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Guido Carpi

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Guido Carpi I marxisti russi nel 1917 (dal Febbraio all’Ottobre)

1. I marxisti russi arrivano all’appuntamento di febbraio in ordine sparso e del tutto impreparati: «Non solo le vergini folli del liberalismo, ma anche le vergini sagge dei partiti di sinistra avevano dimenticato di prender con sé l’olio per le proprie lucerne» – commenta a inizio aprile 1917 il matematico e teorico marxista Pavel Juškevič sull’organo dei socialisti moderati1 .

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Trasversali rispetto alla tradizionale dicotomia bolscevichi/menscevichi, le divergenze fra i marxisti russi dei tardi anni Dieci riguardano le questioni più diverse: 1) la forma-partito, coi “liquidatori” di Aleksandr Potresov – destra menscevica – decisi a rottamare la struttura illegale del POSDR (Partito Operaio Socialdemocratico Russo) per fondare una socialdemocrazia “normale” di tipo tedesco, i menscevichi centristi e di sinistra a tutela di un partito illegale ma il più possibile inclusivo, e i bolscevichi fedeli alla loro idea di partito-falange dei “rivoluzionari di professione” 2) la guerra, salutata dai “socialpatrioti” – ancora Potresov e il patriarca del marxismo russo Georgij Plechanov – come prova di maturità “nazionale” del proletariato, avversata in chiave pacifista dagli altri menscevichi, considerata da Aleksandr Bogdanov come un fenomeno entropico e da Lenin e Trockij come autodistruzione dell’imperialismo e levatrice della futura rivoluzione mondiale 3) la tattica rivoluzionaria, ovvero le lezioni da trarre dal fallimento del 1905: i menscevichi sostengono che la rivoluzione si debba fare di comune accordo con la borghesia, altrimenti quest’ultima si spaventa e svolta verso lo zarismo; i bolscevichi, al contrario, considerano la borghesia agiata una classe conservatrice e vogliono alleare il proletariato ai contadini – da loro visti come piccola borghesia dal potenziale rivoluzionario prezioso, se trainato dal proletariato. C’è poi la piccola accolita dei seguaci di Lev Trockij – detti mežrajoncy (comitato interrionale), i cui circa 4.000 membri confluiscono nelle file bolsceviche nell’estate 19172 – che teorizzano 4) la rivoluzione permanente, ossia il principio secondo cui l’innesco di un tentativo socialista è più facile in Russia che altrove – dati lo sviluppo capitalistico squilibrato e la debolezza della borghesia locale – ma il processo dovrà necessariamente estendersi al resto d’Europa, pena il soffocamento della rivoluzione nella sola Russia 5) addirittura gli assunti gnoseologici: i seguaci di Bogdanov e del suo “empiriomonismo” sono convinti che la “realtà” – tanto quella attingibile sul piano epistemologico-scientifi-

1 Pavel Juškevič, Tvorčeskaja revoljucija [La rivoluzione creativa], “Den’”, 6 aprile 1917, p. 3. 2 Vedi ad esempio Nikolaj Nikolaevič Suchanov, Cronache della rivoluzione russa. Vol. 1, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 106 n. e passim.

co che quella sociale – sia solo un prodotto dell’esperienza collettiva organizzata, e che il fattore che organizza tale esperienza sia il lavoro; tutti gli altri marxisti ritengono l’“empiriomonismo” una forma mascherata di idealismo piccolo-borghese e protestano contro la vanificazione di una realtà oggettiva e pienamente conoscibile. Concordi nell’impostazione filosofica, gli empiriomonisti sono sparsi però per tutte le fazioni della socialdemocrazia russa: Bogdanov era stato bolscevico, ma nel 1917 è senza partito, Juškevič è un socialpatriota potresoviano, l’economista Vladimir Bazarov è un menscevico di sinistra vicino a Julij Martov, e Anatolij Lunačarskij è un mežrajonec seguace di Trockij3. Persiste inoltre l’endemica dialettica fra i marxisti – dal punto di vista partitico, i socialdemocratici delle varie correnti – e gli eredi del populismo, organizzati nel Partito Socialista-Rivoluzionario, da cui il nomignolo di esèry: l’opzione marxista – operaista e “occidentalista” – e quella populista – rurale e “autoctona” – erano ben distinte, ma consentivano posizioni intermedie, come ad esempio quelle del marxista populisteggiante Nikolaj Suchanov o del populista marxisteggiante Viktor Černov4 .

2. Crollato in pochi giorni lo zarismo e instauratasi la peculiare diarchia fra soviet e governo provvisorio5, si tratta ora di operare nette scelte di campo, tanto più che il carattere così repentino quanto tardivo della rivoluzione russa conferisce fin da subito un forte peso agli schemi retrospettivi desunti dalle analisi di Marx in merito alle rivoluzioni del 178994, del 1848 e del 1871: «Ancora non hanno fatto in tempo a inebriarsi del vino rivoluzionario» ironizza Juškevič, che già i capi dei partiti socialisti «provano tutto il doposbornia della controrivoluzione»6. Nei mesi fra il febbraio e l’Ottobre – e oltre! – i marxisti russi vivono di fantasmi storiografici: timori di una «Vandea» monarchica, di un «termidoro» borghese, di un «Bonaparte» controrivoluzionario, di un «18 brumaio», di un esito simile a quello della Comune di Parigi...

Dato questo carattere «retrospettivo» della rivoluzione, «la questione cardinale del momento» è, per i leader socialisti, «la questione sul carattere del potere»7, ossia sul pericolo

3 Dopo l’Ottobre, gli ex bogdanoviani indirizzeranno in larga misura la nascente cultura sovietica e loro creatura sarà ad esempio il Proletkul’t o Movimento per la Cultura Proletaria: vedi Guido Carpi, Storia della letteratura russa. Vol. 2. Dalla rivoluzione d’Ottobre a oggi, Carocci, Roma 2016, pp. 43 sg. 4 Su queste e altre diatribe fra marxisti fino al 1917, e sulla bibliografia pregressa, vedi Guido Carpi, Il marxismo russo e sovietico fino a Stalin, in Storia del marxismo. Vol. 1. Socialdemocrazia, revisionismo, rivoluzione (1948-1945), a cura di Stefano Petrucciani, Carocci, Roma 2015, pp. 101145. 5 Sui momenti salienti del processo rivoluzionario, vedi soprattutto Aleksandr Rabinovič, Bol’ševiki prichodiat k vlasti: Revoljucija 1917 goda v Petrograde [I bolscevichi giungono al potere: la rivoluzione del 1917 a Pietrogrado], Progress, Moskva 1989; Ettore Cinnella, Storia universale. Vol. 22. La rivoluzione russa, Corriere della sera, Milano 2005; infine Id., 1917: la Russia verso l’abisso, Della Porta, Pisa-Cagliari 2012. 6 Pavel Juškevič, Tvorčeskaja revoljucija, cit., p. 3. 7 Ziva Galili y Garcia-Al’bert Pavlovitch Nenarokov, Krizis koalicionnoj politiki i usilenie centrobežnych tendencij v men’ševistkoj partii [La crisi della politica di coalizione e il rafforzamento delle tendenze centrifughe nel partito menscevico], in Men’ševiki v 1917 godu [I menscevichi nel 1917]. Tom 2. Ot ijul’skich sobytij do kornilovskogo mjateža [Dai fatti di luglio alla ribellione di Kornilov], Rosspen, Moskva 1995, p. 18.

di un’involuzione controrivoluzionaria – «Vandea», «Termidoro», «18 brumaio», ecc. – e sulla tattica preferibile per scongiurarla, senza però cadere nell’avventurismo massimalista: accompagnare dall’esterno le trasformazioni borghesi, vigilando sul loro carattere progressivo? Concorrere ad esse con ruoli di governo? Rompere subito con la borghesia, impedendole di consolidarsi? E quali precise scelte in merito ai rapporti di proprietà e di produzione – tanto nelle campagne che nel settore manifatturiero – avrebbero comportato le differenti tattiche?

Nei primi mesi dopo la rivoluzione di febbraio, nei rinati soviet è pressoché incontrastata l’egemonia dei menscevichi, o meglio della loro corrente centrista, rappresentata da Nikolaj Čcheidze, il Presidente del mastodontico Soviet di Pietrogrado – 850 delegati operai e 2.000 delegati soldati. Nei confronti del primo governo provvisorio, la linea di condotta dettata dai menscevichi ai soviet è di non partecipare direttamente al governo “borghese”, ma di sostenerne l’azione nella misura in cui essa sia diretta all’approfondimento della rivoluzione, al conseguimento di una pace generale senza annessioni e all’elezione di un’assemblea costituente basata sul suffragio universale, paritario, diretto e segreto. Inizialmente, tale linea di condotta soddisfa sia la sinistra menscevica – dato che l’assenza di vincoli precisi fra i soviet e il governo dà spazio a un “approfondimento”della rivoluzione in senso socialista – sia la destra, in quanto presuppone il necessario carattere “borghese” di questa fase rivoluzionaria, ove la fraseologia socialista va considerata un mero décor: «Sotto il manto degli slogan socialisti, sotto il sembiante dell’egemonia del proletariato e dei contadini, da noi si sta consolidando il dominio della borghesia», nota Juškevič tutto soddisfatto. «Nella storia, questa è la terza metamorfosi di fila, la terza maschera – e, pensiamo, l’ultima – della rivoluzione borghese: all’ideologia religiosa degli Ironsides puritani di Cromwell è seguita l’ideologia puramente razionale, egualitaria dei seguaci di Danton e Robespierre, e come ultimo anello di questa catena abbiamo di fronte i paramenti socialisti della nostra propria rivoluzione»8 . Se la genericità della strategia adottata serve a tenere insieme le differenti anime mensceviche e ad assicurare al POSDR l’egemonia sui soviet, essa è però inadatta a definire le concrete mosse tattiche: nel corso dei mesi, l’ombrello da essa fornito dovrà dilatarsi a dismisura, e i menscevichi perderanno tanto la coesione interna quanto il controllo dei soviet.

I primi a “tirare la coperta” sono i centristi di Iraklij Cereteli, leader menscevico emerso politicamente come capogruppo alla Duma, e dunque uno dei pochi socialisti ad avere esperienza parlamentare9: questi inizia subito un’energica campagna affinché rappresentanti socialisti dei soviet entrino nel governo. Dal canto loro, i dirigenti bolscevichi presenti a Pietrogrado – Iosif Stalin, Lev Kamenev – tentano inizialmente di smussare le polemiche con la maggioranza menscevica del soviet e di ritagliarsi il ruolo d’opposizione costruttiva. È Lenin, con le sue quattro Lettere da lontano [Pis’ma izdaleka] – scritte a Zurigo dal 20

8 Pavel Juškevič, Revoljucija i ee djalektika [La rivoluzione e la sua dialettica], “Den’”, 7 luglio 1917, p. 3. 9 Pupillo di Aksel’rod e ammiratore di Bernstein, Cereteli si era già attirato gli strali di Lenin nel 1907, quando – capogruppo alla Duma – aveva tentato di coinvolgere il partito cadetto – liberale – nella «municipalizzazione» delle terre nobiliari a favore dei contadini, secondo il programma elaborato dall’economista menscevico Pёtr Maslov. Secondo Lenin, la terra andava invece nazionalizzata senza indennizzo, e i cadetti non potevano in alcun modo essere visti come alleati.

al 25 marzo 1917 in attesa di poter tornare in patria, e di cui solo la prima viene pubblicata sulla “Pravda” – a chiedere l’immediata rottura fra il soviet e il governo, l’unione fra tutte le forze proletarie e l’inizio d’una nuova fase rivoluzionaria: «Giunto a Pietroburgo, neanche per un minuto egli si era sentito l’ala sinistra di un fronte socialista composto da molte frazioni, ma fin dal principio si era imposto come centro decisivo degli eventi»10 .

Dopo le giornate di luglio, le divergenze nel gruppo dirigente menscevico si approfondiscono, soprattutto in merito alla fondamentale questione del potere: proseguire la politica di coalizione coi partiti democratici non socialisti oppure formare un governo che sia totalmente espressione dei soviet, nei quali in primavera-estate i menscevichi detenevano ancora la maggioranza. La seconda opzione pare impraticabile ai leader menscevichi, dato che un governo sovietico senza i rappresentanti della borghesia farebbe prevalere le posizioni più radicali – «da Martov a Lenin», si diceva11 – forti nel Soviet di Pietrogrado ma minoritarie nel resto del Paese, mettendo così a dura prova la stessa coesione nazionale. Come sempre, Trockij occupa una posizione a parte. Convintosi definitivamente, dopo i fatti di luglio, che il governo provvisorio e i soviet non possano costituire gli elementi di un’unica dialettica istituzionale, ma rappresentino «due diversi regimi che si appoggiano su classi diverse», egli vede nei soviet l’incarnazione delle proprie vecchie teorie, ossia l’istituto capace di «indirizzare e trasformare la vita economica nell’interesse delle masse lavoratrici», generando la reazione a catena della «rivoluzione permanente»: infatti, «la rivoluzione russa è in grado di dare al movimento rivoluzionario in Occidente un impulso tanto più potente, con quanta più decisione e coraggio essa supera la resistenza della propria borghesia»12. Di qui la rottura definitiva di Trockij coi menscevichi e la confluenza del suo gruppo nel Partito bolscevico in agosto.

Quanto ai menscevichi, la frattura fra essi – che paralizza l’azione del partito e mette a dura prova rapporti umani consolidati in decenni di lotte – è frutto non solo di diverse analisi della situazione, ma anche di atteggiamenti psicologici differenti: i “difensisti rivoluzionari” come Fëdor Dan e Cereteli si sentono in primo luogo uomini di governo, portatori d’una responsabilità complessiva per l’integrità territoriale del Paese, per il mantenimento della sua ossatura istituzionale e giuridica; i menscevichi-internazionalisti, al contrario, si sentono più rivoluzionari, prosecutori del cammino iniziato dall’umanità nel 1789, e temono in primo luogo una controrivoluzione “termidoriana”. Per gli uni e per gli altri, comunque, vale il tradizionale spauracchio menscevico dell’isolamento politico della

10 Fëdor Stepun, Byvšee i nesbyvšeesja [Ciò che è stato e ciò che non è stato]. Vol. 2, Izdat. Imeni Čechova, New York 1956, p. 45. 11 Il fatto che Martov e Lenin durante il 1917 vengano spesso considerati simili nel loro “massimalismo”, ci consente qui di marcare la loro differenza fondamentale: «Fin quasi dall’inizio della sua attività politica, Lenin fu consapevole che la conquista e l’utilizzo del potere politico rappresentavano di per sé la leva decisiva nel processo di trasformazione più profonda della struttura sociale e nei rapporti fra i diversi gruppi sociali e politici […]. Per Martov, al contrario, il potere politico di per sé rappresentava solo un riflesso di più profondi cambiamenti nell’autodefinizione, mobilizzazione e organizzazione sociale e politica dei diversi gruppi sociali», in Men’ševiki v 1917 godu [I menscevichi nel 1917]. Tom. 3\2. Ot Vremennogo Demokratičeskogo Soveta Rossijskoj Respubliki do konca dekabrja [Dal Consiglio Democratico Provvisorio della Repubblica Russa alla fine di dicembre], Rosspen, Moskva 1997, p. 57. 12 Lev Trockij, Čto že dal’še? (Itogi i perspektivy) [E poi? (Risultati e prospettive)], Priboj, Peterburg 1917, pp. 6, 7.

classe operaia: tale esito – causa della sconfitta del 1905 – si deve evitare ad ogni costo, secondo gli uni coinvolgendo i partiti democratici non socialisti nell’attività di governo, secondo gli altri coinvolgendo in particolar modo i socialisti rivoluzionari e le masse contadine, e addirittura i bolscevichi meno estremisti.

3. Un compromesso ancora accettabile per entrambe le ali del menscevismo è la formazione – subito dopo l’abbandono del governo da parte dei ministri cadetti e gli scontri di luglio – di un nuovo governo a guida socialista – due menscevichi e due esery – con una minoranza di ministri “borghesi” e la presidenza data all’unica personalità che possa tutelare gli uni e gli altri: l’eser moderato Aleksandr Kerenskij. Il programma del governo appare come un’espressione della volontà dei soviet, ma era in realtà imposto a questi ultimi da quei leader socialisti che sarebbero poi entrati a far parte del governo stesso: appello all’elezione di un’assemblea Costituente, congelamento dei rapporti di proprietà nelle campagne fino alla riforma agraria che la Costituente avrebbe promosso, concertazione coi soviet nelle questioni industriali e commerciali; ma anche mano libera del governo contro “l’anarchia”, reintroduzione della pena di morte al fronte e obbligo di consegna delle armi da parte dei civili.

Il 13 luglio, i soviet mondati dai bolscevichi, che dopo gli scontri di piazza erano tornati illegali, accettano tale programma, suscitando le rimostranze della sinistra menscevica e, al contrario, il vivo apprezzamento di Potresov: il governo provvisorio «deve, come il leggendario Anteo, poggiare sulla madre Terra per ottenere la forza che gli manca. Gli serve il terreno sotto i piedi, un saldo terreno rappresentato dalle forze organizzate di tutta la Russia rivoluzionaria»13. Alla conferenza di partito pochi giorni dopo, Martov dichiara che il governo sta tentando di «attaccare i soviet dietro la carrozza del potere», e che è necessaria una diretta assunzione di responsabilità di governo da parte dei soviet14 .

Come sempre, le diverse opzioni si basano su exempla tratti da rivoluzioni precedenti: secondo Potresov e i suoi, una Pietrogrado «ultrarivoluzionaria» guidata dai soviet rischia di staccarsi dal resto del Paese, di contrapporsi ad esso e di fare la fine della Comune di Parigi, per cui è necessario «tessere fili fra Pietrogrado e il Paese, e cercare nel sostegno organizzato del Paese [ossia in un governo di coalizione] l’antidoto ai gas venefici dell’anarchia della capitale»15. Martov, al contrario, paventa un «Termidoro» o un «18 brumaio» se i soviet non prendono direttamente il potere: «o la democrazia rivoluzionaria prende su di sé tutta la responsabilità per la rivoluzione, oppure essa perde la propria voce in capitolo per gli sviluppi futuri di questa»16. Alla conferenza menscevica di Pietrogrado, le votazioni finiscono praticamente alla pari fra i due gruppi – con una leggera prevalenza dei “difensisti” – tanto che ogni presa di posizione del partito viene rimandata.

Se in marzo-aprile la maggior parte dell’intelligencija democratica vedeva nell’alleanza coi partiti socialisti la garanzia per un futuro di progresso e di pace sociale, in seguito

13 Aleksandr Potresov, Apelljacija k strane [Appello al Paese], “Den’”, 5 luglio 1917, p. 3. 14 Men’ševiki v 1917 godu. Tom. 2, cit., p. 158. 15 Aleksandr Potresov, Apelljacija k strane, cit., p. 3. 16 Men’ševiki v 1917 godu. Tom 2, cit., p. 158. Si noti che gli autori socialisti del periodo utilizzano il termine «democrazia» non nel senso di uno specifico assetto istituzionale, ma in quello di esercizio del potere da parte dei ceti popolari o delle pratiche di lotta e di organizzazione volte all’ottenimento di tale potere: in tal senso, la «democrazia rivoluzionaria» coincide per molti con il soviet.

i tumulti di inizio luglio, le sconfitte militari e la disintegrazione progressiva del tessuto sociale e amministrativo suggeriscono a quella stessa intelligencija che ormai il paese sia spaccato fra una minoranza colta e responsabile e una massa anarchica, e che qualsiasi forma di cooperazione coi soviet e coi partiti socialisti sia impossibile. Per quanto Cereteli insista che «gli ideali della democrazia, la politica che la persegue insieme alle forze vive del Paese sono quella bussola che ci sta di fronte e secondo la quale noi indirizzeremo la nave dello Stato»17, l’attività dei ministri socialisti nel governo è bloccata e stretta fra i due fuochi dell’ala massimalista e delle pressioni normalizzatrici che iniziano a farsi sentire da parte dei circoli industriali, commerciali e finanziari: questi ora esigono lo svincolamento del governo dai soviet, la cessazione di ogni riforma fino alla Costituente e un rapido ritorno all’ordine tanto al fronte quanto nelle retrovie.

Eppure, anche se la borghesia russa si sposta verso destra, una sintesi politica va cercata con la «rappresentanza reale, non decorativa» di tale borghesia, e – insiste Potresov – la deriva controrivoluzionaria di quest’ultima può essere fermata solo «se saremo inflessibili nella nostra rinuncia al massimalismo politico ed economico di larghe masse popolari»18; in polemica coi menscevichi internazionalisti, Potresov paragona questi ultimi al Capo di Stato Maggiore russo Rennenkampf, che – ordinando attacchi irrealistici dettati da un’irrazionale smania di vittoria – aveva condotto le truppe russe a numerosi smacchi sui fronti della guerra mondiale. Qui la vecchia volpe del menscevismo moderato e “patriottico” ribadisce la propria concezione di «classe», introducendo la distinzione fra un «istinto di classe» primitivo e distruttore e una «coscienza di classe» come vettore di autentico progresso. Quest’ultima non solo ammette, ma richiede ampie alleanze sociopolitiche in nome dell’«egemonia» sull’intero corpo sociale e della realizzazione di compiti nazionali generali:

Essa conosce le manovre di aggiramento. Conosce la guerra di posizione. Conosce mille combinazioni complesse, e innanzitutto ha imparato come – distinguendo fra gli uni e gli altri – si possono combinare i propri nemici in modo tale da servirsi degli uni contro gli altri, e ottenere così risultati importantissimi, che il proletariato con le sue sole forze non avrebbe ottenuto19 .

Ma la dottrina potresoviana di un’ampio fronte sociopolitico che si coagula dialetticamente intorno a generali compiti nazionali e senza fretta nè scosse muove alla loro realizzazione, cozza contro la logica convulsa dei fatti: le dinamiche sociopolitiche del 1917 portano allo scontro fra «istinti di classe», non alla «coscienza di classe» e al suo pacifico dispiegamento. Nè le grane vengono solo dai bolscevichi, dato che l’intelligencija non socialista si sta posizionando sempre più a destra e percepisce ormai l’intero campo socialista come una minaccia: «La zuffa fra “moderati” e bolscevichi non deve ingannare», si appunta un noto giornalista moscovita, rappresentante della borghesia benpensante: «con tutti i loro “nella misura in cui”, i ‘moderati’ sono determinati a divorarci tanto quanto i

17 Ibid., p. 162. 18 Aleksandr Potresov, Puti k soglašeniju, [Le vie verso un accordo] “Den’”, 14 luglio 1917, pp. 3, 4. 19 Aleksandr Potresov, Iskusstvo generala Rennenkampfa [L’arte del generale Rennenkampf], ibid., 18 luglio 1917, p. 3.

bolscevichi. Qui si discute “non sul se, ma sul come”: sulla salsa in cui noi andiamo cucinati perché si venga più gustosi»20 .

4. Nato nel 1915 grazie agli sforzi di Maksim Gor’kij, il mensile “Letopis’” – “Cronaca” – è l’unico periodico legale a rivendicare una posizione antibellica e a chiamare i marxisti russi non difensisti a un’unità d’analisi e d’azione. Particolarmente interessanti sono i pochi numeri usciti nel 1917, quando, cadute le difficoltà e le censure opposte alla rivista da parte del regime, i collaboratori di “Letopis’” poterono articolare al meglio la propria analisi della fase rivoluzionaria e i propri auspici sui suoi sviluppi.

A dare il la è in aprile Bazarov, teorico di punta, insieme a Gor’kij, dei marxisti “internazionalisti” – fautori d’una linea unitaria fra i bolscevichi più cauti e la sinistra menscevica – con un’analisi delle forze sociali nel contesto rivoluzionario. Del tutto in linea con la tradizione bogdanoviana è il richiamo di Bazarov all’organizzazione del movimento rivoluzionario, un’organizzazione spontanea, dal basso, che deve tradurre le confuse aspirazioni delle masse in una cosciente opera di edificazione sociale. Non meno di Potresov, Bazarov paventa il prevalere d’un «istinto di classe» primitivo e distruttivo, ma se il leader della destra menscevica contrappone ad esso una «coscienza di classe» promotrice di larghe intese, Bazarov chiede al proletariato di superare la fase magmatica per «intensificare la differenziazione classista» e diventare ceto classe di governo:

Molti vedono negli eventi dei nostri giorni un processo di intensificazione della differenziazione classista della nostra società. Purtroppo non è così. Una precisa coscienza degli interessi di classe, la traduzione di tali interessi in piattaforme programmatiche elaborate con scrupolosità e sistematicamente realizzate, significherebbe superare davvero quell’anarchia di cui attualmente ci si lamenta tanto, sia a destra che a sinistra. Nei fatti, abbiamo di fronte non un processo consapevole di organizzazione classista della società, ma aggregazioni elementari e caotiche sulla base di pulsioni istintive: l’istintiva sfiducia nei confronti dell’uomo in bombetta da una parte, l’istintivo terrore nei confronti dell’uomo col berretto dall’altra21 .

Se per Potresov il superamento dello spontaneismo classista deve rendere possibile affrontare compiti di interesse generale per l’intera nazione – la difesa della patria, il ristabilimento d’un quadro istituzionale condiviso – per Bazarov il «processo cosciente di organizzazione classista della società» deve portare in primo luogo a una trasformazione dell’economia in senso collettivistico. Ma i partiti politici dell’epoca attuali non sono né possono essere il motore di tale processo – come, da punti di vista diversi, pensavano bolscevichi e menscevichi – dato che nella propria anacronistica struttura ereditata dal ben diverso contesto pre-1917 essi sono se mai un ostacolo al dispiegarsi delle potenzialità democratiche delle masse: «Uno dei passi più necessari, impellenti per consolidare

20 Vladimir A. Amfiteatrov-Kadašev, Stranicy iz dnevnika [Pagine dal diario] in “Minuvšee”, almanacco di memorialistica, Vol. 20, Atheneum, Moskva 1996, p. 464. Sul ruolo della destra menscevica nel 1917, vedi anche: Al’bert Nenarokov, Pravyj men’ševizm: Prozrenija rossijskoj social-demokratii [Il menscevismo di destra: le intuizioni della socialdemocrazia russa], Novyj chronograf, Moskva 2011. 21 Vladimir A. Bazarov, Pervye šagi russkoj revoljucii [I primi passi della rivoluzione russa], “Letopis’”, n. 2-3-4 1917, p. 385.

la rivoluzione spingendola avanti è la riorganizzazione in senso europeo dei nostri partiti socialisti»22. Dove europeo non vuol dire “nazional-patriottico” – come per Potresov – ma “acculturatore” e “organizzatore”.

Nel successivo numero di giugno, Bazarov tenta di tracciare le linee d’una possibile trasformazione socialista dell’economia. Secondo un’analisi qui non dissimile da quella leniniana, la «porta girevole» verso una nuova organizzazione dell’economia è per lui la guerra: «La guerra in corso non solo ha ‘discreditato’ l’imperialismo, non solo ha mostrato in negativo i tanti aspetti della sua inconsistenza, ma ha anche preparato in positivo l’assetto futuro, ha gettato alcuni fondamenti materiali del socialismo»23 .

Al contrario dell’ex maestro Bogdanov – che, come accennato in apertura, considera il “comunismo di guerra” un pernicioso fenomeno di entropia sociale – e in misura anche superiore a Lenin – al tempo occupato più che altro da questioni di tattica per la presa armata del potere e per l’instaurazione della dittatura del proletariato – a metà del 1917 Bazarov teorizza il dipanarsi di una serie di forme transitorie di organizzazione economica – dal monopolio statale della distribuzione a quello del commercio, fino alla gestione statale della produzione – verso il socialismo, sotto lo stimolo dell’economia di guerra: «Regolare davvero la distribuzione diviene possibile solo a partire dal momento in cui lo Stato prende sotto il proprio controllo tutto il sistema dell’economia nazionale, fino a organizzare secondo un piano determinato i settori più avanzati della produzione»24 .

Il passaggio del movimento socialista dalla rivendicazione «difensiva» di diritti e tutele per i lavoratori alla realizzazione «propositiva» di nuove forme d’organizzazione del lavoro, è tanto più impellente quanto più passivo e parassitario si rivela il ceto padronale russo. Privati della tradizionale tutela dello Stato zarista, gli imprenditori si dedicano addirittura al sabotaggio della produzione, nella speranza di piegare così la controparte operaia, e contribuiscono alla disorganizzazione generale dell’economia nazionale: «Nelle condizioni russe attuali, organizzare la produzione sotto il controllo statale è innanzitutto un’esigenza proletaria, non osservarla mette in pericolo mortale non solo tutte le conquiste del proletariato, ma la sua stessa esistenza come classe»25 .

Classe operaia e ceto ingegneristico, dunque, devono saldarsi nella grande opera di riorganizzazione dell’industria, e soli possono trasformare i trusts dell’economia militare di Stato in una prima rete produttiva socialista, senza neanche bisogno d’espropriare formalmente il padrone. La grande utopia bogdanoviana – in una forma peraltro avversata dallo stesso Bogdanov – si ripresenta così nel contesto d’una rivoluzione in corso, come sbocco alternativo al moderatismo menscevico – lasciar fare alla borghesia, poi si vedrà – e al massimalismo bolscevico – prendere il potere, poi si vedrà. Ciò che conta è l’organizzazione del lavoro, che si darà spontaneamente in forma socialista quando le due metà del lavoro – l’ingegnere e l’operaio, non più divisi dallo scoglio insuperabile dell’appropriazione del plusvalore da parte del capitalista – si fonderanno in una sola unità di produzione: «Da folla in rivolta contro gli oppressori, capace solo di avanzare ‘pretese’ e di attendere che qualcun altro le soddisfi, la classe operaia deve trasformarsi in quadri rigidamente

22 Ivi. 23 Vladimir A. Bazarov, Kuda my idem? [Dove stiamo andando?], “Letopis’”, n. 5-6 1917, p. 236. 24 Ibid., pp. 236, 237. 25 Ibid., p. 239.

organizzati di attivisti responsabili di fronte alla nazione, capaci di tradurre in vita con saldezza, coerenza e disciplina le proprie stesse direttive»26 .

5. Ai grandi manifesti teorici di “Letopis’”, Bazarov affianca a partire dalla primavera una fitta serie d’interventi di carattere più specifico sulle colonne del quotidiano “Novaja žizn’” (“Vita nuova”), anch’esso patrocinato da Gor’kij27 e certo capace d’esercitare un’influenza più capillare nel contesto d’una realtà in continua trasformazione, rispetto al farraginoso mensile.

Già a inizio maggio, ad esempio, Bazarov pungola il nuovo governo di coalizione liberal-socialista a muoversi verso una centralizzazione pianificata dell’economia, coinvolgendo l’intelligencija tecnica e i soviet, ma dissuade questi ultimi dal seguire i consigli della “Pravda” leninista in merito a una presa diretta del potere28. La conquista ideologica dell’intelligencija a un piano di trasformazione pianificata dell’economia – conquista che Gramsci avrebbe chiamato «esercizio dell’egemonia» – dev’essere realizzata dal proletariato e dai suoi rappresentanti, i soviet, per via graduale, sfruttando le contraddizioni fra l’intelligencija tecnica stessa e il padronato industriale, deciso a sabotare ogni riforma dell’economia in senso progressivo. Le cause oggettive del ruolo disorganizzativo dell’impresa privata in questa fase economica sono riassunte da Bazarov con un pathos che farà presa anche su Lenin:

La guerra e la rovina economica e finanziaria, che ne è la conseguenza, hanno creato uno stato di cose nel quale l’interesse privato dell’imprenditore non è rivolto a consolidare e ad espandere ma solo a distruggere le forze produttive del paese. Attualmente è più vantaggioso – in attesa di un aumento dei prezzi – tenere inattive le imprese in cui il capitale è investito anziché metterle in azione; è più vantaggioso produrre, nelle condizioni più disastrose per il paese, materiale bellico che non serve a niente, anziché soddisfare coscienziosamente le necessità più urgenti delle masse popolari; e niente è più vantaggioso della costruzione di nuove fabbriche di armamenti, che non saranno mai utilizzate, perché potranno entrare in funzione solo fra due o tre anni. Ci si può allora stupire che la cosiddetta ‘economia nazionale’ sia diventata da noi una sfrenata orgia di ruberie, di anarchia industriale, di dilapidazione metodica del patrimonio nazionale?...29

La soluzione – Bazarov non si stanca di ripeterlo – è la regolazione pianificata dell’economia nazionale da parte della società e dello Stato: «del conglomerato caotico degli “interessi privati” diretti a fare a pezzi, pezzetti e pezzettoni il comparto produttivo per depredarlo, dobbiamo creare un tutto unico cementato dall’interesse comune, in grado di esercitare una vigilanza occhiuta sulle forze produttive del Paese»30. In questo contesto,

26 Ibid., pp. 240, 241. 27 Lo stesso Gor’kij è ben presente sulle colonne del quotidiano con una serie d’interventi che – per l’atteggiamento critico nei confronti di Lenin – verranno poi pesantemente censurati nell’edizione sovietica delle Opere. Vedi la loro traduzione italiana in Maksim Gor’kij, Pensieri intempestivi 1917-1918, testi raccolti e annotati da Germann Ermolaev, Jaca Book, Milano 1978. 28 Vladimir Bazarov, Regulirovanie proizvodstva i revoljucionnyj entuzjazm [La regolazione dell’economia e l’entusiasmo rivoluzionario], “Novaja žizn’”, 9 maggio 1917, p. 3. 29 Vladimir Bazarov, Sovremennaja anarchija i grjaduščij Napoleon [L’anarchia contemporanea e il Napoleone prossimo venturo], ibid., 24 maggio 1917, p. 3. 30 Ivi.

gli appelli di Lenin al «controllo operaio» sulle fabbriche – ribaditi nel suo intervento alla conferenza dei comitati di fabbrica d’inizio giugno a Pietroburgo – sembrano a Bazarov inutili, se non controproducenti: i partigiani di Lenin «non propongono alcuna trasformazione radicale nella struttura stessa dell’industria, vorrebbero in buona sostanza lasciare tutto com’è e solo mettere ogni capitalista sotto il controllo di un gruppo di operai rivoluzionari». Al contrario, una lotta seria col collasso economico «richiede che il capitalista venga estromesso dal ruolo direttivo nella produzione, che venga trasformato in un redditiere»; parimenti, i comparti produttivi possono essere sottoposti a una trasformazione in senso socialista solo su scala nazionale, certo non nei limiti delle singole fabbriche31 .

Ma il dottrinarismo non viene solo da parte bolscevica. Occupata nei tornei retorici della Conferenza di Stato, la maggioranza moderata dei soviet rifiuta di prendere in considerazione le istanze «organizzative» del gruppo di “Novaja žizn’”, benché queste siano sostenute dalla sezione economica dello stesso Comitato Centrale dei Soviet, come riferisce lo stesso Bazarov il 20 luglio in Dottrinarismo e potere forte [Doktrinerstvo i sil’naja vlast’]. Al contrario, il Consiglio economico del Governo provvisorio – attivo da inizio agosto –è fin da subito controllato dai gruppi imprenditoriali più influenti e spinge solo al ritorno degli operai alla piena disciplina di lavoro, senza alcuna reale volontà d’una regolazione statale della produzione: «I rappresentanti delle nostre istituzioni – riconosce sconsolato Bazarov – sono ossessionati da un unico pensiero, come evitare che restrizioni eccessive facciano passare al viziato capitalista russo ogni voglia di fare l’imprenditore industriale»32 .

Stretto fra massimalismo bolscevico, dottrinarismo socialista-moderato e cinismo affaristico dei circoli industriali, il gruppo di “Novaja žizn’” si trova sempre più isolato. Di lì a poco, l’Ottobre, quindi il progetto bazaroviano di trasformare l’economia pianificata di guerra in socialismo per via social-ingegneristica avrebbe mostrato tutto il suo utopismo: «L’atmosfera del comunismo di guerra ha prodotto il massimalismo» spiegherà Bogdanov a un antico sodale, il bolscevico Lunačarskij – appena diventato commissario del popolo alla cultura – già in novembre: «il vostro, pratico, e quello accademico della “Novaja žizn’”. Non so quale sia meglio. Il vostro» – conclude Bogdanov citando le macchiette delle Anime morte gogoliane – «è apertamente antiscientifico; quell’altro è pseudoscientifico. Il vostro si butta a testa bassa, come Sobakevič pesta i piedi al marxismo, alla storia, alla logica; quell’altro è Manilov che si perde in sterili sogni»33 .

6. Nel frattempo, in barba agli appelli ecumenici di Bazarov, nel corso del loro VI congresso semilegale (26 luglio-3 agosto), i bolscevichi – forti di un aumento generalizzato di consenso nei soviet provinciali – decidono che il periodo di sviluppo pacifico della rivoluzione è cessato. Per loro la guerra non era solo, e non tanto, l’incubatrice d’una nuova forma regolata d’economia, come preconizzavano i «quasi-bolscevichi» di “Novaja žizn’”, ma anche e soprattutto la levatrice d’una massa di proletari in armi organizzati nei soviet, che – se messa sotto la direzione del partito rivoluzionario – sarà capace d’esercitare il mo-

31 Vladimir Bazarov, Razrucha i konferencija zavodskich komitetov [La rovina e la conferenza dei comitati di fabbrica], ibid., 2 giugno 1917, p. 3. 32 Vladimir Bazarov, V ekonomičeskom sovete [Nel consiglio economico] ibid., 13 agosto 1917, p. 3. 33 Neizvestnyj Bogdanov [Bogdanov sconosciuto], Tom. 1, Airo-XX, Moskva 1995, p. 189.

nopolio della violenza armata e d’instaurare la dittatura del proletariato, come preconizza Trockij con un notevole pathos futurologico:

Tutto il precedente sviluppo, millenni di storia umana, di lotta di classe, di stratificazioni culturali, si sono ora ingorgati nell’imbuto di un solo problema: è il problema della rivoluzione proletaria. Non c’è altra soluzione né altra via d’uscita. Non è una rivoluzione ‘nazionale’, borghese. Chi la valuta in questi termini vive nel mondo dei fantasmi del XVIII, XIX secolo. La nostra ‘patria temporale’, invece, è il secolo XX34 .

Intanto Lenin – meno proiettato su scenari cosmico-storici e più attento alla cucina politica corrente – persegue una linea non dissimile: messo momentaneamente da parte lo slogan di dare «tutto il potere» a soviet ormai impotenti perché controllati dagli “opportunisti” piccolo-borghesi, il capo bolscevico chiama alla «guerra civile», ossia ad abbattere il governo di Kerenskij – «paravento per coprire i cadetti controrivoluzionari e la cricca militare che detengono il potere»35 – tramite la lotta armata.

La nuova tattica di Lenin – che si era dato alla macchia dopo i fatti di luglio – fu esposta al VI Congresso da Stalin, non senza resistenze da parte di alcuni delegati, che non capivano «cosa si dovesse mettere ora al posto dei soviet». La risoluzione finale risentì di queste incertezze: da una parte si dichiarava che tutte le organizzazioni di massa – e in primo luogo i soviet – andavano difese contro le forze controrivoluzionarie; dall’altra, si alludeva alla necessità che il proletariato «diriga tutti i propri sforzi all’organizzazione e all’allestimento delle forze [per la battaglia decisiva]» – le ultime parole furono poi escluse dal documento36. Se pure in forma vaga e incerta, la prospettiva insurrezionale diventava la linea guida del programma bolscevico.

L’impostazione leninista – classe contro classe, presa del potere per la tutela degli interessi popolari ma anche come unica possibilità di salvezza nazionale – era del resto favorita dai processi di disgregazione economica in corso. Lenin arriva a citare la tesi avanzata da Bazarov su “Novaja žizn’” in merito all’«orgia di ruberie» innescata dal fatto che la guerra rende vantaggioso all’imprenditore «non consolidare ed espandere ma solo distruggere le forze produttive del paese». Lenin ribadisce: «Un’orgia di ruberie: non c’è altra espressione per definire il comportamento dei capitalisti nel corso della guerra. Quest’orgia sta conducendo alla rovina tutto il paese. Non si può tacere. Non si può tollerare»37. Sull’«imminenza della catastrofe», il leader bolscevico cita volentieri le analisi degli economisti menscevichi, che invocano la regolamentazione statale dell’economia, la normazione dei prezzi, la ripartizione obbligatoria delle merci a prezzi calmierati, il monitoraggio degli istituti di credito, l’introduzione dei trusts industriali38 .

34 L. Trockij, Čto že dal’še?, cit., p. 26. 35 Vladimir I. Lenin (Ul’janov), Opere complete. Vol. 25, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 213. 36 Šestoj s’’ezd Rsdrp (bol’ševikov). Protokoly [Sesto congresso del Posdr (dei bolscevichi). Protocolli], Gospolitizdat, Moskva 1958, pp. 244, 249. 37 Vladimir I. Lenin (Ul’janov), Opere complete. Vol. 24, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 531. 38 Da notare come gli economisti menscevichi direttamente impegnati nei discasteri economici – Vladimir Groman, Fëdor Čerevanin – politicamente fossero schierati con la destra di Potresov: ciò mostra quanto la catastrofe economica in corso fosse ben chiara a tutti. Vedi Al’bert Nenarokov, Pravyj men’ševizm... cit., pp. 240, 241, 318.

Tutto giusto, conclude Lenin, ma chi fa queste proposte a nome del governo provvisorio, o meglio, a nome dei suoi rappresentanti socialisti, «sembra aver dimenticato che lo ‘Stato’ è una macchina che la classe operaia e i capitalisti cercano di spingere in direzioni opposte. Quale classe è oggi capace di esercitare il potere?»39. La questione fondamentale – elaborata proprio allora da Lenin in Stato e rivoluzione [Gosudarstvo i revoljucija] –è quella dell’esercizio del potere, secondo il principio che la macchina di oppressione sociale dello Stato borghese va spezzata e ricostruita su basi nuove: «Non è forse chiaro che il problema dell’apparato del potere statale è soltanto un piccolo aspetto della questione più generale per cui si tratta di sapere quale classe detenga il potere? [...] La ‘coercizione’ è una buona cosa, ma il punto è di sapere quale classe la eserciterà e quale classe dovrà subirla»40 .

Intanto, il tempo lavora per Lenin: il fallimento del putsch tentato dal generale Kornilov a fine agosto ridà centralità strategica ai bolscevichi e alle loro strutture paramilitari; anche le elezioni nei soviet (1-9 settembre) vedono un netto spostamento dei rapporti di forza in loro favore, e il fallimento della Conferenza democratica (14-22 settembre) decreta il definitivo impantanarsi del sistema politico nato in febbraio41; il nuovo e ultimo governo provvisorio non recepisce alcuna delle richieste avanzate da tutti i marxisti – dai menscevichi più moderati ai bolscevichi – in materia di regolamentazione economica, ma anzi liberalizza i prezzi e riduce il controllo statale.

Il 7 novembre, la rivoluzione bolscevica. Ma la storia continua, e si deve pur fare…

39 Vladimir I. Lenin (Ul’janov), Opere complete. Vol. 24, cit., p. 533. 40 Ibid., p. 535. 41 Si noti come la Conferenza democratica venisse boicottata non solo dai bolscevichi, ma anche dalla destra menscevica: secondo Potresov essa era «una forma mascherata di presa del potere da parte dei Soviet, che può portare solo alla catastrofe». Cfr. Men’ševiki v 1917 godu. Tom. 3\1, Ot kornilovskogo mjateža do Vremennogo Demokratičeskogo Soveta Rossijskoj Respubliki [Dalla ribellione di Kornilov al Consiglio Democratico Provvisorio della Repubblica Russa], Rosspen, Moskva 1996, p. 146.

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