libera concorrenza; ma non basta

18 Ibid., p. 171. 19 Ibid., p. 115. 20 Ibid., p. 12. 21 Ibid., p. 122. 22 Ibid., p. 136. 23 Ibid., p. 9. 24 Ibid., p. 20. 25 Ibid., p. 27. 26 Ibid., p. 28. 27 Ibid., p. 79. 28 Antonio Gramsci, Scritti giovanili, Einaudi, Torino 1978, p. 236.

mutare il personale per indirizzare in un altro senso la loro attività. Lo Stato socialista non è ancora il comunismo, cioè l’instaurazione di una pratica e di un costume economico solidaristico, ma è lo Stato di transizione che ha il compito di sopprimere la concorrenza con la soppressione della proprietà privata, delle classi, delle economie nazionali; questo compito non può essere attuato dalla democrazia parlamentare29 .

Sennonché i socialisti «non avevano compreso che in qualunque momento la lotta delle classi si poteva convertire in guerra aperta, la quale non poteva finire che con la presa del potere da parte del proletariato»30. E non avevano compreso che, con la rivoluzione d’Ottobre, una nuova era storica era iniziata: l’era della «ricostruzione del mondo»31, che avrebbe avuto quale protagonista assoluta l’Internazionale comunista.

Ma non è tutto. L’adesione di Gramsci all’ideologia totalitaria di Lenin fu così completa – una vera e propria identificazione mistica che lo portò ad aggredire con la massima violenza settaria i riformisti, rei di aver tradito la classe operaia32 – che fece propria la più tremenda delle idee con le quali i bolscevichi stavano riplasmando la società russa: la rivoluzione come sterminio di tutte le categorie sociali giudicate oggettivamente incompatibili con l’economia centrata sul piano unico di produzione e di distribuzione. In un articolo pubblicato su “L’Ordine Nuovo” nel dicembre 1919, egli faceva eco a quanto Lenin aveva ossessivamente reiterato – e cioè che la «missione storica» del Partito comunista era quella di scatenare «la violenza sistematica nei confronti della borghesia e dei suoi complici»33 al fine di «ripulire il suolo della Russia di qualsiasi insetto nocivo, delle pulci: i furfanti; delle cimici: i ricchi, ecc.»34 – affermando perentoriamente che la «superiore lotta di classi fra proletari e capitalisti» non poteva non investire anche il destino della piccola e media borghesia.

La piccola e media borghesia era infatti la barriera di una umanità corrotta, dissoluta, putrescente con cui il capitalismo difendeva il suo potere economico e politico, umanità servile, abietta, umanità di sicari e di lacché, diventata la serva padrona che voleva prelevare sulla produzione taglie superiori non solo alla massa di salario percepita dalla classe lavoratrice, ma alle stesse taglie prelevate dai capitalisti; espellerla dal campo sociale, come si espelle una volata di locuste da un campo semidistrutto, col ferro e col fuoco, significa alleggerire l’apparato nazionale di produzione e di scambio da una plumbea bardatura che lo soffoca e gli impedisce di funzionare, significa purificare l’ambiente sociale35 .

Alla luce d’una siffatta idea della costruzione della società comunista – la rivoluzione come sanguinosa purificazione della società corrotta dallo spirito borghese – lo sterminio dei kulaki, attuato a partire dal momento in cui Stalin scatenò il Grande Terrore, non può

29 Ibid., p. 37. 30 Antonio Gramsci, Socialismo e fascismo, Einaudi, Torino 1974, p. 103. 31 Antonio Gramsci, L’Ordine Nuovo, cit., p. 9. 32 Sul punto, è fondamentale il libro di Alessandro Orsini, Gramsci e Turati: le due sinistre, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012. 33 Vladimir Il’ič Lenin, Chi è spaventato dal crollo del vecchio e chi lotta per il nuovo, in Id., Opere complete. Vol. XXVI, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 384. 34 Vladimir Il’ič Lenin, Come organizzare l’emulazione, ibid., p. 394. 35 Antonio Gramsci, L’Ordine Nuovo, cit., p. 61.

essere considerato una perversione del progetto originario. Al contrario, tale sterminio fu la logica conseguenza di quella che fu l’ossessione di Lenin e di Gramsci: la creazione d’un Ordine Nuovo nel quale tutto ciò che sapeva di borghesia doveva essere estirpato.

E ciò andava fatto con la massima spietatezza, come risulta dall’episodio riferito da Giacinto Menotti Serrati in una delle lettere inviate da Mosca all’“Avanti!”. A Serrati, che aveva espresso dubbi circa la possibilità di conciliare la meta finale del comunismo con la NEP, che si basava sulla reintroduzione della piccola proprietà privata, uno dei massimi dirigenti del Partito bolscevico – molto probabilmente Preobraženskij – così rispose:

I nepman non sono ancora una classe e non li lasceremo diventare tale: sono individui che mirano ad approfittare della situazione per godere e arricchire […]. Siamo troppo forti noi: possiamo giocare con loro come il gatto col topo […]. Li nutriamo noi oggi, i nepman, come i patrizi facevano con le murene. Con questa differenza, che noi li nutriamo con la loro stessa carne: lasciamo che si divorino reciprocamente: il più grosso mangia il più piccolo. Ma li consociamo questi squali e la loro vita è nelle nostre mani: un bel giorno chiuderemo gli sbocchi e faremo una colossale retata. Sarà una nuova fase della rivoluzione36 .

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