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Giuseppe Bedeschi
Giuseppe Bedeschi I socialisti riformisti italiani e la rivoluzione bolscevica in Russia
Per intendere il lacerante dibattito che la rivoluzione bolscevica attuata in Russia suscitò in tutti i partiti e in tutti i movimenti che, nell’Europa occidentale, si richiamavano al marxismo, è opportuno rifarsi a Karl Kautsky. Questi, infatti, che sino ad allora era stato considerato da tutti, Lenin compreso, come il massimo teorico marxista, assunse subito una posizione nettamente critica – destinata a diventare con gli anni opposizione intransigente – verso la presa del potere da parte dei bolscevichi. Ritroveremo diversi elementi di tale critica negli esponenti del riformismo socialista italiano.
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Kautsky aveva guardato sempre con grande interesse alla Russia e in occasione della rivoluzione del 1905 aveva svolto un’analisi che presentava diversi punti di contatto con quella di Lenin. In Russia, diceva Kautsky, la chiave di tutto era il problema contadino. I contadini russi volevano la terra, volevano investimenti e mezzi tecnici per coltivarla, infrastrutture, ecc. Senonché, non solo l’assolutismo, ma nemmeno la borghesia liberale era in grado di soddisfare tali richieste dei contadini, perché essa non voleva violare la legalità e non concepiva la riforma agraria senza indennizzo, che però sarebbe stata un onere impossibile per i contadini poveri. La confisca della terra era quindi una misura che poteva essere presa soltanto dal proletariato rivoluzionario, cioè dal proletariato urbano diretto dai partiti socialisti. E d’altra parte solo il proletariato rivoluzionario poteva prendere misure atte a reperire le enormi somme necessarie alla sopravvivenza dell’agricoltura russa dopo la confisca della terra: l’abolizione dell’esercito permanente, la confisca dell’intero patrimonio della famiglia imperiale e dei monasteri, la requisizione dei grandi monopoli – miniere, pozzi petroliferi, officine siderurgiche, ferrovie, ecc. Il futuro della rivoluzione russa era dunque affidato all’alleanza fra il proletariato rivoluzionario e i contadini.
Anche per Kautsky, quindi, la peculiarità della rivoluzione russa consisteva nel fatto che essa non poteva essere una rivoluzione borghese in senso stretto, in quanto non sarebbe stata diretta dalla borghesia bensì dal proletariato. Al tempo stesso, però, Kautsky teneva ben fermo il convincimento che la rivoluzione russa non avrebbe potuto essere in alcun modo una rivoluzione socialista, a causa della grande arretratezza della Russia, arretratezza che si rifletteva anche sul proletariato russo, il quale era ancora troppo debole e troppo poco sviluppato. Sicché l’obiettivo del proletariato – che non avrebbe potuto vincere senza l’appoggio dei contadini – doveva consistere nel migliorare le proprie condizioni sia materiali che politiche, nel soddisfare le aspirazioni dei contadini poveri, rinunciando
quindi ad interventi di carattere socialista in agricoltura: in una parola doveva consistere nell’edificazione d’una repubblica democratica avanzata1 .
Ho detto che l’analisi di Kautsky presentava diversi punti di contatto con quella svolta da Lenin in Due tattiche2: ma, posso aggiungere ora, senza le ambiguità dello schema leniniano. Nel senso che Kautsky non aveva dubbi sul fatto che la socialdemocrazia russa avrebbe dovuto proporsi obiettivi democratico-borghesi avanzati e, almeno in una prima fase, non avrebbe dovuto superarli in alcun modo. A questo convincimento Kautsky tenne sempre fermo, sicché quando Lenin e Trockij presero il potere sulla base d’un programma socialista, incardinato sulla dittatura dei bolscevichi, egli si vide costretto ad esprimere sempre più il proprio dissenso verso la loro azione, dovuto al fatto che la Russia non era matura per un esperimento socialista: come peraltro l’instaurazione della dittatura d’un partito dimostrava ampiamente.
Il primo grande attacco contro Lenin e i suoi compagni fu sferrato da Kautsky nel 1918, con due saggi: Demokratie oder Diktatur e Die Diktatur des Proletariats. Kautsky rilevava che Marx aveva parlato sì di “dittatura del proletariato” quale fase intermedia tra la società capitalistica e la società comunista: ma dittatura del proletariato significava appunto dittatura ovvero predominio di una classe, non già potere assoluto d’un singolo individuo o d’un partito, ovvero dispotismo. Ciò era tanto vero, diceva Kautsky, che la Comune di Parigi – indicata da Marx come la forma politica della dittatura del proletariato – non solo non aveva abolito la democrazia, bensì si era basata sul suffragio universale, sull’esistenza di diversi partiti e raggruppamenti politici che poterono eleggere liberamente i propri rappresentanti nella Comune, sul concorso di tutte le tendenze socialiste, nessuna delle quali fu esclusa3. All’opposto, il partito socialista che governava la Russia era giunto al potere lottando contro altri partiti socialisti – menscevichi e social-rivoluzionari – ed esercitava il proprio dominio con l’esclusione di altri partiti socialisti e con l’esercizio del più assoluto dispotismo4 .
Certo anche Kautsky, in polemica con Bernstein, aveva fatta propria l’idea della dittatura del proletariato: ma essa significava per lui la conquista, attraverso lotte sociali e politiche, della maggioranza dei consensi da parte del proletariato e dei suoi alleati. Perciò essa non poteva significare soppressione della democrazia, bensì sua ferma e intransigente difesa. Infatti – diceva Kautsky – un regime che abbia con sé le masse, farà uso della violenza unicamente per tutelare la democrazia, non per sopprimerla: «Esso commetterebbe un vero suicidio se volesse sopprimere la propria base più sicura, il suffragio universale, fonte profonda di una potente autorità morale»5 .
D’altro canto, aggiungeva Kautsky, fra socialismo e democrazia c’è un legame organico e inscindibile, poiché il primo non si deve intendere solo come un’organizzazione sociale della produzione, ma anche un’organizzazione democratica della società, sicché
1 Karl Kautsky, Triebkraefte und Aussichten der russischen Revolution, “Neue Zeit”, XXV 1906, Vol. 1, p. 324. Cfr. la buona analisi di questo scritto fatta da Massimo L. Salvadori, Kautsky e la rivoluzione socialista. 1880-1938, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 96-99. 2 Cfr. Vladimir I. Lenin, Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica, a cura di Umberto Cerroni, Editori Riuniti, Roma 1978. 3 Karl Kautsky, Die Diktatur des Proletariats, Wiener volksbuchhandlung-I. Brand & Co., Wien 1918 (trad. it. La dittatura del proletariato, SugarCo, Milano 1977, pp. 23, 55-56, 59). 4 Ibid., p. 23. 5 Ibid., p. 60.
non c’è socialismo senza democrazia6: «Quindi democrazia e socialismo non differiscono in quanto l’una sia mezzo e l’altro sia fine: entrambi sono mezzi per un medesimo fine»7 . Ma democrazia non significa solo dominio della maggioranza; ma anche, e non meno, protezione della minoranza o delle minoranze, in quanto «uguaglianza di diritti, uguale partecipazione di ciascuno a tutti i diritti politici, a qualunque classe o partito egli appartenga»8. Se non vengono tutelati e garantiti i diritti delle minoranze – in primo luogo il diritto d’esprimersi liberamente – viene gravemente compromesso il progresso, e la vita di ogni organismo ristagna e muore9 . Kautsky, inoltre, mettendo in guardia contro l’identificazione della dittatura del proletariato con la dittatura d’un partito, richiamava l’attenzione su alcuni concetti elementari di scienza politica. Partiti e classi, egli diceva, non hanno bisogno di coincidere. Una classe può scindersi in diversi partiti, può riconoscersi ora in questo ora in quello, se la maggioranza di essa ritiene che il metodo di governo sia inadeguato e quello d’un altro partito sia più rispondente allo scopo10. Ciò non vale solo per la borghesia, ma anche per il proletariato. Quest’ultimo, infatti, può scindersi, e in molti casi si scinde, in diverse formazioni politiche. In tal caso, la dittatura d’uno di questi partiti non è più la dittatura del proletariato, ma quella d’una parte del proletariato sull’altra. La situazione, poi, si complica ancor più se un partito proletario giunge al potere attraverso un’alleanza con i contadini: allora la cosiddetta dittatura del proletariato diventa non soltanto la dittatura di proletari sopra altri proletari, ma anche di proletari e contadini sopra proletari. E in tal caso la dittatura del proletariato assume forme molto strane11 .
In realtà, sottolineava Kautsky, occorre ben capire che una classe può dominare ma non governare, poiché una classe è un insieme di ceti, di gruppi, di organismi, di partiti: di fatto, soltanto una organizzazione politica ovvero un partito può governare. Ma un partito non è la stessa cosa d’una classe, benché ogni partito rappresenti sempre un interesse di classe12 .
In Russia, la dittatura del proletariato aveva assunto una «forma molto strana», in quanto era la dittatura d’un partito operaio – quello bolscevico – alleato dei contadini, contro altri partiti operai e contadini: i menscevichi, i socialisti rivoluzionari di centro e di destra. Per mantenersi al potere, il partito bolscevico aveva soppresso la democrazia e privato dei diritti politici tutti i suoi avversari, che non erano certo solo la corte, la nobiltà e la grande proprietà borghese e terriera, ma interi strati sociali proletari e piccolo-borghesi, nonché le loro organizzazioni politiche. La dittatura del proletariato in Russia era in realtà il dispotismo spietato d’un partito politico, che per conquistare il potere e conservarlo aveva soddisfatto le aspirazioni dei contadini.
Un fatto, quest’ultimo, certo di grandissima importanza e tuttavia da analizzare e da valutare nei suoi termini reali. Infatti in Russia l’espropriazione della grande proprietà terriera e la distribuzione della terra erano avvenute al di fuori di qualsiasi programmazione
6 Ibid., pp. 27-28. 7 Ibid., p. 26. 8 Ibid., p. 127. 9 Ibid., p. 49. 10 Ibid., pp. 47-48. 11 Ibid., p. 58. 12 Ibid., p. 46.
e di qualsiasi controllo. Non era stata data nessuna disposizione su chi dovesse ricevere la terra; semplicemente fu emanato un decreto che autorizzava i contadini a prendersi la terra. Il risultato fu che, dove dominavano i contadini ricchi, o per il loro numero o soltanto per la loro influenza, essi fecero la parte del leone nell’appropriarsi della terra, a scapito dei piccoli contadini e dei contadini poveri13. Sotto questo profilo in Russia si era realizzata l’ultima delle rivoluzioni borghesi, non la prima di quelle socialiste14. Ed era facile prevedere che a questo punto sarebbe venuta meno la solidarietà fra il proletariato urbano e i contadini, e che sarebbe sorto il loro antagonismo, poiché l’interesse dei contadini sarebbe stato d’ora in poi quello di conservare, rafforzare e ampliare la proprietà della terra, contro qualunque misura di socializzazione15 .
Kautsky rilevava che in un certo senso tutto ciò non era dovuto ad un errore dei bolscevichi, ma era il risultato necessario della rivoluzione russa, cioè delle condizioni d’un paese arretrato, assolutamente non maturo per il socialismo. L’estrema arretratezza della società russa, soprattutto nelle campagne, lo sviluppo insufficiente del proletariato, che costituiva di gran lunga la minoranza della popolazione: tutto ciò aveva costretto i bolscevichi a sopprimere la democrazia e a rinunciare al loro obiettivo storico di convocare le elezioni per la Costituente, a mantenersi al potere con misure poliziesche e terroristiche. Inoltre essi avevano dovuto promuovere una rivoluzione borghese nelle campagne, una rivoluzione che in futuro avrebbe bloccato o reso assai arduo qualunque intervento di tipo socialista.
Tale esito della rivoluzione era stato inevitabile, poiché la dittatura del proletariato praticata ed esercitata dai bolscevichi non era altro che un grandioso ma vano tentativo di saltare o abolire le fasi naturali dello sviluppo economico-sociale. Essi avevano pensato che il metodo più rapido per giungere al socialismo fosse la dittatura ma, così facendo, si erano comportati come una donna incinta che, per abbreviare la durata della gravidanza, si metta a fare pazzi salti; l’unico risultato poteva essere un aborto o una creatura immatura e non sana16. Inoltre i bolscevichi avevano fatto di necessità virtù; cioè pretendevano che la loro esperienza e la loro prassi, che nulla avevano da spartire col marxismo – e che, incontrando l’opposizione della maggioranza della popolazione, avrebbero probabilmente generato una forma di bonapartismo17 – costituissero invece la quintessenza del marxismo. In questo modo essi danneggiavano grandemente il pensiero e il movimento socialista, ed era dovere di ogni buon marxista prendere posizione contro tale adulterazione18 .
Ho richiamato i punti essenziali di questo celebre saggio di Kautsky, perché esso ebbe una grande importanza per i socialisti europei che si richiamavano al marxismo, e influì notevolmente anche sui socialisti riformisti italiani.
È il caso di Rodolfo Mondolfo, nel quale ritroviamo diverse argomentazioni di Kautsky, arricchite di nuove analisi. In un articolo pubblicato su “Critica sociale” nel febbraio 1919, Leninismo e marxismo, Mondolfo mise in guardia in primo luogo verso gli entusiasmi di coloro che applaudivano alla rivoluzione bolscevica in quanto «convulsione sociale». La rivoluzione, diceva Mondolfo, non è semplicemente una convulsione sociale: questa
13 Ibid., p. 108. 14 Ibid., p. 100. 15 Ibid., pp. 113-115, 116-117. 16 Ibid., p. 100. 17 Ibid., pp. 60 e 62-63. 18 Ibid., pp. 130-131 e 136-137.
comporta sconvolgimenti e conflitti sanguinosi, ma non è affatto detto che produca una trasformazione permanente, un rinnovamento sociale, un superamento reale e definitivo delle vecchie forme e dei vecchi rapporti di produzione19. Per Marx, nella storia, soprattutto quando si tratti di rivoluzione, non c’è posto per azioni e creazioni arbitrarie; l’ora della rivoluzione è segnata da una intrinseca necessità, la quale, allo stesso modo che rende inevitabili le rivoluzioni quando esse siano mature, le rende impossibili quando manchi la pienezza delle loro condizioni: «Una formazione sociale – ha scritto infatti Marx – non tramonta prima che siano sviluppate tutte le forze produttive che essa è capace di dare, e nuovi rapporti sociali non si sostituiscono ai vecchi, prima che le loro condizioni materiali di esistenza non si siano schiuse precisamente in seno all’antica società» (Marx, Per la critica dell’economia politica).
Che cosa rimaneva di tutto ciò, che costituiva l’essenza del marxismo, nella prassi leninista? Era forse giunta l’economia capitalistica in Russia al pieno sviluppo di tutte le forze produttive che era capace di dare? Poteva quindi Lenin avviare in Russia una trasformazione socialista?
Certo, diceva Mondolfo, le informazioni su quel che avveniva in Russia erano scarse e contraddittorie, ma una cosa era certa: la terra non era stata affatto socializzata e acquisita dallo Stato per la collettività, bensì divisa e distribuita individualmente fra i contadini. La spartizione si era compiuta anteriormente alla presa di possesso del governo da parte di Lenin, ma questi aveva accettato il fatto compiuto. Dunque Lenin aveva lasciato – e non aveva potuto fare diversamente – che tutta la massa dei nuovi piccoli proprietari, che costituiva l’enorme maggioranza della popolazione russa, restasse estranea al regime socialista, dal quale anzi forse i piccoli proprietari dell’epoca erano più distanti che non fosse il proletariato rurale del passato di ieri20 .
Mondolfo ricavava dalla sua analisi la seguente conclusione:
L’azione del leninismo rimane pertanto grandemente limitata, restringendosi alle città e alle industrie: e, poiché le città dipendono per la sussistenza dalla campagna, il regime socialista, che forma le isole nel persistente mare della proprietà privata, si trova costretto a fare i conti col regime di questa, e ad adattarsi alle sue esigenze, e a subire tutto l’impero delle leggi economiche proprie degli scambi commerciali, col rapporto fra la domanda e l’offerta, e le oscillazioni nel valore della moneta, e via dicendo21 .
Pertanto, continuava Mondolfo, le aziende socializzate non dovevano preoccuparsi solo della intensità della produzione per corrispondere ai bisogni degli associati, ma anche dei costi della produzione, poiché gli associati dovevano produrre merci per lo scambio con i contadini, dai quali dipendevano per il nutrimento. La stessa “Pravda”, organo ufficiale dei bolscevichi, dava il consuntivo di fabbriche socializzate, in cui la produzione di merci, vendute per tre milioni di rubli, ne era costata quattro. E Muchanov, delegato del Soviet, dichiarava che la produzione delle fabbriche socializzate dava in media un valore che raggiungeva soltanto la metà o un terzo del costo di produzione. Uno stato di cose, questo, che
19 Leninismo e marxismo è riprodotto in Rodolfo Mondolfo, Umanismo di Marx. Studi filosofici 1908-1966, a cura e con introduzione di Norberto Bobbio, Einaudi, Torino 1968, pp. 146-151. 20 Ibid., pp. 148-149. 21 Ibid., p. 149.
poteva essere mantenuto solo artificiosamente e con i mezzi più violenti, e non certo per un tempo indefinito.
A tutto ciò Mondolfo aggiungeva:
Tanto più che gli effetti si fan già risentire direttamente sullo stesso proletariato, giacché il governo leninista, che spende due o tre per avere uno, colma il vuoto con la fabbricazione continua di carta-moneta, il cui valore quindi precipita, in guisa che non è sufficiente a farvi fronte l’aumento dei salari agli operai. E, quando gli operai tendono per ciò ad emigrare dalle città, in cui sono le fabbriche, ai luoghi ove il costo della vita è minore, il governo di Lenin si trova costretto, per il funzionamento delle fabbriche, a proibire agli operai di emigrare dalle città senza permesso del Soviet22 .
Inoltre i bolscevichi si vedevano costretti a rimettere in onore metodi prima screditati come tipicamente borghesi: il cottimo, il taylorismo, la rigorosa disciplina e l’autorità dei direttori di fabbrica senza impacci e limiti di Consigli operai, ecc.23 Tutti questi fatti, sottolineava Mondolfo, giustificavano i più gravi dubbi sui benefici che la causa del socialismo potesse trarre in futuro dall’esperimento leninista, o sulla sua riuscita durevole in Russia.
Una rivoluzione può trionfare a un solo patto: di rappresentare una somma di benessere maggiore di quella data dal vecchio regime, per una massa di persone più vasta rispetto a quella che trovava il proprio vantaggio nel regime precedente. Ma questo non sembrava il caso dell’atto di forza bolscevico, attuato in un paese non maturo per la rivoluzione socialista, a causa dello sviluppo inadeguato delle sue forze produttive. Di qui la tragicità della figura di Lenin. Quella tragicità che Engels aveva tracciato in una bella pagina della sua Guerra dei contadini, che Mondolfo cita per intero:
Il peggio che possa capitare al capo di un partito estremo è il venir costretto ad assumere il potere quando il movimento non è ancora maturo per il dominio della classe ch’esso rappresenta e per l’attuazione delle misure che la signoria di questa classe richiede. Quel ch’esso può fare non dipende dalla sua volontà, ma dal punto che i contrasti di classi hanno raggiunto e dal grado di sviluppo delle condizioni materiali d’esistenza, della produzione e del traffico, sulle quali si fondano i conflitti di classe. Quel ch’esso deve fare, quel che il suo partito chiede da lui, nemmeno questo dipende dalla sua volontà, ma non dipende nemmeno dal grado di sviluppo della lotta di classe; esso è legato alle sue dottrine, al suo programma, i quali, a loro volta, non originano dai conflitti delle classi in quel dato momento e dallo stato più o meno casuale della produzione e del traffico, ma dalla sua maggiore o minore intelligenza e penetrazione dei risultati del movimento politico e sociale. Esso si trova così preso in un insolubile dilemma: quel ch’esso può fare, contrasta con tutta la sua condotta precedente, coi suoi princìpi e con gl’immediati interessi del suo partito; e ciò che esso deve fare non è attuabile... Chi capita in una tale disgraziata posizione è irrimediabilmente perduto24 .
Lenin, chiosava Mondolfo, potrà anche, come individuo, non essere perduto; ma forse a quest’ora è già convinto che, se per introdurre un regime di terrore può bastare l’audacia e la violenza, per attuare il socialismo le cose sono un po’ più complicate25 .
22 Ibid., p. 150. 23 Ivi. 24 Ibid., p. 151. 25 Ivi.
Parecchi punti di questa analisi mondolfiana si ritrovano in Filippo Turati, il quale ravvisò nel leninismo un fenomeno specificamente russo, maturato nelle condizioni eccezionali della disintegrazione dell’impero zarista nel corso della guerra mondiale: un fenomeno che nulla aveva da proporre all’Occidente capitalistico e ai socialisti che operavano in esso.
La critica di Turati al bolscevismo era ispirata al marxismo, di cui egli dava – come Kautsky – una interpretazione di tipo democratico-evoluzionistico, la quale escludeva l’idea di “dittatura del proletariato”, o la riduceva a una pura metafora. Per Turati la trasformazione socialista era un processo lungo e complicato, che veniva a coincidere con lo stesso sviluppo capitalistico, il quale creava, esso solo, al proprio culmine, le condizioni per la realizzazione del governo proletario. La rivoluzione bolscevica, quindi, proprio perché attuata in un paese terribilmente arretrato, non poteva essere una rivoluzione socialista e poteva essere solo una dittatura terroristica, d’ispirazione giacobino-blanquista.
La critica di Turati, proprio in virtù della sua ispirazione marxista ma di tipo democratico-evoluzionistico, coglieva indubbiamente alcuni tratti fondamentali del nuovo regime sovietico, sui quali pronunciava una requisitoria molto efficace.
Già nel 1919, polemizzando con Arturo Labriola – il quale sosteneva che respingere la rivoluzione bolscevica significava procedere come quei socialisti bollati da Marx, che non vollero intendere la rivoluzione operaia della Comune di Parigi perché aborrivano la violenza – Turati affermava che il bolscevismo era profondamente estraneo allo spirito del marxismo. La dottrina di Marx infatti, secondo Turati non voleva essere utopismo – «utopismo di pensiero o, peggio, utopismo di fatti» – bensì «socialismo scientifico». E dunque voleva essere non un’idea escogitata da un filosofo, da applicarsi in qualunque tempo e in qualunque luogo, bensì una previsione concreta e realistica fondata sullo sviluppo economico-sociale e politico-culturale delle società capitalistiche più avanzate. «Era l’evoluzione dello strumento tecnico della produzione – affermava Turati – che segnava il passo a questo socialismo, maturantesi mano mano con lo svolgersi della grande industria, con l’accentramento delle ricchezze, col rigoglio pieno del capitalismo, col formarsi e col crescere del proletariato moderno, divenuto enorme maggioranza, organizzato quasi automaticamente nella fabbrica e sul campo industrializzato». Questo proletariato, acquistando coscienza e combattività di classe nonché capacità tecnica e politica di gestire collettivamente la produzione, veniva a costituire a poco a poco il formidabile esercito che avrebbe prima o poi espropriato, nazionalmente e internazionalmente, i suoi espropriatori, licenziando i padroni e i proprietari diventati un peso inutile e paralizzante per la società»26 .
Con ciò Turati voleva mettere in rilievo due aspetti, a suo avviso assolutamente fondamentali, del marxismo: il primo consisteva nel fatto che il proletariato era un prodotto del modo di produzione capitalistico, e dalla società capitalistica ereditava tutte le cognizioni tecniche, economiche e politiche per diventare classe dirigente, cioè per essere in grado di governare una società assai sviluppata e complessa; il secondo aspetto consisteva nel fatto che il modo di produzione capitalistico non solo generava il proletariato quale nuova classe dirigente, ma faceva sì che esso diventasse una classe sempre più numerosa, fino a costituire la grande maggioranza della popolazione. Questo punto era decisivo sotto ogni profilo: perché significava che l’«espropriazione degli espropriatori» sarebbe avvenuta con
26 Cfr. Filippo Turati, Leninismo e marxismo (1919), in Id., Socialismo e riformismo nella storia d’Italia. Scritti politici 1878-1932, a cura di Franco Livorsi, Feltrinelli, Milano 1979, p. 331.
il minimo di violenza, e forse con nessuna violenza. Infatti essa non sarebbe stata frutto d’un colpo di Stato, ma la logica conclusione d’un lungo processo economico-sociale e politico, dunque non qualcosa che avviene in «un giorno dato», bensì in «un’epoca, come nella Genesi»27 .
Il socialismo non avrebbe richiesto quindi la soppressione della democrazia, ma sarebbe stato la realizzazione della più ampia democrazia politica oltre che sociale, essendo fondato sulla classe di gran lunga più numerosa della società: in Turati non aveva fatto breccia la lungimirante critica di Eduard Bernstein al marxismo, il quale aveva messo in rilievo che lo sviluppo capitalistico, lungi dal far scomparire gli strati intermedi, ne creava sempre di nuovi e di più numerosi, sicché lo schema dialettico marxista, d’ascendenza hegeliana, fondato su due sole classi sociali – capitalisti e proletari – si rivelava del tutto inadeguato a comprendere gli sviluppi delle società capitalistiche più avanzate. Turati, invece, teneva fermo al dogma marxista del proletariato in quanto classe destinata a diventare l’enorme maggioranza della società. Anche sotto questo profilo la critica turatiana del leninismo rimaneva del tutto interna al marxismo. Questi aspetti fondamentali del “socialismo scientifico” erano, secondo Turati, del tutto estranei al leninismo, il quale si configurava piuttosto come blanquismo, cioè un’ideologia elaborata per la conquista violenta del potere da parte d’una minoranza, in una società, come quella russa, ancora feudale o semifeudale e con uno sviluppo capitalistico del tutto insufficiente. Di qui i caratteri di violenza, sopraffazione, terrore nell’azione di Lenin e dei bolscevichi: «Ma noi non sospettammo mai», diceva Turati,
che “conquista del potere da parte del proletariato” volesse dire usurpazione del potere e terrore sistematico da parte di una setta, soppressione degli zemstwa e della Costituente, sostituzione del Soviet ai parlamenti (che è come dire sostituzione dell’orda alla città), negazione di ogni libertà e di ogni democrazia. Né sospettammo che “abolizione delle classi”, sulla bocca di un socialista, potesse essere qualcosa di diverso dallo stesso Socialismo, che essa potesse divenire fine a se stessa, come sembra sia nel regime leninista, dove infatti ci si ingegna di sopprimere le classi avversarie corporalmente, fucilandone e carcerandone i componenti, senza togliere (perché questo vi è ancora storicamente ineffettuabile) le ragioni economiche del loro ripullulare!28
Ecco, dunque, secondo Turati, la grande lezione che si ricavava dall’operato di Lenin e dei bolscevichi: il proletariato, se è immaturo, non ha alcun interesse ad assumersi il potere direttamente, che può conservare solo con il terrore, e senza la possibilità di creare le condizioni per l’avvento del socialismo. L’unico ruolo che il proletariato poteva svolgere in un paese arretrato come la Russia era quello d’abbattere l’autocrazia, e avviare il paese verso una più rapida e più moderna evoluzione economico-sociale e politica29 .
A questa valutazione della rivoluzione bolscevica Turati tenne sempre fermo. Nel 1919, alla tribuna del XVI Congresso del PSI, il leader riformista denunciò la profonda adulterazione del marxismo fatta da Lenin e dai bolscevichi. Al socialismo essi sostituivano il comunismo; alla elevazione progressiva della classe proletaria, che sempre più acquista compattezza e capacità, fino a instaurare la grande, la vera democrazia, con le armi dell’in-
27 Ivi. 28 Ibid., p. 332. 29 Ibid., p. 333.
telligenza, della civiltà, della libertà più sconfinata, essi sostituivano «un gretto ideale di violenza armata e brutale, la cosiddetta dittatura del proletariato, che esclude d’un sol colpo dalla vita sociale tutte le altre capacità, tutti gli altri contributi, tutte le altre classi e la stessa grande maggioranza dei lavoratori», sicché era fin troppo chiaro che la “dittatura del proletariato” teorizzata e messa in pratica da Lenin e dai bolscevichi, altro non era che la dittatura di alcuni uomini sul proletariato, ossia la dittatura contro lo stesso proletariato. Sicché il partito e la classe sarebbero annegati nella fazione30 .
In realtà, diceva Turati, era impossibile instaurare il socialismo per un atto di volontà, con un decreto, o con un moto violento delle masse. Questa, per Marx ed Engels, era pura e semplice utopia. Il socialismo si elaborava lentamente e fatalmente nello sviluppo progressivo della stessa società borghese; la volontà degli uomini e dei partiti poteva solo agevolare e accelerare il processo, rendendolo cosciente. Soltanto quando questa elaborazione fosse compiuta in tutte le sue fasi, di cui nessuna andava soppressa, solo allora interveniva utilmente l’atto di violenza liberatore, che risolveva il contrasto fra il contenuto sociale e l’involucro politico.
Veniva citata spesso e volentieri, dagli ammiratori del bolscevismo, la frase di Marx secondo cui la violenza è sempre stata la grande levatrice dei parti della storia: «Adottiamo pure questa immagine ostetrica – diceva Turati – ma essa suppone pur sempre […] che il feto sia pervenuto al nono mese, o, almeno, al settimo mese», cioè che il nuovo organismo sia già formato. E aggiungeva:
La compagine sociale è un prodotto storico complicatissimo, di elementi economici, tecnici, morali, politici. Essa evolve sotto la pressione della lotta delle classi. La borghesia sostituì nel dominio il clero e la nobiltà, quando queste classi divennero inutili, anzi dannose, ed essa fu matura e capace. Lo stesso avverrà del proletariato. Esso deve addestrarsi alla gestione sociale: deve preparare l’agricoltura e l’industria del collettivismo; e tutto ciò non si improvvisa31 .
D’altro canto, sottolineava Turati, il movimento operaio, come organizzazione e classe cosciente e indipendente, in Italia era giovane; esso lottava e si preparava da qualche decennio. Aveva appena conquistato le armi di lotta più necessarie, la libertà di coalizione e il suffragio universale per esempio, e non aveva ancora appreso a manovrarle bene; aveva introdotto, con gli scioperi, con i probiviri, con le leggi sociali, con le assicurazioni, con gli arbitrati, ecc., un principio di regime costituzionale nella fabbrica, al posto dell’antico dispotismo padronale; aveva conquistato migliaia di comuni, era penetrato largamente nel Parlamento. Ognuna di queste conquiste gli permetteva d’accelerare il passo con progressione geometrica32 .
Ma era sbagliato, secondo Turati, abbandonarsi a facili ottimismi e credere che ci fossero delle scorciatoie nella storia. Intanto la guerra aveva dimostrato l’enorme potenza, la persistente saldezza, assai maggiore di quanto si pensasse, dello Stato borghese: «Quando avete visto», egli diceva a questo proposito,
30 Ibid., p. 341. 31 Ibid., p. 342. 32 Ibid., p. 343.
per ben cinque anni, milioni e milioni di proletari armati marciare al cenno del carabiniere, dell’“ardito”, senza quasi una ribellione; quando avete visto le fucilazioni, le decimazioni, tutto ciò che di più orribile ci ha dato la giustizia di guerra, essere, in fondo, tollerato dai vari proletariati; quando avete visto una guerra, che fu la più odiosa espressione degli antagonismi cannibaleschi delle varie borghesie, non già rianimare, rafforzare, rinnovellare, ma soffocare e disperdere l’Internazionale proletaria; ebbene, voi siete onestamente costretti a tener conto di questa esperienza nelle vostre previsioni, nelle vostre valutazioni33 .
Né, in Italia, erano pensabili fughe in avanti e tentativi di prendere il potere: perché l’Italia non aveva le sterminate risorse della Russia, era tributaria di tutti per il grano, per il ferro, per il carbone; un governo socialista in Italia sarebbe stato immediatamente boicottato e strangolato dagli Stati creditori: «onde avremmo la rivolta immediata delle masse affamate nei primi giorni della stessa rivoluzione socialista»34 .
In questo quadro si collocava l’appello accorato rivolto da Turati, durante il Congresso di Livorno del PSI nel 1921, a massimalisti e comunisti, contro la concezione dell’azione politica socialista fondata sulla violenza. La violenza per i socialisti non era e non poteva essere un programma. Allo stesso modo i socialisti non potevano perseguire l’obiettivo della cosiddetta “dittatura del proletariato”, perché essa o era dittatura di minoranza, e allora era dispotismo, il quale avrebbe generato inevitabilmente la controrivoluzione; o dittatura di maggioranza, e allora era un evidente non senso, una contraddizione in termini, giacché la maggioranza era la sovranità legittima e non poteva essere la dittatura. Inoltre i socialisti non potevano accettare la coercizione del pensiero, «la persecuzione, nell’interno del partito, dell’eresia, che fu l’origine ed è la vita stessa del Partito, la sua grande forza salvatrice e rinnovatrice, la garanzia che esso possa lottare contro le forze materiali e morali che gli si parano di contro»35 .
Turati sosteneva con forza che la violenza, mentre non aveva nulla a che fare con il socialismo marxista, era piuttosto un residuo della vecchia mentalità insurrezionistica, blanquista, giacobina, che sembrava definitivamente tramontata e che invece risorgeva sempre nel movimento operaio. Ma la violenza era sempre stata propria delle minoranze al fine di schiacciare le maggioranze, e non già delle maggioranze che vogliono e possono, con le armi intellettuali e con i mezzi normali di lotta, imporsi per legittimo diritto. Senonché, anche se trionfava provvisoriamente, la violenza apriva inevitabilmente la strada alla vittoria della reazione e della controrivoluzione, che diventava vittoria e vendetta dei comuni nemici. «Sì», disse Turati rivolto a comunisti e massimalisti,
noi oggi lottiamo troppo spesso contro noi stessi, lavoriamo per i nostri nemici, siamo noi a creare la reazione, il fascismo, e il partito popolare. Intimidendo ed intimorendo, proclamando (con suprema ingenuità anche dal punto di vista cospiratorio) l’organizzazione dell’azione illegale, vuotando di ogni contenuto l’azione parlamentare che non è già l’azione di pochi uomini, ma dovrebbe essere, col suffragio universale, la più alta efflorescenza di tutta l’azione, prima di un partito, poi di
33 Ibid., p. 346. 34 Ibid., p. 347. 35 Ibid., pp. 416-417.
una classe; noi avvaloriamo e scateniamo le forze avversarie che le delusioni della guerra avevano abbattuto, che noi avremmo potuto facilmente debellare per sempre36 .
Turati ribadirà sempre questo concetto: l’illusione rivoluzionaria di massimalisti e comunisti, l’infatuazione bolscevica avevano scatenato in Italia la reazione fascista e avevano trasformato un piccolo, quasi insignificante movimento di ex-combattenti, come quello di Mussolini, in un fiume in piena che aveva travolto tutto e tutti.