MARZO 2022
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MARITTIMA MENSILE DELLA MARINA MILITARE DAL 1868
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MARZO 2022 - Anno CLV
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Le ragioni strategiche del Trimarium Ferdinando Sanfelice di Monteforte
Storia e geopolitica dell’Intermarium: ideologia, prospettive e attualità Andrea Carteny - Paolo Pizzolo
Intervista all’ambasciatore della Repubblica di Polonia in Italia, S.E. Anna Maria Anders 3
Costantino Moretti
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Sommario 44 L’Iniziativa dei Tre Mari: quale valore geopolitico? Marco Giulio Barone
PRIMO PIANO
6 Le ragioni strategiche del Trimarium Ferdinando Sanfelice di Monteforte
50 Il Trimarium divide Occidente e mondo russo Mirko Mussetti
56 La minaccia proveniente dal terrorismo internazionale
Laura Quadarella Sanfelice di Monteforte
PANORAMICA TECNICO-PROFESSIONALE
64 L’importanza di una capacità anfibia nazionale Filippo Colucci
14 Il Trimarium: la faglia geopolitica del sistema mondo Laris Gaiser
24 Intervista all’ambasciatore della Repubblica di Polonia in Italia, S.E. Anna Maria Anders Costantino Moretti
STORIA E CULTURA MILITARE
72 Il destino della flotta austro-ungarica alla fine della Grande guerra
Giosuè Allegrini - Enrico Cernuschi
28 Storia e geopolitica dell’Intermarium: ideologia,
RUBRICHE
prospettive e attualità
Andrea Carteny - Paolo Pizzolo
40 La prima linea di difesa russa: le bolle di interdizione A2/Ad Paolo Mauri
Rivista Marittima Marzo 2022
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Focus diplomatico Osservatorio internazionale Marine Militari Scienza e tecnica Che cosa scrivono gli altri Recensioni e segnalazioni
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EDITORE DIFESA SERVIZI SPA UFFICIO PUBBLICA INFORMAZIONE E COMUNICAZIONE DIREZIONE E REDAZIONE Via Taormina, 4 - 00135 Roma Tel. +39 06 36807248-54 Fax +39 06 36807249 rivistamarittima@marina.difesa.it www.marina.difesa.it/media-cultura/editoria/marivista/Pagine/Rivista_Home.aspx
DIRETTORE RESPONSABILE Capitano di vascello Daniele Sapienza
CAPO REDATTORE Capitano di fregata Gino Lanzara
REDAZIONE Capitano di corvetta Danilo Ceccarelli Morolli Sottotenente di vascello Margherita D’Ambrosio Guardiamarina Giorgio Carosella Sottocapo di prima classe scelto Luigi Di Russo Tel. + 39 06 36807254
IN COPERTINA: Immagine dal satellite con evidenziati i paesi del Trimarium.
MARZO 2022 - anno CLIV
SEGRETERIA DI REDAZIONE Primo luogotenente Riccardo Gonizzi Addetto amministrativo Gaetano Lanzo
HANNO COLLABORATO:
UFFICIO ABBONAMENTI E SERVIZIO CLIENTI
Ammiraglio di Squadra (aus) Ferdinando Sanfelice di Monteforte
Primo luogotenente Carmelo Sciortino Tel. + 39 06 36807251/12 rivista.abbonamenti@marina.difesa.it
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Professor Laris Gaiser Ambasciatore Anna Maria Anders Dottor Costantino Moretti Professor Andrea Carteny Dottor Paolo Pizzolo Dottor Paolo Mauri
Codice fiscale 80234970582 Partita IVA 02135411003 ISSN 0035-6964
Dottor Marco Giulio Barone
FOTOLITO E STAMPA
Professoressa Laura Quadarella
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Capitano di vascello Giosuè Allegrini
COMITATO SCIENTIFICO DELLA RIVISTA MARITTIMA Prof. Antonello BIAGINI, Ambasciatore Paolo CASARDI Prof. Danilo CECCARELLI MOROLLI, Prof. Piero CIMBOLLI SPAGNESI Prof. Massimo DE LEONARDIS, Prof. Mariano GABRIELE Prof. Marco GEMIGNANI, A.S. (ris) Ferdinando SANFELICE DI MONTEFORTE
COMITATO EDITORIALE DELLA RIVISTA MARITTIMA C.A. (aus) Gianluca BUCCILLI, Prof. Avv. Simone BUDELLI, A.S. (ris) Roberto CAMERINI, C.A. (ris) Francesco CHIAPPETTA, C.A. (ris) Michele COSENTINO, C.V. (ris) Sergio MURA,
Prof.ssa Fiammetta SALMONI, Prof.ssa Margherita SCOGNAMIGLIO, Prof. Tommaso VALENTINI, Prof. Avv. Alessandro ZAMPONE Gli articoli sono soggetti a peer review double blind
Dottor Mirko Mussetti Tenente di vascello Filippo Colucci Dottor Enrico Cernuschi Ambasciatore Giuseppe Morabito, Ambasciatore Giorgio Malfatti di Monte Tretto, Circolo di Studi Diplomatici Dottor Lorenzo Termine Dottor Luca Peruzzi Ammiraglio ispettore (aus) Claudio Boccalatte Contrammiraglio (ris) Ezio Ferrante Capitano di corvetta Danilo Ceccarelli Morolli Rivista Marittima Marzo 2022
E ditoriale
N
ulla è più attuale quanto la storia e la geopolitica, e ancor di più la cronaca odierna che è sicuramente il risultato di un complesso e articolato trascorso di avvenimenti passati. Partendo da quest’ineludibile premessa, tutti abbiamo studiato e appreso il fatto che la Russia (zarista, sovietica o contemporanea non fa differenza) ha sempre cercato di creare una zona — più o meno definibile come «cuscinetto» — lungo i propri confini occidentali, col duplice scopo di assicurarsi, nel contempo, una maggiore profondità geografica di difesa e un accesso al mar Baltico, al Mar Nero e, attraverso di esso non potendovi accedere direttamente, al Mediterraneo (si pensi alla guerra di Crimea del 1853-54). Lo scopo dichiarato di questi costanti, protratti e plurisecolari tentativi, è sempre stato quello di garantire la propria sicurezza e continuità territoriale. Da Pietro il Grande in poi cambiano le date e la carta intestata, ma mai i contenuti, incluso il quotidiano odierno. Storicamente ancora più antica di quella russa è la vicenda ucraina. Occorre ricordare infatti — e in estrema sintesi — che sul finire del IX secolo, sulle sponde del fiume Dnepr si creò una forma «statuale» denominata Rus’ di Kiev, iniziata da Rjurik verso l’anno 880 e poi proseguita, con varie e alterne vicende, fino al XIV secolo in cui l’ascesa del Principato di Mosca soppiantò la Rus’ di Kiev (anche a causa della distruzione di Kiev stessa, nel 1240, da parte dei Mongoli) (1). Egualmente complesse le vicende storico-religiose, che partono da quando Vladimir (†1015), verso l’anno 988, abbraccia il cristianesimo e sposa Anna, figlia dell’Imperatore romano d’Oriente, Romano II, traghettando così la Rus’ di Kiev nell’orbita bizantina sotto vari livelli. In ogni caso gli ucraini sono sopravvissuti sempre con tenacia a ogni genere di conquistatori, lasciando tracce precise di tale complessa storia, oltre che nelle fonti, anche nella letteratura, come il Taras Bulba di Gogol o la figura di Ivan Stepanovič Mazeppa, eternata in prosa da Byron, Puskin, Victor Hugo, in musica da Liszt, Ciaikovski, nella pittura da Vernet, Gericault e Delacroix. Venendo decisamente a tempi più recenti, gli ucraini (a loro volta ripartiti in regioni e confessioni diverse), dopo aver fatto i conti più sanguinosi della loro storia con Stalin e Hitler, sono diventati nel 1991, indipendenti. Si è trattato di un
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avvenimento vissuto non senza scosse in Russia e questo per un’infinità di ragioni storiche, politiche, linguistiche e religiose che esulano dallo spazio di un editoriale. Il tema di fondo, comunque, non cambia: tutto nasce dalla convinzione per la Russia di sentirsi un impero e, come accaduto per Roma, poi per Costantinopoli, immedesimarsi in una «Terza Roma» incentrando il problema della propria sicurezza su di un limes. Il problema è che ogni confine è, inevitabilmente, dinamico, essendo di per sé un problema che compendia aspetti militari, economici, culturali. Il progetto — o sarebbe più appropriato parlare di «livello di ambizione moscovita» — si ritiene sia il seguente: inglobare in un continuum geopolitico l’exclave russa di Kaliningrad (la prussiana Königsberg, città natale di Immanuel Kant) a nord, tra la Polonia e la Lituania, con sbocco sul mar Baltico e dove risulta stanziata la flotta omonima; la Bielorussia, alleato (ma senza sbocchi sul mare) della Federazione Russa al centro; parte dei territori di Georgia e Ucraina con relativo sbocco sul Mar Nero a sud, ristabilendo in parte i confini di quella che è stata l’Unione Sovietica. Si tratta di una cosiddetta «linea rossa» (2), cioè un confine geografico non internazionalmente riconosciuto, ma che rappresenta nella percezione della nazione dominante nella regione (la Russia appunto), una cintura o perimetro di sicurezza da gestire e controllare, sia a livello militare, sia a livello economico e culturale. È noto come il difficile assestamento dell’economia post-sovietica abbia colpito tutti i paesi ex Unione Sovietica ma, soprattutto come in Ucraina, il crollo economico repentino abbia fortemente impoverito la neo-nazione. L’influenza occidentale e il miraggio del benessere hanno spinto ben presto gli ucraini a desiderare di far parte della Comunità europea e della NATO. Nel frattempo, rialzatasi dopo il collasso economico e strategico dell’Unione Sovietica, la Russia è tornata a percorrere le stesse orme di sempre. Già nel novembre 1943, alla Conferenza di Teheran, Stalin ottenne uno spostamento delle frontiere dell’Unione Sovietica verso ovest, palesando quella che gli storici chiamano «la sindrome dell’accerchiamento». Anche Vladimir Putin, leader indiscusso della nuova Russia, già a Monaco nel 2007 aveva dichiarato, senza dar adito a equivoci, di non accettare l’accerchiamento della NATO dentro il limes del vecchio Patto di Varsavia, né la cosiddetta «US missile defence European site» (3), giudicata come una reale minaccia, giungendo ad asserire, infine, come nessuno poteva sentirsi sicuro in base alle leggi internazionali (4). In effetti, questa profonda convinzione si è man mano radicalizzata fino all’attuale situazione di crisi internazionale. In buona sostanza, gli eventi odierni sembrano riproporre il confronto geopolitico tra Heartland (5) e Rimland (6); la prima tappa di tale modus operandi ha avuto luogo, nel Mar Nero, con gli eventi in Georgia (2008) e in Crimea (2014) e nel mar Mediterraneo con le note vicende in Siria e Libia. E proprio sul mare, noi italiani che abbiamo navigato e navighiamo in vista delle navi russe da oltre mezzo secolo, sappiamo di non dover sottovalutare le possibilità della nuova Marina del Cremlino, certo ridimensionata rispetto agli organici degli anni sovietici, ma sicuramente ancora «vigorosa». E sempre sul mare, nel mare e dal mare, che oggi assistiamo a scontri intensissimi per il controllo delle città che si affacciano sul Mar Nero: Mariupol; Mykolaiv; Cherson e Odessa, che resistono, oltre che per la valenza e il coraggio dei difensori, anche grazie ad «antichi» ma sempre attuali sistemi d’arma navali quali sono le mine, non potendo utilizzare la propria flotta militare. La proiezione di potenza russa storicamente ha condizionato la politica delle nazioni confinanti, e ha determinato diverse reazioni, quale quella individuabile nel progetto del Trimarium (ovvero i Tre Mari: Baltico, Adriatico e Mar Nero) che è l’argomento specifico del presente numero della Rivista Marittima. In breve, il Trimarium desidera essere una sorta di confederazione formata dal Gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) assieme alle tre Repubbliche baltiche, alla Bulgaria, alla Slovenia, alla Romania, alla Croazia e all’Austria; in pratica un asse nord-sud che offrirebbe l’ulteriore vantaggio di ridurre la dipendenza energetica continentale rispetto alla Russia. Il primo passo è stato individuato nella Via Carpatica, da Klaipeda a Salonicco. Questa strada dovrebbe correre parallelamente assieme
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a una ferrovia «baltica» («Rail2Sea») e a una vera e propria «Highway» di comunicazioni digitali su fibra ottica. Un disegno che, oltre a quello tedesco, sembra godere anche dell’appoggio statunitense allo scopo di contenere la Russia e, in prospettiva, la Cina; vista con crescente preoccupazione da un ricompattato Occidente. Questa visione continentale soffre, però, di una dimensione navale e marittima e tale pecca si rivela anche nel campo dello shipping e del cluster marittimo. Per contro l’Italia è il paese con il maggior tratto di coste nell’Adriatico, un mare che costituisce una vera e propria arteria commerciale (quindi politica e strategica) per la Mitteleuropa (7) basata su Trieste. Proprio con riferimento al Trimarium si ritiene opportuno ribadire l’importanza e la centralità dello spazio balcanico e del mar Adriatico, non solo in termini geostrategici ma, soprattutto, geoeconomici e geoculturali. Ora è sufficiente soffermarci su una cartina geografica per renderci conto della collocazione strategica dell’Italia a sud dell’Europa, in grado di guardare contemporaneamente e specularmente sia a est, verso i Balcani e il levante mediterraneo, sia a ovest verso l’universo euro-atlantico. Non c’è dubbio che i due spazi a est, quello balcanico e quello levantino concernono i nostri interessi, in particolare energetici e commerciali, e il futuro nazionale, soprattutto in prospettiva dell’istituzione di una ZEE italiana. In pratica la vecchia estensione marittima-territoriale della Repubblica di Venezia riassume quell’importanza geostrategica, geoeconomica e geoculturale tanto avvertita nel corso dei secoli fino ai nostri giorni. A tal riguardo, è significativo ricordare l’importante iniziativa ADRION (ADRIATICO-IONICA) che rientra tra le numerose attività multinazionali intraprese dalla Marina Militare italiana. Essa nasce dalla Conferenza interministeriale di Ancona del 2000, al seguito della quale fu siglata la «Dichiarazione di Ancona», documento alla base della cooperazione tra le Marine rivierasche dello Ionio e dell’Adriatico, le quali si impegnano a garantire maggiore sicurezza e stabilità all’interno di un’area marittima dall’indiscussa valenza strategica. Tale iniziativa prevede attività addestrative navali congiunte che riguardano il contrasto di minacce asimmetriche e di traffici illeciti, operazioni di interdizione marittima (Maritime Interdiction Operation - MIO) e di ricerca e soccorso (Search and Rescue - SAR). In uno scenario marittimo sempre più complesso e caratterizzato da minacce che assumono forme diverse e sempre più insidiose, l’iniziativa dell’ADRION assume rilevante importanza nella salvaguardia degli interessi nazionali. In poche parole: è il cortile di casa, ovvero — è la porta — e la barriera — contro la guerra attuale.
NOTE (1) Tra i molti, cfr. S. Franklin - J. Shepard, The Emergence of Rus (700-1200), London 1996. (2) M. Mussetti, La rosa geopolitica, Roma 2021, p. 101. (3) A speech delivered at the MSC 2007 by the President Vladimir Putin «The Sochi Declaration of the Russian and US Presidents clearly states that Russia is opposed to the deployment of the US missile defence European site». (4) MSC 2007 by the President Vladimir Putin: « […] It results in the fact that no one feels safe. I want to emphasise this - no one feels safe! Because no one can feel that international law is like a stone wall that will protect them. Of course such a policy stimulates an arms race». (5) Heartland: nome coniato da Sir Halford Mackinder per indicare la zona centrale del continente Eurasiatico. «Chi controlla l’Est Europa comanda l’Heartland: chi controlla l’Heartland comanda l’Isola-Mondo: chi controlla l’Isola-Mondo comanda il mondo». Mackinder H.J., The geographical pivot of history, «The Geographical Journal» 23/4 (1904), pp. 421-437. (6) Rimland: fascia marittima e costiera che circonda l’Heartland; termine coniato dallo statunitense Nicholas Spykman. (7) Cfr. s.v. Mitteleuropa, in Enciclopedia Italiana (on line).
DANIELE SAPIENZA Direttore della Rivista Marittima
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PRIMO PIANO
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Ferdinando Sanfelice di Monteforte
Ammiraglio di squadra della riserva, docente di Studi Strategici all’Università di Trieste (Polo di Gorizia). È membro dell’Académie de Marine e della giuria del Premio di strategia Amiral Daveluy ed è consulente dell’European Defence Agency. Ha pubblicato i libri Strategy and Peace, I Savoia e il Mare, La Strategia, Guerra e mare e Due secoli di Stabilizzazione, oltre a numerosi saggi di storia e di strategia per riviste italiane, americane e francesi.
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n questi giorni, l’accordo economico tra i paesi dell’Europa centro-orientale, noto come «Trimarium», ha attirato l’attenzione dei media italiani, che hanno analizzato gli aspetti geostrategici dell’area, nell’ambito della crisi tra Russia e Ucraina, avviando una discussione sulle sue implicazioni per il nostro paese. Poiché nessun dibattito sulle ragioni strategiche di un accordo può prescindere né dalla storia della sua genesi, né tantomeno dalla situazione geostrategica dell’area interessata, è necessario vedere il perché della sua nascita, e quali tentativi precedenti siano stati fatti, nel passato, in tal senso. Anzitutto, se chiedete a un polacco quale sia la situazione geostrategica della Polonia, quasi sicuramente vi risponderà che il suo paese è come un topolino costretto a dormire tra due elefanti. Se la stessa domanda fosse stata posta due secoli fa, il numero degli elefanti, nella risposta, sarebbe salito a tre, visto che, all’epoca, oltre all’Impero Germanico e all’Impero Russo, anche l’Impero Ottomano sarebbe stato incluso tra i vicini potenti e pericolosi. Anche dopo la scomparsa dell’Impero Ottomano, la situazione della Polonia non è migliorata di molto, tanto che il paese ha perso per lunghi secoli la sua indipendenza, con il suo territorio spartito tra la Germania e la Russia. Bisogna riconoscere, però, che la situazione del topolino tra i due elefanti non è un problema esclusivamente polacco, ma anche di numerose altre nazioni, e precisamente di tutte quelle poste nella cosiddetta Europa centro-orientale, lungo una fascia che va dal Mar Baltico al Mar Nero. Esse, oltre a condividere le preoccupazioni del Governo di Varsavia, ne hanno spesso condiviso la sorte. Si tratta, infatti, di una porzione dell’Europa che, nei secoli, è stata un teatro di guerre senza fine. Intere nazioni, per non parlare di singole province, hanno cambiato padrone, dopo essere cadute sotto i colpi dei nemici, e sono riuscite a risorgere solo dopo lunghi anni di assoggettamento. Infatti, l’Europa centro-orientale ha sofferto, fin dai tempi antichi, anzitutto per le invasioni da Est di nemici giurati, come le tribù guerriere dell’Asia, e questa situazione si è riprodotta ai
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Le ragioni strategiche del Trimarium
tempi nostri, a causa dell’espansione dell’Unione Sovietica. In effetti, per i conquistatori provenienti da Est, non vi erano ostacoli naturali significativi, capaci di rallentarne l’avanzata. Non parliamo, poi, delle occupazioni e delle minacce provenienti da Ovest; le potenze europee hanno spesso privilegiato anche l’utilizzo dell’Europa centroorientale come trampolino di lancio per invadere la Russia, come, per esempio, fece Napoleone, nel 1812. La regione, infine, si è dimostrata vulnerabile anche alle offese provenienti da Sud, lungo i Balcani: iniziarono gli eserciti ottomani, che avanzarono dal Bosforo fino ad assediare Vienna per ben due volte. E nel XX secolo, alla fine della Prima guerra mondiale, le forze franco-britannico-italiane sfondarono la linea del Vardar, nell’autunno del 1918, e avanzarono, al comando del generale francese Franchet d’Esperey, fino alle porte dell’Ungheria, senza subire alcuna battuta d’arresto. Per inciso, questa vulnerabilità da Sud conferma che la proposta di Churchill, durante il vertice di Casablanca del gennaio 1943, di invadere il continente eu-
Va ricordato, comunque, che le popolazioni dell’Europa centro-orientale hanno sempre reagito alle invasioni e alle occupazioni con vigore, cedendo solo dopo una strenua lotta, e risollevando il capo a ogni occasione favorevole. Le sofferenze rafforzano i popoli che vogliono conservare la propria identità, e questo è particolarmente vero per gli abitanti dell’Europa centro-orientale, combattenti eroici, temibili e rispettati dai nemici. Purtroppo, questa loro capacità collettiva ha anche originato, nel caso non infrequente di discordie interne, conflitti di un’intensità senza pari: chi abbia seguito nei dettagli la guerra civile nella ex Jugoslavia, ne ha avuto una tragica conferma. E sono state proprio queste discordie interne a permettere alle potenze limitrofe (gli elefanti, appunto) di ritagliarsi proprie aree di influenza, nell’Europa orientale, se non di dominarne ampie porzioni. La situazione geopolitica dell’Europa centro-orientale è stata, nel tempo, analizzata da numerosi studiosi, a cominciare da Mackinder. Questi, già nel 1904, osservava che «la rottura dell’equilibrio di potenza a beneficio dello Stato-perno (la Russia), consentirebbe a quest’ultimo di utilizzare le immense risorse del conti-
ropeo sbarcando in Grecia anziché in Italia, non sarebbe stata un’impresa impossibile; al contrario, forse sarebbe stata più agevole rispetto a quanto poi fu attuato dalle Nazioni unite, le cui forze dovettero risalire con fatica la penisola italiana, solo per scoprire che la sua orografia si prestava meglio alla difesa da parte del nemico tedesco.
nente, e il dominio del mondo sarebbe allora in vista. Ciò potrebbe prodursi se la Germania si alleasse con la Russia» (1). Vedremo che quest’ultimo scenario, ancor oggi, è il peggior incubo per le potenze marittime, e in particolare degli anglo-americani. Il pericolo di un’alleanza russo-tedesca non si realizzò e, nel periodo immediatamente successivo alla
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Le ragioni strategiche del Trimarium
Prima guerra mondiale, Mackinder scrisse che «la condizione per una stabilità nella risistemazione territoriale dell’Europa orientale è che la suddivisione sia in tre anziché in due sistemi statuali. È una necessità vitale che ci sia un numero di Stati indipendenti tra la Germania e la Russia» (2) Subito dopo, Mackinder esaminò in termini elogiativi la forza di carattere di «queste sette popolazioni non tedesche, ognuna delle quali pari alla popolazione di uno Stato europeo di second’ordine — i polacchi, i boemi (cechi e slovacchi), gli ungheresi (magiari), gli slavi del Sud (serbi, croati e sloveni), i rumeni, i bulgari e i greci» (3). Qualora queste nazioni fossero unite, secondo lo studioso, esse sarebbero state forti a sufficienza per creare un’entità geopolitica in grado di resistere alle pressioni delle grandi potenze limitrofe. La conclusione dello studioso, però, era che questa unione avrebbe dovuto comprendere tutti i paesi dell’Europa centro-orientale. Infatti, secondo lui, «le nazioni polacca e boema non possono essere sicure e indipendenti, a meno che esse non siano l’apice di un
prima che era stata sconfitta dall’Intesa e la seconda in preda alla guerra civile, creando una confederazione di Stati sufficientemente forte da resistere alle loro pressioni future. Il progetto prevedeva, in particolare, l’inclusione, nella confederazione, di Lituania, Bielorussia, Ucraina e degli altri paesi dell’Europa centro-orientale. Purtroppo, il metodo scelto dal Presidente polacco non fu certamente quello più idoneo a cooptare gli altri popoli della regione: i conflitti che la Polonia scatenò prima contro l’Ucraina, poi contro la Cecoslovacchia e infine contro la Lituania mostrarono che il Governo di Varsavia non si poneva come nazione cooptante, ma puntava al dominio della regione. La conseguenza fu una profonda diffidenza tra i popoli della regione, che si è attenuata solo in tempi recenti. Ma anche in Polonia vi furono problemi per il progetto di Pilsudski, che fu fortemente osteggiato da ampi strati della popolazione, i cui rappresentanti puntavano a un consolidamento della rinata Polonia su base monoetnica, in linea con i «14 punti» del programma che il presidente americano Woodrow Wilson aveva annunciato, per l’assetto post-bellico dell’Europa. L’ambizioso
ampio cuneo di indipendenza, esteso tra l’Adriatico, il Mar Nero e il Baltico» (4). Questa analisi di Mackinder fu fatta propria, nel 1920, dal presidente polacco Pilsudski, il quale lanciò l’ambizioso progetto detto «Intermarium», che puntava a sfruttare la momentanea debolezza delle due potenze limitrofe, appunto la Germania e la Russia, con la
progetto, quindi, fallì, e l’Europa centro-orientale, debole e divisa com’era, rimase una preda ambita dalle grandi potenze, che non tardarono ad approfittarne. Nel settembre 1938, infatti, iniziò il periodo più buio e drammatico per la regione: a Monaco, le potenze europee riconobbero alla Germania il diritto di annettersi i Sudeti, aprendo la porta all’occupazione, il 15 marzo
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successivo, dell’intera Cecoslovacchia da parte dell’esercito tedesco. Questa nuova, sventurata nazione, dopo pochi anni di vita, ripiombò quindi nel servaggio, diventando il «Protettorato di Boemia e Moravia», mentre, negli stessi giorni, l’esercito ungherese occupava la Galizia ex austro-ungarica, oggi nota come «Ucraina carpatica». Nell’estate 1939, il patto di non-aggressione tra Germania e Unione Sovietica, noto come «Patto Ribbentrop-Molotov», completava, mediante un protocollo segreto, la spartizione dell’Europa centro-orientale tra le due potenze. A Mosca sarebbe andata la parte orientale della Polonia, i Paesi Baltici e la Bessarabia rumena, mentre la Germania avrebbe annesso la parte occidentale della Polonia, ripristinando così, grosso modo, i confini esistenti prima del 1914. Curiosamente, quando la Germania invase la Polonia, il 1° settembre 1939, le nazioni garanti della sua indipen-
Gli alleati anglo-americani, sia pure obtorto collo, accettarono questa situazione, non volendo intervenire militarmente per costringere Mosca ad abbandonare almeno parte dei territori occupati, per cui bisognò attendere l’implosione dell’Unione Sovietica — e del Patto di Varsavia — perché queste nazioni riprendessero la loro libertà d’azione, e pensassero di nuovo a una qualsiasi forma di unione. Il fatto, però, che questi paesi fossero stati «tenuti (dall’Unione Sovietica) in una specie di prigione di nazioni dal 1945 al 1989» (5), essendo stati in parte inglobati nell’Unione Sovietica e in parte inseriti nel Patto di Varsavia, ha creato un’animosità nei popoli della regione nei confronti del Governo di Mosca, manifestatasi sia nei provvedimenti punitivi nei confronti delle minoranze russofone rimaste in quelle nazioni, sia — più in piccolo — nell’atteggiamento dei rappresentanti governativi di quei paesi, in occasione di ogni riunione del NATO-Rus-
denza, Francia e Gran Bretagna, le dichiararono guerra, ma dimenticarono di fare lo stesso, quando Mosca, pochi giorni dopo, inviò le proprie forze a occupare la metà orientale di quello sfortunato paese. Fu la paura di rendere permanente l’alleanza russo-tedesca, tanto temuta da Mackinder, oppure una semplice dimenticanza? Nel 1941, lo scoppio della guerra tra Germania e Unione Sovietica trasformò l’intera regione in un campo di battaglia, e il crollo tedesco, quattro anni dopo, ebbe come conseguenza l’occupazione e il completo assoggettamento dell’Europa centro-orientale, che nel frattempo era diventata un cumulo di macerie, da parte dell’Unione Sovietica.
sia Council, tanto da paralizzarlo, a poco a poco, e costringere la Russia ad abbandonarlo. I paesi dell’Europa centro-orientale, avendo ottenuto l’ammissione sia all’Alleanza Atlantica, sia all’Unione europea, si sono affidati, per alcuni anni, alle politiche delle due organizzazioni, anche se avevano avuto cura di creare, nel 1991, il «Gruppo di Visegrad», comprendente Ungheria, Cechia, Slovacchia e Polonia, con finalità prettamente economiche. Nel 2015, di fronte al prevalere dei progetti europei per la costruzione di infrastrutture «estovest», i presidenti di Polonia e Croazia proposero alle altre nazioni della regione di associarsi a loro, in modo di creare un blocco sufficientemente omogeneo, in grado
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Le ragioni strategiche del Trimarium
di acquisire maggior forza all’interno dell’UE, e di ottenere, quindi, finanziamenti adeguati per progetti «nordsud», riguardanti esclusivamente la regione. È nato così, all’interno dell’Unione europea, sotto il nome di «Trimarium», un progetto di unione, simile al tramontato Intermarium, comprendente le nazioni che si stendono tra il Mar Baltico, il Mar Nero e l’Adriatico. Hanno aderito, infatti, al progetto l’Estonia, la Lettonia, la Lituania, la Polonia, la Cechia, la Slovacchia, l’Ungheria, l’Austria, la Slovenia, la Croazia, la Romania e la Bulgaria. La finalità dichiarata è, per ora, puramente economica, e prevede progetti ambiziosi, che dovrebbero dotare l’Europa centro-orientale di infrastrutture in grado di sostenerne lo sviluppo, che fino a ora non ha avuto la stessa velocità degli altri membri dell’Unione. Nella sua veste attuale, comunque, il Trimarium, di per sé, è un notevole passo avanti, rispetto alle discordie che hanno caratteriz-
punto di partenza verso una geopolitica che interessa il Mediterraneo in concorrenza con altri spazi marini». Il Trimarium, però, viene anche visto, specie dagli Stati Uniti, come un potenziale asse geopolitico in funzione antirussa, in linea con le raccomandazioni di Mackinder, da favorire, anche mediante massicci investimenti (7). Se, infatti, i paesi della regione, uniti dal comune timore nei confronti della Russia, sviluppassero capacità difensive integrate, a complemento del loro sviluppo economico, essi si libererebbero dalle pressioni e ridurrebbero la loro dipendenza economica dalla Russia e dalla Germania. Un Trimarium allargato al comparto Difesa, quindi, costituirebbe soprattutto un bastione tale da frenare il revanscismo russo, che costituisce, oggi, il pericolo maggiore per la stabilità dell’intera Europa. Inoltre, una tale associazione, qualora si rendesse, anche se solo in parte, indipendente dalla NATO e dalla UE, potrebbe Il Gruppo dei Paesi di Visegrad: Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca (labeuropa.eu)
zato i paesi della regione, specie quando si pensò di costruire una diga sul Danubio, al confine tra la Slovacchia e l’Ungheria, appunto la diga di Gabčikovo, mai completata, per i profondi dissidi sul suo utilizzo. Se i progetti nord-sud voluti dai paesi del Trimarium andranno avanti, le economie di queste nazioni saranno direttamente collegate con i tre mari che si trovano alle sue estremità, appunto il Baltico, il Mar Nero e l’Adriatico, a complemento della tendenza dell’UE a favorire progetti est-ovest, per legare più strettamente l’Europa centro-orientale all’Europa occidentale. Come osservava uno studioso, inoltre (6), «l’Europa di mezzo, circondata (da potenze maggiori) è al suo
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allargarsi fino a comprendere l’Ucraina, inserendo quest’ultima in un quadro securitario e dandole quelle garanzie di sopravvivenza che, visibilmente, oggi le mancano. Si verrebbe quindi a rovesciare la situazione che l’Unione Sovietica aveva creato nel 1945, impadronendosi dell’intera Europa centro-orientale. Il progetto americano, quindi, si appoggia sul fatto che le nazioni parte del Trimarium ritengono l’accordo non solo pienamente in linea con le loro esigenze geostrategiche, ma anche come un modo per affermare la loro identità collettiva, da un lato nei contesti NATO e UE, nei quali esse sono minoritarie, e dall’altro diventando interlocutrici da rispettare da parte delle potenze
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limitrofe, tendenzialmente portate a esercitare pressioni forti su di loro. Che questo progetto di ampliamento danneggi o meno l’Italia è ancora da vedere: sul piano economico, lo sviluppo della zona potrebbe essere un bene per noi, che abbiamo creato nella regione notevoli attività congiunte, e addirittura rientrerebbe nella «European Neighbourhood Policy» (ENP) lanciata già nel 2003. Avere ai propri confini orientali una zona di benessere e di stabilità favorirebbe ulteriormente gli scambi commerciali, oggi sempre più intensi, tra noi e questi paesi, anche se il Trimarium potrebbe danneggiare, in
parte, i nostri porti adriatici, qualora perdessero competitività. Un simile timore, è bene ricordare, si diffuse da noi, alcuni decenni fa, per la creazione del porto di Capodistria, che per qualche tempo tolse traffico a Trieste. Una delle bandiere dell’Europa è sempre stata lo sviluppo economico del proprio vicinato, quale assicurazione della stabilità dell’intero continente. Non a caso, già nel 2003, il documento UE sulla «Strategia di Sicurezza europea» affermava che «È nell’interesse dell’Europa che i paesi che ci circondano siano ben governati» (8). Per questo, il Trimarium non può essere da noi boicottato, anche se molte voci si sono levate in tal senso, a causa del timore che l’economia delle nostre regioni di nord-est ne vengano danneggiate. Va tenuto anche presente un fattore immateriale non trascurabile: abbiamo visto che, dai suoi paesi membri, l’accordo è ritenuto vitale, quale affermazione dell’identità collettiva di popoli a lungo oppressi. Ogni nostra azione in senso contrario all’accordo, verrebbe quindi ritenuta un atto ostile, e finirebbe per danneggiare la collaborazione economica tra noi e loro, che oggi ha raggiunto livelli significativi. Sul piano securitario, infine, un Trimarium allargato al comparto Difesa sarebbe una barriera in grado di proteggere anche noi da quegli atti di «guerra ibrida» che stanno coinvolgendo i Balcani, nell’ambito della contrapposizione tra il Nord e il Sud del mondo, nel cui ambito il traffico di esseri umani non è che un aspetto. Abbiamo trascorso quasi un decennio, versato il sangue dei nostri militari e speso enormi risorse, tra il 1992 e il 2000, per disinnescare le tensioni e i conflitti nell’Europa centro-occidentale: se questi paesi trovassero un benessere almeno simile al nostro, e una coesione tale da tenere a bada il revanscismo russo, l’Europa intera raggiungerebbe un livello maggiore di stabilità, per cui la nostra sicurezza ne beneficerebbe. Ben venga, quindi, il Trimarium! 8
NOTE (1) H.J. Mackinder, The Geografical Pivot of History. The Geographical Journal, Vol. 23, 1904, pag. 436. (2) H.J. Mackinder, Democratic Ideals and Reality; a study in the politics of reconstruction. Ed. Constable and Co. 1919, pagg. 204-205. (3) Ibid. pag. 206. (4) Ibid. pag. 214. (5) R.D. Kaplan, The Revenge of Geography. Ed. Random House, 2012, pag. 75. (6) A. Vigarié, La Mer et la Géostratégie des Nations. Ed. Economica, 1995, pag. 184. (7) F. D’aprile, Cos’è il Trimarium e perché è conteso tra UE e Stati Uniti. Linkiesta, 24 ottobre 2020. (8) UE. Un’Europa Sicura in un mondo migliore. Strategia europea in materia di sicurezza. Bruxelles, 12 dicembre 2003, pag. 7.
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PRIMO PIANO
Il Trimarium: la faglia geopolitica del sistema mondo Laris Gaiser
Professore associato di studi sulla sicurezza e macroeconomia alla Nova Univerza e all’Istituto Cattolico di Lubiana (Slovenia). Membro dell’Italian Team for Security Terroristic Issues and Managing Emergencies presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, insegna geopolitica e geoeconomia presso l’Accademia diplomatica di Vienna. Dal 2008 al 2012 ha insegnato relazioni internazionali all’Università della Georgia (Usa) e dal 2012 al 2014 ha presieduto l’Università Euromediterranea-EMUNI. Consulente strategico di governi e aziende straniere è anche editorialista per numerose testate giornalistiche europee. È membro del comitato scientifico di Limes-rivista italiana di geopolitica ed è stato membro, in qualità di esperto, dei working group di preparazione dello Strategic Compass dell’UE. Su invito del Governo ucraino è consulente della Piattaforma Crimea. Capitano (ris. sel.) dell’Arma dei Carabinieri.
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L’Europa centrale: questione di punti di vista Anche alla luce delle più recenti vicende geopolitiche, la partita per la stabilità del continente europeo e quindi del sistema mondo si gioca esattamente come nel 1918 in quella parte di Europa, variamente definita a secondo dell’interesse nazionale di riferimento, che si estende dalla Polonia alla Grecia toccando le sponde del Mar Nero. L’Intermarium ovvero Miedzymorze dei fasti polacco-lituani, la Zwische-
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neuropa di concezione teutonica propaggine del Rimlad di Nicholas Spykman (1). La Mitteleuropa allargata di fondazione asburgica, la Nuova Europa di Donald Rumsfeld, il Trimarium atlantista o semplicemente, per chi ci è nato, l’Europa centrale sono tutte denominazioni dello spazio storico e geografico nel quale si scontrano e incontrano gli imperi desiderosi di controllare l’ordine mondiale. L’Europa centrale, che automaticamente sottintende l’esistenza di un’Europa orientale e quindi identifica i russi quali europei tout court, è in verità un concetto spesso pieno di contraddizioni dal punto di vista politico e sociale poiché definisce una regione complessa in cui le nazioni non corrispondono quasi mai ai confini statali ma che territorialmente può essere delimitata, nella sua estensione massima, tra il Mare del Nord, il Mar Nero ed il mare Adriatico. È la cartina di tornasole della fluidità delle relazioni internazionali e il luogo in cui la storia e la geografia, a ondate costanti, tornano protagoniste fondando o distruggendo, come negli ultimi cento anni, gli agglomerati statali. Nella regione si contavano nel 1914 solo nove Stati. Dieci del 1945. Oggi sono diciotto. Dopo l’euforia dei primi anni Novanta del secolo scorso, generata dal crollo dei regimi comunisti, dalla ritrovata indipendenza di alcuni Stati ovvero dalla creazione di nuovi come nel caso della Slovenia, negli ultimi anni una sensazione di sbigottimento ha iniziato ad avvolgere le capitali della regione. Politici e cittadini hanno incominciato a comprendere che essere piccoli, divisi e riottosi non porta grandi vantaggi. Le classi dirigenti più sensibili incominciano a rendersi conto che vi è una necessità impellente di incominciare a gestire le inquietudini in modo da arginarne le potenziali minacce. Passato il periodo in cui la Russia era un gigante dai piedi d’argilla e in cui la sola prospettiva di un ingresso nell’Unione europea era garanzia di stabilità, hanno incominciato a riconsiderare in maniera assi più immanente i problemi legati al fatto d’essere, da sempre, una zona d’attrito tra diverse sfere d’influenza (2). Il ritorno negli anni della proattività moscovita, l’effettività della profondità strategica turca (3), il prevalere dell’influenza economica tedesca, la sfaldante presenza cinese e la volontà di controllo strategico
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degli Stati Uniti sono tutti fattori che fanno dell’Europa centrale uno dei principali campi di competizione degli interessi globali. L’essere continuamente sottoposti alle correnti d’aria degli interessi nazionali altrui, ma soprattutto ritrovarsi costantemente in balia delle capitali più potenti all’interno di quell’Unione europea, che invece avrebbe dovuto essere l’approdo sicuro per i frammentati popoli del continente, crea tensioni geopolitiche, rinfocola perplessità culturali e palesa la debolezza delle strutture politiche locali. Per tale ragione la potenza di riferimento del mondo nordatlantico, gli Stati Uniti, sta cercando negli ultimi anni di trovare una soluzione al problema, da essa stessa creato al termine della Prima guerra mondiale, della frammentazione spaziale e della dipendenza infrastrutturale esterna della regione compresa tra i tre mari, sostenendo l’Iniziativa dei Tre Mari, ovvero il Trimarium.
si intersecano gli interessi nazionali di numerose potenze mondiali e regionali (5). L’idea di una fattiva collaborazione tra i paesi dell’Europa centrale, quale barriera di contenimento dell’espansionismo tedesco e russo, è pertanto nell’aria da esattamente un secolo ed è stata descritta con nomi differenti a seconda dei proponenti. Diversi politici hanno provato a implementarla, per ora senza successo. Stalin fu l’unico che riuscì a congelarla. Annettendo quasi tutti i paesi della regione alla sfera d’influenza sovietica dopo il 1945, egli ha congelato il problema e si è opposto con efficacia ai progetti di Winston Churchill basati su una grande federazione che alla conclusione della Seconda guerra mondiale potesse estendersi, in chiave specificatamente antisovietica, dalla Polonia alla Grecia. Winston Churchill fu studioso consapevole del disastro geopolitico apportato dalle pretese statuali sorte dalla formula dell’autodeterminazione dei popoli so-
La contemporaneità della questione
stenuta, seppur sulla base di differenti premesse, da Wilson e Lenin con cui si è condannata alla sparizione l’entità asburgica nel 1918 e consolidate pretese nazionaliste spesso basate su miti autoreferenziali (6). Sulla scorta delle sue analisi, nella quali si constatava sempre la necessità di ricostruire delle entità statali multinazionali funzionalmente capaci d’arginare le pretese esterne ovvero fungere da cuscinetto tra Berlino e Mosca, Churchill, per nulla sostenuto dall’alleato americano e decisamente osteggiato da quello sovietico, tentò nel periodo del secondo conflitto globale di creare connessioni che potessero al termine del conflitto sfociare in una confederazione regionale di nazioni favorendo i matrimoni tra le varie casate regnanti nei Balcani e nell’Europa centrale e soprattutto convin-
Stabilizzare l’Europa centrale è un’esigenza che si è fatta pressante alla fine del primo conflitto mondiale con la disintegrazione dell’impero austro-ungarico (4). Venuto meno il cuscinetto geopolitico viennese che per secoli aveva attutito le frizioni tra le pretese russe, ottomane e, in epoca più recente, tedesche, si è creato nell’Europa centrale un vuoto strategico i cui effetti si protraggono fino ai nostri giorni. Una miriade di Stati medio-piccoli, creatisi prima sulla base dei quattordici punti di Woodrow Wilson e successivamente con il disintegrarsi dell’impero sovietico, tra il Mar Egeo e il Mar Baltico non è certamente garanzia di stabilità e governabilità per un’area geografica caratterizzata da forti tensioni storiche, politiche, culturali e religiose nella quale
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cendo i Governi in esilio a farsi promotrici delle sue visioni geopolitiche. Il primo a esternare tale idea fu il generale Wladislaw Sikorski, primo ministro del Governo polacco a Londra. Nel 1942 propose l’implementazione di una Federazione dell’Europa centrale e orientale, libera da ogni altro Stato, da crearsi gradualmente. Il primo passo sarebbe stato quello di portare all’ordine del giorno dei Governi in esilio la creazione di una federazione greco-jugoslava e di una polaccocecoslovacca (7). Il progetto fallì per l’aperta opposizione dell’Unione Sovietica e la diffidenza del presidente americano, Franklin D. Roosevelt (8). Tuttavia, Churchill insistette e secondo le fonti disponibili, dal 1943 al 1947 il servizio segreto britannico MI6 sostenne economicamente diverse cellule di dissidenti, anticomunisti, provenienti dai paesi sottoposti al giogo nazifascista dell’Europa centrale favorevoli
tato innanzi dall’Unione Sovietica nelle sue zone di occupazione (11). Nel mese di agosto di quello stesso anno la maggioranza delle operazioni venne trasferita dal Club di Londra a quello, più geograficamente prossimo alla regione, di Roma al cui vertice vennero posti due sloveni. Miha Krek divenne presidente e Ciril Zebot segretario generale. La vicepresidenza venne invece affidata al principe polacco Julius Poniatowski. Il loro contributo più significativo divenne la pubblicazione, per quanto scostante, dei Bollettini Intermarium nelle cui pagine si approfondivano le vicende politiche dell’Europa contemporanea. La validità delle analisi geopolitiche e sociali presenti nella Carta e nei Bollettini verrà provata negli anni Novanta del secolo scorso dal crollo del regime sovietico, dal collasso della Jugoslavia e dal riacutizzarsi di numerose frizioni nazionaliste che l’ordine post
alla ricostruzione in senso federale della regione alla fine del conflitto (9). Tali cellule, rappresentate dai Club Federali Centroeuropei di Londra, Parigi e Roma, pubblicarono nel 1945 la Carta Intermarium quale proposta per l’unione di 160.000.000 di cittadini appartenenti ai popoli albanese, greco, bulgaro, serbo, ceco, croato, slovacco, sloveno, ungherese, lituano, polacco, lettone, rumeno, ruteno e ucraino (10). Il preambolo della Carta, impregnata della convinzione che la stabilità della regione fosse di fondamentale importanza per una pace duratura in Europa, definiva la necessità dei suddetti popoli di dotarsi di una cooperazione strutturata in seguito alle tragedie della Prima e della Seconda guerra mondiale e al venir meno di buona parte delle classi dirigenti a causa dello sterminio dei politici por-
Seconda guerra mondiale della regione aveva solo momentaneamente congelate. Gli Stati Uniti d’America, appresa la lezione delle negatività scaturite dalla parcellizzazione dell’Impero austroungarico, tenteranno nell’immediatezza di contrastare lo sfaldamento degli Stati. Il 1° agosto 1991, il presidente degli Stati Uniti G. H. W. Bush ammoniva gli ucraini, e conseguentemente tutti i popoli in quei mesi impegnati a inseguire progetti indipendentisti, che gli americani «non sosterranno coloro che aspirano all’indipendenza per rimpiazzare una distante tirannia con un dispotismo locale. Non aiuteranno coloro che promuovono un nazionalismo suicida basato sull’odio etnico» (12). Costretti dall’ineluttabilità degli eventi a gestire la fine del confronto bipolare in maniera differente, gli
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Stati Uniti affronteranno la problematica della stabilizzazione dell’Europa centrale sostenendo esternamente l’allargamento dell’Unione europea, nella speranza che l’europeizzazione delle nazioni potesse prevalere sulla nazionalizzazione dell’Europa, e direttamente quello della NATO. Le capitali della regione, spesso assai più consce della storia di quelle occidentali, diffidenti da Berlino e Mosca erano destinate a divenire le alleate più vicine a Washington ma anche quelle a dedicare per prime, nel corso degli anni, il 2% del PIL nazionale al settore della Difesa, come da indicazioni della NATO. Per convogliare e controllare l’eventuale disappunto russo, Mosca venne invitata a sedere al tavolo del G-8 e a condividere le eventuali perplessità geopolitiche dell’arretramento della sua sfera d’influenza da Berlino a Sebastopoli nella cornice del Consiglio NATO-Russia. Lo spazio geografico compreso tra il Mar Nero, l’Adriatico e il Baltico si estende su tre micro regioni. La Polonia, nazione sufficientemente grande per avere pretese di potenza regionale, il nucleo dei paesi strictu sensu centrali rappresentato dalla Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Austria e, in parte, Slovenia la quale a sua volta funge da connettore con la realtà dei Balcani. Ed è proprio nei Balcani che negli ultimi anni, sempre più, si sono ricominciate a sentire le frizioni dei diversi mondi che ivi s’incontrano e scontrano.
L’anello debole del Trimarium: i Balcani Dichiarando nel 2014, all’insediamento della sua Commissione, che l’allargamento dell’UE doveva intendersi congelato a data da destinarsi, Jean Claude Junker ha tarpato le ali agli approcci riformatori di stampo pro-europeo e pericolosamente rinazionalizzato le politiche dei Balcani (13). La Macedonia, la Serbia,
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l’Albania, il Montenegro, paesi ufficialmente candidati, unitamente alla Bosnia Erzegovina e Kosovo, paesi non candidati ma consci d’avere un limitato orizzonte di vita qualora venga meno l’opzione europea, hanno iniziato, seppur in modi tra loro differenti, a sperimentare forti tensioni politiche interne a causa della poca chiarezza dello scenario internazionale. In una regione nella quale abbondano i conflitti congelati dell’era post Guerra Fredda, il vuoto strategico di Bruxelles ha permesso l’espandersi di interessi nazionali confliggenti. La Russia, pur non osteggiando apertamente l’allargamento dell’Unione europea, vede i Balcani quale baluardo di resistenza anti-NATO e cerca di presentarsi nella veste di potenza alternativa, soprattutto come protettrice dei valori delle popolazioni slave e ortodosse di fronte alla corruzione dei valori morali occidentali. La capitale di riferimento per Mosca nella regione è da sempre Belgrado cui però le pompose cerimonie e le altisonanti dichiarazioni di eterna amicizia delle visite bilaterali garantiscono ben poco ritorno economico. Con un investimento finanziario dieci volte più piccolo di quello cinese, la Russia si assicura comunque la presenza nelle questioni regionali, soprattutto in quella kosovara. Nonostante la posizione ufficiale della Federazione russa sia di sostegno alla Serbia e quindi contraria alla secessione unilaterale dichiarata da Pristina nel 2008, il presidente russo Vladimir Putin ha da sempre silenziosamente sperato affinché l’Occidente in Kosovo facesse di testa propria in modo d’avere un precedente storico e giuridico sul quale basare le proprie mosse altrove. Senza il referendum per l’indipendenza del Kosovo, l’annessione della Crimea sarebbe stata assai più difficile, così come un eventuale scambio territoriale tra Belgrado e Pristina faciliterebbe la
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chiusura definitiva di pendenze nell’arco territoriale tra Ucraina e Caucaso. Una prima ridefinizione, internazionalmente accettata, dei confini nei Balcani inoltre rinsalderebbe la presenza russa in loco in quanto l’effetto domino investirebbe automaticamente la Bosnia Erzegovina e coinvolgerebbe gli ancora numerosi confini ancora oggi non definiti tra gli ex paesi della Federazione jugoslava. La Cina guarda ai Balcani attraverso un prisma più geoeconomico basato sulla strategia delle Nuove Vie della Seta. Geopolitica travestita da economia che nel 2012 fa lanciare a Pechino, nella medesima regione abbracciata dal Trimarium, l’Iniziativa 16+1 (14). Il flebile ritorno economico che un mercato tanto frammentato e numericamente esiguo come quello balcanico le garantisce viene compensato dall’accrescimento d’immagine internazionale del Partito comunista assicurata dalla presenza sui mercati europei e dall’amicizia di paesi, come per esempio la Serbia, che l’appoggiano nelle questioni legate alla sovranità sul Tibet e Taiwan. La sinergia di Belgrado viene ripagata con ben 10 miliardi di dollari di investimenti nell’economia. Avendo constatato d’essere proprietaria di un porto mediteranno, il Pireo, sostanzialmente isolato e compreso quanto sia antieconomico collegarlo con Budapest attraverso investimenti nella rete stradale, Pechino cerca di garantirsi l’amicizia dei paesi adriatici in modo da trovare un porto che permetta alle proprie merci di giungere velocemente nel cuore dell’Europa, che comunque dopo decenni di stagnazione comunista sta ritornando a essere un mercato vivace e soprattutto una piattaforma logistica di primaria importanza. Motivo per cui nell’ultimo quinquennio non ha disdegnato di ammiccare ai porti di Fiume e di Trieste (15).
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Nel rispetto della massima di Sun Tzu secondo cui il nemico va adescato con la prospettiva dei vantaggi e conquistato con la confusione, per Pechino i Balcani sostanzialmente non sono altro che la porta d’ingresso secondaria per l’Unione europea e il luogo nel quale poter sfaldare l’unità del mondo nordatlantico garantendosi accordi bilaterali vantaggiosi. La Turchia, storicamente presente in zona, soprattutto in seguito al progressivo abbandono del kemalismo di Stato e il conseguente ritorno all’ottomanesimo sta cercando di proporsi in questo spazio geografico quale defensor fidei dei mussulmani sunniti ovvero dei mussulmani d’Europa ponendo sotto la propria protezione i fedeli che vivono all’interno del triangolo composto da Istanbul, Vienna, Berlino. Nonostante la sottoscrizione di numerosi accordi bilaterali, la presenza economica turca nei Balcani ha raggiunto nel 2018, anno in cui la svalutazione della moneta nazionale ha iniziato a condizionare negativamente gli investimenti all’estero, un picco massimo di soli 4 miliardi di dollari. Tuttavia, la regione continua a rappresentare per Ankara il luogo naturale su cui estendere la propria influenza imperiale. La Germania è un altro attore ad avere un interesse geopolitico consolidato in zona. Berlino è il primo partner economico della regione. I numeri spesso la pongono in competizione con l’Italia, ma a fare la differenza è la strategia di posizionamento tedesca sostenuta da tutte le strutture statali e dai servizi d’intelligence, che sempre più cerca di penetrare nel tessuto politico e sociale balcanico. L’interesse di Berlino è di rimanere anche nei prossimi decenni il partner economico di riferimento per i paesi della regione motivo per il quale è necessario che il mercato regionale funzioni,
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la situazione politica rimanga il più possibile stabile e le varie economie nazionali aumentino le proprie capacità di acquisto. Per essere di fatto riconosciuta quale potenza di riferimento per i futuri assetti politici, la Germania ha avviato nel 2014 il Processo di Berlino per i Balcani occidentali e tenta lentamente di proporre per i paesi della zona una cooperazione infrastrutturale propedeutica alla creazione di un mercato maggiormente sinergico. Il dialogo tra Serbia e Kosovo, uno dei punti cruciali per la futura stabilità dell’Europa, è bloccato dal 2018 per le posizioni prese dall’allora cancelliera tedesca Angela Merkel che ha minacciato di destabilizzare il presidente serbo Aleksander Vućić qualora avesse effettivamente chiuso, come all’epoca si ipotizzava, il contenzioso con il Kosovo sulla base di uno scambio di territori. Lo scambio di territori tra la Serbia e il Kosovo, tacitamente sostenuto da Washington, avrebbe probabilmente chiuso l’annosa vicenda del mancato riconoscimento dei due Stati, ma quasi certamente comportato nell’instabile regione una reazione a catena dalle pesanti conseguenze geopolitiche. L’ipotesi americana era di gestire tali conseguenze con un veloce allargamento della NATO mentre a Berlino da sempre tendono a evitare qualunque mossa che possa accrescere l’ipotetica instabilità, nonché rafforzare la presenza in loco degli Stati Uniti. Meglio un vacuo dialogo a oltranza piuttosto che una soluzione affrettata (16). Lo stallo ha comportato che il Governo tedesco si è fatto promotore dell’idea di un vertice speciale sul futuro dei Balcani tenutosi a Berlino il 29 aprile 2019 al quale sono stati invitati solo i rappresentanti dei paesi della regione, il presidente francese Emmanuel Macron e i rappresentanti dell’Unione europea. La convocazione del vertice è stata una chiara dichiarazione di sfida a Washington per il controllo dei futuri equilibri europei e un ulteriore passo in avanti nella strategia di annessione definitiva dello spazio geografico compreso tra Lubiana e Skopje alla sfera d’influenza germanica. Il summit, ufficialmente indirizzato al riavvio del dialogo tra Belgrado e Pristina, non ha portato i risultati sperati ma ha riportato con veemenza gli Stati Uniti al centro degli eventi regionali nel momento in cui il presidente kosovaro Hasim Thaci ha dichiarato che non ci
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può essere alcun accordo per i Balcani senza Washington dato che l’Europa è troppo divisa e debole per portare avanti dei negoziati credibili.
L’Iniziativa dei Tre Mari All’interno di tale complesso scenario di rivalità geopolitiche, l’Iniziativa dei Tre Mari può essere interpretata come la riedizione in miniatura degli storici scopi della NATO sintetizzati nella massima: portare gli americani dentro, tenere i russi fuori e i tedeschi sotto. Sostenuti dall’unica partner affidabile tra il Mar Baltico e l’Egeo, la Polonia, gli Stati Uniti hanno affidato nell’ultimo decennio al think tank Atlantic Council l’idea di rivitalizzare, e soprattutto promuovere presso i Governi dell’Europa Centrale, l’antica idea di una loro connessione più stretta in modo da creare verticalmente sulla mappa del continente uno spazio infrastrutturale, economico ed energetico funzionale che disconnetta la dipendenza energetica della regione dalle connessioni con la Russia e quella economica dalla Germania. Washington desidera creare una zona cuscinetto che diluisca la ricattabilità della regione. In tale contesto i Balcani dovrebbero entrare completamente nella sfera euro-atlantica, l’influsso russo e cinese dovrebbero essere minimizzato, quello turco controllato, quello tedesco fortemente diluito in modo da poterne anche reimpostare il peso specifico nelle istituzioni dell’Unione. Due sono le nazioni che, facendo proprie le idee dell’Atlantic Council e organizzando insieme la cerimonia di fondazione dell’Iniziativa dei Tre Mari nel 2017 a Varsavia alla presenza del presidente americano Donald Trump, hanno voluto farsi riconoscere quali partner principali in questo progetto: la Croazia e la Polonia. La prima anela a divenire lo snodo principale per tutte le infrastrutture, la porta d’entrata meridionale per il gas liquefatto americano e la testa di ponte di Washington nell’instabile area geografica della penisola balcanica. Varsavia invece, vivendo storicamente nell’incubo più volte avveratosi dell’abbraccio mortale tra Berlino e Mosca, si augura di poter realizzare in chiave di cooperazione il vecchio sogno d’integrazione dell’Intermarium del generale Pilsudski e favorire lo stanziamento in zona del maggior numero possibile di basi NATO. Una strategia che, per il Governo di Varsavia,
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Incontro bilaterale del 2017 tra l’allora presidente degli Stati Uniti Donald J. Trump con il presidente polacco Andrzej Duda (wikipedia.org photo by Shealah Craighead).
in seguito ai recenti eventi ucraini trova ancora maggiore giustificazione. Per non cadere nella dipendenza economica tedesca, la Polonia diede vita negli anni Novanta del secolo precedente al gruppo di Visegrad (V4). Da anni la collaborazione del V4 marcia a passo ridotto. L’appoggio sinergico dell’interesse americano potrebbe ora portare a un nuovo modello di relazioni intra-europee. Dal punto di vista statunitense, è ancora più di prima necessario che ad allargarsi sia prima la NATO e solo successivamente l’Unione europea la quale però dovrebbe venirsi a sovrapporre a un mercato in cui anche gli Stati Uniti possano vantare una presenza più significativa. Al vertice dell’iniziativa dei Tre Mari di Lubiana del 2019, l’allora segretario per l’energia americano Rick Perry ha chiarito senza mezzi termini ai rappresentanti dei Governi presenti che l’Iniziativa dei Tre Mari andava considerata quale progetto prioritario con cui Washington desidera difendere l’Europa da potenziali rigurgiti egemonici intraeuropei e quale barriera alla penetrazione cinese. In quell’occasione il rappresentante di Donald Trump garantì che gli Stati Uniti erano pronti in ogni
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momento a sostenere i partner dell’Europa centrale nel rinnovo delle infrastrutture e nell’indipendenza energetica anche garantendo capacità industriali, produttive e logistiche che permettano la creazione di nuove centrali nucleari, rigassificatori, gasdotti, oleodotti e linee di trasmissione elettrica sulla direttrice verticale tra il Mar Baltico e i mari Adriatico e Nero (17). Le parole di Perry non facevano altro che confermare quelle del generale James L. Jones Jr, già comandante delle forze statunitensi e NATO in Europa e successivamente copresidente dell’Atlantic Council che tre anni prima in Croazia sottolineò che la strategia del divede et impera portata innanzi dalla Russia con la sua politica energetica per minare la coesione atlantica andava fermata e che il Trimarium poteva tranquillamente essere considerato la «nostra guerra ibrida» (18).
Conclusioni Il Trimarium rispecchia l’attuale visone statunitense di riassetto di una regione che da più di cento anni rappresenta il ventre molle della sicurezza e della stabilità europea. La fine del confronto bipolare, che per alcuni decenni ha congelato il problema, ha aumentato la po-
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tenziale instabilità di una zona geografica destinata dalla storia a fungere da cuscinetto tra l’Occidente e l’Oriente (19) e che negli ultimi anni registra un costante aumento della spesa militare (20). L’Europa centrale è oggi suddivisa in Stati tendenzialmente medio–piccoli ammaliando i quali la Cina comunista desidera sfaldare la consistenza del mondo nordatlantico, la Russia rimanere potenza europea, la Germania consolidarsi egemone geoeconomico, la Turchia provare la bontà della sua profondità strategica e gli Stati Uniti riuscire a gestire per a mantenere stabile il proprio impero. Arrivando nel 2017 a Varsavia al summit di fondazione dell’Iniziativa dei Tre Mari, Donald Trump esternò la sua soddisfazione per essere finalmente giunto nel cuore dell’Europa, centro geografico e anima del continente (21). Il problema della regione consiste nel fatto che
molte nazioni si contendono la centralità geografica e spirituale del continente. Ogni capitale interpreta lo spazio e la storia sulla base della propria esperienza culturale e politica, spesso basata sulla presenza di un avversario geopolitico. Approccio autoreferenziale al mondo ma condizione comune in paesi neo emancipati spesso travolti dagli eventi scatenati da potenze vicine. Non deve stupire pertanto la vicinanza a Washington. Gigante sufficientemente lontano per non minacciare l’esistenza della nazione e necessariamente bisognoso di alleati sul limes dell’Impero. Il fatto che invadendo l’Ucraina, la Russia abbia impostato una strategia di conquista orientata alla conquista della zona costiera del Mar Nero non potrà far altro che rafforzare, tra i decisori politici statunitensi, i propositi di consolidamento del Trimarium. 8
NOTE (1) Nicholas Spykman, America’s Strategy in World Politics, Transaction Publishers, New Brunswik, 1942. (2) Laris Gaiser, La Croazia batte la Slovenia e diventa perno adriatico dell’Europa filoamericana, in Limes, n. 12/2017, pp. 129-136. (3) Ahmet Davutoglu, Stratejik Derinlik, Küre Yayınları, Istanbul, 2004. (4) Dariusz Miszewski, Franciszek Dąbrowski, Marek Deszczyński, Grzegorz Wnętrzak, Central Europe after 1918: a short outline, in Security and Defence Quarterly, 19/2, pp.13-38. (5) Erez Manela, The Wilsonian Moment: Self-Determination and the International Origins of Anticolonial Nationalism, Oxford University Press, Oxford, 2007. (6) Edgar Hosch, Storia dei Balcani, Il Mulino, Bologna, 2006. (7) Józef Garliński, The Polish Underground State 1939-1945, in Journal of Contemporary History, n. 10/2, pp. 219–259. (8) Alan Watson, Churchill’s Legacy, Bloomsbury Publishing PLC, London 2016. (9) Jonathan Levy, The Intermarium: Wilson, Madison and East European Federalism, Universal Publishers, Irvine, 2007. (10) Free Intermarium Charter, disponibile al sito: https://kpbc.umk.pl/Content/220676/ArchEmig_POPC_016_021_07_HD_011. pdf. (11) Krystyna Kersten, The establishment of Communist rule in Poland, 1943-1948, University of California Press, Oakland, 1991. (12) George H.W. Bush, Brent Scowcroft, A World Transformed, Knopf, New York, 1998. (13) Si veda: www.euractiv.com/section/enlargement/news/juncker-waves-credible-eu-prospects-at-balkans-but-no-fast-membership. (14) Jeremy Garlick, China’s Economic Diplomacy in Central and Eastern Europe: A Case of Offensive Mercantilism?, in Europe-Asia Studies, n. 71/8, pp. 1390-1414. (15) Sul punto si veda: www.porto.trieste.it/wp-content/uploads/2019/03/PRESS-RELEASE-230319.pdf. (16) Laris Gaiser, Dal Trimarium ai Balcani le nuove aree di frizione fra Stati Uniti e Germania, in Limes, n. 4/2019, pp. 169-175. (17) L’autore era presente personalmente ai colloqui. (18) Atlantic Council, Remarks by General James L. Jones at the Dubrovnik Three Seas Initiative Presidential Roundtable, agosto 2016, disponibile sul sito: www.atlanticcouncil.org/commentary/transcript/remarks-by-general-james-l-jones-jr-at-the-dubrovnik-three-seas-initiative-presidential-roundtable. (19) Marek J. Chodakiewicz, Intermarium-The Land between the Black and Baltic Seas, New Brunswik, 2016. (20) Si veda: https://sipri.org/sites/default/files/Data%20for%20all%20countries%20from%201988%E2%80%932020%20as%20a%20share%20of%20GDP %20%28pdf%29.pdf. (21) Donald Trump, Remarks by President Trump to the people of Poland, 6 luglio 2017, disponibile sul sito: https://trumpwhitehouse.archives.gov/briefingsstatements/remarks-president-trump-people-poland.
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PRIMO PIANO
Intervista all’ambasciatore della Repubblica di Polonia in Italia S.E. Anna Maria Anders Costantino Moretti
Analista internazionale. Già esperto economico-finanziario presso il ministero degli Affari Esteri. Collabora con riviste del settore della sicurezza e della difesa oltre che con testate accademiche di politica internazionale.
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Il Trimarium o Three Seas Initiative, è un’iniziativa lanciata ufficialmente nell’agosto del 2016 in Croazia dai presidenti di Croazia e Polonia: Kolinda Grabar-Kitarovic e Andrzey Duda. All’iniziativa aderiscono i seguenti dodici paesi dell’Europa centro-orientale, tutti membri dell’UE: Austria, Bulgaria, Croazia, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia e Ungheria. La volontà comune è rafforzare i legami economici e infrastrutturali tra i paesi membri, i quali rappresentano quasi un terzo dell’intera superficie dell’UE nella quale vivono circa 112 milioni di abitanti. Come ha ricordato il Presidente polacco nel corso del secondo summit del Trimarium, svoltosi in Polonia nel 2017, le attività ipotizzate dovrebbero apportare benefici per l’Europa intera nei settori della modernizzazione, dell’integrazione e dell’unificazione. Per comprendere più in dettaglio cosa sia il Trimarium e il suo grado di avanzamento, lo scorso 25 febbraio Costantino Moretti ha intervistato, per la Rivista Marittima, S.E. Anna Maria Anders, ambasciatore di Polonia in Italia. L’ambasciatore di Polonia in Italia, S.E. Anna Maria Anders (Ambasciata di Polonia in Italia).
Il Trimarium è un esercizio lanciato nell’agosto del 2015 congiuntamente dal suo Paese e dalla Croazia, con l’intento di rafforzare la cooperazione e lo sviluppo economico e infrastrutturale di dodici paesi, membri dell’UE, dell’Europa centroorientale. Perché è sorta l’esigenza di lanciare tale esercizio? Non esistono già iniziative similari a livello UE quali, per esempio: EU Strategic Agenda e Next Generation EU? I paesi dell’Europa centro-sudorientale appartenenti alla comunità e situati tra il Mar Baltico, il Mar Nero e il mar Adriatico, sono da anni all’avanguardia nelle dinamiche di sviluppo in Europa. Le nostre economie sanno affrontare bene eventuali crisi economiche. Il nostro obiettivo strategico è quello di raggiungere gli stessi standard infrastrutturali dei paesi dell’Europa occidentale, in particolare nelle aree che attualmente costituiscono i tre pilastri fondamentali della cooperazione del Trimarium: energia, trasporti e digitalizzazione. I paesi del Trimarium, sostenendo efficacemente i bilanci nazionali con i finanziamenti dell’UE, si sviluppano e si modernizzano, integrando sempre più strettamente le proprie economie con gli altri membri dell’Unione. Le analisi mostrano che mentre siamo perfettamente in grado di affrontare la convergenza sulla linea est-ovest, la dinamica di questi processi sull’asse nord-sud lascia molto a desiderare. La risposta a queste sfide è proprio l’iniziativa del Trimarium, un formato regionale di cooperazione di natura geoeconomica. Questo concetto si basa sul principio che
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l’iniziativa non crea strutture parallele rispetto all’Unione europea, ma completa solo i processi di coesione, rafforzando la connettività europea e la sicurezza energetica. Qual’è, a oggi, il bilancio del Trimarium? Quali sono i progetti più importanti realizzati sino ad ora? È opportuno ricordare che parliamo di una piattaforma di cooperazione ancora molto giovane, nell’ambito della quale i paesi dell’Europa centrale hanno intrapreso l’enorme compito di realizzare dei progetti infrastrutturali molto concreti, complessi e di lungo termine. Secondo uno studio, le esigenze di investimenti della regione ammontano a oltre 1 miliardo di euro. Finora i paesi membri dell’iniziativa hanno identificato un totale di 90 progetti prioritari, di cui il 49% per i trasporti, il 37% per l’energia e il 14% per la digitalizzazione. Siamo ancora solo all’inizio del nostro percorso e la maggior parte dei grandi progetti sono ancora in fase di attuazione o pianificazione. È opportuno segnalare, al riguardo, l’avvio di progetti chiave quali: la Via Carpatia, la Rail Baltica, la Rail-2-Sea o i collegamenti ferroviari con il Porto di Comunicazione Centrale di Polonia, in fase di costruzione. La Polonia, con i suoi vicini, ha anche effettuato numerosi investimenti in infrastrutture che consentono la diversificazione delle forniture di gas, quali: il terminale GNL a Świnoujście, il gasdotto Baltic Pipe o gli interconnettori del gas con Lituania e Slovacchia. Di
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Intervista all’ambasciatore della Repubblica di Polonia in Italia Anna Maria Anders
conseguenza, queste infrastrutture mirano a rafforzare la sicurezza energetica dell’intera regione. La cooperazione avviene anche a livello di governi locali, attraverso il Forum delle regioni del Trimarium. Vale la pena ricordare la cooperazione delle borse che ha portato alla creazione nel 2019 di un indice CEEplus con la partecipazione di società di 7 paesi della regione. Dal 2021 è stata sviluppata anche la dimensione parlamentare dell’iniziativa del Trimarium. Quest’anno la Lettonia prevede di inaugurare il Forum della società civile dell’iniziativa del Trimarium, che è una nuova dimensione della nostra cooperazione. Vorrei ricordare che il Trimarium, a livello politico, ha già ricevuto un forte riconoscimento da Stati Uniti, Germania e Commissione europea. Molti altri paesi stanno mostrando interesse per l'iniziativa. Personalmente sono molto soddisfatta del riconoscimento reciproco degli Stati e delle società dell’Europa centrale, il riconoscimento delle proprie potenzialità e l’instaurazione tra esse di relazioni economiche sempre più strette. Uno dei settori di maggior impegno del Trimarium è quello energetico. Nella dichiarazione finale del 6° Summit del Trimarium svoltosi a Sofia nel luglio dello scorso anno si è ribadito l’interesse a realizzare infrastrutture energetiche sull’asse nord-sud dell’Europa centro-orientale: quali considerazioni sono alla base di tale interesse e quali sono le infrastrutture ipotizzate? L’attività nell’area dell’energia è particolarmente importante in quanto, oltre al ruolo crescente dell’energia nel trainare le nostre economie, si stanno verificando enormi trasformazioni nei flussi e nelle risorse globali che hanno e avranno un impatto maggiore di prima sui nostri paesi. Inoltre, la crisi climatica in corso ci costringe ad adottare misure per garantire la neutralità climatica mantenendo la stabilità e la sicurezza dell’approvvigionamento. Le nuove infrastrutture, in particolare nel settore del gas, sono in continuo sviluppo. Nel Sud abbiamo un terminale GNL sull’isola croata di Krk. Nella parte settentrionale dell’area del Trimarium, abbiamo un terminale di gas a Świnoujście e una FSRU (unità di stoccaggio e rigassificazione galleggiante-floating sto-
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rage and regasification unit) a Klaipeda, in Lituania. Un terminale galleggiante GNL è previsto anche a Danzica e nella Skulte lettone. Anche gli estoni stanno costruendo il loro terminale GNL. Inoltre stiamo sviluppando una serie di altri progetti che si trovano in varie fasi di sviluppo, che includono anche altri tipi di energia, tra cui, per esempio, quelle eolica o solare. Attualmente, su 90 progetti prioritari del Trimarium, il 37% riguarda il settore energetico. Ritiene che ci possa essere spazio per includere all’interno di Trimarium altre dimensioni oltre quelle citate? Il Trimarium è una piattaforma per la cooperazione economica. Si tratta di una formula promettente e proietta verso un’ulteriore e più profonda integrazione degli Stati membri della parte orientale dell’Unione europea e verso un rafforzamento dei legami transatlantici. Eliminando le differenze al livello di sviluppo delle infrastrutture, contribuiremo a ridurre la distanza che separa la nostra regione dai paesi dell’Europa occidentale e, di conseguenza, a migliorare la coesione in Europa. Ciò contribuirà, senza dubbio, ad aumentare il livello generale di sicurezza dell’Unione europea. Sosteniamo anche l’idea di trasformare la regione del Trimarium in un hub per l’innovazione nel campo dell’energia e della mobilità intelligente. Vediamo anche la nostra regione come un fornitore globale di soluzioni informatiche, in particolare nel settore della sicurezza informatica. Siamo anche interessati a lavorare insieme sull’uso dell’idrogeno come fonte di energia climaticamente neutra. Si tratta di una questione chiave anche dal punto di vista della sicurezza energetica. Nel 2019 è stato lanciato il «Three Seas Initiative Investment Fund»: di cosa si tratta e come opera? Il fondo è stato creato su iniziativa di Polonia e Romania. Si tratta di uno strumento per il finanziamento di progetti comuni che creano infrastrutture di trasporto, energia e digitale nella regione del Trimarium. Sebbene il fondo sia di proprietà dei 9 paesi promotori dell’iniziativa, è gestito da una società esterna. È la Amber Infrastructure Group con sede a Londra. Ciò significa che le decisioni di investimento delle autorità del fondo — operanti secondo il diritto lussemburghese — sono prese sulla base del criterio della possibilità di generare utili per gli azio-
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Intervista all’ambasciatore della Repubblica di Polonia in Italia Anna Maria Anders
Presentazione delle credenziali dell’ambasciatore Anders al presidente della Repubblica Sergio Mattarella (Ambasciata di Polonia in Italia).
nisti. Sulla base degli impegni assunti in passato, il valore totale del fondo ha raggiunto circa 923 milioni di euro e il suo valore-obiettivo dovrebbe ammontare a 5 miliardi di euro. Nonostante il breve periodo di attività, il fondo è riuscito a investire nei primi tre progetti commerciali. Investitori provenienti da Giappone, Corea, Stati Uniti, Emirati Arabi Uniti e Regno Unito sono interessati a partecipare al fondo. Incoraggiamo gli investitori italiani, sia privati che pubblici, a collaborare con il fondo. Ultima domanda, lei pensa che il Trimarium possa avere delle ricadute positive per l’Italia e per i cittadini italiani? Se sì, quali? Sono convinta che i progetti avranno effetti positivi sullo sviluppo dell’intera Unione europea, Italia compresa. La loro attuazione contribuirà all’unificazione del mercato interno dell’Unione europea che, al momento, a causa delle differenze nella densità delle reti di trasporto e di energia, è molto frammentato nell’area dell’iniziativa del Trimarium. Faciliteranno anche l’accesso ai nostri paesi e mercati, in particolare ai paesi che confinano con la regione del Trimarium, come
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l’Italia, e spero che in tal modo rafforzeranno ulteriormente le relazioni reciproche. A mio parere, i presupposti di sviluppo dell’iniziativa del Trimarium possono essere interessanti per gli imprenditori italiani dal punto di vista delle loro relazioni economiche con i paesi baltici. Certamente, la costruzione di vie di trasporto che collegano l’Europa meridionale con la Lituania, la Lettonia e l’Estonia faciliterà gli scambi commerciali. Anche la cooperazione tra l’Italia e la nostra regione nella dimensione della sicurezza energetica può essere di grande importanza. A loro volta, la portata e il numero di progetti infrastrutturali previsti per l’attuazione nella regione del Trimarium sono di grande interesse per le imprese italiane di ingegneria e costruzione. Credo che i decisori di Roma potranno intravedere molte potenziali sinergie da raggiungere nel quadro di una più stretta cooperazione tra l’Italia e i paesi appartenenti all’iniziativa del Trimarium. Se ci fosse interesse da parte delle autorità italiane, qualora volessero partecipare, saranno graditi ospiti al vertice di quest’anno a Riga o ai successivi vertici dell’iniziativa del Trimarium. 8 27
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Storia e geopolitica dell’Intermarium: ideologia, prospettive e attualità (*) Andrea Carteny (**) Paolo Pizzolo
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(*) Professore associato (abilitato professore ordinario) di Storia delle relazioni internazionali presso la facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza Università di Roma. Dottore di ricerca in Storia d’Europa, già direttore del Centro di ricerca per la Cooperazione internazionale con l’Eurasia, il Mediterraneo, l’Africa sub-sahariana (CEMAS), è direttore della Rivista di Studi Ungheresi. Docente di Storia internazionale dei nazionalismi, Storia delle relazioni euro-asiatiche, International relations, nationalisms and national minorities presso la Sapienza Università di Roma e di Storia dei trattati e delle relazioni internazionali presso Unitelma Sapienza. È autore di numerosi saggi e contributi, tra cui il recente La questione transilvana (Carocci 2020). (**) Nato a Roma nel 1988. Ha conseguito la laurea magistrale (2012) in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso l’Università di Roma La Sapienza. Ha conseguito un master in Studi Diplomatici presso la School of Government (SoG) dell’Università LUISS «Guido Carli» di Roma (2013), un executive master in Affari Strategici organizzato dalla School of Government (SoG) dell’Università LUISS in collaborazione con il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (VIS) nel 2018 e il dottorato di ricerca in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso l’Università LUISS «Guido Carli» di Roma (2019). Dal 2019 è Research Fellow presso il Centro di ricerca per la Cooperazione internazionale con l’Eurasia, il Mediterraneo e l’Africa Sub–sahariana (CEMAS) dell’Università di Roma La Sapienza. È autore di numerose pubblicazioni in tema di relazioni internazionali.
Introduzione: genesi e significato dell’Intermarium Il concetto dell’Intermarium — letteralmente «la terra tra i mari» — rappresenta una delle più significative teorizzazioni geopolitiche relative allo spazio centro-orientale dell’Europa, trovando uno sviluppo maturo e sofisticato in particolar modo nel dibattito intellettuale e strategico polacco. Per darne una definizione geografica, l’Intermarium avvolge quel territorio ricompreso tra il mar Baltico, il Mar Nero e il mare Adriatico — sebbene in alcune interpretazioni si estenderebbe fino al mare Egeo e addirittura al Mar Bianco (1) — che sin dal Medioevo europeo è stato conteso tra civiltà etnonazionali (mondo germanico, slavo e turco) e religiose (cristianesimo occidentale, orientale e islam). In questo senso, da un punto di vista ideologico e geografico-spaziale, l’Intermarium si sovrappone in modo incompatibile sia con l’idea di Mitteleuropa danubiana, sia con lo spirito renano del «grande spazio» germanico (Großraum) europeo-centro-orientale (2), ma anche con l’idea di spazio integrato slavo-turanico di matrice eurasiatista (3). Il significato strategico dell’Intermarium risiede infatti nella volontà di creazione di un terzo polo geopolitico tra Germania e Russia (4). In particolare in Polonia il progetto di Intermarium è stato concepito come uno strumento per rinforzare una stretta collabo-
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razione tra paesi europei centro-orientali basata sul comune desiderio di garantire la propria sicurezza e i propri interessi in relazione a comportamenti aggressivi da parte di attori statuali limitrofi (5). Da un punto di vista istituzionale la cooperazione si sarebbe realizzata attraverso la creazione di una federazione e di un’alleanza militare (6). Sebbene il progetto fosse concepito come transnazionale, abbracciando diversi paesi dell’Europa orientale, all’interno di esso la Polonia avrebbe goduto di una posizione di supremazia (7). Nato nel contesto intellettuale polacco tra Otto e Novecento, il termine «Intermarium» — noto anche come Międzymorze — rivestì particolare rilievo pratico alla fine della Prima guerra mondiale. Con la disintegrazione dell’impero zarista e il fallimento della rivoluzione di febbraio si sarebbe prospettata la capacità distruttiva del «gigante folle» russo (8): e con la ricostituzione della Polonia indipendente e la guerra sovietico-polacca, poi, il progetto avrebbe svolto la duplice funzione di delineare il limite dei confini del nuovo Stato e di orientare le linee di politica estera del governo di Varsavia. Questo concetto strategico divenne particolarmente importante nel periodo interbellico grazie al suo sviluppo da parte del presidente maresciallo Józef Piłsudski (1867-1935) e del ministro degli Esteri Józef Beck (1894-1944), nonché di intellettuali quali Włodzimierz Wakar (1885-1933), Stanisław Bukowiecki (18671944), Adolf Bocheński (1909-44), Władysław Gizbert-Studnicki (1867-1953), Jerzy Niezbrzycki (1902-68) e Ignacy Matuszewski (1891-1946). Nello specifico, la visione dell’Intermarium pilsudskiano si articolava nella prospettiva dell’approccio ideologico del «Prometeismo», un concetto fondato sull’idea che la Russia fosse il principale pericolo per la Polonia e che pertanto Varsavia dovesse sostenere quei gruppi etnolinguistici minoritari — finlandesi, baltici, ucraini, turkestani, caucasici — desiderosi di ottenere l’indipendenza dallo Stato russo al fine di sfaldarne l’unità dall’interno (9). Al contempo, Beck credeva che l’Intermarium dovesse essere implementato attraverso un’alleanza di Stati europei medio-piccoli situati tra il Mar Nero, il mar Baltico e il mar Adriatico minacciati dai progetti egemonici di Germania e Russia, che egli ribattezzò «Terza Europa». Da allora, il concetto di In-
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Storia e geopolitica dell’Intermarium: ideologia, prospettive e attualità
termarium è diventato parte integrante del pensiero geopolitico polacco, basandosi sulla rivalutazione strategica della posizione geografica della storica Confederazione polacco-lituana (Rzeczpospolita), estesa come un istmo tra mar Baltico e Mar Nero, come ponte tra Europa occidentale e orientale e come fondamentale connettore tra Germania e Russia (10).
La prospettiva ideologica: il Prometeismo Con il termine «Prometeismo» (in polacco Prometeizm) si intende il progetto politico-ideologico emerso tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, sviluppato come accennato da Józef Klemens Piłsudski. Esiliato in Siberia nel 1887 per aver partecipato a un complotto anti-zarista, nel 1892 Piłsudski tornava in Polonia dove spicca fra i fondatori del Partito socialista. Nel 1914 costituiva le legioni polacche che combattevano contro i russi a fianco degli imperi centrali. Alla fine del conflitto ascendeva al vertice del ricostituito Stato polacco (fino alla fine del 1922), conducendo nel 1920 l’offensiva contro i bolscevichi conclusasi con la firma del trattato di Riga (marzo 1921), che spostava il confine orientale della Polonia di oltre 250 chilometri oltre la linea Curzon e inglobava circa 190 mila chilometri quadrati di territorio, abitati da 12 milioni di abitanti di varie nazionalità, lingue e religioni: polacchi, ucraini, rumeni, bielorussi, russi, ebrei (e dunque cattolici romani, greco-cattolici, ortodossi, israeliti) (11). La grande Polonia post-bellica si presentava dunque caratterizzata da evidenti tensioni etniche: in questo contesto il Prometeismo, profilandosi come un movimento ibrido fra socialismo e nazionalismo, si prospettava come un’ideologia a difesa delle etnie non russe nella rivendicazione della propria autonomia rispetto alla potenza russa, prima zarista e poi sovietica. Di fatto numerosi movimenti socialisti sorti nelle comunità etnicamente non russe assumevano un carattere nazionale, mettendo come obiettivo primo dei propri programmi politici l’indipendenza nazionale: fu così in Polonia, Ucraina, Finlandia, Lettonia, Lituania, Georgia e Azerbaigian, dove i movimenti nazionalisti antirussi erano stati sostenuti durante il conflitto dalla propaganda tedesca (12), alcuni sviluppando e aderendo a ideologie socialiste nazionaliste per porsi alla guida dei
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processi di indipendenza nazionale e popolare (13). È così dunque che il Prometeismo si proponeva naturalmente come prospettiva ideologica di integrazione della visione geopolitica dell’Intermarium, quando durante il periodo interbellico questi due termini indicano due strategie geopolitiche complementari (14). Nel corso della guerra civile (1919-21) i bolscevichi dovevano fronteggiare le rivolte delle nazionalità locali: i cosacchi del Don e del Kuban, con una certa autonomia durante il periodo zarista, erano stati repressi con massacri e deportazioni di massa. In Ucraina, Bielorussia, Armenia, Georgia e Azerbaigian si dava vita a repubbliche indipendentiste dalla vita breve. In questo contesto l’avanzata delle truppe di Piłsudski in Ucraina, fino a Kiev, dava corpo alle finalità politiche «prometeiste» in opposizione all’imperialismo russo. Il ruolo prometeista della Polonia si articolava così in successive fasi (15). In una prima fase, dal 1919 in un biennio emerge l’azione di Bohdan Kutylowski come ministro polacco presso la Repubblica popolare di Ucraina (febbraio 1919), con la stipula di un’alleanza politica e militare polacco-ucraina (accordo di Varsavia, aprile 1920) con la Repubblica popolare ucraina di Symon Petlura, la spedizione di Piłsudski a Kiev (iniziata il 25 aprile 1920), l’accreditamento di un Ministro polacco nel Caucaso, la nomina di una missione militare nel Caucaso e infine la mozione della Repubblica di Crimea alla Società delle Nazioni (17 maggio 1920), in cui veniva richiesto che la Crimea fosse resa un protettorato polacco. Subito dopo la perdita dell’indipendenza e l’annessione sovietica di questi territori nel 1921, da parte dunque della Russia bolscevica, la Polonia fu l’unico paese in Europa che diede sostegno materiale e morale alle aspirazioni politiche dei profughi indipendentisti. Nei due anni successivi, dopo il trattato di Riga che poneva fine alla guerra polacco-sovietica, la Polonia mantenne una sua politica autonoma rispetto ai confini orientali stabiliti insieme agli Stati baltici. I Governi in esilio di queste regioni, riannesse alla Russia sovietica, trovarono rifugio in Polonia e in altri paesi: sono flussi di esuli e di élites importanti, come il Governo popolare ucraino (in Polonia ma non solo), il Governo georgiano e quello azerbaigiano (in Francia e Turchia), i Governi del Kuban e del Don (in
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Storia e geopolitica dell’Intermarium: ideologia, prospettive e attualità
cali. In un quarto periodo, dal ritorno al potere di Piłsudski con il golpe del maggio 1926 fino alla conclusione del patto di non aggressione polacco-sovietico del 1932, si rilanciava una più attiva collaborazione con le organizzazioni che a vario titolo — polacche o dei tanti circoli irredentisti degli émigrés, attivi oltre che in Polonia, Francia, Cecoslovacchia, Turchia, ormai anche in Lituania, Finlandia, Egitto — si rifacevano a questo progetto politico: si avevano riferimenti ufficiali al ministero degli Manifesto del 1921 che invitava al reclutamento nella scuola militare, presenta il tema dell'ucrainizza- Esteri e allo Stato Maggiore polaczione. Il testo recita: «Figlio! Arruolati nella scuola dei Comandanti rossi, e la difesa dell'Ucraina sovietica verrà garantita». Il manifesto utilizza la tradizionale iconografia e scrittura ucraina. La Scuola dei co- chi (dal 1927), mentre attraverso mandanti rossi di Charkiv era organizzata per promuovere le carriere delle persone di nazionalità ucraina nuove istituzioni e attività (istituti nell'esercito (wikipedia.it). di cultura, riviste e bollettini, borse di studio, club) il Prometeismo veCecoslovacchia). Durante questo periodo, con il mareniva diffuso e propagandato. Da Mosca però la reasciallo Piłsudski ancora al potere (come capo dello zione arrivò all’eliminazione fisica di due importanti Stato e poi come capo di Stato Maggiore), la Polonia leader dell’irredentismo anti-russo (l’ucraino Petljura lavora insieme ai circoli degli émigrés politici in connel 1926 e il georgiano Noe Ramishvili nel 1930) tatto ufficiale con il ministero degli Esteri polacco, con mentre proseguivano con la politica della korenizacija le sedi diplomatiche polacche attive in altre capitali («indigenizzazione») finalizzata all’integrazione delle d’Europa e d’Asia e con lo Stato Maggiore polacco nazionalità non russe. Piłsudsky, a questo punto, ri(16). Gli sforzi del giovane Stato polacco sarebbero donunciò all’asse ucraino-polacco come colonna vertevuti andare nella direzione di supportare tutti quei mobrale del progetto (avente come conseguenza ultima vimenti nazionalisti e indipendentisti dei popoli «non la dissoluzione dell’Unione Sovietica) e a prospettare russi» esistenti all’interno o ai confini dell’ex impero invece un cordone sanitario ben più esteso del vecchio russo con lo scopo ultimo di indebolirne la coesione e Intermarium, per un blocco europeo-centrale dal Balfacilitarne la definitiva frammentazione, come già detico al Caspio e dall’Artico al Mediterraneo. Organizlineato durante la Grande guerra fin dal congresso di zazioni nazionaliste ucraine, però, appoggiate anche Losanna e con la lega delle «nazionalità e popoli da Lituania, Cecoslovacchia e Germania, colpirono gli “alieni”» di Russia (17). esponenti del Prometeismo, provocando la reazione di Nel triennio dal 1923, dopo l’allontanamento di Varsavia contro gli ucraini e l’apertura di un comproPiłsudski dal potere, i Governi polacchi eliminarono messo con Mosca: finalmente l’anno successivo Varil Prometeismo dall’agenda del paese, mentre i soviesavia avrebbe concluso con i sovietici un patto di non tici realizzavano il programma etno-federale di ricoaggressione (a cui sarebbe seguito un anno e mezzo noscimento delle nazionalità portato avanti da Stalin dopo un patto di non aggressione tedesco-polacco). nelle aree non russe dell’Unione Sovietica, inauguL’abbandono dei riferimenti ufficiali al Prometeismo rando le Repubbliche nazionali autonome insieme con e la fine delle attività clandestine in Unione Sovietica la repressione degli ultimi tentativi indipendentisti losegnò l’epilogo di questa strategia in senso antirusso:
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Storia e geopolitica dell’Intermarium: ideologia, prospettive e attualità
Piłsudski e gli altri leader del colpo di Stato sul ponte Poniatowskii a Varsavia il 14 maggio 1926 (wikipedia.it).
fu considerato alla stregua di un tradimento da parte degli esuli, che continuarono però a godere del sostegno di alcuni ambienti fortemente antirussi (e prometeisti) polacchi. L’ultimo progetto polacco all’interno di una prospettiva geopolitica di una Polonia mediana tra Germania e Russia sarebbe stato quello del Józef Beck, ministro degli Esteri dal 32 al 39 e fautore storico al fianco del maresciallo Piłsudski (18): nella seconda metà degli anni Trenta Beck avrebbe provato a lanciare l’idea di una «Terza Europa» costituita da Polonia, Ungheria, Romania, Jugoslavia e Italia, senza riscuotere però un reale riscontro positivo da parte degli stessi paesi interessati (19). Nel 1935 la morte del maresciallo Piłsudsky si può dunque considerare come la fine del Prometeismo storico, sebbene questo approccio geopolitico si sarebbe ritrovato alla base dei sentimenti antirussi di alcuni ambienti occidentali, francesi e inglesi, del Giappone imperiale e dell’Italia fascista, e soprattutto dal 1933 della
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Germania hitleriana (più che altro strumentale, antirusso e antibolscevico, e incapace di entrare in sintonia con lo storico-ideologico polacco) (20).
La necessità geopolitica della «Catena di Mezzo» Da un punto di vista geografico-politico, il progetto del «Międzymorze» implicava l’implementazione di una riorganizzazione su base federativa dell’area che era già appartenuta alla Confederazione polacco-lituana, includendo al suo interno la Lituania e gran parte della Bielorussia e dell’Ucraina. In altre parole, il Międzymorze si sarebbe esteso su quel territorio di faglia che congiungeva l’Europa occidentale con quella orientale, la civiltà cattolico-protestante con quella ortodossa, le nazioni germaniche con quelle slave e che storicamente era stata contesa tra Impero asburgico, ottomano e russo (21). Occorreva inoltre che la federazione concludesse un’alleanza volta a contrastare le potenze di Germania a ovest e Russia a est: in relazione alla Russia, inoltre, i paesi dell’Interma-
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rium, in linea con gli interessi franco-britannici, avrebbero dovuto promuovere quel cordone sanitario volto a contenere il bolscevismo tanto da un punto di vista militare che ideologico. Per quanto riguarda l’aspetto geografico-fisico, il concetto appariva profondamente significativo in quanto nasceva dalla constatazione che il territorio dell’antica Confederazione polacco-lituana (Rzecspospolita o «Commonwealth» di polacchi e lituani, ma anche ucraini e bielorussi) (22) rappresentava una vasta pianura che proseguiva ininterrottamente a ovest fino alla Francia settentrionale e a est fino ai Monti Urali. Pertanto, l’assenza di confini naturali a occidente e oriente rendeva l’Intermarium particolarmente flessibile in termini di espansione territoriale ma al contempo fragile da un punto di vista difensivo: prova di ciò furono i costanti spostamenti di frontiera dapprima della Confederazione e poi di alcuni suoi membri quali la Bielorussia e l’Ucraina e ovviamente la stessa Polonia (23). Il concetto di spazio strategico europeo-orientale tra il mar Baltico, il Mar Nero e il mar Adriatico, però, non appartiene soltanto al pensiero geopolitico polacco. Nel 1919, al termine della Prima guerra mondiale, il geopolitico britannico Halford J. Mackinder, celebre per la teorizzazione del cosiddetto «perno geografico della storia» (Geographical pivot of history) o «Cuore della Terra» (Heartland) (24), riadattò l’idea di Heartland al nuovo contesto internazionale (25). Per prevenire qualunque tipo di egemonia in Europa orientale, Mackinder sostenne l’idea di creare una catena di Stati cuscinetto tra la Germania e la Russia, volta a separare le due potenze sia nel senso di un nuovo potenziale scontro che di un’ipotetica intesa. Data l’importanza strategica dell’Europa orientale per il controllo dell’Heartland, Mackinder riteneva che l’unica soluzione per garantire la pace europea fosse la divisione dell’Europa in due parti, una occidentale e una orientale, creando un cuscinetto di piccole nazioni autonome tra le due, che egli ribattezzò «Catena di Mezzo» (Middle Tier). In altre parole, era necessario separare la Germania dalla Russia attraverso la creazione di Stati cuscinetto più o meno artificiali ricompresi nella vasta area che si estendeva dal mar Baltico al Mar Nero, ossia nell’Intermarium (26). La strategia di distanziamento russo-tedesco implicava la neutralizzazione e parcellizzazione dell’Europa
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orientale, evitando che qualunque potenza continentale potesse estendere su di essa il proprio dominio. Ai fini degli interessi britannici (e francesi) occorreva evitare a qualunque costo un’unificazione dello spazio russotedesco, in quanto una tale fusione avrebbe condotto al dominio paneuropeo, o perfino mondiale (27). Le disposizioni finali della Conferenza di pace di Versailles, la nascita della Piccola Intesa garantita dalla Francia comprendente Jugoslavia, Romania e Cecoslovacchia, la ricomparsa della Polonia e la politica del cordon sanitaire promossa da Georges Clemenceau sembravano seguire il ragionamento di Mackinder. Supponendo che l’unificazione dell’Europa orientale sotto un unico potere avesse portato al controllo dell’Heartland, il modo migliore per le potenze marittime occidentali di mantenere l’equilibrio europeo era di separare la parte orientale e occidentale del continente creando nazioni indipendenti e autosufficienti. Il principale obiettivo strategico era quindi di separare la Germania e la Russia attraverso la creazione di un cordone di Stati interposti. Occorreva dunque creare una serie di Stati indipendenti popolati da genti non tedesche — polacchi, cechi, magiari, jugoslavi, rumeni, bulgari e greci — situati tra il mar Baltico, il Mar Nero e il mar Mediterraneo orientale per separare la Germania dalla Russia. Questa catena di Stati avrebbe svolto il ruolo di «terza potenza» in Europa orientale e di scudo contro l’espansionismo tedesco e russo. Il piano di Mackinder implicava il dislocamento forzato, l’assimilazione o lo scambio di intere popolazioni e la necessità che alla Polonia fosse garantito un accesso al mar Baltico, che sarebbe stata, come è noto, una delle cause dello scoppio della Seconda guerra mondiale. La creazione in Europa orientale della «Catena di Mezzo» avrebbe impedito a una singola nazione di dominare l’Heartland. Questa catena di Stati, con il sostegno esterno della Società delle Nazioni — quindi soprattutto di Gran Bretagna e Francia — avrebbe garantito la suddivisione dell’Europa orientale ponendo fine alla rivalità continentale slavo-germanica, separando la Germania dalla Russia e impedendo a una di esse di controllare l’Heartland e di conseguenza l’Isola del Mondo. Ostacolare l’unificazione dello spazio russotedesco era necessario per scongiurare un dominio pan-
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continentale sull’Europa e sull’intera Isola del Mondo. Il rischio maggiore per la Gran Bretagna era che la Russia, magari attraverso un’alleanza con la Germania, potesse espandersi verso i confini dell’Eurasia e sfruttare le vaste risorse della massa continentale per costruire flotte capaci di forgiare un impero globale egemonico (28). Pertanto, la strategia della Gran Bretagna doveva consistere nel dare sostegno dal mare a Francia, Italia, Grecia, Egitto, India e Corea, ossia le teste di ponte del potere marittimo in Eurasia. Inoltre, la Gran Bretagna e il Giappone avrebbero dovuto collaborare mantenendo una pressione costante nelle regioni periferiche rispettivamente occidentali e orientali dell’Eurasia e preservando l’equilibrio di potere rispetto a quelle forze continentali potenzialmente espansionistiche come Germania, Russia e Cina.
pendente a guida polacca e la comparsa di un’area neutralizzata vicina a Gran Bretagna e Francia, entrambi si caratterizzavano per la stessa raison d’être, ossia la comune avversione nei confronti della minaccia tedesca a occidente e russa a oriente.
In conclusione, la creazione di questa vasta area cuscinetto che impediva un avvicinamento russo-tedesco favoriva soprattutto gli interessi imperiali e marittimi dell’Impero britannico e quelli europei della Francia. Non a caso, il celebre geopolitico tedesco Karl Haushofer, che si opponeva accanitamente ai progetti egemonici della talassocrazia britannica e auspicava la nascita di un blocco continentale eurasiatico (Kontinentalblock) tedesco-russo, definì «cintura del diavolo» quel «cordone sanitario» postbellico formato da Stati baltici, Polonia e Piccola Intesa per tenere separate la Russia e la Germania (29). Haushofer comprendeva perfettamente come il progetto della «Catena di Mezzo» fosse insanabilmente in contrasto con le idee di Mitteleuropa a guida germanica. Sebbene i progetti del Międzymorze e della «Catena di Mezzo» si proponessero obiettivi diversi, ossia rispettivamente la nascita di un blocco geopolitico indi-
via e la nascita di entità politiche indipendenti con sbocco sul mare Adriatico come Slovenia e Croazia riportarono in auge il mito di un collegamento e cooperazione tra paesi a cavallo tra i «tre mari». In Polonia, lo storico e politologo Leszek Moczulski e il suo partito «Confederazione della Polonia Indipendente» (Konfederacja Polski Niepodległej) divennero un punto di riferimento per la realizzazione di un nuovo progetto di Intermarium. Secondo Moczulski, con la fine della Guerra Fredda il «nuovo» Intermarium si sarebbe dovuto basare sulla cooperazione tra venti Stati dell’Europa centro-orientale (Polonia, Ucraina, Bielorussia, Moldavia, Stati baltici, Repubbliche ex-jugoslave, Bulgaria, Romania, Cechia, Slovacchia, Ungheria e Albania) e rappresentare una tappa intermedia verso l’integrazione europea (30). Tuttavia, questo progetto di stretta collaborazione regionale non si materializzò a causa dell’opposizione da parte dei paesi
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Il Trimarium contemporaneo Dopo il 1989, il concetto di Intermarium fece nuovamente la sua comparsa nel dibattito geopolitico polacco nel tentativo di offrire una visione di politica estera per la Polonia. Nel 1991, la dissoluzione dell’Unione Sovietica e la ritrovata indipendenza degli Stati baltici, della Bielorussia e dell’Ucraina offrirono nuove opportunità per riproporre il progetto di una federazione o alleanza tra paesi dell’Europa centro-orientale tra mar Baltico e Mar Nero. Al contempo, la disgregazione della Jugosla-
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dell’area a essere inclusi in un processo di integrazione in cui la Polonia avrebbe ricoperto il ruolo di potenza regionale dominante (31). In particolare, i tentativi di Varsavia dei primi anni Novanta di orientare gli obiettivi del Gruppo di Visegrád (Polonia, Ungheria, Cechia e Slovacchia) a favore dell’Intermarium a guida polacca vennero scoraggiati dagli altri Stati membri. La partecipazione della Polonia tra 1992 e 2004 all’Accordo centroeuropeo di libero scambio (CEFTA) non venne concepito solamente come uno strumento di preadesione all’Unione europea, bensì anche come un potenziale punto di partenza per la realizzazione di un nuovo Intermarium. Tuttavia, attraverso i negoziati che portarono al quinto allargamento nel 2004, gli Stati dell’Europa centro-orientale hanno considerato l’Unione europea il progetto di integrazione prioritario.
pea, che, nato nel quadro della politica europea di vicinato, mira a favorire un avvicinamento delle Repubbliche ex-sovietiche di Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Georgia, Moldavia e Ucraina all’UE. Nell’interpretazione contemporanea, l’idea di Intermarium ha una precisa connotazione filo-atlantista, riferendosi in particolare a quella che i circoli diplomatici statunitensi definiscono la cosiddetta «new Europe» centro-orientale — molto cara, per esempio, a George W. Bush e a Donald Trump — che, rispetto alla «old Europe» centro-occidentale, è meno conciliante nei riguardi della Russia e decisamente allineata con Washington (32). Gli Stati Uniti ritrovano nel progetto un utilissimo elemento per attuare la loro strategia per l’Europa orientale, in quanto la zona dei tre mari costituisce un importante perno regionale e una porta
Inoltre, il nuovo progetto di Intermarium prevedeva la creazione di un asse speciale tra Polonia e Ucraina. Gli sforzi del presidente Lech Wałęsa agli inizi degli anni Novanta per la realizzazione di un forte partenariato strategico polacco-ucraino si collocano precisamente in questo contesto. Successivamente, durante la sua presidenza (2005-10), Lech Kaczyński promosse una nuova versione di Prometeismo volta ancora una volta a contrastare la minaccia di un approccio russo assertivo in politica estera, come la guerra in Georgia nel 2008 aveva dimostrato. Anche l’amministrazione e le linee guida del partito «Diritto e Giustizia» (Prawo i Sprawiedliwość, in sigla «PiS») fondato da Kaczyński si orientarono verso un atteggiamento antirusso ispirato dall’idea del Prometeismo e dell’appoggio ai gruppi etnici dello spazio post-sovietico più ostili alla Russia. In questo senso, nel 2008 la Polonia si fece promotrice dell’idea del partenariato orientale dell’Unione euro-
di accesso verso l’ovest e verso l’est del continente europeo, oltre che un sicuro baluardo da cui sorvegliare lo spazio post-sovietico. Negli ultimi anni, consiglieri ufficiali della NATO nonché accademici e think tank pro-atlantisti hanno considerato l’Intermarium un valido strumento per portare avanti gli interessi statunitensi in Europa orientale (33). Inoltre, l’Intermarium contemporaneo sembra generare una forte attrazione presso quei paesi dell’Europa centro-orientale che si considerano l’«altra Europa» fondata sui princìpi del conservatorismo, populismo, sovranismo ed euroscetticismo. Il fascino dell’Intermarium per l’estrema destra deriva dall’idea che l’Europa centro-orientale sia la sola e unica «vera Europa» rimasta, ossia un baluardo non solo contro il «nazional-bolscevismo» e «neo-eurasiatismo» di Mosca, ma anche contro il modello neoliberista, multiculturale, laico e femminista promosso da Bruxelles (34).
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L’idea di implementare un nuovo Intermarium come strategia di politica estera polacca si è fatta ancora più pressante dopo la vittoria del PiS alle elezioni parlamentari del 2015. A partire dalla sua elezione nel 2015, il presidente Andrzej Duda, proseguendo le politiche avviate da Kaczyński, ha cercato attivamente sostegno tra i paesi dell’Europa centro-orientale per l’attuazione di un Intermarium, soprattutto in seguito alla crisi ucraina del 2014. Al contempo, il politologo ed esponente di spicco del PiS Krzysztof Szczerski ha rivalutato in chiave contemporanea e da una prospettiva accademica il concetto di Intermarium (35). Il paese più incline a prendere in considerazione l’iniziativa è stata la Croazia, tanto che la presidentessa Kolinda Grabar-Kitarović organizzò un incontro dei rappresentanti di dodici Stati situati tra le sponde del mar Baltico, Mar Nero e mar Adriatico durante la sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 29 settembre 2015. Nell’agosto del 2016, durante un incontro con il presidente ucraino Petro Porošenko, Duda presentò un progetto di stretta collaborazione tra Stati situati tra i
tre mari dell’Intermarium, a cui diede il nome di «Trimarium» (Trojmórze). Il Trimarium avrebbe come obiettivo quello di garantire una cooperazione internazionale volta a sostenere l’indipendenza e l’integrità territoriale degli Stati interessati nel quadro di un progressivo avvicinamento alla comunità euro-atlantica e dunque è apertamente incoraggiato dagli Stati Uniti (36). Dal 2016, anno in cui si tenne il primo summit a Dubrovnik, si sono susseguiti ininterrottamente a cadenza annuale dei vertici con i principali rappresentanti dei Tre Mari. A Dubrovnik, l’iniziativa prese ufficialmente il nome di Three Seas Initiative (3SI o TSI), Baltic, Adriatic, Black Sea Initiative (BABS) o semplicemente Trimarium e terminò con una dichiarazione congiunta dei dodici paesi coinvolti che ribadiva la volontà di promuovere una stretta cooperazione nei settori dell’energia, dei trasporti, della comunicazione digitale e dell’economia. Da un punto di vista geopolitico, osservando una carta geografica, il progetto appare come una tenaglia volta a contenere l’influenza russa dall’Estonia nel mar Baltico fino alla Bulgaria nel Mar
Durante la sua prima tappa a Varsavia, in Polonia, l’allora presidente Donald Trump ha parlato al vertice della Three Seas Initiative del 2017 (3si-business.com).
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Nero, sebbene l’Ucraina non faccia parte ufficialmente dell’iniziativa. Per quanto riguarda specificamente la Croazia, il progetto potrebbe sottintendere una volontà di assurgere a paese egemone nei Balcani occidentali, presumibilmente in chiave antiserba. Durante il secondo summit della TSI tenutosi a Varsavia nel 2017 si giunse all’adozione di una seconda dichiarazione congiunta in cui l’iniziativa veniva descritta come uno strumento per favorire lo sviluppo dell’intera UE e per promuovere un’attiva cooperazione con gli Stati Uniti nel quadro della NATO, accogliendo un caloroso riscontro da parte del presidente Donald Trump, presente al vertice. Similmente, nel corso del terzo summit svoltosi a Bucarest nel 2018, la dichiarazione finale affermava che gli Stati del Trimarium accoglievano con favore le iniziative economiche statunitensi nella regione e ribadivano la necessità di sviluppare in maniera sempre più intensa i legami transatlantici. Nonostante la sottintesa natura antirussa della TSI, i rappresentanti politici polacchi hanno voluto ribadire che l’iniziativa rappresenta una piattaforma per implementare la cooperazione nelle sfere dell’economia, della sicurezza energetica e delle infrastrutture e che non sarebbe diretta contro nessuno. In altre parole, la Polonia ha sottolineato come la TSI non sia di natura geopolitica: sarebbe questa la ragione per cui si chiamerebbe Trimarium, e non Intermarium. Infatti, mentre l’Intermarium interbellico rappresentava un blocco geopolitico sotto l’egida della Polonia e con un ruolo chiave svolto dall’Ucraina ed era diretto contro la Germania e la Russia sovietica, il Trimarium non ricomprende l’Ucraina, è sotto l’egida degli Stati Uniti e incarna uno strumento utilizzato da Washington per controbilanciare nella regione gli interessi dell’UE a scapito di quelli della NATO e per riequilibrare il peso della Cina in Europa orientale nel contesto della strategia della «Nuova Via della Seta» (37). Ciononostante, Mosca può facilmente valutare la stretta cooperazione tra TSI e NATO come essenzialmente in contrasto con gli interessi russi e considerare il progetto come una minaccia per l’influenza russa nello spazio post-sovietico — soprattutto in Ucraina, Moldavia e Bielorussia — riecheggiante una politica aggressiva influenzata dal Prometeismo. Inoltre, da un punto di vista geopolitico, la Polonia mira ad assumere all’interno della
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TSI il ruolo di principale partner strategico degli Stati Uniti, a rafforzare grazie al sostegno statunitense un suo peso all’interno dell’UE, a marginalizzare il ruolo della Russia in Europa orientale e a riequilibrare il predominante potere della Germania in Europa (38).
Considerazioni finali: il contenzioso ucraino Uno dei paesi in cui il concetto di un nuovo Intermarium sembra aver suscitato speranze e aspettative è l’Ucraina del post-Euromaidan, dove il progetto è stato da subito concepito come un mezzo per contrastare ogni forma di dominio da parte della Russia (39). A partire dal 2013-14, il progetto ha riscosso un ampio consenso soprattutto presso i movimenti ucraini di estrema destra (40). Sebbene, come visto, l’Ucraina non sia ricompresa nel progetto del Trimarium, l’iniziativa è stata accolta con favore a Kiev soprattutto in ambito accademico con la realizzazione di diverse conferenze polacco-ucraine sul tema a partire dal 2017 (41). Nel contesto ucraino, il Trimarium viene palesemente interpretato in chiave antirussa come un possibile progetto per contrastare le azioni di Mosca che dal 2014 hanno compromesso l’integrità territoriale e la sovranità dell’Ucraina. Alcuni gruppi politici e paramilitari vicini a posizioni ideologiche di estrema destra — tra cui il neonazista «Battaglione Azov» — sono dei convinti sostenitori del Trimarium, che concepiscono come un valido strumento per portare avanti gli interessi ucraini e come una concreta alternativa all’UE (42). In questo senso, il significato del progetto per l’Ucraina non costituisce soltanto una potenziale costruzione geopolitica contro la Russia ma anche una piattaforma per sponsorizzare e diffondere idee della destra radicale ultranazionalista in sintonia con i movimenti e partiti illiberali dell’Europa orientale, che godono di molta popolarità, per esempio, presso gli Stati membri del Gruppo di Visegrád. Paradossalmente, mentre molti gruppi di estrema destra dei paesi dell’Europa occidentale manifestano posizioni filorusse nutrendo spesso un’ostilità nei confronti della NATO, molti di quelli dell’Europa centro-orientale si collocano su posizioni marcatamente antirusse e filo-atlantiste (43). Tuttavia, a oggi l’Ucraina trova sicuramente maggiori possibilità di portare avanti i propri interessi in progetti e istituzioni di cui è un partecipante a pieno titolo, tra cui il Partenariato orientale
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dell’UE, l’Organizzazione per la democrazia e lo sviluppo economico (GUAM) e l’Organizzazione della cooperazione economica del Mar Nero (BSEC). L’iniziativa del Trimarium ha sollevato diversi interrogativi tanto in relazione alla sua natura che ai suoi obiettivi (44). Non appare del tutto chiaro che cosa rappresenti questo vincolo di Stati diversi per lingua, tradizioni e storia, accomunati solamente dall’appartenenza a una terra che si estende tra tre mari. Inoltre, da un punto di vista istituzionale, l’iniziativa non sembra promuovere forme significative di integrazione politico-economica che vadano oltre dei summit annuali che rappresentano dei meri forum di discussione risultanti in dichiarazioni propositive ma non vincolanti. D’altronde, non è chiara la ragione per la creazione di un raggruppamento di paesi all’interno di una grande area in cui gli Stati già appartengono alla più grande famiglia dell’UE e che (a esclusione di Austria e Finlandia) sono a pieno titolo membri della NATO. In altre parole, il Trimarium rischia di trasformarsi in uno strumento per controbilanciare il peso dei poli di Parigi, Roma e Berlino in seno all’UE, di portare avanti in Europa orientale maggiormente gli interessi statunitensi che quelli europei, di essere manipolato da
gruppi politici populisti di estrema destra e, estendendo lo sguardo a paesi post-sovietici come l’Ucraina, di incrementare la rivalità tra mondo occidentale e Russia. Infine, con l’attuale conflitto in Ucraina e il rinnovato «dilemma della sicurezza» in questa regione (45), in queste settimane, l’Intermarium si presenta con nuova forza come una necessità di sicurezza per l’Europa orientale del XXI secolo (46). Di fronte alle richieste di neutralità reclamate da Mosca e all’oggettiva difficoltà di adesione alla NATO, l’Intermarium da Kiev a Helsinki (ma anche a Stoccolma e a Chisinau) sembrerebbe essere un reale «compromesso» (47). In una prospettiva più ampia, però, il progetto di Intermarium avrebbe successo solo con la reale partecipazione e condivisione delle necessità di sicurezza collettiva di una gran parte degli Stati dell’area (48). L’interesse per l’Intermarium, rinnovatosi con la crisi in Ucraina del 2014, è quanto mai giustificato dagli eventi in corso: dall’eredità storico-culturale della confederazione polacco-lituana (comprendente la Bielorussia e l’Ucraina), attraverso il Prometeismo polacco interbellico, l’Intermarium da Pilsudski a oggi è inevitabilmente al centro delle possibili soluzioni al dilemma della sicurezza dell’Europa orientale. 8
NOTE (1) M.J. Chodakiewicz, Intermarium: The land between the Black and Baltic Seas, Routledge, New York, 2017. (2) P. Pizzolo, La maledizione dello spazio. Il pensiero geopolitico nazista e il sogno di Hitler di un impero in Eurasia, Aracne, Roma, 2021, pp. 57-58. (3) P. Pizzolo, L’eurasiatismo. Un’ideologia conservatrice al servizio della geopolitica, Aracne, Roma, 2020. (4) M. Laruelle - E. Rivera, Imagined geographies of Central and Eastern Europe: the concept of Intermarium, in IERES Occasional Papers 1 (2019), p. 3. (5) P. Cieplucha, Prometeizm i koncepcja Międzymorza w praktyce polityczno-prawnej oraz dyplomacji II RP, Studia Pravo-Ekonomiczne, vol. 93 (2014), pp. 39-55. (6) M.G. Bartoszewicz, Intermarium: A Bid for Polycentric Europe, Geopolitics (2021), DOI: 10.1080/14650045.2021.1973439. (7) T.G. Masaryk, Pangermanism and the zone of small nations. New Europe 1/9 (1916), pp. 271-277; S. Troebst, «Intermarium» and «Wedding to the Sea»: Politics of history and mental mapping in East Central Europe. European Review of History 10/2 (2003), p. 294. (8) A.F. Biagini, In Russia tra guerra e rivoluzione. La missione militare italiana, 1915-1918, Nuova Cultura, Roma 2010; A. Carteny, Il Gigante folle di Vladimiro Zabughin; E. Mari - O. Trukhanova - M. Valeri (a cura di), Un radioso avvenire. L’impatto della Rivoluzione d’Ottobre sulle scienze umane, Edizioni Nuova Cultura, Roma, pp. 97-108. (9) L. Sykulski, Geopolityka, Słownik terminologiczny, Wydawnictwo naukowe PWN, Warszawa, 2009. (10) R. Ištok - I. Kozárová - A. Polačková, The intermarium as a Polish geopolitical concept in history and in the present, Geopolitics, 26/1 (2021), pp. 314-341. (11) M.K. Dziewanowsk, Joseph Pilsudski: a European Federalist, 1918-1922, Hoover Institution, Stanford (CA), 1969. (12) A. Carteny, From the Lausanne Congress to the Rome Pact until the Fiume League: Nationalities and Nationalisms (1916-1920); AA.VV., War, Peace and Nation-Building (1853-1918), Serbian Academy of Sciences, Belgrade, 2020, pp. 31-56. (13) R. Woytak, The Promethean Movement in Interwar Poland, in East European Quarterly, vol. XVIII, n. 3 (September 1984), pp. 273-278. (14) E. Copeaux, 1993, Le mouvement prométhéen, in Cahiers d’études sur la Méditerranée orientale et le monde turco-iranien 16 (juillet-décembre 1993), pp. 9-45. (15) S. Mikulicz, Prometeizm w polityce II Rzeczypospolitej, Książka i Wiedza, Warszawa, 1971. (16) E. Charaszkiewicz, 2000, Zbiór dokumentów ppłk. Edmunda Charaszkiewicza, eds. Andrzej Grzywacz, Marcin Kwiecień, Grzegorz Mazur, «Biblioteka Centrum Dokumentacji Czynu Niepodległościowego», vol. 9, Księgarnia Akademicka, Kraków. (17) A. Carteny, From the Lausanne Congress to…, op.cit., p. 33; S. Zetterberg, Die Liga der Fremdvölker Russlands, 1916-1918, Suomen Historiallinen Seura, Helsinki, 1978. (18) A. M. Cienciala, The Foreign Policy of Józef Piłsudski and Józef Beck, 1926-1939: Misconceptions and Interpretations. The Polish Review, LVI/1-2 (2011), pp. 111-152. (19) M. Kornat, The Polish Idea of «The Third Europe» (1937-1938). A Realistic Concept or an Ex-Post Vision?. Acta Poloniae Historica, 103 (2011), pp. 101-126. (20) E. Charaszkiewicz, Zbiór dokumentów ppłk…, op. cit., pp. 57-58. (21) M.W. Solarz, The rise, fall and rebirth of Polish political geography, Geopolitics 19/2 (2014), pp. 719-739. (22) D.Z. Stone, The Polish-Lithuanian State, 1386-1795, University of Washington Press, Washington, 2014; R. Butterwick, The Polish-Lithuanian Commonwealth, 1733-1795: Light and Flame, Yale University Press, New Haven, 2021. (23) T. Snyder, The Reconstruction of Nations: Poland, Ukraine, Lithuania, Belarus, 1569-1999, Yale University Press, New Haven, 2003. (24) H.J. Mackinder, The geographical pivot of history. The Geographical Journal 23/4 (1904), pp. 421-437. (25) H.J. Mackinder, Democratic ideals and reality. A study in the politics of reconstruction. Constable & Co. Ltd., London, 1919.
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Kryzys integracji i polska inicjatywa naprawy, Biały Kruk, Warszawa, 2017. (36) R. Ištok - I. Kozárová - A. Polačková, The intermarium as a Polish geopolitical concept…, op. cit., pp. 331-333. (37) Ibidem, pp. 333-334. (38) P.E. Thomann, The Three Seas Initiative, a new project at the heart of European and global geopolitical rivalries. Yearbook of the Institute of East-Central Europe 17/3 (2019), p. 38. (39) O. Polegkyi, The Intermarium in Ukrainian and Polish foreign policy discourse. East/West: Journal of Ukrainian Studies 8/2 (2021), p. 34. (40) M. Laruelle - E. Rivera, Imagined geographies of Central and Eastern Europe…, op. cit., p. 3. (41) O. Kushnir, The Intermarium as a Pivotal Geopolitical Buzzword. East/West Journal of Ukrainian Studies 8/2 (2021), pp. 7-8. (42) A. Wishart, How the Ukrainian far-right has become one of the biggest proponents of Intermarium, in New Eastern Europe, 25 (September 2018): https://neweasterneurope.eu/2018/09/25/ukrainian-far-right-become-one-biggest-proponents-intermarium. (43) M. Laruelle - E. Rivera, Imagined geographies of Central and Eastern Europe…, op. cit., p. 28. (44) M.G. Bartoszewicz, Intermarium: A Bid for…, op. cit. (45) K. Fedorenko - A. Umland, How to Solve Ukraine’s Security Dilemma? The Idea of an Intermarium Coalition in East-Central Europe, in War on the Rocks, August 29 (2017): https://warontherocks.com/2017/08/how-to-solve-ukraines-security-dilemma-the-idea-of-an-intermarium-coalition-in-east-central-europe. (46) N.A. Cohen, Intermarium in the 21st Century, in New Eastern Europe (November 2019), pp. 101-105; A. Tycner, Intermarium in the 21st Century. The Institute of World Politics, 23 December (2020): www.iwp.edu/articles/2020/12/23/intermarium-in-the-21st-century. (47) R. Drozdowski, Intermarium as a Compromise Solution. EMPR, March 1 (2019): https: //empr.media/opinion/ analytics/intermarium-as-a-comprimise-solution. (48) M.J. Chodakiewicz, Intermarium: The land…, op. cit. BIBLIOGRAFIA Bartoszewicz, M.G., 2021, Intermarium: A Bid for Polycentric Europe. Geopolitics, DOI: 10.1080/14650045.2021.1973439. Biagini, A.F., 2010. In Russia tra guerra e rivoluzione. La missione militare italiana, 1915-1918. Nuova Cultura, Roma. Butterwick, R., 2021, The Polish-Lithuanian Commonwealth, 1733-1795: Light and Flame. Yale University Press, New Haven. Carteny, A., 2019. Il Gigante folle di Vladimiro Zabughin. E. Mari, O. Trukhanova, M. Valeri (a cura di), Un radioso avvenire. L’impatto della Rivoluzione d’Ottobre sulle scienze umane. Edizioni Nuova Cultura, Roma, pp. 97-108. Carteny, A., 2020. From the Lausanne Congress to the Rome Pact until the Fiume League: Nationalities and Nationalisms (1916-1920). AA.VV., War, Peace and Nation-Building (1853-1918). 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La prima linea di difesa russa: le bolle di interdizione A2/Ad Paolo Mauri
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ai freddi mari artici sino al Mediterraneo orientale, la Russia ha stabilito una linea di «difesa» pressoché continua costituita da diversi sistemi d’arma che, integrati, costituiscono quelle
che vengono definite «bolle» A2/Ad (Anti Access/Area Denial). Vengono definite «bolle» in quanto individuate dal raggio d’azione dei sistemi di interdizione aerea o navale, che sono affiancati da sistemi di missili
Giornalista pubblicista, analista geopolitico e collaboratore presso InsideOver e ilGiornale.it
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Convoglio di missili S-400 in dotazione al sistema di difesa aerea russo (it.insideover.com).
balistici a corto raggio, da reggimenti di aviazione, e dalle unità navali presenti nei porti dei distretti militari di competenza o nelle basi oltremare, come quella di Tartus in Siria. Osservando una carta geografica, e individuando i raggi di azione dei diversi sistemi, si può notare come, sostanzialmente, dall’Artico occidentale russo (nella fattispecie dalla penisola di Kola), sino alla Crimea e passando per la Bielorussia, Mosca possa contare su diverse «bolle» che formano una collana quasi ininterrotta che cinge e protegge il suo confine ovest. La Russia, infatti, considera il suo settore occidentale come quello più vulnerabile a causa della particolare geografia della regione: dalla Bielorussia e dall’Ucraina non esistono praticamente delle barriere geografiche che possano «fermare» un’invasione sino alla catena montuosa degli Urali. Questa vasta regione, definita Bassopiano Sarmatico, vede presente, nella sua
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parte appartenente alla Russia, il cuore pulsante dell’economia, dell’industria, della demografia e della cultura di Mosca. Nella storia recente tutte le invasioni del territorio russo sono arrivate proprio da ovest: da Napoleone sino alle divisioni corazzate tedesche durante la Seconda guerra mondiale. Pertanto Mosca, cosciente di questa particolarità, ha sempre avuto un solo modo per difendere i suoi confini sin dai tempi degli Zar: allargarli, spostarli il più a ovest possibile. Qualcosa che è riuscito all’Unione Sovietica di Stalin con la creazione di una serie di Stati cuscinetto facenti parte del Patto di Varsavia. Ora questa situazione strategica, che ha plasmato la geopolitica russa per secoli, è venuta a mancare: la maggior parte dei paesi europei dell’ex sfera di influenza sovietica sono entrati nell’Alleanza Atlantica, pertanto Mosca, stante il progressivo e costante deteriorarsi dei rapporti con l’Occidente negli ultimi 20 anni, non ha avuto altra scelta se non quella di militarizzare i suoi margini occidentali per avere un «ombrello» in grado di interdire lo spazio aeronavale all’avversario. Sebbene questa postura sia più evidente nel Baltico e nel Mar Nero, anche l’Artico — troppo spesso dimenticato negli anni passati dalla politica occidentale — ha visto il rinascere della presenza militare russa, che si spiega anche nella necessità di stabilire la supremazia sui mari e nei cieli afferenti alle sue acque territoriali per difendere il «bastione» marittimo da cui operano i sottomarini lanciamissili balistici di Mosca (Ssbn), che hanno, soprattutto oggi, il peso maggiore della credibilità della capacità di deterrenza del Cremlino. Il fatto che vengano definite «bolle» difensive non deve però ingannare sulla loro finalità: dati i sistemi d’arma utilizzati, la capacità di difesa russa non è assolutamente qualcosa di «passivo», bensì di «proattivo». Se pensiamo all’armamento della maggior parte delle unità navali russe, per esempio, possiamo vedere che ai più classici ruoli ASW e ASuW è stata affiancata la possibilità di attacco terrestre: i missili da crociera Kalibr, oppure i più moderni e ipersonici Zircon (la Russia ne ha lanciati ben 12 durante lo scorso anno, di cui due da sottomarini) (1), hanno la capacità land attack (2), che unita alla loro portata ne fanno, di fatto, delle armi da attacco stand off. In particolare il 3M22 Zircon è un vettore multipiattaforma (può essere lan-
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ciato da terra, tramite il Bastion, da navi, sottomarini e presto anche da aerei) con capacità antinave e di attacco terrestre, e rappresenta il primo missile da crociera ipersonico a essere prossimo all’ingresso in servizio (3), accrescendo così notevolmente, dal punto di vista qualitativo, la capacità di interdizione delle «bolle» A2/Ad. Se consideriamo poi che la dottrina navale russa prevede che anche le unità più piccole (corvette e fregate) siano pesantemente armate, capiamo come Mosca punti, oggi, ad avere uno strumento navale flessibile e non più solo adibito all’interdizione nelle acque più prossime a quelle territoriali. Abbiamo avuto una dimostrazione di questa nuova capacità/dottrina proprio durante il conflitto siriano, quando le corvette classe «Buyan-M» hanno lanciato missili Kalibr contro postazioni dell’Is dal Mar Caspio (4), oppure quando due sottomarini classe «Kilo» hanno effettuato la stessa missione navigando nel Mediterraneo orientale (5). Delle bolle che quindi non sono «difensive» in senso stretto. Guardando in dettaglio ai sistemi terrestri che le compongono questo è tanto più evidente se consideriamo che la Russia schiera, nelle sue bolle dell’oblast di Kaliningrad, nel Baltico, e della Crimea, battaglioni di missili balistici a corto raggio basati sul sistema Iskander-M (6). Questo ha la finalità di colpire bersagli terrestri di alto valore, fissi o in movimento, come centri di comando e controllo, aeroporti o colonne di mezzi ed è entrato in servizio nel 2006. Organizzati in brigate, queste sono composte, ciascuna, da 12 veicoli di lancio, 12 di ricarica, 11 posti comando, 14 di supporto, uno di analisi dati e uno di servizio per un totale di 51. Il missile utilizzato dall’Iskander-M, il 9M723-1, ha una portata massima compresa tra i 400 ed i 500 chilometri e monta una testata bellica singola da 720/800 chilogrammi del tipo ad alto potenziale, termobarica tipo Fae (Fuel Air Explosive), con submunizioni e nucleare
(potenza tra i 5 ed i 50 kiloton). La velocità sul bersaglio è stimata intorno ai 700-800 m/s. La versione K dell’Iskander può lanciare i vettori da crociera R-500 (SSC-7 in codice Nato) tipo 9M728 la cui portata si ritiene sia intorno ai 1500 chilometri, facendone, di fatto, un sistema missilistico a raggio medio (quindi strategico). Insieme a questo sistema una classica «bolla A2/Ad» russa vede la presenza del sistema missilistico da difesa aerea S-400 Triumf (SA-21 «Growler» in codice Nato) che grazie alla sua vasta suite di vettori è in grado di ingaggiare diversi bersagli volanti a quote e distanze differenti (compresa una certa capacità antimissili balistici) (7), sino a un massimo di 400 chilometri e una quota di 185 (grazie al 40N6). Si ritiene che il radar da acquisizione e gestione del campo di battaglia di cui è dotata una batteria di S400, il 91N6E «Big Bird», possa effettuare la scoperta di un bersaglio sino a una distanza di 600 chilometri e seguire circa 300 tracce contemporaneamente. Come già accennato in una bolla tipo è presente il sistema antinave K-300P Bastion che utilizza classicamente i missili P-800 Oniks la cui portata è compresa tra i 120 chilometri in modalità lo-lo con caratteristiche di volo sea skimming e i 300 in modalità hi-lo, sebbene alcune fonti riportino che la versione in uso nelle Forze armate russe sia in grado di raggiungere i 600 chilometri (8). Abbiamo già detto che il Bastion può lanciare il missile ipersonico Zircon, che ha una portata, stimata, di oltre 400 chilometri (probabilmente oltre i 500 in volo hi-lo). Il radar Monolit-B del Bastion, in fase attiva, ha una portata compresa tra i 35 e i 100 chilometri, a seconda dell’altitudine a cui è posizionato, mentre in fase passiva questa sale a 450 chilometri. In condizioni di «super rifrazione», la portata attiva può arrivare a 250 chilometri. Ad affiancare il Bastion possiamo trovare anche il sistema antinave Bal, che, a se-
Sistema missilistico russo «Bal» con missili antinave Kh-35 e Kh-35U (it.topwar.ru).
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conda dei vettori utilizzati (il Kh-35 nelle versione E o U), può colpire un bersaglio a distanze comprese tra i 120 e i 260 chilometri. In questa architettura multistrato trovano posto sistemi antiaerei a corto raggio (come per esempio il Pantsir) ma soprattutto l’aviazione, sia navale che delle Vks (Vozdušno-Kosmičeskie Sily), le Forze aerospaziali russe. Cacciabombardieri come il Sukhoi Su-34 possono essere armati di missili da crociera antinave, così come i bombardieri Tupolev Tu-22M, i Tu-95MS e i pattugliatori Tu-142, senza considerare i caccia adibiti alla difesa aerea vera e propria composti principalmente dal binomio Su-27/35. Recentemente, a fine maggio 2021, a dimostrazione delle possibilità offerte dalla base aerea siriana di Hmeimim che ha visto l’allungamento della sua pista (9), la Russia ha effettuato un breve dispiegamento di Tu-22M3 armati di missili antinave a lungo raggio Kh-32 (10), una recente evoluzione del ben noto Kh-22 (AS-4 «Kitchen» in codice Nato). Non è da escludere che la base siriana vedrà il dispiegamento, a rotazione, di pattugliatori marittimi Tu-142 che effettueranno crociere di lungo raggio spingendosi sin verso il Mediterraneo centrale, quindi in un settore
di nostra competenza. A completamento dei sistemi missilistici, degli assetti navali e aerei, la Russia nelle sue zone di interdizione A2/Ad schiera tutta una serie di sistemi da guerra elettronica (EW) utilizzati per disturbare i mezzi avversari: ne è un esempio il sistema mobile Krasukha-4 (11), che agisce per «accecare» gli AWACS avversari, ma che ha un raggio d’azione tale da essere efficiente anche su satelliti in orbita bassa (12), o come il sistema Pole-21, in grado di disturbare il sistema di navigazione satellitare di aerei, missili da crociera e Uav attraverso lo spoofing (13) (sostanzialmente la trasmissione di un falso segnale che viene letto come vero). Quest’ultimo sistema potrebbe essere stato schierato in Crimea, ed è quasi certo che sia presente in Siria, dove vengono segnalati importanti disturbi al Gps da parte di velivoli civili che si estendono sino all’isola di Cipro (14). Una «collana» di bolle, come abbiamo detto, quasi ininterrotta e che può contare anche sui sistemi missilistici da difesa aerea S-300 della Bielorussia, più vecchi ma ancora temibili per la suite di vettori di cui dispongono. Una collana che abbraccia ben quattro mari, considerando la bolla siriana e quella artica nella penisola di Kola. 8
NOTE (1) https://function.mil.ru/news_page/country/more.htm?id=12401326@egNews. (2) https://tass.ru/opinions/7154081. (3) https://tass.ru/armiya-i-opk/13477579. (4) https://www.washingtoninstitute.org/policy-analysis/russias-cruise-missiles-raise-stakes-caspian. (5) https://www.defensenews.com/breaking-news/2015/12/08/russian-submarine-hits-targets-in-syria. (6) https://missilethreat.csis.org/missile/ss-26-2. (7) https://missilethreat.csis.org/defsys/s-400-triumf. (8) https://www.military-today.com/missiles/bastion_p.htm. (9) https://www.thedrive.com/the-war-zone/39113/what-does-russia-have-planned-for-its-lengthened-runway-at-its-air-base-in-syria. (10) https://www.thedrive.com/the-war-zone/40800/right-on-cue-russian-tu-22m3-bombers-now-flying-from-syria-brandish-anti-ship-missiles. (11)_https://www.armyrecognition.com/defense_news_february_2022_global_security_army_industry/russian_army_deploys_1rl257_krasukha-4_electronic_warfare_systems.html. (12) https://www.armyrecognition.com/russia_russian_military_field_equipment/krasukha-4_1rl257_broadband_multifunctional_jamming_station_electronic_warfare _system_technical_data_sheet_pictures_video_10610156.html. (13) https://www.armyrecognition.com/october_2016_global_defense_security_news_industry/pole-21_electronic_countermeasures_system_to_enter_in_service_ with_russian_armed_forces_tass_11310161.html. (14) https://www.thetimes.co.uk/article/russia-jamming-signals-at-raf-cyprus-base-m2whgk0gh?utm_medium=Social&utm_source=Twitter#Echobox=1616140349.
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L’Iniziativa dei Tre Mari: quale valore geopolitico? Tra realtà economica e fantapolitica Marco Giulio Barone Analista geopolitico e politico-militare indipendente. È consulente per organizzazioni governative, aziende, e think tank. Fino al 2018, ha lavorato in ruoli simili per grandi aziende di consulenza strategica, spesso assumendo anche ruoli di team-builder, team-leader, e supervisore. Collabora come corrispondente speciale per il gruppo editoriale Monch Publishing Group (Military Technology, Naval Forces) e per la rivista partner italiana RID - Rivista Italiana Difesa. Laureato in Scienze internazionali all’Università di Torino, con esperienze di studio in Belgio, Gran Bretagna, Israele, Norvegia e Stati Uniti. Ha completato la sua formazione presso l’Hudson Institute’s Centre for Political-Military Analysis (Washington, D.C.). Oggi vive e lavora a Parigi.
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L’
Iniziativa dei Tre Mari (I3M) è una piattaforma governativa flessibile e informale che riunisce i dodici Stati membri dell’UE situati tra l’Adriatico, il Baltico e il Mar Nero (Austria, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Slovacchia e Slovenia). L’iniziativa mira ad aumentare la convergenza e la coesione, parallelamente alla riduzione del divario di sviluppo economico, tra le diverse regioni e gli Stati membri dell’UE, rafforzando l’interconnettività nella regione nei settori dell’energia, dei trasporti e della tecnologia digitale. I principi di base dell’Iniziativa dei Tre Mari sono di promuo-
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vere lo sviluppo economico, rafforzare la coesione europea e i legami transatlantici. La collaborazione si basa principalmente su vertici annuali di direzione politica e un forum economico. Finora si sono tenuti cinque vertici dell’Iniziativa dei Tre Mari: Dubrovnik nel 2016, Varsavia nel 2017, Bucarest nel 2018, Brdo nel 2019 e Tallinn nel 2020. La Lettonia ospiterà il summit e il forum dell’Iniziativa dei Tre Mari nel giugno 2022. La Romania si è impegnata al vertice di Varsavia (6 luglio 2017) a ospitare il terzo vertice I3M e il primo business forum in questo formato di cooperazione. Il vertice tenutosi in Romania (17-18 settembre 2018) mirava a realizzare progressi concreti per aumentare le interconnessioni nei settori dei trasporti, dell’energia e del digitale. Uno dei principali risultati del vertice è stata la convalida di una lista di progetti prioritari di interconnessione regionale. Il business forum del summit di Bucarest 2018 è stato particolarmente interessante in quanto ha esplorato i modi in cui la comunità imprenditoriale dei paesi partner può impegnarsi nell’attuazione dei progetti I3M convalidati dagli Stati. Hanno partecipato più di 600 rappresentanti governativi e commerciali dei paesi I3M, di altri Stati membri dell’UE, degli Stati Uniti, dei paesi dei Balcani occidentali, della Repubblica di Moldova, della Georgia e dell’Ucraina. Alcuni degli stati partecipanti all’I3M — Croazia, Lettonia, Polonia, Romania, Slovacchia, Repubblica Ceca — hanno firmato una lettera d’intenti per creare il fondo d’investimento I3M. Il 29 maggio 2019, a Lussemburgo, la Development Bank of Poland (BGK) e EximBank Romania hanno firmato lo Statuto del fondo d’investimento, il cui capitale supera i 500 milioni di euro. L’annuncio ufficiale della creazione del fondo di investimento è stato fatto al vertice I3M in Slovenia 2019. Il fondo è stato reso pienamente operativo nel febbraio 2020.
Progetti infrastrutturali dell’Iniziativa dei Tre Mari A oggi sono stati varati 157 progetti per infrastrutture, energia, trasporti e telecomunicazioni, del valore di circa 50 miliardi di euro. Questi progetti sono talvolta cofinanziati, dall’UE e da investitori non UE. Il business forum dell’Iniziativa svolge un ruolo consultivo e informativo per aiutare i progetti a procedere più
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L’Iniziativa dei Tre Mari: quale valore geopolitico?
rapidamente. I progetti energetici attualmente in fase di realizzazione o pianificati nell’ambito della I3M sono inclusi nell’elenco dei progetti infrastrutturali prioritari dell’UE — i cosiddetti «Progetti di Interesse Comune» (PCI) — adottati dalla Commissione europea il 24 novembre 2017. Questi sono i progetti che permetteranno la creazione di un ente comune dell’energia che benefici del cofinanziamento dell’UE. In questa lista è incluso il progetto più importante previsto in questa fase, e che avrebbe come obiettivo l’indipendenza energetica della regione, cioè il corridoio del gas nord-sud che collega il Baltico all’Adriatico. Il terminale polacco a Swinoujscie sarebbe collegato al terminale croato sull’isola di Krk, che è attualmente in costruzione. Le interconnessioni di gas tra Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca, così come un ramo verso l’Ungheria, fanno parte di questo corridoio. Ai vertici, le imprese polacche e croate hanno firmato accordi per la sua realizzazione. Un altro importante progetto energetico sulla lista, il Baltic Pipe, permetterebbe di fornire gas all’Europa centrale dalla Norvegia (attraverso la Danimarca) dal terminale LNG di Swinoujscie, anch’esso previsto in espansione. Baltic Pipe fa parte della costruzione del corridoio nord-sud e della creazione a lungo termine di un mercato regionale comune del gas con un consumo potenziale di oltre 70 miliardi di metri cubi all’anno. È previsto inoltre un interconnettore di gas tra la Polonia e la Lituania. Sono in corso anche progetti di infrastrutture stradali e ferroviarie. Via Carpatia, un corridoio stradale nord-sud, è destinato a collegare le reti di trasporto di Lituania, Polonia, Slovacchia, Ungheria, Romania (fino al porto di Costanza) e Bulgaria con la Grecia (fino a Salonicco). Facilitando il trasporto, Via Carpatia intensificherà la cooperazione economica lungo il confine orientale dell’UE. Un’altra rotta internazionale, Via
Baltica, collegherà Polonia, Lituania, Lettonia ed Estonia, un frammento della rete ferroviaria transeuropea che collegherà Varsavia con le tre capitali baltiche e Helsinki, sarebbe l’unico collegamento ferroviario dei paesi baltici con il resto dell’UE. Un altro progetto ferroviario, l’Amber Rail Freight Corridor, permetterebbe di trasportare le merci dal confine tra Polonia e Bielorussia, attraverso Slovacchia, Ungheria e Slovenia fino alla città portuale adriatica di Capodistria.
Politica o geopolitica? Come abbiamo visto, la cooperazione economica è reale e omogenizza, dal punto di vista economico, una regione meno integrata di quanto non siano i paesi dell’Europa occidentale, oggi molto interdipendenti. Per esempio, l’Italia non potrebbe fare a meno degli investimenti francesi, la Germania dei semilavorati italiani, la Francia di numerosi prodotti spagnoli, ecc. Da questo punto di vista, mettere in collegamento i tre mari che servono l’Europa centrale è un viatico per rinforzare la coesione territoriale tra quei paesi. Secondo alcune letture, l’idea della cooperazione I3M avrebbe le sue radici nella storia polacca, in particolare nella memoria della Repubblica delle Due Nazioni, un’unione politica e militare tra il Regno di Polonia e il Granducato di Lituania, sugellata dall’Unione di Lublino nel 1569. Lo Stato nato da questa unione si estendeva dal Baltico al Mar Nero. Ma è soprattutto a un’epoca più recente che possiamo fare riferimento, con il progetto geopolitico di Jozef Pilsudski: l’Intermarium (Miedzymorze in polacco). Nato nel periodo tra le due guerre con l’obiettivo di federare i paesi dell’Europa centrale e orientale, questo progetto è spesso considerato come la principale fonte di ispirazione dell’I3M. Di fronte alla supremazia della Germania e dell’URSS nella regione, questa federazione, che copriva l’area tra i tre Il Terminale GNLa Świnoujście in Polonia (terminallng.gaz-system.pl).
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mari, aveva lo scopo di rafforzare i paesi riunendoli, e di affrontare le minacce che stavano emergendo sia a ovest che a est. Tuttavia, l’Intermarium del periodo tra le due guerre era visto dai vicini della Polonia come un’espressione delle sue ambizioni espansionistiche, e il progetto rimase allo stadio concettuale. Se la prospettiva è affascinante e i richiami storici sono spesso utilizzati per legittimare accordi, strategie, progetti, ecc., sovrapporre lo spazio geopolitico del 1569 con quello del 1930 e poi con quello attuale è concettualmente sbagliato. Ricordiamo che uno spazio geopolitico è tale in funzione dell’interesse degli attori che vi insistono. Da questo punto di vista, il concetto di Trimarium non può essere considerato uno spazio geopolitico ma soltanto un argomento, per una serie di ragioni. A differenza del precedente progetto Intermarium avviato dalla Polonia nel periodo tra le due guerre, l’I3M non è un’alleanza politica o militare, ma una piattaforma di incontri tra i capi di Stato dei paesi membri dell’UE, il cui obiettivo pragmatico è quello di dare impulso alla realizzazione di progetti concreti affinché i paesi della I3M possano raggiungere più rapidamente il livello di sviluppo dei paesi dell’UE occidentale. Si tratta quindi di un sottoprogetto del più grande sforzo politico di aggregazione europea. D’altronde, i cosiddetti Cohesion Funds rappresentano circa un terzo dell’intero budget dell’UE per il periodo 2021-27 (e ancora di più per il periodo precedente) e i paesi del progetto I3M ne sono dipendenti in maniera esistenziale. Senza quei fondi, la loro capacità progettuale sarebbe molto più limitata. È dunque errato l’assunto di base che vede il progetto I3M come concorrente dell’UE oppure come un tentativo di aggregazione di una nuova entità geopolitica. Si tratta, piuttosto, di un acceleratore di integrazione, che perfino Bruxelles avrebbe voluto conseguire molto prima. Infatti, rimangono molti ostacoli al successo del
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progetto. In particolare, i paesi del I3M possono avere politiche e interessi divergenti. Per esempio, la politica verso la Russia sembra essere una grande differenza. Nella Repubblica Ceca o in Ungheria, la paura della Russia è molto meno forte che in Polonia o nei paesi baltici. L’Ungheria è addirittura favorevole al rafforzamento dell’influenza della Russia nella regione, posizione solo recentemente scalfita a causa della nuova guerra in Ucraina. D’altra parte, per la maggior parte dei paesi I3M, le relazioni con la Germania sono particolarmente importanti. Per esempio, i cechi non vogliono partecipare a nessun progetto che possa essere visto come diretto contro la Germania. Questo è anche il caso della Romania, che è preoccupata per il deterioramento delle relazioni tra la Polonia e la Germania. Per Bucarest, l’I3M non è una piattaforma in opposizione a Berlino, Parigi o Bruxelles, e anche la Slovacchia, che considera la Polonia un partner importante, vuole soprattutto rimanere nel nucleo dell’UE. Gli Stati baltici guardano sempre più alla Scandinavia, dal loro canto. Qualche anno fa, la partecipazione di Donald Trump al vertice di Varsavia ha risvegliato le preoccupazioni per una divisione tra la «vecchia Europa» e i «Tre Mari». L’iniziativa è stata talvolta vista come un tentativo di Varsavia di costruire un blocco contro Berlino e Parigi, imponendo la sua leadership per contrastare il tandem franco-tedesco nell’UE. Questa interpretazione è da ritenersi scorretta, perché senza il coinvolgimento dell’UE, l’iniziativa non avrebbe risorse di cui nutrirsi. Inoltre, chi ritiene che lo spazio geopolitico I3M sia uno spazio a se stante, dimentica le specificità di ciascun paese, che fino a oggi hanno ostacolato l’integrazione e non l’hanno certo favorita. Al contrario, grazie ai fondi UE, che hanno permesso di mobilitare anche finanziamenti privati, l’integrazione economica è oggi possibile. Politicamente (o
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geopoliticamente), senza queste leve, i paesi partner non avrebbero avuto alcun incentivo né alcuna volontà politica. Il presunto carattere antitedesco dell’I3M è quindi a giusto termine criticato. In nessun caso l’I3M potrebbe essere un’alternativa alla cooperazione della regione con la Germania: può essere solo un complemento a essa. I PIL combinati dei paesi dell’Iniziativa sono solo circa un terzo del PIL della Germania, e la Germania rimane il principale partner economico di tutti i paesi. Che sono inoltre dipendenti dai Fondi di coesione europei. Ricapitolando si tratta di un progetto economico sviluppato dagli Stati membri dell’UE, che è in linea con le politiche europee, e il cui risultato finale potrebbe essere una maggiore coesione dell’Unione. I progetti pianificati e realizzati nell’ambito dell’I3M, in particolare nel campo dell’energia e delle infrastrutture di trasporto, non sono un’alternativa ai progetti dell’UE. Al contrario, la risultante accelerazione dello sviluppo economico ridurrebbe le linee di faglia storiche tra l’Europa orientale e occidentale. Qualsiasi tentativo di costruire un’identità regionale contro il resto dell’UE attraverso l’I3M sarebbe controproducente, poiché l’UE rimane la migliore soluzione di integrazione per i paesi dell’Iniziativa. Senza l’UE come catalizzatore, nessun paese accetterebbe la guida di un altro, né tantomeno la sua agenda particolare (ambizione per esempio della Polonia). Niente geopolitica dell’Intermarium, dunque, ma un semplice completamento concreto di quello che esiste al mo-
mento solo su mappa, ovvero l’Unione europea come entità unica. Lo schema dell’I3M rimane puntuale e non sistemico, una singola iniziativa non assimilabile a uno spazio geopolitico propriamente detto con capacità autonome di autodeterminazione e ambizione.
Considerazioni conclusive L’Unione europea rimarrà il principale punto di riferimento per i paesi dell’I3M. La difficoltà maggiore, e la sfida principale, sarà quella di realizzare progetti regionali rafforzando l’UE e non dividendola. Ma nel bilancio 2021-27, sembra che gli obiettivi dell’Iniziativa convergano con gli interessi principali dell’UE. Poiché il cofinanziamento UE dei progetti I3M è indispensabile, i paesi dell’Iniziativa dovranno raggiungere posizioni comuni prima di poter accedere ai fondi, cosa tutt’altro che scontata (come dicevamo sopra). Infine, il mantenimento di relazioni costruttive tra i paesi dell’Europa centrale, la Germania e la Francia, le forze trainanti dell’UE, sono necessarie per consolidare e sviluppare l’Iniziativa. Questo vale prima di tutto per la Polonia, che è un leader nella regione e le cui relazioni con questi due paesi si sono deteriorate. Il miglioramento delle relazioni con Parigi e Berlino permetterebbe a Varsavia di promuovere l’idea di convergenza tra il concetto di Iniziativa dei Tre Mari e il motore vero dell’Unione europea. Con buona pace degli appassionati di geopolitica che vedono ovunque nuove entità dare l’assalto a Bruxelles. 8
BIBLIOGRAFIA Sito ufficiale dell’iniziativa: https://3seas.eu/about/threeseasstory. George Byczynski, Strengthening European Unity: The Three Seas Initiative, RUSI, settembre 2021: https:// rusi.org/explore-our-research/publications/commentary/ strengthening-european-unity-three-seas-initiative. Krassen Nikolov, Germany wants the EU to take the initiative of the Three Seas Initiative, Euractive, luglio 2021. Speech di Margrethe Verstager al summit di Sofia del luglio 2021: https://ec.Europa.eu/commission/ commissioners/2019-2024/vestager/announcements/buildinginfrastructure-success-digital-age_en. Euractiv, https://www.euractiv.com/section/politics/short_news/germany-wants-eu-to-take-the-leadership-of-three-seas-initiative.
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S
ostenuta fortemente dagli Stati Uniti, l’Iniziativa dei Tre Mari (I3M, gergalmente Trimarium) è una riedizione regionale degli scopi geopolitici della NATO: mettere gli americani dentro, tenere i russi fuori e i tedeschi sotto. Dunque funzionale all’estensione dell’egemonia americana nell’Europa centro-orientale in funzione primariamente antirussa, ma utile a marcare stretto Berlino e a contenerne le sue tendenze espansive. Questo spiega la frequente partecipazione di alti funzionari di Washington ai vertici dei dodici paesi racchiusi tra i mari Baltico, Nero e Adriatico. Repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia, Lituania), gruppo di Visegrád (Polonia, Cechia, Slovacchia, Ungheria), Austria, Slovenia, Croazia, Romania e Bulgaria aderiscono tutte all’Unione
europea, di cui sono grandi beneficiarie in termini di trasferimenti fiscali, a partire dai fondi di coesione. Eppure l’evidente interesse americano per questa piattaforma di cooperazione economica e infrastrutturale palesa l’obiettivo di Washington di deteriorare o rendere in ogni momento sabotabili i progetti di maggiore autonomia europea (economica, strategica o culturale) dalla straripante influenza nordamericana, concepiti nelle capitali occidentali del Vecchio Continente. Un fronte filoamericano compatto e solerte nell’eseguire i diktat della Casa Bianca diviene formidabile nel mitigare o procrastinare le politiche di integrazione discusse a Bruxelles. A partire dalla ricorrente idea di dotare l’UE di una difesa comune, alternativa e potenzialmente in competizione con l’Alleanza Atlantica.
Analista di geopolitica e geostrategia. Scrive per Limes e InsideOver. Ha pubblicato La rosa geopolitica (2021).
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Non deve stupire che l’I3M sia stata ideata da Varsavia, la capitale più intransigente nell’implementare gli interessi di Washington di contrasto al sodalizio economico tra Berlino e Mosca. D’altronde la Polonia si frappone anche geograficamente alle due grandi potenze (la prima economica, la seconda militare) del continente. La veemenza con cui il Governo di Varsavia osteggia l’attivazione del gasdotto baltico Nord Stream 2 è esempio eclatante di questo atteggiamento antirusso e antitedesco, che si allarga con differenti intensità a tutti i dodici paesi del Trimarium. Questo formato politico informale e flessibile punta principalmente a una maggiore interconnettività lungo l’asse nord-sud nel settore dei trasporti, dell’energia e del digitale. Sono però molti gli analisti che intravedono nel forum, seppure in fase embrionale, un tentativo di cooperazione nel settore della Difesa con funzioni di contrasto all’assertività militare russa.
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Gli istituti di credito di Lettonia, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Croazia e Romania hanno firmato un memorandum per la costituzione di un fondo di investimenti per l’implementazione dei futuri progetti economici. Parte consistente viene destinata al settore della produzione e distribuzione energetica. Senza dubbio, la sfera geoeconomicamente più critica della nuova Europa. Ma l’aspetto geostrategico di stampo militare resta preponderante. La corsa all’istmo d’Europa (corrispondente grossomodo all’asse Kaliningrad-Tiraspol) tra Russia e Stati Uniti vede la prima in netto svantaggio rispetto alla seconda. Gli strateghi americani si sono mossi con largo anticipo, serrando le fila dei paesi mitteleuropei e legandoli logisticamente e difensivamente alle decisioni di Washington. Il processo è annoso e prosegue in modo simmetrico, lento e morbido. L’Iniziativa dei Tre Mari (Trimarium, I3M) nasce
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formalmente per promuovere la cooperazione e per implementare progetti dal respiro geoeconomico. In realtà cela obiettivi infrastrutturali di natura geostrategica. Tra i principali progetti vi è il tracciato ferroviario «Rail2Sea» che collegherà Danzica (Polonia) sul Mar Baltico a Costanza (Romania) sul Mar Nero. Spostare merci da un mare semi-chiuso a un altro bacino semichiuso non è una grande idea; per rifornire i mercati mitteleuropei è assai preferibile avvalersi dei collegamenti logistici alla città portuale di Trieste sul terzo mare: l’Adriatico. Dunque il senso profondo del progetto ferroviario Rail2Sea promosso dagli Stati Uniti non risiede tanto nello sbandierato sviluppo economico, bensì nel trasporto efficiente di mezzi militari lungo l’intero fianco orientale della NATO. Contribuendo solo col 30% del denaro al Fondo I3M, gli Stati Uniti scaricano gran parte dei costi delle proprie ambizioni strategiche sui dodici paesi membri del Trimarium: Repubbliche baltiche, Polonia, Cechia, Slovacchia, Austria, Slovenia, Croazia, Ungheria, Romania e Bulgaria. Avvalendosi della propria influenza
da sfuggire alla avanzata strumentazione per la guerra elettromagnetica russa dispiegata nella exclave di Kaliningrad e potenzialmente trasferibile in Transnistria. A nord della Polonia (Redzikowo) e a sud della Romania (Deveselu) sono ubicate le due basi missilistiche della NATO Aegis Ashore in grado di garantire la più ampia protezione alla penisola europea. Ufficialmente i lanciatori verticali Mk-41 dello scudo missilistico americano sono presentati come difensivi, ma nella realtà si prestano al doppio impiego. Questo naturalmente impensierisce il Cremlino, che sussulta all’idea di constatare la presenza di missili da crociera a capacità nucleare stoccati nelle due basi. A Łask (Polonia centrale) e a Câmpia Turzii (Transilvania), ben distanti dalle coste per sfuggire agli attacchi aeronavali, sono situate le basi aeree che un domani acquisiranno preminente rilievo strategico per il fianco orientale della NATO. Esse costituiscono i due fuochi dello spazio ellittico del fronte orientale. La base polacca è stata selezionata per ospitare i moderni caccia F35a Lighting II. La base romena già
diplomatica e militare, Washington ridistribuisce gli oneri infrastrutturali per rendere sostenibile il progetto di ripartizione delle sfere di influenza con Mosca. E lo fa in modo altamente geometrico. La simmetria della nuova cortina di ferro virtuale è macroscopica e si appoggia sui due bastioni del fianco orientale dell’Alleanza: Polonia e Romania. Il nuovo corridoio ferroviario idoneo al trasporto militare Rail2Sea correrà in gran parte parallelo all’istmo d’Europa, bypassando per ora la Galizia (Ucraina) e permettendo un celere dispiegamento di mezzi in caso di scontro frontale con Mosca. A una distanza sufficiente
ospita decine di droni Mq-9 Reaper. Le attività di monitoraggio e di spionaggio aereo potrebbero proliferare nel futuro prossimo. Inoltre la base aerea romeno-statunitense 71 «Emanoil Ionescu» di Câmpia Turzii — ben protetta orograficamente dai Carpazi — potrebbe superare per importanza anche la base aerea multinazionale 57 «Mihail Kogălniceanu» nei pressi del porto di Costanza. Sebbene potenziata, a quest’ultima sarebbe affidato il gravoso compito di assorbire il primo impatto di un’offensiva aeronavale dal Mar Nero, ripartendo più equamente sugli alleati le perdite materiali e umane; mentre
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alle più protette forze statunitensi spetterebbe il compito di organizzare la riscossa. Il grosso degli insediamenti militari americani e alleati è ubicato a ovest dei fiumi Vistola (Polonia) e Prut (Romania/Moldova). Questi due corsi d’acqua delimitano in modo naturale le zone cuscinetto a bassa militarizzazione tra i due blocchi contendenti. Le truppe americane non sono propense a oltrepassarli per almeno tre ragioni. In ordine di importanza crescente: rispettare gli accordi assunti con la morente Unione Sovietica (1991); tenere al riparo l’equipaggiamento dalla strumentazione elettromagnetica russa e prevenire danni alla salute delle truppe provocati dai cannoni a microonde; marcare stretto la Germania minacciandola con la «deterrenza negativa». I missili russi Iskander a capacità nucleare dispiegati a Kaliningrad potrebbero radere al suolo Berlino (che dista 500 chilometri) in assenza della frapposizione e dello scudo a stelle e strisce. Ricordarlo alla cancelleria tedesca è una formidabile arma diplomatica nella panoplia del Dipartimento di Stato americano.
fronte russo, ma in posizione ottimale per effettuare pressioni politiche (o interventi militari) contro la Germania e i Balcani occidentali. L’asse Danzica-Costanza corre in modo (quasi) parallelo all’asse Kaliningrad-Tiraspol, cioè alla vera linea rossa cui allude il Presidente russo. E non deve stupire che la presenza militare americana in Ucraina si attesti al centro di addestramento di Yavoriv vicino a Leopoli (Ucraina occidentale): essa giace sulla linea DanzicaCostanza in un punto quasi mediano. Secondo il capo di Stato russo, i soldati americani lì dovrebbero rimanere. Gli investimenti infrastrutturali americani e del Fondo I3M hanno come obiettivo strategico quello di compattare i paesi alleati a ridosso dell’istmo d’Europa e — mantenendo vivo lo spauracchio russo — tarpare le ali ai potenziali competitori degli Stati Uniti nell’appendice occidentale del Vecchio Continente. Il disaccoppiamento economico, strategico e culturale tra le due sfere di influenza lungo l’istmo d’Europa diviene di giorno in giorno più evidente. Il definitivo allontanamento della Bielorussia dalle ammalianti si-
Al Pentagono si sta radicando la consapevolezza che un’ulteriore spinta a est comporterebbe la diluizione delle energie e la maggiore indisciplina delle principali potenze del Vecchio Continente, Germania in primis. È questa la ragione per la quale vale la pena investire miliardi di dollari in opere logistiche e strategiche perfettamente in linea su un fronte non troppo ampio e sufficientemente lontano dalla Russia da non provocarne la reazione nucleare, ma abbastanza vicino alla Germania da contenerne le ambizioni. Il grosso della fanteria alleata e statunitense è e sarà dispiegato a Poznán (Polonia) e Craiova (Romania): nelle retrovie rispetto al
rene occidentali e il suo ritorno sotto l’ala protettiva della Russia ne è un chiaro esempio. Così come lo è la rottura diplomatica con Mosca dei paesi slavi appartenenti al Trimarium. Il gioco delle spie e delle reciproche espulsioni riguarda principalmente loro, non nazioni di altra estrazione linguistico-culturale o di aree geografiche più remote. «Spero che a nessuno venga l’idea di oltrepassare la linea rossa con la Russia», sono state le parole più significative pronunciate dal presidente della Federazione russa Vladimir Putin al Parlamento riunito in sessione plenaria il 21 aprile 2021. Il messaggio non era
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La base missilistica Aegis Ashore della NATO a Deveselu in Romania (Navy Lt. Amy Forsythe).
rivolto tanto ai dissidenti interni, bensì ai rivali esterni che «scambieranno le nostre buone intenzioni per debolezza». Per costoro «la risposta sarà asimmetrica, rapida e dura». Putin non ha precisato in cosa consista concretamente tale linea, ma su una cosa è stato chiaro: «Saremo noi a stabilire da soli per dove passa». Il puntiglio è d’estremo valore geopolitico. Una linea rossa si differenzia infatti da una amity line per un particolare non indifferente: è unilaterale. Essa rappresenta l’inizio e il termine di un’escalation, ovvero della progressiva intensificazione di uno sforzo economico, militare o culturale. La studiata terminologia impiegata dal potente politico pietroburghese, ex agente del Kgb, rivela una profonda conoscenza dei dispositivi che regolano l’arte delle relazioni internazionali. Per uno stratega, la linea rossa perfetta è quella più breve e retta tra due zone inalienabili. Per due semplici motivi: è maggiormente difendibile e richiede un’allocazione minore di risorse. L’efficacia incontra l’efficienza. In questo frangente storico, il confronto maggiore tra le due grandi potenze nucleari (Stati Uniti e Russia) si registra nel quadrante dell’Europa centro-orientale, ovvero in quella vasta fascia di terra compresa tra il Mar Baltico e il Mar Nero. In particolare, gli attriti principali
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si riscontrano in Ucraina e nel suo immediato vicinato. La linea più corta tra i due mari semi-chiusi è l’istmo d’Europa, il quale corrisponde grosso modo all’asse tra i territori «russi» più occidentali: l’oblast’ di Kaliningrad e la regione separatista moldava di Transnistria. Quando Putin auspica che nessuno oltrepassi la linea rossa, sottintende che nessuna potenza debba superare fisicamente il limite virtuale del cosiddetto russkij mir (mondo russo). Putin allude non troppo velatamente alla ricorrente idea di Kiev di permettere alla NATO di installare nuove basi militari terrestri nell’Ucraina centro-orientale e, soprattutto, navali sulla costa nord del Mar Nero. Qualcosa che la Federazione non può tollerare sul piano della sicurezza militare. Lo stesso Presidente russo in una recente intervista televisiva è stato ancor più chiaro: «Immaginatevi che l’Ucraina diventi un membro della NATO. Il tempo di crociera di un missile lanciato da Kharkov o da Dnipropetrovsk verso Mosca scenderebbe a 7-10 minuti. Questa è per noi una linea rossa, o no?» (1). La ricorrente idea di installare in Bielorussia a Baranavičy (Brėst), a Lida (Hrodna) e presso l’aerodromo di Babrujsk (Mahilëŭ) degli avamposti militari volti a fronteggiare l’avanzata verso est delle strutture politico-militari occidentali non è mai tramontata nella
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stanza dei bottoni a Mosca. L’interesse lineare del Cremlino è quello di schierare in Transnistria un mix di sistemi missilistici terra-aria (S350 Vityaz, S400 Triumph, S500 Prometheus) e terra-terra (Iskander-M) tattici. I primi sarebbero atti a proteggere efficientemente lo spazio aereo della linea rossa, i secondi contrasterebbero in modo concettualmente simmetrico le peculiarità di doppio impiego — difensivo e offensivo — della base missilistica Aegis Ashore della NATO a Deveselu (Romania). I missili da crociera a capacità nucleare 9M729 Novator, il cui raggio d’azione è risaputo superare ampiamente i 500 chilometri, farebbero all’uopo. La soluzione prevista per la Transnistria ricalcherebbe perfettamente quella già adottata per l’exclave di Kaliningrad. Solo l’emarginazione logistica di Tiraspol impedisce a Mosca di fissare il paletto meridionale della linea di demarcazione egemonica. Ma l’invasione dell’Ucraina offre nuove opportunità.
La guerra scatenata dal Cremlino contro l’ex paese sovietico altro non è che il tentativo della Russia di bloccare la sovraestensione economica, strategica e culturale degli Stati Uniti e dei suoi alleati europei oltre la «linea rossa» rappresentata dall’istmo d’Europa. Washington e l’Alleanza Atlantica lasceranno fare, ben consce che una razionalizzazione delle sfere di influenza nel Vecchio Continente è necessaria a entrambe le superpotenze nucleari. Il mondo è grande e l’impero a stelle e strisce non vuole investire troppe risorse per l’Europa. Altri teatri mondiali risulterebbero sguarniti. Obiettivo americano non è quello di stoppare il rivale russo dall’ottenimento dei suoi scopi, ma di fare in modo che si estenda militarmente e territorialmente fino alla «linea rossa» (asse Kaliningrad-Tiraspol) nel modo più logorante possibile, senza innescare rischi maggiori come la reazione nucleare. 8
NOTE (1) www.reuters.com/markets/stocks/putin-warns-russia-will-act-if-nato-crosses-its-red-lines-ukraine-2021-11-30. BIBLIOGRAFIA www.geopolitica.info/tag/trimarium. www.ispionline.it/it/pubblicazione/three-seas-initiative-natural-gas-central-european-foreign-policy-25128. it.insideover.com/politica/tre-mari-europa-usa-italia.html. www.limesonline.com/tag/trimarium. Trimarium tra Russia e Germania, Limes 12/2017. Tchakarova V., Benko L., The Three Seas Initiative as a Geopolitical Approach and Austria’s role, AIES.at. https://3seas.eu.
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La minaccia proveniente dal terrorismo internazionale Laura Quadarella Sanfelice di Monteforte (1)
Direttore di Mediterranean Insecurity, saggista e analista intelligence, laureata in Giurisprudenza e in Relazioni internazionali, Dottore di ricerca in diritto internazionale, è docente di counter-terrorism presso numerose università italiane e lavora al ministero degli Affari esteri. Tra i suoi libri: Perché ci attaccano. Al Qaeda, l’Islamic State e il terrorismo «fai da te» (2017), Vivere a Mosul con l’Islamic State. Efficienza e brutalità del Califfato (2019, vincitore del premio Cerruglio 2020), e Il mondo dopo il Covid-19. Conseguenze geopolitiche e strategiche. Posture dei gruppi jihadisti e dell’estremismo violento (2020, insieme a Ferdinando Sanfelice di Monteforte).
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Introduzione Sebbene da più di un secolo e mezzo le opinioni pubbliche mondiali parlino del terrorismo internazionale e la comunità internazionale abbia provato in vario modo a contrastarlo, e sebbene i primi due decenni di questo millennio lo abbiano chiaramente identificato come una delle maggiori minacce da affrontare, molta confusione ruota intorno a esso, tanto da non avere ancora una definizione universalmente riconosciuta. Stati, Organizzazioni internazionali, Forze armate e Forze dell’ordine, Servizi di intelligence e semplici cittadini, tutti ne parlano e provano in vario modo a prevenirlo, contrastarlo e combatterlo, o anche semplicemente a difendersi da esso, ma non è facile rispondere a una minaccia così difficile da identificare e classificare. Si tratta, tra l’altro, di una minaccia cui se ne sta sempre più prepotentemente affiancando un’altra, sicuramente non nuova, ma che mai forse aveva raggiunto i livelli attuali: quella dell’estremismo violento, che da alcuni anni vediamo affiancata al terrorismo in numerose norme internazionali. Per entrambi i fenomeni, terrorismo ed estremismo violento, sembrano mancare definizioni universalmente riconosciute, con il sistema onusiano che li addita come «minacce alla pace e alla sicurezza internazionale» e impone ai paesi membri diversi obblighi per prevenirli e
contrastarli, ma rimanda alle legislazioni nazionali il compito di fornire una definizione (2). Il punto di partenza di qualsiasi riflessione sul terrorismo deve allora necessariamente essere quello di capire di cosa stiamo parlando, compito ancora più difficile al giorno d’oggi, in cui si rischia di cadere in facili preconcetti e classificazioni ideologiche, oltre a fare confusione tra gruppi e movimenti, singoli radicalizzati e foreign fighter, homegrown terrorist e lupi solitari, criminali ed estremisti violenti. Si tratta di un compito che già un secolo fa la dottrina riteneva difficile da assolvere, e restano in tal senso ancora attuali le parole con cui Sottile, nel lontano 1938, iniziava il suo corso presso l’Accademia di diritto internazionale de L’Aja: «L’intensificarsi dell’attività terroristica negli ultimi anni fa del terrorismo uno dei problemi più attuali. I crimini terroristici non solo ledono la vita e la proprietà di una personalità così determinata, ma costituiscono un attacco alla civiltà, un pericolo internazionale, perché rischiano di ledere l’ordine sociale in generale, l’ordine pubblico internazionale, la sicurezza, gli interessi fondamentali degli Stati, nonché le loro relazioni pacifiche. Coinvolgendo il più delle volte più Stati contemporaneamente, l’attività terroristica è diventata internazionale. […] All’internazionalizzazione del terrorismo non corrisponde ancora l’internazionalizzazione della repres-
Gli attentati dell'11 settembre 2001 furono una serie di quattro attacchi suicidi coordinati compiuti contro obiettivi civili e militari degli Stati Uniti d'America da un gruppo di terroristi appartenenti all'organizzazione terroristica Al Qaida (wired.it).
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sione. Il terrorismo è una di quelle questioni che tutti capiscono e conoscono a prima vista, ma che, se lo studiamo a fondo, non risultano né così semplici né così facili come pensavamo a prima vista. In effetti, è un problema complesso, difficile da gestire […]» (3). Storicamente i problemi incontrati dalla dottrina sono stati da un lato il rischio di fornire una definizione meramente tautologica o rappresentativa di una sola modalità operativa, dall’altro la difficoltà del distinguere tra i due diversi fenomeni del terrorismo come mezzo di coercizione politica adoperata dallo Stato nei confronti dei propri cittadini e del terrorismo come uso della violenza illegittima finalizzata a incutere terrore nei membri di una collettività, a destabilizzarne o restaurarne l’ordine (4). Proviamo a portare un pò di chiarezza e a comprendere cosa sia questo fenomeno, che è stato, soprattutto nello scorso decennio, universalmente avvertito come uno dei maggiori pericoli che chiunque poteva correre in una qualsiasi città, ma che, ancora oggi che la minaccia sembrerebbe diminuita, resta come un rischio reale per l’intera comunità internazionale. Non dob-
Da rivista inspire AQ (autore).
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biamo infatti sottovalutare né le capacità di gruppi jihadisti come Al Qaeda o l’Islamic State, che hanno dimostrato grande resilienza (5), né le spinte che arrivano da più direzioni da parte di movimenti di quello che è oggi classificato come «estremismo violento».
Chiarimenti terminologici alla luce dell’assenza di una definizione giuridica universalmente riconosciuta Se può sembrare fin troppo ovvio che commettere un atto di terrorismo sia un crimine, due sono i grandi ostacoli che si incontrano nell’inquadrare il fenomeno da un punto di vista giuridico: da un lato, non possiamo definire il terrorismo un crimine come gli altri, essendo impossibile descrivere puntualmente dal punto di vista penale come si manifesta la fattispecie criminale, potendo esso realizzarsi con una serie praticamente infinita di modalità operative (6); dall’altro, come disse tanti anni fa uno dei massimi esperti di diritto internazionale penale, Sherif Bassiouni, «what is terrorism to some, is heroism to others» (7). Questo secondo aspetto ci dice che l’autore di un attentato può pertanto essere considerato un criminale o un eroe, dipende dal punto di vista da cui lo si guarda. Ma è veramente così? Da giurista devo dissentire. Ma si deve superare il primo dei due ostacoli appena esaminati: quello delle oggettive difficoltà che si incontrano nella formulazione della fattispecie di reato. È vero che a differenza di tutti gli altri reati non esiste una fattispecie specifica, potendo un atto di terrorismo essere realizzato con una metodologia pressoché infinita; analogamente, non esiste una determinata finalità che caratterizza il reato di terrorismo, potendo esso essere politicamente, ideologicamente o religiosamente motivato. Ma ci sono delle caratteristiche che lo contraddistinguono, che lo rendono diverso da tutti gli altri reati e permettono così di identificarlo in quanto tale. Innanzitutto, che al di là della modalità operativa utilizzata, l’obiettivo che si intende raggiungere nell’immediato è spargere il terrore, e questo si ottiene spesso a prescindere dal successo dell’attacco. Terrorizzare una determinata comunità è a sua volta un modo per raggiungere il vero scopo, che si mira a realizzare in
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un secondo momento, indipendentemente dai successi Al di là delle motivazioni che hanno spinto ad agire, che si sono raggiunti nell’immediato. Ne consegue che delle modalità con cui l’attacco è stato realizzato e, inil fine di portare terrore presso una determinata comucredibilmente, del fatto che sia riuscito o meno, per nità si deve vedere esclusivamente come strumentale, l’attentatore l’obiettivo è raggiunto nel momento stesso allo scopo primario perseguito dall’organizzazione terin cui ha pubblicità e genera terrore, perché così potrà rorista (8), e pertanto il terrorismo è da inserire nella raggiungere il vero scopo delle sue azioni, che non è categoria dei crimini a forma libera ed è caratterizzato una conseguenza diretta di esse. Il ladro agisce con da uno specifico dolo (9). scopo di lucro, e si ritiene pertanto soddisfatto quando Allontanandoci un attimo da ragionamenti strettariesce a impossessarsi dei beni che intende rubare, anamente giuridici, da analista intelligence devo notare che logamente l’assassino vuole uccidere una persona e risi arriva alla stessa soluzione anche osservando gli attiene che il suo obiettivo sia stato raggiunto quando tentatori nei momenti successivi ai loro attacchi. Una riesce a togliere la vita a tale persona, mentre il terrodelle cose che dopo decenni in cui studio il fenomeno rista che commette un attentato è sempre soddisfatto, ho trovato comune per gli attentatori di ogni «tipologia anche se arrestato e anche se l’obiettivo diretto del suo di terrorismo» è che non solo non fanno di tutto per attentato non è stato raggiunto, purché le sue azioni abscappare e non essere identificati, ma, qualora catturati, biano prodotto il panico e dato pubblicità alla causa che nelle foto dell’arresto appaiono ridere, o quantomeno egli intendeva con esse perseguire. sorridere, felici e soddisfatti per avere evidentemente Alla luce di queste considerazioni, è giunto il moraggiunto il loro scopo, nel quale la pubblicità ha un mento di provare a inquadrare il fenomeno, facendo alaspetto non secondario. Il loro obiettivo è realizzato sia cune preliminari premesse sui termini che compongono che l’attentato abbia avuto successo, sia che non lo l’espressione più usata e abusata degli ultimi decenni: abbia pienamente avuto, sia che essi siano riusciti a «terrorismo» e «internazionale». scappare, sia che siano stati uccisi o catturati: quello Innanzitutto, la prima considerazione dalla quale riche conta è aver scatenato il terrore all’interno di una sulta opportuno partire è quella secondo la quale il «terdeterminata comunità, in vista del raggiungimento rorismo» è un «metodo», un approccio strategico che dello scopo che intendono raggiungere. esiste da sempre. Se andiamo indietro nella storia non Si tratta di un aspetto che nulla ha a che vedere con vi è periodo in cui non sia stato usato (13), anche a lila religione, così come in realtà il terrorismo stesso, condannato da tutte le religioni e non giustificabile sulla base della corretta interpretazione di nessuna. Se si osservano le foto degli arresti, lo stesso sguardo sorridente e beffardo che compare da decenni sul volto dei terroristi palestinesi (10), così come più recentemente su quello dei jihadisti che agiscono in nome di Al Qaeda e dell’Islamic State (11), appare in quella che è forse la prima foto dell’arresto di un attentatore, un anarchico di fine XIX secolo: si tratta della foto che immortala l’arresto di Luigi Lucheni, il 10 settembre 1898, subito dopo il venticinquenne Luigi Lucheni subito dopo il suo arresto. Il 10 settembre del 1898 fu lui ad aver colpito a morte l’imperatrice Elisa- assassinare l’imperatrice Elisabetta d’Austria, meglio nota come Sissi (wikipedia.org). betta d’Austria, Sissi (12).
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vello statale, ma più spesso da minoranze che non avevano altri strumenti per combattere quella che è comunemente chiamata la guerra classica, e finivano per utilizzare una minaccia asimmetrica, prima ancora che qualcuno avesse inventato tale classificazione. Come già accennato, giuridicamente può essere inquadrato come «fattispecie criminosa a forma libera, attraverso la quale si mira, nell’immediato, a raggiungere l’obiettivo di spargere il terrore in una determinata comunità, per il conseguimento, in un secondo momento, di uno scopo ulteriore, che si concretizza normalmente in un cambiamento politico, sociale o religioso» (14). Passando al secondo aspetto, ricordiamo che ancorché manchi una definizione universalmente riconosciuta, tutti concordano sul fatto che la qualificazione di «internazionale» viene data ove l’evento presenti un elemento di internazionalità, anche solo dovuto alla cittadinanza degli autori e/o delle vittime. Negli altri casi si parla di terrorismo interno, fenomeno ancora triste-
mente noto in varie parti del mondo e spesso fin troppo dimenticato. Tuttavia, se il carattere internazionale del fenomeno risiede nella presenza di un elemento di estraneità rispetto a un’unica realtà statuale coinvolta, in presenza di talune circostanze l’elemento di internazionalità si presuppone, come nel caso del c.d. «terrorismo aereo», che mettendo in pericolo la regolarità e la sicurezza del trasporto aereo assume di per sé sempre carattere internazionale (15). Inoltre, nel caso del terrorismo che ha maggiormente colpito negli ultimi decenni, che potremmo in una prima approssimazione definire di «matrice» c.d. «islamica», si è passati da un’internazionalizzazione negli ultimi decenni del secolo scorso, a una «universalizzazione» a inizio di questo nuovo millennio. E avendo l’attuale terrorismo c.d. jihadista come fine ultimo la costituzione del Califfato, che è l’opposto dello Stato westfaliano, ne deriva che la comunità da terrorizzare, per raggiungere quello che abbiamo definito «cambiamento politico, sociale o religioso», sia la comunità internazionale stessa e i valori su cui si basa (16).
L’interesse della comunità internazionale a perseguirlo e le risposte adottate davanti alla sua evoluzione
Poster con attenatatori di Parigi 2015 nella propaganda IS (autore).
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Venendo all’interesse della comunità internazionale nel perseguirlo, si deve sottolineare come storicamente il terrorismo sia nato come un fenomeno a rilevanza interna e per secoli è stato perseguito a livello statale anche quando presentava elementi di estraneità rispetto allo Stato. Tale situazione è rimasta immutata fino a quando, nella seconda metà del XIX secolo, iniziò a emergere l’interesse della comunità internazionale per la repressione al terrorismo in seguito al contenzioso nato dopo uno dei numerosi attentati a Napoleone III. Si tratta di quello che venne compiuto nel settembre del 1854 da Celestino e Giulio Jacquin, che subito dopo si rifugiarono in Belgio: la Francia ne chiese l’estradizione, ma il Belgio, applicando la legge che vietava l’estradizione per reati politici, si vide costretto a rispondere negativamente. Nacque allora la c.d. Clausola belga, che, introdotta dalla legge belga del 22 marzo 1856 e recepita ben presto in una serie di trattati bilaterali di estradizione, previde
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Attentato di Monaco 1972 (autore).
la restrizione della nozione dei delitti politici escludendo da essi, e quindi dal divieto di estradizione per gli autori di tali crimini, gli attentati contro i capi di Stato o i membri delle loro famiglie (17). Enorme fu l’importanza storico-giuridica di tale principio, che ha segnato il primo passo del diritto internazionale contro il fenomeno del terrorismo e al tempo stesso la prima limitazione di un diritto dovuta alla lotta contro di esso (18). Tale clausola fu di fatto la solo risposta di carattere internazionale che gli Stati continuarono a dare al terrorismo in tutto il periodo a cavallo tra il XIX e il XX secolo, che fu caratterizzato da una lunga scia di attentati anarchici, cui si continuò a rispondere a livello di diritto penale interno. Fu tra le due guerre mondiali che si sviluppò la consapevolezza dell’impossibilità di uno Stato di combattere da solo il terrorismo internazionale: dopo l’attentato che nel 1934 costò la vita ad Alessandro di Jugoslavia e al ministro degli Esteri francese Barthou, la Società delle Nazioni iniziò i lavori che portarono all’adozione delle due Convenzioni di Ginevra del 1937, per la prevenzione e la repressione del terrorismo e per la costituzione di una corte penale internazionale, che per una serie di ragioni legate anche all’imminente scoppio della Seconda guerra mondiale non entrarono mai in vigore (19). Ancora incapace di trovare una definizione del terrorismo, la comunità internazionale a partire dagli anni Sessanta, davanti alle nuove modalità operative di volta in volta utilizzate dal terrorismo con attentati quasi
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sempre legati alla c.d. «causa palestinese», rispose mediante l’elaborazione di convenzioni settoriali. Sebbene ognuna di esse volesse essere la risposta a una singola modalità operativa utilizzata (es. dirottamenti aerei, uccisione di personale diplomatico), si venne a disegnare uno standard normativo comune che consentì di superare i limiti connessi all’approccio settoriale (20). Fu solo dopo gli attacchi dell’11 settembre, che la comunità internazionale cambiò passo, approvando a livello di Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite risoluzioni ex Capo VII della Carta che hanno a oggetto il terrorismo internazionale «di per sé», e non comportamenti di alcuni Stati (21), e arrivando a elaborare anche una Strategia Globale contro di esso (22), pur mancando ancora una definizione del fenomeno. Negli ultimi anni, poi, ci si è concentrati su nuovi aspetti. Innanzitutto, sul contrasto al c.d. terrorismo «fai da te», e quindi su come prevenire gli attacchi condotti in Occidente in modo più o meno autonomo da giovani radicalizzati in nome del c.d. jihad, su come controllare i foreign fighter di ritorno dai teatri di crisi, e su come impedire che la propaganda online radicalizzi nuovi homegrown terrorist. Vi è poi stata la lotta «militare» al c.d. Califfato autoproclamato da Al Baghdadi, con l’Islamic State che in modo fin troppo rapido e avventato dopo aver conquistato ampi territori aveva provato a realizzare quello che da sempre era stato il sogno di Al Qaeda. Infine, davanti all’incapacità delle risposte militari nell’arrestare la diffusione di idee radicali di vario titolo, che stanno prendendo sempre più piede tra i giovani e ottenendo ampio consenso popolare anche in mancanza di gruppi ben strutturati alle loro spalle, l’attenzione si è focalizzata anche sul c.d. «estremismo violento», concetto nato con riferimento all’estremismo islamista ma che è maggiormente utilizzato per i movimenti di estrema destra e quelli motivati da ragioni etniche e razziali (23).
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Manca ancora, tuttavia, una definizione di terrorismo giuridicamente riconosciuta a livello internazionale, perché ai problemi storicamente incontrati anche dalla dottrina sin dai primi decenni del XX secolo, si sono sommati ostacoli che forse oggi si dovrebbe essere in grado di superare, alla luce dell’universale condanna del terrorismo e delle azioni dei gruppi jihadisti. Ma, da un lato, permane in alcuni Stati la paura che approvando una determinata definizione possano in futuro essere condan-
nate le proprie azioni, magari condotte per rispondere alla violenza di Stati o non-state actor o durante c.d. interventi umanitari. D’altro lato, la sensibilità di alcuni paesi a maggioranza islamica verso definizioni che possano in qualsiasi modo accostare la propria religione al terrorismo, o far ricadere in tale categoria le azioni di chi combatte per la causa palestinese, finisce per costituire ancora il maggior impedimento a un consenso verso una qualsivoglia definizione. 8
NOTE (1) Le opinioni appartengono all’Autore e non corrispondono necessariamente a quelle delle Amministrazioni di appartenenza. (2) Più facile è stato trovare il consenso intorno ad alcune definizioni a livello regionale grazie all’uniformità culturale dei paesi membri. (3) Sottile A., Le terrorisme international, in Recueil des cours de l’Académie de droit international de La Haye, 1938, 91. (4) Per una ricostruzione completa delle vicende storico-giuridiche legate all’elaborazione di una definizione di terrorismo, si veda Quadarella Sanfelice di Monteforte L., Il terrorismo internazionale come crimine contro l’umanità-da crimine a rilevanza internazionale a crimine internazionale dell’individuo, Napoli, 2006. (5) Quadarella Sanfelice di Monteforte Laura, Il ritorno dei talebani al potere in Afghanistan farà rinascere Al Qaeda? In realtà il gruppo non è mai stato sconfitto. AQ e i suoi venti anni di resilienza, in Mediterranean Insecurity, agosto 2021. (6) Ricordiamo, per esempio, nel nostro Codice Penale le fattispecie introdotte nel febbraio 2015 con gli articoli 270 bis e seguenti. (7) Tra i numerosi libri in cui l’espressione è ampiamente analizzata, si veda Bassiouni M.C., International Terrorism: Multilateral Conventions (1937-2001), New York, 2001. (8) Ciò spiega perché nella maggior parte dei casi gli attacchi terroristici si svolgono in modo scenografico. In tal senso: Jenkins B. M., Il terrorismo internazionale: una rassegna, in Ferracuti M.R. (a cura di), Forme di organizzazioni criminali e terrorismo, Milano, 1988, 187ss. e Guillaume G., Terrorisme et droit international, in Recueil des cours de l’Académie de droit international de La Haye, 1989, III, 305. (9) Panzera A.F., Attività terroristiche e diritto internazionale, Napoli, 1978, 185ss. (10) Si veda Ganor B., Israel’s Counterterrorism Strategy: Origins to the Present, Columb. Univ., 2021. (11) Si veda Quadarella Sanfelice di Monteforte Laura, Perché ci attaccano. Al Qaeda, l’Islamic State e il terrorismo «fai da te», Aracne Editrice, Roma, seconda edizione, 2017. (12) Per le analogie tra il terrorismo anarchico e quello jihadista si veda, da ultimo, Cohen N., Is Islamist terrorism a crime wave, or are we fighting a war?-Rather than being seen as a civilisational threat, Islamism is now seen as comparable to the anarchist movement at the turn of the last century-which eventually withered away, in The Jewish Chronicle, 20 January 2022. (13) Per una ricostruzione storica, cfr.: AA.VV., Encyclopedia of World Terrorism, vol. 1, New York, 1997; Panzera A.F., voce Terrorismo, b) Diritto internazionale, in Enciclopedia del Diritto, vol. XLIV, Milano, 1992, 370ss.; Laqueur W., The Terrorism Reader. A Historical Anthology, New York, 1978; Laqueur W., Storia del terrorismo, Milano, 1978; Quadarella Sanfelice di Monteforte L., Il terrorismo internazionale come crimine contro l’umanità-da crimine a rilevanza internazionale a crimine internazionale dell’individuo, op.cit., Cap. 1; Zlataric B., History of International Terrorism and its Legal Control, in Bassiouni (ed.), International Terrorism and Political Crimes, op. cit., 474ss. (14) Quadarella Sanfelice di Monteforte L., Il terrorismo internazionale come crimine contro l’umanità-da crimine a rilevanza internazionale a crimine internazionale dell’individuo, op.cit., 6. (15) In tal senso: Panzera A.F., voce Terrorismo, b) Diritto internazionale, in Enciclopedia del Diritto, op. cit., 371; Quadarella Sanfelice di Monteforte L., Il terrorismo aereo, in Rivista Aeronautica, n. 4, settembre 2010, 116ss. (16) Per il terrorismo fai da te si veda, Quadarella Sanfelice di Monteforte Laura, Perché ci attaccano. Al Qaeda, l’Islamic State e il terrorismo «fai da te», op.cit.; per il Califfato come organizzazione politico-religiosa cui mirano i gruppi jihadisti, Quadarella Sanfelice di Monteforte L., Vivere a Mosul con l’Islamic State. Efficienza e brutalità del Califfato, Mursia, Milano, 2019. (17) Tra l’ampia dottrina, cfr. Ancel M., Le crime politique e le droit pénal du XXe siècle, in Revue d’histoire politique et constitutionnelle, 1938, n. 1, 89; Cochard, Le terrorisme et l’extradition en droit belge, in AA.VV., Réflexions sur la définition et la répression du terrorisme, Actes du colloque, Université libre de Bruxelles, 19 et 20 mars 1973, Bruxelles, 1974, 210. (18) Tema che sarebbe divenuto di estrema attualità con la c.d. «guerra al terrore» seguita agli attacchi dell’11 settembre. (19) Convention for the Prevention and Punishment of Terrorism, Geneva, 16 November 1937 (LN Doc. C.546.M.383.1937); Convention for the Creation of an International Criminal Court, Geneva, 16 November 1937 (LN Doc. C.546.M.383.1937 Annex). (20) Cfr.: Panzera A.F., La disciplina normativa sul terrorismo internazionale, in Ronzitti N. (a cura di), Europa e terrorismo internazionale-Analisi giuridica del fenomeno e Convenzioni internazionali, Roma, 1990, 18; Gioia A., Terrorismo internazionale, crimini di guerra e crimini contro l’umanità, in Rivista di Diritto Internazionale, n. 1/2004, 5ss.; Quadarella Sanfelice di Monteforte L., Il terrorismo internazionale come crimine contro l’umanità-da crimine a rilevanza internazionale a crimine internazionale dell’individuo, op. cit., Cap. 2. (21) Vi erano già state risoluzioni adottate ex Capo VII della Carta, ma erano rivolte contro uno Stato determinato e con un fine circoscritto o un limite temporale (come quelle contro il regime di Gheddafi del 1992 sul caso Lockerbie, la ris. 731 che intimò alla Libia di estradare i sospetti autori dell’attentato e la 748 che stabilì l’applicazione di sanzioni contro la Libia per il suo rifiuto di estradarli). Dalle risoluzioni 1368 e 1373 del settembre 2001, le disposizioni sono rivolte a tutti gli Stati per la lotta alle attività di ogni gruppo terrorista e il terrorismo è condannato di per sé. (22) UN Global Counter-Terrorism Strategy (A/RES/60/288), adottata dall’Assemblea generale l’8 settembre 2006, è dotata di meccanismo di revisione biennale. (23) Ricordiamo che nel 2016 l’Assemblea Generale dell’ONU nell’adottare la Quinta Revisione Biennale della Global Strategy (A/RES/70/291) recepì un altro documento «strategico», presentato dal Segretario Generale alcuni mesi prima: il «Plan of Action to Prevent Violent Extremism» (A/70/674), visto come una grave minaccia contro la pace. Il documento, inteso come sviluppo pratico della precedente strategia del 2006, cui faceva esplicito riferimento, aveva lo scopo di prevenire l’estremismo violento, considerato e affrontato «come, e quando, tendente al terrorismo» («violent extremism as and when conducive to terrorism»). Era spiegato che l’esigenza di affrontare il fenomeno derivava dall’attività svolta da alcuni «gruppi terroristici come lo Stato islamico in Iraq e il Levante (ISIL), Al-Qaeda e Boko Haram», che aveva «ridisegnato la nostra immagine di estremismo violento e acceso il dibattito su come affrontare questa minaccia».
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PANORAMICA TECNICO-PROFESSIONALE
L’importanza di una capacità anfibia nazionale Filippo Colucci
N
egli ultimi decenni in ambito globale le fasce costiere hanno subìto un incremento dell’attenzione geopolitica. Come manifestamente noto, le attività produttive e commerciali sono concentrate in zone litorali che hanno sbocco diretto sul mare al fine di facilitare e velocizzare la movimentazione
delle merci sulle decisive vie di comunicazione primarie, cioè quelle marittime. Inoltre, le stesse aree costiere si sono rivelate spesso sede di giacimenti di risorse energetiche di interesse crescente, quali per esempio il gas naturale, come nel caso del Mediterraneo orientale. In generale è possibile notare che si sia verificato un
Tenente di vascello, nato a Bari il 5 dicembre 1988. Ha frequentato l’Accademia navale con il Corso Ares (2007-12). Al termine del Corso di Abilitazione anfibia, dal 2013 ha assunto molteplici incarichi presso i comandi della Forza da sbarco. Ha frequentato l’All Arms Commando Course presso lo UK Royal Marine Commando Training Center di Exeter, UK, e l’Expeditionary Warfare School presso la US Marine Corps University di Quantico, Stati Uniti. Attualmente è il Comandante del cacciamine Chioggia.
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popolamento esponenziale dei grandi centri urbani costieri e delle coste in generale. Da notare inoltre come il conseguente incremento della densità abitativa si combina all’alta dinamicità delle società del terzo millennio, nelle quali, grazie alle reti informatiche e alla larga diffusione dei social network, risulta immediata la possibilità di riverbero di notizie o di condivisione di informazioni, anche veicolate con fini politici. In condizioni del genere, nuovi e imprevedibili impulsi di carattere sociopolitico possono portare, negli scenari più critici, a repentini cambiamenti radicali e fenomeni
destabilizzanti di difficile controllo. I litorali sono diventati, quindi, aree di interesse strategico, sempre più spesso oggetto di attenzione da parte delle potenze regionali, o aspiranti tali. Per quanto riguarda le zone di mare costiere, alcune nazioni, dimostrano sul mare un atteggiamento di crescente aggressività, volto soprattutto a guadagnare il controllo sulle aree geografiche soggette a controverse rivendicazioni, tramite un ritorno a strategie sempre più orientate al sea denial (1), cioè la negazione del controllo degli spazi marittimi. Tali strategie, al giorno d’oggi irrobustite da sistemi d’arma tecnologicamente avanzati e fortemente integrati nei diversi domini operativi delle operazioni militari (terrestre, marittimo, aereo, spaziale e cibernetico) sono note come Anti Access e Area-Denial (A2/AD) (2) e rendono il mare, fino a poco tempo prima considerato area di libera circolazione, un ambiente sempre più conteso. Le misure
Mezzi d’assalto anfibi AAV7 in navigazione. Ship to shore movement.
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L’importanza di una capacità anfibia nazionale
Sbarco logistico di Veicoli Tattici Leggeri Multiruolo tramite mezzo da sbarco GIS, lanciato da unità navale da sbarco anfibia.
A2/AD creano delle vere e proprie «bolle di inibizione», la cui efficacia può essere indebolita con operazioni di piccola entità, svolte in maniera distribuita da piccoli «pacchetti di forze» dotati di notevoli capacità di combattimento. Per uno Stato dalla dominante connotazione marittima, quale è l’Italia con la maggior parte dei suoi confini rivieraschi e che è geograficamente il fulcro del Mediterraneo, è fondamentale disporre non solo di una solida capacità di difesa delle acque nazionali ma anche della capacità di poter influenzare gli equilibri nelle aree dove si proietta l’interesse nazionale comprese quelle litorali. Lo strumento marittimo italiano deve essere in grado di tutelare, anche nell’ambito di un approccio sistemico alla sicurezza collettiva, gli interessi del Paese ovunque essi si manifestino. È necessario andare oltre la visione geografica di intervento, quindi assume particolare rilevanza strategicae, in aggiunta alla difesa dei confini nazionali, la caratteristica
di una spiccata e rapida proiettabilità (concetto di expeditionary) e di permanenza in mare (capacità sea based), per cui occorrono sia il Gruppo portaerei sia il Gruppo anfibio, entrambi dotati di unità di scorta, sommergibili, supporto logistico e specialistiche di settore idrografiche e cacciamine. Con particolare riguardo alle zone di mare cosiddette litorali, occorre avere una concreta capacità di deterrenza e dissuasione grazie alla disponibilità di uno strumento di proiezione di forza e di combat power dal mare verso la terraferma, ovvero uno strumento militare capace di pianificare e condurre in maniera efficace, forse le più complesse tra le operazioni aeronavali: le operazioni anfibie. Tali operazioni devono poter essere, in base all’esigenza, svolte in maniera flessibile in diverse proporzioni, in modo tale da poter garantire dall’intervento a piccola scala per il contrasto A2/AD all’intervento ad ampia scala per la deterrenza strategica o la stabilizzazione di aree di interesse.
Assalto anfibio di fucilieri di Marina con inserzione tramite battelli pneumatici.
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L’importanza di una capacità anfibia nazionale
LE OPERAZIONI ANFIBIE Le operazioni anfibie sono operazioni militari lanciate dal mare da una Forza anfibia, inquadrata in un dispositivo navale, al fine di proiettare una Forza da sbarco a terra in un ambiente che può variare in tutto il range delle operazioni militari da permissivo a ostile. L’integrazione e lo stretto coordinamento di diverse capacità caratterizzano quelle anfibie come operazioni militari tra le più complesse, che richiedono elevati standard di preparazione professionale, addestramento, mezzi ed equipaggiamenti prestanti e un alto livello di interoperabilità e flessibilità. Esistono diversi tipi di operazione anfibia: • assalto, prevede l’imposizione di una forza esterna sulla terraferma con la successiva permanenza della forza sbarcata o l’avvicendamento con altra forza amica; • raid, comporta una fulminea incursione o una occupazione temporanea di un obiettivo seguita da un reimbarco pianificato; • dimostrazione, condotta per ingannare il nemico con una esibizione di forza tale da confonderlo e condurlo a scegliere una linea d’azione a esso più sfavorevole (potrebbe quindi anche non prevedere l’effettivo sbarco); • ripiegamento, comporta l’estrazione via mare della forza a terra, da una costa ostile o potenzialmente tale, con una manovra ordinata e lineare; • supporto ad altre operazioni, comprende le operazioni militari diverse dalla guerra che possono essere svolte grazie alla spinta flessibilità della Forza anfibia (evacuazioni di personale non combattente, personnel recovery, soccorso da calamità naturale, operazioni di sostegno e mantenimento della pace). Non vi è una categorizzazione gerarchica tra le tipologie di operazione anfibia, né tantomeno tali operazioni vengono identificate in base all’intensità dell’azione o delle forze messe in campo, ma piuttosto sulla base della tipologia di azione da svolgere.
ALCUNI ESEMPI STORICI - Nel 1944 l’operazione «Overlord» includeva l’assalto anfibio con il quale le Forze alleate sono sbarcate in Normandia per le successive operazioni terrestri di contrasto all’occupazione nazista. - Nel 1982 nell’ambito della guerra delle Falkland, con l’operazione «Corporate» il corpo di spedizione britannico ha eseguito un raid al fine di ristabilire il controllo territoriale dell’arcipelago occupato dalle Forze argentine. - Nel 1990, durante l’operazione «Desert Shield», gli Stati Uniti condussero una serie di dimostrazioni anfibie, con sbarchi su spiagge di nazioni amiche nel Golfo Persico con una imponente Forza anfibia al fine di persuadere il Governo iracheno a ritirare le truppe di occupazione dal Kuwait. - Nel 1995, il 26° Gruppo navale italiano prese parte alla missione «Ibis III» per il ritiro del contingente di pace delle Nazioni unite dalla Somalia tramite ripiegamento anfibio. - Nel 2010, in seguito al catastrofico terremoto che colpì lo stato di Haiti, con l’operazione «White Crane» l’Italia ha dispiegato una Forza anfibia nel Mar dei Caraibi al fine di garantire la dovuta assistenza umanitaria alla popolazione civile.
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Navigazione in formazione dei veicoli d'assalto anfibio AAV7 della Marina Militare in fase di avvicinamento alla costa.
Questo strumento di proiezione, la Forza anfibia, è un dispositivo militare composto da una componente aeronavale e da una Forza da sbarco, che si integrano con strutture di comando variabili in base alla missione assegnata. La Forza anfibia è necessariamente rapida, flessibile e fortemente expeditionary. Infatti, le Marine militari dispongono, per loro stessa natura, della possibilità di proiettare forze e sviluppare potenza combattiva dal mare verso la terraferma. Grazie alla possibilità di sfruttamento delle acque internazionali per trasferimenti rapidi e difficilmente contrastabili, da sempre gli Stati sovrani hanno impiegato le navi per la proiezione di forze e di influenze fuori dai confini territoriali, dotandole anche di marinai addestrati, in maniera sempre più spinta e specifica, all’uso dell’arma da fuoco individuale e al combattimento a terra (la cd. Forza da sbarco). In Italia la Marina Militare italiana è detentrice della capacità anfibia a livello nazionale per derivazione sto-
rica e per attitudine intrinseca. La derivazione storica affonda le sue radici nelle marinerie preunitarie, dominanti per secoli nel mar Mediterraneo, di cui la Marina Militare è la naturale erede. La Marina ha, infatti, consolidato secoli di tradizione marinaresca e di spirito anfibio (cd. amphibiousity), incrementando di decennio in decennio il bagaglio di conoscenze ed esperienze nell’ambito delle operazioni anfibie, aggiornandolo costantemente e adeguandolo al cambiare dei tempi e dei contesti operativi. L’attitudine intrinseca si esplicita nella attuale struttura organica della Squadra navale, che vede alle sue dipendenze tutti gli elementi necessari a generare la capacità anfibia: Terza Divisione navale, Brigata Marina San Marco e reparti aerei. Questi costituiscono un dispositivo, denominato Forza Anfibia della Marina Militare (FAMM), che rappresenta un unicum nel panorama della Difesa. I suoi tre elementi costituiscono un sistema di combattimento modulare, in grado di interagire sulle tre dimensioni (subacquea, su-
Fuciliere di Marina durante un assalto anfibio, avanza dal ciglio di fuoco con la copertura di un mezzo anfibio AAV7.
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Inserzione di operatori RECON a mezzo elicottero con tecnica Helo Duck.
perficie — marittima e terrestre — e aerea) per la proiezione di forze, per il supporto di fuoco alla manovra e per il sostegno logistico, operando in tutto il range delle operazioni militari. La spinta integrazione dei tre elementi e il comune spirito di appartenenza agli stessi colori di Forza armata, combinati con la innata tendenza della Marina all’ammodernamento e all’innovazione tecnologica, fanno della Forza anfibia MM uno strumento di proiezione moderno, flessibile, scalabile ed efficace. La FAMM possiede la capacità di operare autonomamente per almeno trenta giorni prima di essere rifornita, o, all’esigenza, avvicendata da un altro dispositivo, ed è in grado di proiettare in sicurezza le proprie unità in territori non permissivi o privi di adeguate infrastrutture, assolvendo compiti anche molto eterogenei tra loro. Potendo sfruttare al meglio come spazio di manovra tutto il litorale, includendo sia la fascia di mare sia la fascia terrestre, la
FAMM è in grado di operare in scenari cinetici di qualsiasi intensità, adottando il concetto del combined arms, ovvero una tipologia di combattimento che ha lo scopo di integrare la potenza di fuoco e la mobilità delle forze operanti a terra con quelle aeronavali, al fine di costringere il nemico davanti a un dilemma nella scelta delle sue linee d’azione e ridurne contestualmente le capacità combattive. Di fatto, la FAMM si adatta allo scenario, sviluppando e combinando tra loro, in maniera adeguata, le diverse funzioni operative del combattimento: comando e controllo, manovra, fuoco di supporto, logistica, intelligence, protezione delle forze e operazioni informative. Combinata alle capacità sea based nazionali, la Forza anfibia moltiplica la portata massima delle operazioni eseguibili e la propria autonomia logistico-operativa per tempi più estesi, confermandosi come una capacità di valore strategico-operativo senza eguali per il decisore politico.
Squadra di fucilieri di Marina appartenenti al 2° Reggimento San Marco su battellone d'assalto per attività di Boarding.
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LE FUNZIONI DEL COMBATTIMENTO NELLE OPERAZIONI ANFIBIE Le funzioni del combattimento sono categorie funzionali con le quali si classificano le capacità impiegate durante le operazioni militari per generare gli effetti desiderati. • C4I. Esercizio del comando e controllo di tutte le forze assegnate sfruttando al meglio i sistemi di comunicazione aeronavali e della Forza da sbarco, strutturalmente integrati, resilienti e ridondanti. • Intelligence. Mantenimento costante della contezza operativa (cd. situation awareness) attraverso la raccolta di dati con l’impiego dei sensori aeronavali e della Forza da sbarco e la successiva valorizzazione delle informazioni per la tempestiva distribuzione. • Manovra. Impiego efficace delle forze sfruttando la loro mobilità in combinazione con il fuoco di supporto, impiegando il mare e le aree costiere antistanti come unico spazio di manovra per raggiungere una posizione di vantaggio. • Fuoco di supporto. Impiego efficace del fuoco delle sorgenti organiche e di quelle in supporto (includendo anche guerra elettronica e cibernetica), ai fini di moltiplicare la capacità di combattimento e porre la manovra in una posizione di vantaggio rispetto al nemico, coordinando il ciclo di targeting (la selezione degli obiettivi) e sincronizzandolo con il momentum e le necessità imposte dalla missione assegnata. • Sostentamento. Coordinamento di tutte le capacità di logistica di aderenza disponibili in modo da garantire alla forza un’autonomia operativa prolungata nella AOA (Area di Operazioni Anfibia) in termini di rifornimenti di tutte le categorie (acqua, viveri, carburante, munizionamento, pezzi di rispetto, ecc), di manutenzione e di supporto medico. Il supporto logistico, in base alla situazione tattica, può essere dislocato sia a terra che a bordo delle UU.NN., assicurando in maniera sinergica le vitali funzioni di sostentamento sopracitate. • Force protection. Garanzia di adeguati livelli di protezione della Forza da sbarco e del dispositivo aeronavale, in considerazione della minaccia e del livello di rischio accettabile. • Attività di informazione. Capacità di condizionare il comportamento e le scelte del nemico o degli altri attori che interagiscono nella AOA (Area di Operazioni Anfibia), grazie all’impiego dei flussi e i sistemi informativi ordinari per influenzare percezioni e interpretazioni. Possono comprendere le attività di PsyOps e di Pubblica Informazione e sono solitamente coordinate con le Comunicazioni Strategiche (STRATCOM) dei livelli operativo e superiori. Squadra di Fucilieri di Marina durante un assalto anfibio con mezzi d’assalto anfibio AAV7.
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L’importanza di una capacità anfibia nazionale
Operatori della compagnia nuotatori paracadutisti durante la ricognizione del canale di sbarco.
Consapevole dell’importanza di questo strumento, la Marina Militare ha recentemente approvato una pubblicazione relativa alla capacità anfibia di Forza armata, la SMM-ANF-001. Questo documento ha l’ambizione di essere il fondamento della cultura anfibia nazionale. In esso, la Marina ha idealmente cristallizzato il corposo bagaglio conoscitivo ed esperienziale nell’ambito delle operazioni anfibie e litorali, integrando i princìpi fondamentali della dottrina alleata con l’esperienza acquisita nella pluricentenaria storia della fanteria di Marina e della componente aeronavale della Forza Armata. La parte prima della pubblicazione è un compendio sulla dottrina alleata e nazionale delle operazioni anfibie, con una ampia dissertazione sulle tipologie e le fasi delle stesse, sulla relazione con le operazioni fluviali e lacustri (cd. riverine operation) e con una panoramica sullo spettro di operazioni che una Forza anfibia o una Forza da sbarco possono compiere oltre alle classiche operazioni anfibie (tra le quali Maritime Interdiction Operation, difesa delle basi terrestri, supporto alle operazioni speciali, concorso alle operazioni terrestri). La parte seconda approfondisce gli elementi che costituiscono la FAMM e come essi si integrano tra loro adeguandosi alla missione assegnata in modo da poter dispiegare un’efficace task force anfibia, vero fulcro della capacità anfibia nazionale. Ciascun capitolo è dedicato a uno dei tre elementi, descrivendo il dettaglio delle tipologie dei gruppi di unità navali che possono essere poste alle dipendenze del Comando della Terza Divisione Navale, il quale è il Commander of Amphibious Task Force (CATF) nazionale, la poliedricità e la flessibilità della Forza da sbarco composta dalle unità
della Brigata Marina San Marco, il cui comandante assume funzione di Commander of Landing Force (CLF) nazionale, e il fattore moltiplicatore legato agli indispensabili supporti delle Forze aree della Marina. Con la nuova pubblicazione SMM-ANF-001, la Marina Militare pone finalmente una pietra miliare per l’amphibiousity nazionale. Le informazioni trattate nel documento sono filtrate attraverso la duratura esperienza degli uomini e delle donne che nel tempo hanno fatto parte della componente anfibia della Marina. Essi infatti, oltre a essere professionisti del settore, vivono da sempre un contatto diretto e continuativo con le principali realtà anfibie straniere. Un processo «osmotico» costituito da importanti occasioni di scambio e confronto. Tra queste ultime si annoverano i corsi di formazione specialistica e avanzata nelle prestigiose scuole dello United States Marine Corps e della UK Royal Marine Commando Brigade, le posizioni permanenti del personale della Forza da sbarco presso diversi enti NATO e/o internazionali, le posizioni di scambio presso gli staff della Spanish Italian Amphibious Force (SIAF) e Spanish Italian Landing Force (SILF), oltre che i numerosi eventi addestrativi e operativi a cui la componente anfibia e la Brigata Marina San Marco hanno partecipato e continuano a partecipare, includendo anche la SIAF-SILF e il circuito dell’European Amphibious Initiative (EAI). Proprio l’Iniziativa Anfibia Europea ha visto la FAMM impegnata come European Amphibious Battle Group di turno a fine 2020. Il documento appena approvato permette quindi allo strumento militare italiano di potersi dichiarare preparato ad affrontare le sfide geopolitiche del XXI secolo sia per mare che per terram. 8
NOTE (1) L’abilità di negare l’uso del mare a una forza avversaria contro di noi. (2) Impedire a un avversario di portare le proprie forze in una regione contesa o impedirgli di operare liberamente massimizzando la propria potenza.
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STORIA E CULTURA MILITARE
Il destino della flotta austro-ungarica alla fine della Grande guerra Intelligence e diplomazia per conservare la Vittoria in Adriatico (1918-22) (*) Giosuè Allegrini, (**) Enrico Cernuschi
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La flotta da battaglia austro-ungarica a Pola prima della Grande guerra. La parte più moderna di quella Marina rappresentò la preda più ambita nell’Adriatico del 1918-20 (USMM).
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Il destino della flotta austro-ungarica alla fine della Grande guerra
(*) Capitano di vascello del Genio Navale (arq), sommergibilista, storico e critico d’arte moderna e contemporanea. Ha frequentato l’Accademia navale di Livorno conseguendo la Laurea in Ingegneria navale meccanica presso l’Università degli studi di Genova. Ha ricoperto molteplici incarichi di Forza armata fra cui: direttore di macchina del sommergibile Nazario Sauro, direttore di macchina della fregata Grecale, vice direttore dell’Ufficio tecnico navale di Genova, Capo sezione presso il 1° reparto della Direzione degli armamenti navali e capo Ufficio Storico della Marina Militare. Nel 2014 la città di Milano gli ha conferito il Premio Stella al Merito Sociale per meriti storico-culturali. (**) Laureato in giurisprudenza, vive e lavora a Pavia. Studioso di storia navale ha dato alle stampe, nel corso di venticinque anni, altrettanti volumi e oltre 500 articoli pubblicati in Italia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia dalle più importanti riviste del settore. Tra i libri più recenti Gran pavese (Premio Marincovich 2012), ULTRA - La fine di un mito, Black Phoenix (con Vincent P. O’Hara), Navi e Quattrini (2013), Battaglie sconosciute (2014), Malta 19401943 (2015), Quando tuonano i grossi calibri (2016), L’ultimo sbarco in Inghilterra, 1547 (2018), Venezia contro l’Inghilterra, 1628-1649 (2020) e 200 anni di italiani in guerra (2022).
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Cent’anni dopo Esauritesi, ormai, le celebrazioni dei cent’anni dalla Grande guerra, è possibile tirare le somme. Dal punto di vista storico oggi conosciamo molto di più rispetto a quanto comunemente noto fino a poco tempo fa. Continua, però a mancare — a nostro modesto avviso — il quadro generale di quella guerra e di ciò che successe allora dando forma, in fin dei conti, al mondo di oggi. È noto, per esempio, che il Governo italiano contrastò immediatamente, nel luglio 1914 alle pretese austroungariche contro la Serbia. D’altra parte lo stesso scenario aveva avuto luogo nel 1913, quando Roma e Berlino si erano subito opposte, con ragione, a qualsiasi avventura austro-ungarica contro Belgrado. E fu proprio per questo motivo che il Regio Governo apprese soltanto dai giornali, il 24 luglio 1914, dell’avvenuta consegna del provocatorio ultimatum di Vienna alla Serbia. Si trattava di un documento volutamente offensivo, inaccettabile e di materialmente impossibile attuazione mediante il quale il Governo asburgico cercava di riprendere il controllo di quel paese balcanico. Vienna aveva, infatti, perso, nel 1903, il proprio tradizionale protettorato serbo in seguito a un colpo di Stato organizzato dalla potente famiglia Karageorgevic e culminato nell’assassinio del re Alessandro Obrenović e della regina, giudicati entrambi troppo filoaustriaci. Proprio per questo il Governo asburgico pretendeva, nel luglio 1914, perfino l’occupazione, sia pure temporanea, della capitale serba a titolo di garanzia. È meno noto, per contro, il fatto che sin dal 28 luglio 1914 (giorno della dichiarazione di guerra austro-ungarica alla Serbia), il piccolo, ma efficiente Servizio informazioni (1) dell’allora re d’Italia, Vittorio Emanuele III, aveva avvisato Roma in merito al fatto che l’apparente (e insolito) letargo inglese nel corso di quella nuova crisi europea nascondeva, in realtà, una precisa volontà d’intervento contro la Germania da parte di un’influente fazione del governo di Sua Maestà britannica. L’unica condizione (di per sé necessaria e sufficiente) per poter arrivare alla partecipazione diretta del Regno Unito a una guerra continentale era quella di poter dimostrare, davanti all’opinione pubblica d’oltremanica la prova, evidente, di una colpa palese imputabile senz’altro ai tedeschi. Le cause ultime di questa scelta, al di là di in-
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negabili contrasti geopolitici in essere, ormai, da oltre 10 anni, ma che non avevano comunque compromesso la pace mondiale, erano, tutto sommato, banali. Il 15 giugno 1914, infatti, la Germania e la Gran Bretagna avevano sottoscritto un accordo economico di immensa portata in vista della spartizione della Mesopotamia turca. Mediante quell’atto, Berlino cedeva a Londra, pur di arrivare a un’intesa tra il Secondo Reich e l’Impero britannico, un’intera generazione di cospicui investimenti teutonici tra il Tigri e l’Eufrate a fronte del mero rimborso, diluito per di più Venezia, 1o dicembre 1916. Re Vittorio Emanuele III imbarca sulla torpediniera 24 OS del comandante Manfredi Gravina, Squadriglia Cavagnari, per una navigazione lungo la costa. in comode rate annuali, senza interessi e Nella pagina precedente: una caricatura dell’allora tenente di vascello Manfredi Gravina di Ramacca. Esponente della più alta aristocrazia europea e imparentato con metà del mondo protratte per oltre mezzo secolo, delle sole che contava, quest’ufficiale dalla fama un po’ snob, anche se fu ricordato come molto pignolo bordo, brillò sempre per le proprie doti di comandante valoroso, asso del Reparto informaspese sostenute fino a quel momento. La azioni ed eccellente diplomatico (g.c. Istituto centrale per la Storia del Risorgimento). scelta germanica volta a porre fine, una volta per tutte, alla pericolosa spirale della tensione intori di quel patto) chiedendo il Trentino, salvo cozzare, ternazionale con l’Inghilterra, si era addirittura spinta al sin dal principio, con un ostinato (e neanche cortese) punto che Berlino svendette, oltre ai propri apprezzabili «nein» asburgico. A questo punto, data la poco incoraginvestimenti, anche quelli, parimenti più che consistenti, giante risposta austro-ungarica ed essendo ben consapeche gli austro-ungarici avevano fatto per oltre mezzo sevoli dei rischi legati a una crisi mondiale, i ministri del colo in quella medesima area senza prendersi neppure il Regio Governo si erano affrettati ad ammonire già il 29 disturbo d’interpellare i propri soci di minoranza asburluglio, e per iscritto, Berlino in merito alle notizie apgici (2). Secondo le notizie raccolte dal Servizio persoprese dall’intelligence italiana, informando ufficialmente nale di Vittorio Emanuele III e tosto trasmesse a Roma, il Reich in merito al fatto che, in caso di guerra, «[…] tuttavia, nel corso del luglio 1914 alcuni influenti iml’Inghilterra vi prenderà parte» (3). Si trattò di una prenditori britannici avevano pensato bene di risparmiare scelta lungimirante e coraggiosa in quanto, in quel moil pagamento del prezzo pattuito (a sua volta pari, dopomento, il principale informatore del Re, il tenente di vatutto, a un anno circa del Prodotto Interno Lordo del scello Manfredi Gravina di Ramacca (4), stava ancora Regno Unito) e di approfittare dell’imprevedibile crisi attraversando in auto, a rotta di collo, la Francia, dopo che l’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914 aveva ofessere sbarcato a Calais, allo scopo di portare di persona ferto loro su un piatto d’argento, liquidando il credito al Re, in quel momento nella residenza reale di San Rosgermanico nei confronti della City mediante una breve sore, le prove di quanto aveva appena appreso a Londra. e facile Lovely War che russi e francesi avrebbero comI tedeschi, tuttavia, preferirono non credere agli itabattuto pour les beaux yeux de l’Angleterre come al liani. La notte tra il 30 e il 31 luglio Manfredi Gravina tempo delle guerre settecentesche e napoleoniche. arrivò, dopo un viaggio a tempo di record, a Pisa e la Sempre a partire dal 24 luglio del 1914, il ministro mattina dopo l’ammiraglio Paolo Thaon di Revel, redegli Esteri Antonio Paternò Castello, marchese di San catosi nella residenza toscana dal sovrano portando Giuliano, aveva cominciato a sua volta a trattare con personalmente sotto il braccio, data la delicatezza dei Vienna per i compensi territoriali (previsti dall’articolo documenti in parola, una grossa borsa contenente gli VII del Trattato della Triplice Alleanza in caso di guerra ordini di mobilitazione per la Regia Marina, provò noo di allargamento territoriale nei Balcani dei sottoscrittevole sorpresa, quando il Re gli disse che l’Italia non
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sarebbe entrata in guerra e che Berlino e Vienna erano già state informate quella stessa mattina, incaricando — anzi — l’Ammiraglio, nella sua qualità di Capo di Stato Maggiore, di sostituire, il giorno dopo, in occasione della riunione del Consiglio dei ministri, il titolare del dicastero, ammiraglio Enrico Millo (da alcuni giorni malato) spiegando al Governo che l’Italia poteva sì combattere una (breve) guerra navale contro la Francia, ma non certo un conflitto, inevitabilmente di lunga durata, contro la Gran Bretagna (5). A questo punto conviene riassumere i termini essenziali, maturati per il 30 luglio 1914, di quell’intricata vicenda internazionale sfociata, infine, nella Grande guerra. Mentre in Italia, grazie anche all’opera dell’intelligence della Regia Marina, veniva fatto un corretto punto di situazione circa l’evoluzione della crisi, a Londra la situazione era, in effetti, ancora in fase di evoluzione. I 19 componenti del gabinetto del primo ministro Herbert Asquith risultavano infatti divisi, ancora il 31 luglio, in merito al da farsi. Nove ministri erano nettamente contrari a qualsiasi idea di una guerra inglese anche nel caso di un’invasione germanica del Belgio. Otto si dichiaravano, per contro, indecisi — incluso lo stesso Asquith — e soltanto due (il ministro degli Esteri Edward Grey e il Primo Lord dell’Ammiragliato Winston Churchill) dichiaravano apertamente di essere a favore del conflitto (6). In merito allo spirito battagliero e ambizioso di Churchill nessuno aveva motivo di stupirsi. La posizione di Grey, per contro, era molto più delicata e decisiva. Convinto da oltre 10 anni in merito al fatto che la salvezza dell’ordine sociale inglese passasse per una Germania sconfitta dai russi e dai francesi, tanto da favorire, quando era ancora un semplice deputato, il riavvicinamento di Londra dapprima con la Francia tra il 1904 e il 1907 e, subito dopo, l’inedita e, fino a quel momento, impensabile intesa inglese con la Russia (di per sé un vero e proprio capovolgimento di alleanze dopo quasi un secolo di reciproca ostilità tra Londra e San Pietroburgo punteggiato, oltre che da frequenti crisi, anche da vere e proprie guerre, sia dichiarate — come ai tempi della Crimea — sia per procura, come il recentissimo conflitto tra lo zar e l’imperatore del Giappone terminato a Tsushima e a
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Mudken meno di due anni prima), sir Edward cercò di raddrizzare i numeri palesatisi quel 31 luglio nel seno del gabinetto di Sua Maestà, mediante una serie di iniziative a dir poco audaci. Tanto per cominciare quel ministro degli Esteri riuscì a strappare ai propri colleghi, al termine della seduta e mentre tutti stavano andando a colazione, un’affermazione di principio in base alla quale il Regno Unito non avrebbe permesso che la Marina tedesca penetrasse nel Mare del Nord o nella Manica con intenzioni ostili nei confronti dei francesi. In quel caso, infatti, la Marina britannica avrebbe dato tutta la protezione possibile al traffico. Si trattava, in effetti, di un’affermazione di principio abbastanza generica e ambigua che il ministro degli Esteri di Sua Maestà si affrettò a riferire di persona, pochi minuti dopo, all’ambasciatore francese Cambon (7). In seguito lo stesso Grey telefonò, quello stesso giorno, all’ambasciatore germanico a Londra, Lichnowsky, rassicurandolo circa la buona volontà britannica nei confronti di Berlino, spiegando altresì che «[…] l’Inghilterra può ancora trattenere la Francia, se la Germania si impegna a non attaccare né la Francia né la Russia. L’ambasciatore Lichnowsky, che non ha bene afferrato le parole di Grey (il quale, secondo, la buona abitudine oxfordiana, ha balbettato in fretta e in termini velati) crede che l’eventuale impegno tedesco si riferisca alla sola Francia e in tal senso telegrafa a Berlino» (8). In altre parole non sarà mai possibile dimostrare, visto che tutto avvenne (contrariamente a qualsiasi buona prassi diplomatica) per telefono, senza verbali e senza testimoni, se Grey abbia davvero detto, come poi scrisse in sede di memorie, che la Germania non avrebbe dovuto attaccare né la Francia né la Russia a pena di un intervento inglese contro Berlino, oppure se la garanzia di Londra valesse solo a beneficio di Parigi lasciando, per contro, mani libere ai tedeschi nei confronti dell’impero dello zar. Il 4 agosto 1914, infine, la Gran Bretagna dichiarò guerra alla Germania dopo che Grey aveva debitamente rassicurato il Parlamento affermando, il giorno prima, che mai e poi mai il piccolo Esercito britannico sarebbe andato a combattere in Francia (9). Si trattò, evidentemente, di un altro «misunderstanding», in quanto gli accordi tra Londra e Parigi in vista dell’invio nel continente della British
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Expeditionary Force risalivano al 1912 e i relativi ordini di radunata e imbarco erano già stati emanati prima ancora che il parlamento di Westminster, in quel momento in vacanza, fosse convocato d’urgenza. Rispetto a questo quadro, già di per sé così complesso e contradditorio, oggi sappiamo qualcos’altro. Nel 1912 il primo ministro Asquith, compagno di partito di sir Edward Grey, aveva iniziato una compromettente relazione con la giovane (quarant’anni in meno rispetto ad Asquith) e bellissima Venetia Stanley, a sua volta discendente di un’illustre omonima famiglia seicentesca più volte ritratta dall’amico di famiglia Antoon Van Dick. L’idillio tra i due amanti scoppiò in Sicilia durante una visita agli scavi intrapresi sull’isola di Mozia (nel comune di Marsala) da Joseph Whitaker, proprietario del celebre stabilimento vinicolo. Il tutto era avvenuto sotto gli occhi imbarazzati del loro ospite e quelli, comunque discreti e professionali, del commissario Giovanni Gasti, elemento di spicco della Polizia appena rientrato dalla Svizzera, dove aveva meritato un elogio dal ministero della Marina «Per l’iniziativa e l’intelligenza con le quali il commissario di Pubblica Sicurezza dottor Giovanni Gasti aveva assolto una missione a Zurigo» (10) e che era stato incaricato, in quell’occasione, di sovraintendere alla sicurezza di quell’illustre ospite britannico. La sempre preziosa collaborazione tra la Marina italiana e il ministero degli Interni integrò così, alla fine del luglio 1914, il quadro informativo appena descritto, e oggi ribadito con autorevolezza dagli stessi britannici, i quali documentano e ammettono senza difficoltà sia l’opera di persuasione e di indebita influenza politica svolta dalla bella Venetia Stanley nei confronti del bonario Asquith a favore delle tesi belliciste sia i gravi danni che la sicurezza britannica ebbe a subire in seguito a questo stato di cose. Lo stesso Grey, infatti (evidentemente pronto a influenzare in maniera decisiva il proprio governo, ma non a tradire i segreti del suo paese) riprese severamente quella aristocratica, in quanto gli inevitabili controlli cui quella dama veniva periodicamente sottoposta avevano registrato contatti anche col bel Manfredi, dal quale la separavano, dopotutto, solo 4 anni di differenza anziché i 40 del Prime Minister (11).
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Accanto: Venetia Stanley. Al centro: il Primo ministro inglese Herbert Asquith. In basso: il ministro degli Esteri britannico, sir Edward Grey (wikipedia).
Le curiose vicende inglesi del 1914 appena narrate non si esauriscono, però, qui. Un nuovo e significativo filone di ricerche è in-
fatti emerso recentemente, rivelandosi, di per se stesso, tanto più interessante in quanto imbastito sui canoni del più puro Potere Marittimo coinvolgendo in prima persona la Marina italiana, i suoi uomini e, se è possibile dirlo — data l’epoca — le sue donne.
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L’uscita di sicurezza Vienna, entrata in guerra convinta di poter compensare la propria oggettiva inferiorità (12), rispetto alla somma di Russia e Serbia (e con i tedeschi impegnati al 90% in Occidente), mediante una rapida serie di brillanti e vittoriose battaglie d’annientamento (kesselschlachten), si era già pentita, per il settembre di quello stesso anno, dell’errore compiuto. Nel giro di due mesi era andato, infatti, perduto, tra morti, feriti e prigionieri, un terzo dell’Esercito imperiale, battuto sul campo sia dai russi sia (e ciò era politicamente intollerabile) dai serbi, depennando, per di più, dai ruoli oltre metà degli ufficiali in servizio permanente effettivo. Data la mala parata, la duplice monarchia accusò, a questo punto, la Germania di egoismo, perfidia e perfino di mendacio, mentre i tedeschi, more solito, parlavano di incompetenza, arroganza e intrinseca debolezza del loro alleato meridionale. Il ministro degli Esteri austro-ungarico, conte von Berchtold, si spinse a sua volta a minacciare apertamente Berlino, l’8 settembre 1914, prospettando una pace separata asburgica nel caso non fossero arrivati subito gli aiuti militari chiesti con urgenza da Vienna alla Germania (13). Non si trattò, in effetti, di parole a vuoto, anche se non proprio nel senso utilizzato dal Governo austroungarico. La frazione boema del Servizio segreto austro-ungarico, il potente Evidenzbureau aveva infatti concepito, nell’autunno 1914, una possibile via d’uscita dal guaio in cui il Governo austro-ungarico era andato improvvidamente a cacciarsi. I vertici dell’Evidenzbureau, attivi a Praga, proposero di avvicinare i propri colleghi britannici in vista di una possibile pace separata tra l’Austria-Ungheria e l’Intesa, essendo il Regno Unito il riconosciuto leader dell’alleanza venutasi a formare con Parigi e San Pietroburgo. A questo scopo i Servizi austro-ungarici chiesero e ottennero di favorire il passaggio in Occidente, con regolare passaporto emesso «per motivi di salute» e passando attraverso l’Italia, dei due capi, riconosciuti e autorevoli, dell’autonomia ceca e morava: Thomas Masaryk ed Edvard Beneš (14). In realtà il piano concepito a Praga (e ben presto fatto proprio da Londra) era un altro. Si trattava, infatti, di dar vita a una Repubblica slava
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Mappa di quella che avrebbe dovuto essere l’Unione slava nel 1918. Questo progetto fu perseguito, in pratica, fino al 1920 (wikipedia.it/ rielaborazione di Arianna Cernuschi).
meridionale formata da quelle che sarebbero diventate, alla fine, la Cecoslovacchia, la Slovenia e la Croazia, tra loro unite da un corridoio di 200 chilometri di lunghezza e 80 di larghezza coincidente, in pratica, col territorio del Burgenland, prevalentemente popolato, a sua volta, da mezzo milione tra austriaci e ungheresi, a parte una minuscola minoranza slava. Anche la moderna Marina austro-ungarica sarebbe finita, secondo i piani concordati infine a Londra, nelle mani del nuovo Stato continuando, in questo modo, ad assicurare nel tempo quell’ipoteca adriatica che tanto aveva pesato, dall’Unità in poi, in capo all’espansione economica e navale italiana nel Mediterraneo e oltre. Se, infatti, la componente croata poteva assicurare i porti (in primo luogo Cattaro e Fiume e, si sperava, anche Pola e Trieste) e il personale necessario, soltanto le imprese ceche potevano permettersi di pagare le cospicue spese di questo programma assicurando, nel contempo, il necessario appoggio tecnologico e industriale. Fino al 1917, comunque, questi sogni (pubblicizzati sin dal 1915 sulla stampa, corridoio incluso, da Masa-
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ryk e Beneš) non ebbero l’appoggio della maggioranza degli abitanti della Boemia e della Moravia, per tacere della perplessità manifestate dagli slovacchi. Il crescente peso militare (e, quindi, politico) conseguito in Occidente degli indipendentisti cecoslovacchi, dall’estate 1917 in poi, grazie alla formazione ed entrata in linea di 5 divisioni reclutate in Russia, Francia e Italia avvalendosi — in primo luogo — di volontari raccolti tra i prigionieri dell’Esercito asburgico e la fame che stava dilagando ormai da anni attraverso l’Impero austro-ungarico, stretto dal blocco navale, contribuirono al maturare di una nuova situazione politica in vista della creazione, dopo le ostilità, di quel vagheggiato superStato slavo esteso da Praga fino alla Dalmazia. Nella primavera 1918, dopo il fallimento degli ultimi tentativi di pace (a spese dell’Italia) che i francesi e gli inglesi avevano intavolato con l’imperatore Carlo d’Asburgo sin dal febbraio dell’anno precedente, gli Stati Uniti riconobbero, il 29 maggio, il comitato cecoslovacco insediato a Parigi elevandolo, a tutti gli effetti, al livello di un vero e proprio governo alleato. A quest’atto pubblico e formale deciso in vista dell’ormai scontato, futuro smembramento dell’Impero asburgico, seguirono analoghi scambi diplomatici che coinvolsero la Francia, la Gran Bretagna e l’Italia. Nessun riconoscimento fu invece accordato, da parte dell’Intesa e degli Stati Uniti, alla Jugoslavia, sia che si trattasse dello Stato degli sloveni, croati e serbi creato il 29 ottobre 1918 nell’ambito dell’Impero asburgico sia che con questo termine ambivalente s’intendessero, viceversa, i noti programmi d’espansione di Belgrado culminati infine, il 1° dicembre 1918, nella creazione del nuovo Regno SHS (serbi, croati e sloveni) subito governato, con mano di ferro, da Belgrado. Tantomeno fu riconosciuto, allora e in seguito, dai Quattro grandi (il presidente statunitense Wilson, il primo ministro Lloyd George e i presidenti del Consiglio Clemenceau e Vittorio Emanuele Orlando) quel corridoio ceco che pure Praga cercò di ottenere, in tutti i modi, a Versailles nel 1919. In effetti, nel corso di tutto questo lungo arco di tempo, Roma aveva seguito passo per passo il progetto, a lei sommamente sgradito, di uno Stato slavo esteso da Praga all’Adriatico. Quella nuova realtà internazionale
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avrebbe, infatti, riproposto, una volta di più, il solito tema di una potenziale minaccia navale in quel mare. Quanto all’intelligence navale, anche se non era riuscito nel proprio intento giovanile di entrare in Marina, dobbiamo introdurre, a questo punto, la figura del mantovano Marchese Gaetano Benzoni (celebre cavaliere e sovraintendente delle scuderie reali, oltre che esploratore e agente segreto a tempo perso). Costui era rimasto legato all’ambiente prima di essere assassinato, nel 1909, nello Yemen in circostanze mai chiarite. Sua figlia, la marchesina Giuliana, appena diciannovenne, si era resa disponibile, nel 1915, sulle orme dei trascorsi paterni, a collaborare di buon grado, in qualità di corriere insospettabile, tra i Governi italiano, inglese e francese in occasione delle trattative di carattere navale e coloniale che sfociarono, infine, nel Patto di Londra dell’aprile 1915 (15). Splendida amazzone, Giuliana s’innamorò perdutamente, l’anno successivo, di Milan Rastislav Štefánik, un illustre astronomo prestato alla politica nonché capo riconosciuto dei patrioti slovacchi, aviatore e artefice delle legioni indipendentiste in corso di reclutamento in Italia tra i prigionieri austro-ungarici. I due si rividero nella primavera 1918 e Giuliana Benzoni presentò Štefánik a re Vittorio Emanuele. Il sovrano appoggiò, a sua volta, sia la formazione di un Corpo d’armata cecoslovacco in Italia, sia i programmi di quell’affascinante aviatore e politico di stampo dannunziano che era ben deciso a ottenere, se La marchesina Giuliana Benzoni la Grande guerra non l’indipendenza, quanto- durante (wikipedia.it). meno una concreta autonomia dei suoi compatrioti (cattolici) rispetto ai cechi (protestanti), in quanto giudicati, sin da allora, alla stregua di una versione non gran che migliore dei precedenti oppressori austro-ungarici. La giovane marchesa continuò, per il seguito, la propria opera di corriere segreto (16) nel comune interesse di Italia e Slovacchia mentre quello che allora si chiamava il 4° Reparto dello
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Stato Maggiore della Regia Marina provvedeva, agli ordini del capitano di vascello Spiridione Bellavita, a monitorare con discrezione il prosieguo della trama in corso, sin dal 1914, tra Londra e i vertici cecoslovacchi. Quel che successe dopo è infine riassumibile mediante una semplice cronologia.
Giorno per giorno Il 24 ottobre 1918, giornata d’inizio della vittoriosa battaglia decisiva di Vittorio Veneto, 51 divisioni italiane, 3 britanniche, 2 francesi e 1 cecoslovacca, attaccarono 72 divisioni austro-ungariche ormai stremate da anni di blocco navale. Il 26 ottobre, le prime notizie della mala parata sul Piave spinsero gli equipaggi delle navi da guerra asburgiche a incominMilan Rastislav Štefánik, padre dell’indipendenza slovacca. Il suo volto ciare ad ammutinarsi a appare anche sulle monete da 2 euro di partire dalle corazzate. quella nazione (wikipedia.it). Il 31 ottobre l’imperatore Carlo cedette la Marina imperiale (kaiserliche und königliche Kriegsmarine) allo Stato degli sloveni, croati e serbi facente parte del proprio impero (modificato, a sua volta, in una struttura federale il 17 ottobre di quello stesso anno ponendo sotto la corona degli Asburgo i regni d’Austria, Ungheria e jugoslavo). Si trattava, volendo limitarsi alle sole unità di superficie moderne e in armamento, di 3 navi da battaglia monoca-
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libro e di 3 corazzate pre-dreadnought di base a Pola assieme a un esploratore e a 2 cacciatorpediniere della classe «Tatra», oltre al naviglio minore, mentre nelle Bocche di Cattaro era riunita la divisione veloce formata dai 3 esploratori della classe «Helgoland» in compagnia di altri 6 «Tatra». Il passaggio di consegna delle unità alla nuova Marina degli slavi del sud doveva essere perfezionato per le 8 del mattino del giorno successivo, ma quasi un’ora e mezzo prima di quella cerimonia, la moderna nave da battaglia Viribus Unitis fu affondata dal mezzo d’assalto S 2, la c.d. «Mignatta», penetrato la notte precedente all’interno delle ostruzioni di Pola a opera del maggiore G.N. Raffaele Rossetti e del tenente medico Raffaele Paolucci. Quest’impresa accelerò ancora di più i tempi dell’abbandono, già in atto, delle navi di quella Marina da parte dei loro equipaggi. Il pomeriggio di quello stesso giorno Vienna apprese poi, con orrore, che il neonato Stato degli slavi del sud (contrariamente alle attese e nonostante le ripetute, recenti ed enormi concessioni asburgiche che pure avevano compreso non solo l’affrancamento dall’Ungheria, ma anche l’ulteriore regalo rappresentato dalla città di Fiume fino all’aggiunta finale dalla flotta) si considerava indipendente e neutrale, disconoscendo Carlo e il suo impero. A conferma di quest’inatteso, nuovo stato di cose, il 1° novembre i croati comunicarono da Cattaro agli inglesi, via radio e in chiaro, alle ore 21.45, di aspettare con gioia l’arrivo delle navi britanniche, francesi e statunitensi. Pola, 1o novembre 1918. L’affondamento della nave da battaglia VIRIBUS UNITIS. Nella pagina accanto: il mezzo d’assalto, detto «Mignatta», utilizzato per l’attacco all’unità, oggi custodito nel Museo Tecnico Navale della Spezia (USMM).
Il destino della flotta austro-ungarica alla fine della Grande guerra
Il mattino del 3 novembre 1918, i britannici risposero, da Malta, in tranquilla violazione delle clausole armistiziali elaborate di comune accordo, a Parigi, dall’Intesa e dagli Stati Uniti sin dal 31 ottobre e comunicate la sera di quello stesso giorno a Villa Giusti, confermandole poi il 2 novembre, che le unità della flotta di base a Pola, Cattaro e Sebenico potevano concentrarsi a Corfù. L’armistizio prevedeva, viceversa, la consegna a Venezia, per il 6 novembre, delle 3 dreadnought in compagnia di altrettanti esploratori e di 9 cacciatorpediniere, 12 torpediniere e 1 posamine, oltre alla cessione della base di Pola e dei sommergibili. Si trattava, in pratica, del completamento della lunga e paziente trama tessuta tra Praga e Londra sin dal 1914: il trasferimento a Corfù della flotta già kaiserliche und königliche Kriegsmarine mirava, infatti, alla conservazione della ex Marina austro-ungarica a beneficio del futuro, nuovo Stato slavo (una volta che fosse stato riconosciuto in base al principio di effettività, ovvero al concreto controllo del proprio territorio) legando, in tal modo, le mani — una volta di più — Venezia, febbraio 1917. L’ammiraglio Thaon di Revel, appena tornato Capo di Stato Maggiore della Marina, e il suo Aiutante di bandiera, Manfredi Gravina (g.c. Istituto centrale per la Storia del Risorgimento).
all’Italia vincolandola, come in passato, in Adriatico. In effetti, la sera del 2 novembre il presidente del Consiglio italiano Vittorio Emanuele Orlando, in quel momento a Parigi, cadde in pieno nella trappola finendo per ordinare a Thaon di Revel di uniformarsi al volere degli alleati. Il Capo di Stato Maggiore della Marina, essendo perfettamente al corrente di quanto bolliva davvero in pentola, elevò una formale protesta per iscritto (come era suo diritto) e obbedì, prendendosi però tutto il tempo necessario per dar corso a quella disposizione. Consapevole del fatto che le ore stavano lavorando contro di lui (e contro gli interessi italiani), il Capo di Stato Maggiore della Marina aveva, infatti, già risposto, la sera del 1° novembre, a un appello trasmesso (sempre per radio e in chiaro) da Pola (città in quel momento in preda al caos e alle sparatorie e che invocava l’arrivo degli ex nemici per riportare l’ordine tra i cittadini e disarmare gli sbandati) in vista dell’invio a Venezia di una torpediniera parlamentare «jugoslava» battente bandiera bianca. Subodorando correttamente il caos che doveva regnare oltre Adriatico, Thaon di Revel accettò la richiesta comunicata da Pola indicando, contemporaneamente, la rotta che quella nave parlamentare avrebbe dovuto seguire «a causa degli sbarramenti minati», facendola così intercettare, già alle ore 13.00 del 3 novembre, dalla torpediniera italiana 56 AS all’altezza dello scoglio di San Giovanni in Pelago, a sud di Rovigno. In questo modo l’incontro tra la delegazione italiana e quella proveniente da Pola in nome del nuovo (e da nessuno ancora
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Venezia, inverno 1915-16. Da sinistra a destra: Manfredi Gravina, osservatore e, in seguito, pilota di idrovolanti assieme ai capitani (GN) Luigi Bresciani, Roberto Prunas e al TV François Emery, uno dei piloti dell’aristocratica squadriglia francese di Nieuport di base al Lido dal 1915, praticamente l’ultimo reparto della Royale borbonica (USMM).
riconosciuto) Stato jugoslavo con capitale Zagabria, anticipò di diverse ore l’uscita da Cattaro del cacciatorpediniere Dukla. La partenza per Corfù di quest’ultima silurante (con a bordo un’altra delegazione jugoslava arrivata da Zagabria fino a quel porto la mattina del 3 novembre e incaricata di mettere sotto la protezione britannica la flotta ex asburgica) era stata infatti fissata per le ore 14.00 di quello stesso giorno 3 ed era nota a Venezia sin dalle ore 10.00 del medesimo 3 novembre in base ad alcuni radiogrammi trasmessi da Cattaro a Corfù e puntualmente intercettati dagli specialisti TLC del 4° Reparto diretti da Manfredi Gravina. A bordo della 56 AS il comandante Alessandro Ciano, plenipotenziario italiano, informò i parlamentari croati e sloveni che, sempre a causa delle mine, nessun movimento di navi era possibile se non dopo 48 ore di preavviso e con una scorta assicurata, per comprensibili motivi di sicurezza, dalle unità italiane. Un volontario dalmata del 4° Reparto, appositamente imbarcato per l’occasione sulla 56 in uniforme da marinaio, ebbe poi modo di ascoltare quanto dicevano tra loro gli inviati, appurando così che la maggioranza del personale che formava gli equipaggi delle navi della ex k. und k. Kriegsmarine aveva già lasciato i propri bastimenti per tornare a casa e che gli stessi marinai croati presenti a bordo delle unità ancora in armamento non ammontavano, tra tutto, che a poche centinaia di elementi, oltretutto con pochissimi ufficiali tra loro. Non c’era, pertanto, la possibilità materiale di trasferire le navi ex asburgiche a Corfù e, in tal modo, il rischio di ritrovarsi tra i piedi, dall’altra parte dell’Adriatico, una rinnovata,
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grossa Marina potenzialmente ostile era da considerare, ormai, scongiurato. I francesi, gli inglesi e gli americani (presenti, questi ultimi, a Corfù con una ventina di piccoli cacciasommergibili in legno) furono immediatamente informati, non appena la torpediniera italiana comunicò, col fanale a trappola, a un cacciatorpediniere più al largo, un segnale convenuto in precedenza, circa l’avvenuto incontro della 56 AS con la delegazione a bordo della nave parlamentare uscita da Pola. Quegli inviati diventavano, così, automaticamente l’unico interlocutore riconosciuto proveniente dalla flotta austro-ungarica in rivolta. In tal modo, e per il seguito, la Regia Marina avrebbe adempiuto alle incombenze già previste dallo strumento di armistizio concordato in precedenza con gli alleati e che assegnavano a Roma tutti gli oneri necessari per far rispettare l’armistizio sottoscritto quello stesso pomeriggio a Villa Giusti. Dopo questo colpo di mano il Governo di Parigi (dimostratosi sempre molto più saggio dei propri generali e ammiragli presenti nei Balcani) abbozzò. Quello di Londra cercò, per contro, di replicare, ma ormai c’era poco da fare. L’Ammiragliato britannico fece comunque sapere, a ogni buon conto, che contava in inviare una propria unità a Pola per sovraintendere alle operazioni di disarmo. Thaon di Revel accettò rammaricandosi solo del fatto che le recenti mareggiate avessero strappato dalle loro ancore molte delle oltre 9.000 mine posate dalle due parti in Alto Adriatico. Di conseguenza, non potendo — date le circostanze — assicurare le necessarie rotte di sicurezza, qualunque nave da
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Il destino della flotta austro-ungarica alla fine della Grande guerra
guerra inglese che si fosse inoltrata laggiù sarebbe stata, naturalmente, benvenuta, ma avrebbe navigato a proprio rischio e pericolo. Non disponendo, a Brindisi e a Corfù, di altre unità pronte e adatte alla bisogna, la Royal Navy fu costretta, a questo punto, a inviare d’urgenza a Venezia (dove giunse il 4 novembre) soltanto la piccola e vecchia torpediniera TB 071, un’unità da 60 tonnellate con un’immersione di meno di 2 metri, destinata a imbarcare, nella città lagunare, il plenipotenziario britannico sir Henry Plunkett. La minuscola e vecchia TB 071 non poté, però, giocare, nei giorni successivi, al cospetto delle corazzate della Regia Marina, alcun ruolo di rilievo, nonostante il prestigio della White Ensign, priva com’era, tra l’altro, di adeguati mezzi di comunicazione. La torpediniera 3 PN che stava riportando, quello stesso giorno, sir Henry da Trieste a Venezia subì, inoltre, un’avaria di macchina, perdendo di conseguenza diverse ore prima di arrivare a destinazione, tanto che sir Henry non poté fare altro, una volta giunto finalmente a Pola, che limitarsi a inviare, nel corso dei giorni successivi, un’ininterrotta serie di rapporti di protesta inoltrati, a mezzo bolgetta e posta ordinaria, al Governo inglese. Sempre il 4 novembre, inoltre, subito dopo un rifornimento celere di combustibile, chiesto immediatamente dal comandante della TB 071 e subito ottenuto, quell’unità sottile fu inviata a Umago per proteggere, a causa di «urgenti e gravi necessità», una non meglio precisata, ma evidentemente importante, aristocratica britannica rimasta tagliata fuori in Istria dallo scoppio della guerra e che aveva fortunosamente comunicato di aver bisogno di aiuto immediato da parte di un’unità della Royal Navy nell’interesse sia dei suoi compatrioti sia dell’Intesa. Il testo del messaggio riferito evidenziava, a sua volta, una non episodica conoscenza dei contatti e degli accordi intervenuti tra Praga e Londra, inclusi gli ultimissimi sviluppi maturati in ottobre. Si trattava della marchesina Benzoni, perfettamente bilingue, che si mosse agilmente, al posto di quella Lady, nell’ambiguo mondo dell’intelligence, dove non si sa mai chi lavori davvero per chi. L’intraprendente aristocratica era stata portata in Istria poco tempo prima con un idrovolante della Regia Ma-
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rina facendosi «scoprire», poco dopo, nell’ambito di un’intricata rete di doppi e tripli giochi tra i (pochi) fedeli dell’Evidenzbureau che intendevano servire fino all’ultimo il loro imperatore, gli jugoslavi e cecoslovacchi combinati, i britannici e, non ultimi, gli italiani irredenti. La TB 071 non poté però giungere in tempo al salvataggio, a Umago, della propria presunta informatrice e garante degli impegni britannici in quell’area a causa di una malaugurata collisione verificatasi in mare col Regio Sommergibile Atropo. Quest’ultimo incidente causò, infatti, qualche danno all’unità sottile britannica, tanto da costringere quella torpediniera a rientrare. A Umago andò, per contro, lo stesso Atropo, poi sostituito, il giorno successivo, da un altro sommergibile italiano, l’F 12. Nessuno, però, trovò la vera Lady, garante personale degli accordi anglo-slavi e riapparsa dopo tre settimane trascorse «per accertamenti» in un convento. Furono solo rinvenute numerose tracce rappresentate da strisce di sterline d’oro mediante le quali erano state tacitate o convinte, a seconda del caso, le varie fazioni che cercavano di influire, in quei giorni turbinosi, in capo al destino della defunta kaiserliche und königliche Kriegsmarine. D’altra parte, come si sa, i sommergibili sono invisibili sotto le onde e, all’alba, possono emergere ovunque. A questo punto i britannici, capirono l’antifona e, repentinamente la loro stampa, fino a quel momento peggio che fredda nei confronti della vittoria italiana, cambiò improvvisamente registro nel corso di una notte uscendo, dal 5 novembre 1918 in poi, con titoli e articoli di tutt’altro genere volti a esaltare il successo italiano e il fatto che l’Adriatico era stato il terreno di caccia della Regia Marina, così come il Mare del Nord e la Manica erano stati dominati dalla Royal Navy mentre i francesi venivano bellamente dimenticati. Porto Corsini. Un idrovolante dell’Aviazione navale italiana tipo «Macchi L1». Velivoli di questo tipo furono utilizzati per operazioni di infiltrazione e recupero di informatori in Adriatico (USMM).
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Ancona 1918. Sommergibili classe «F». Ancora oggi i battelli subacquei sono i mezzi ideali per recuperare personale inviato oltre i confini (USMM).
Thaon di Revel, riconoscente, lasciò trapelare, a sua volta, un proprio telegramma all’Ammiragliato britannico mediante il quale dichiarava, infine, di gradire la presenza delle navi da guerra inglesi in Alto Adriatico, fatto questo che indignò, peraltro, i francesi, sentitisi esclusi, mettendo ancora una volta Parigi contro Londra tanto da neutralizzare, in pratica, a nord di Cattaro e fino alla firma del Trattato di Versailles, entrambe quelle potenze. Un incrociatore leggero britannico arrivò così a Pola il 12 novembre, quando però tutti i giochi erano fatti (17). Il 5 novembre le navi italiane erano infatti entrate a Pola e l’ammiraglio Cagni, dopo aver risposto duramente al comandante in capo della neo flotta slava, il capitano di Fregata Metodije Koch (promosso, nel giro di una notte, al rango di ammiraglio a opera del Consiglio di Zagabria e che cercò, vanamente, di sostenere che la flotta già asburgica apparteneva, ora, a uno Stato neutrale ed era, pertanto, da considerare intangibile da parte dell’Italia), liquidò la situazione con militare chiarezza. A partire da quello stesso giorno i forti della piazza cominciarono a essere occupati dai marinai italiani. Seguirono, il 9 novembre, le corazzate, ormai in evidente stato di abbandono da giorni. Il 10 novembre le navi francesi, italiane e britanniche assunsero il controllo delle Bocche di Cattaro. Quanto alla divisione leggera già asburgica di base laggiù, essa continuò a issare la neonata bandiera jugoslava fino al 28 di quello stesso mese, giorno in cui quelle unità furono abbandonate dagli ultimi marinai ex austro-ungarici ancora a bordo venendo prese in custodia dai francesi. Tra il 10 e l’11 novembre i marinai croati rimasti a
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Pola e che non avevano ancora disertato (tra tutti meno di un migliaio rispetto agli oltre 5.000 presenti ancora il primo di quel mese) se ne andarono, con l’assenso di Cagni, da Spalato salpando a bordo delle pre-dreadnought Radetzky e Zrinyi e delle torpediniere TB 12 e 52. Quelle navi inalberarono dapprima la bandiera jugoslava e, una volta in mare, quella statunitense, essendo stata Spalato assegnata al controllo americano. Prese in carico dall’US Navy il giorno 14, le unità in parola furono infine abbandonate, il 20 novembre, dagli ultimi marinai slavi rimanendo, per il seguito, sotto la custodia statunitense. Il 19 dicembre 1918 Thaon di Revel rilasciò un’intervista mediante la quale chiariva che: «[…] noi possiamo sentirci finalmente tranquilli in casa nostra e, grazie a questa tranquillità assicurata, ridurre al minimo indispensabile gli armamenti navali con inestimabile vantaggio dell’economia nazionale e della prosperità mercantile di tutti i popoli che nell’Adriatico avranno i loro sbocchi commerciali […]. In nessun caso, nessuna unità, nessun elemento di carattere militare dovranno, come strumenti bellici, passare a nazionalità della costa opposta» (18). Nell’aprile 1919, mentre Praga insisteva per ottenere il «corridoio» concepito nel 1914, Belgrado chiese «come minimo» 4 esploratori, 17 cacciatorpediniere, 27 torpediniere, 20 sommergibili (più altri 17 in costruzione), 150 aerei e diverse unità minori ex austro-ungariche. In pratica il grosso era rappresentato dalle navi di Cattaro sotto custodia francese, ma questa richiesta fu respinta in base al concorde parere di Roma e Parigi.
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Dopo la firma, il 10 settembre 1919, del Trattato di pace di Saint-Germain, Praga dovette rinunciare, in apparenza, al sospirato «corridoio», mentre la questione della spartizione della flotta già asburgica veniva rinviata al 9 dicembre 1919, salvo trascinarsi, da allora, fino all’ottobre 1920. In effetti fu costituito, dopo Versailles, un indipendente Banato di Leithania che corrispondeva, in pratica, al famoso «corridoio». La sicurezza di quell’area fu assunta dal corpo d’occupazione italiano inviato, sin dall’inizio del 1919, in Carinzia per gestire la situazione creata dai continui scontri in atto in quell’area tra austriaci e jugoslavi, dato lo stato d’incertezza delle frontiere, ancora da definire. Nel maggio 1920 Belgrado tornò alla carica reclamando, sempre col supporto di Praga, 2 vecchi incrociatori protetti da adibire a navi scuola, oltre a 6 cacciatorpediniere, 30 torpediniere, 4 sommergibili e 25 idrovolanti. Anche questa domanda fu respinta e, alla fine, la Jugoslavia (che era stata riconosciuta come tale solo nel settembre 1919) ottenne la corazzata predreadnought Kronprinz Erzherzog Rudolf (varata 33 anni prima, adibita a nave deposito dal 1903 e demolita, infine, nel 1922) più 16 torpediniere (metà delle quali vetuste) e alcune navi ausiliarie. Tutte queste unità furono consegnate, infine, a Cattaro, nel marzo 1921 alla neonata Marina jugoslava in condizioni di efficienza nulla, dopo tanti anni di abbandono, e prive di armi (19). Quanto alle due pre-dreadnought di Spalato, esse furono assegnate all’Italia il 31 maggio 1920 e tosto demolite. Alla fine, su un totale di 17 unità tra navi da battaglia, corazzate, esploratori e cacciatorpediniere moderni ex austro-ungarici, alla Gran Bretagna spettò il solo scout Admiral Spaun (subito demolito, dato anche il suo malriuscito apparato motore), mentre alla Francia pervennero un esploratore e un cacciatorpediniere; tutto il resto passò all’Italia, la quale riarmò due esploratori e, in pratica, solo 5 cacciatorpediniere «cannibalizzandone» altri due per rimettere in efficienza il resto di quella squadriglia. Il 14 agosto 1920, a ogni modo, Praga e Belgrado, sempre tenaci, avevano firmato un trattato navale che permetteva alla Cecoslovacchia di costruire e armare
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in Adriatico proprie navi da guerra; si trattava, peraltro, di un’eventualità del tutto teorica, data la pratica mancanza di cantieri navali, a Spalato e a Porto Baross, fino all’inizio degli anni Trenta. A questo patto seguì, nel dicembre 1920, un piano volto ad acquistare e trasferire a Cattaro la c.d. Flotta di Wrangel, ovvero le navi da guerra russe armate in precedenza, nel Mar Nero, dai bianchi controrivoluzionari, ormai sconfitti e raminghi tra la Turchia e Biserta dopo la recente perdita della Crimea. Una volta che si prescinda dalle unità vetuste e ausiliarie, si trattava di un complesso formato da una moderna nave da battaglia, la General Alekseyev, dalla portaidrovolanti Almaz e da 6 recenti e grossi cacciatorpediniere, oltre a 4 sommergibili. Il Governo italiano, non appena venne a sapere in merito a questo programma, fece presente a Parigi l’inopportunità di una simile idea e, alla fine, non se ne fece nulla, lasciando le unità ex zariste ad arrugginire in Tunisia fino alla loro demolizione, intrapresa dal 1924 in poi. Nell’ottobre 1920, dopo che gli italiani avevano abbandonato poco prima il mancato «corridoio» ceco, l’Austria invase il Banato di Leithania spartendolo, il mese successivo, con Budapest. Risolta così l’ultima possibilità di realizzare il tanto sognato collegamento territoriale tra la Cecoslovacchia e la Jugoslavia, Praga abolì, infine, nell’agosto 1922, quel sottosegretariato della Marina L’esploratore ex austro-ungarico NOVARA affondato per cedimento del fasciame a Brindisi, il 29 gennaio 1920, mentre veniva rimorchiato a Biserta. Le navi asburgiche erano state abbandonate a Cattaro, dal novembre 1918 in poi, senza manutenzione. Il NOVARA, recuperato tre mesi dopo, divenne infine il THIONVILLE francese; fu radiato nel 1932 (USMM).
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inserito nel proprio ministero della Guerra che aveva creato, coltivando tante speranze, quattro anni prima al momento della fine degli Asburgo (20).
Epilogo Milan Štefánik morì il 4 maggio 1919, venti giorni prima delle nozze con la marchesina Benzoni, in un incidente aereo mentre stava volando da Campoformido a Praga. Scomparso lui, la Slovacchia perse non solo la prospettiva dell’indipendenza, ma anche quella dell’autonomia. Giuliana Benzoni divenne, sin da prima della Seconda guerra mondiale, la confidente della principessa di Piemonte Maria José e la sua guida riconosciuta nel mondo democratico dell’antifascismo (a partire da Luigi Einaudi e Ivanoe Bonomi) nel tentativo, esperito tra l’ottobre 1941 e l’agosto 1943 e, infine, fallito non per colpa sua o della Principessa, di trovare una via d’uscita indolore, o quasi, per l’Italia durante quel conflitto. Manfredi Gravina divenne nel 1914 l’aiutante di bandiera di Thaon di Revel, violò il porto di Trieste, al comando della torpediniera 24 OS, la notte sul 20 mag-
gio 1916; inoltre fu osservatore dell’Aviazione navale e proseguì la propria attività informativa diventando, tra l’altro, l’apripista italiano, nel 1920, dei rapporti con l’Unione Sovietica. Lasciò il servizio nel 1923 venendo nominato, in seguito, Alto Commissario della Società delle Nazioni (in pratica governatore) di Danzica tra il 1929 e il 1932, quando morì, lasciando in quella città un ottimo ricordo dopo i 10 anni della precedente occupazione inglese. Fu inoltre il primo, in Italia, a scoprire e segnalare al Governo il «fenomeno Hitler». Lady Venetia Stanley proseguì, fino al 1948, la propria vita avventurosa diventando, tra l’altro, una celebre aviatrice e una recordwoman. Gli altri nomi di queste vicende: Grey, Asquith, Masaryk, Beneš, Churchill, Thaon di Revel e così via, appartengono, per contro, alla storia ben nota. Tutto però è sempre racchiuso (si tratti di personaggi illustri o di non meno importanti, ma sempre discreti protagonisti attivi sullo sfondo) nell’ambito del cerchio silenzioso e decisivo del Potere Marittimo, notoriamente tanto più efficace quanto meno rumore fa. 8
NOTE (1) Cfr. M.G. Pasqualini, Carte segrete dell’Intelligence Italiana 1861-1918, Roma 2006. (2) Giacomo Aula, Diplomazia e petrolio, ed. Tigullio, Santa Margherita Ligure 2004, pagine 34-35. (3) Antonio Salandra, La neutralità italiana, ed. Mondadori, Milano 1928, pagina 94. (4) Personaggio uscito apparentemente dalla penna di un romanziere, il comandante Gravina, discendente del palermitano ammiraglio Federico Gravina (saggio, eroico e focoso comandante della flotta spagnola ferito a Trafalgar e morto, l’anno dopo, a causa del colpo ricevuto) era tedesco (e perfettamente bilingue) da parte di madre, a sua volta discendente della celebre e discussa Cosima Liszt in Von Bulow, poi diventata moglie di Wagner. Faceva parte dell’élite dell’aristocrazia europea e, per questo motivo, aveva tutte le porte aperte. Buon marinaio, aviatore, eccellente letterato e anticonformista per eccellenza, meritò 2 medaglie d’argento al valore e una di bronzo, oltre a una promozione per merito di guerra. Gettò inoltre le basi, nel 1916, del servizio crittografico della Marina italiana. (5) Ezio Ferrante, Il Grande Ammiraglio Paolo Thaon di Revel, Supplemento della Rivista Marittima, agosto-settembre 1989, pagine 53-54. (6) Niall Ferguson, The Pity of War, ed. Basic Books, New York 1999, pagina 160. (7) Idem, pagina 161. Per la verità Cambon riferì quest’affermazione al proprio governo venerdì 31 luglio, mentre i verbali britannici riportano che la questione relativa a un’eventuale attività navale tedesca contro la Francia, fatto questo che la Gran Bretagna avrebbe trovato intollerabile rispetto alla propria signoria dei mari, fu discussa soltanto domenica 2 agosto. Probabilmente si trattò di un misunderstanding rispetto all’ordine del giorno fissato, venerdì 31 luglio, per la prima riunione del Consiglio dei ministri successiva al week end, incontro poi anticipato a causa dell’ultimatum tedesco al Belgio consegnato a Bruxelles il 2 agosto. (8) Mario Silvestri, La decadenza dell’Europa Occidentale, Vol. II, ed. Einaudi, Torino 1978, pagina 16. (9) Dwight R. Messimer, U-Boats’Lost Opportunity, MHQ The Quarterly Journal of Military History, Spring 2003. (10) Raffaele Camposano, Storia dei rapporti tra la Polizia di Stato e la Marina Militare, Supplemento Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare, dicembre 2013, pagina 213. (11) Cristopher Andrew, The Secret World, A History of Intelligence, ed. Penguin, Londra 2018, pagina 511. (12) Nel 1914 il Prodotto Interno Lordo pro capite austro-ungarico era pari, per esempio, a 57 dollari annui rispetto ai 108 italiani, ai 153 francesi e ai 244 britannici. Paul Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, ed. Garzanti, Milano 2001, pagina 346. (13) Holger H. Herwig, Disjointed Allies. Coalition Warfare in Berlin and Vienna, 1914, The Journal of Military History, 54, July 1990. (14) Albert Pethö, I Servizi segreti dell’Austria-Ungheria, ed. LEG, Gorizia 1998, pagine 325 e 326. (15) Sergio Tazzer, Banditi o eroi? Milan Rastislav Štefánik e la Legione cecoslovacca, ed. Kellermann, Vittorio Veneto 2013. (16) Caroline Moorhead, Inis Origo, Marchesa of Val d’Orcia, ed. David R. Godine, Boston 2002. (17) Guglielmo Imperiali, Diario 1915-1919, pubblicato per il Senato della Repubblica da Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2006, pagine 592 e 597. (18) Maffio Maffii, La Vittoria sull’Adriatico, ed. Alfieri e Lacroix, Milano 1919, pagina 173. (19) Milan Vego, The Yugoslav Navy, Warship International, No. 4, 1982. (20) Rene Greger, Yugoslav Naval Guns and the Birth of the Yugoslav Navy 1918-1941, Warship International, No. 4, 1987. BIBLIOGRAFIA Ambrogio Viviani, Servizi Segreti italiani, ed. Adnkronos, Roma 1985. Camillo Manfroni, I nostri alleati navali, ed. Mondadori, Milano 1927. Giulia Caccamo, L’occupazione italiana della Carinzia, Italia Contemporanea, n. 256-257 settembre-dicembre 2009. Michael Brock ed Eleanor Brock, Margot Asquith’s Great War Diary 1914-1916. The View from Downing Street, Oxford University Press, Oxford 2014. Scritti di Manfredi Gravina (a cura di Tommaso Sillani), ed. La Rassegna italiana, Roma 1935. Ufficio Storico della Regia Marina, La Marina italiana nella Grande guerra, Volume VIII, ed. Vallecchi, Firenze 1942.
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Quale lezione trarre dalla crisi ucraina? L’evoluzione della crisi ucraina, con l’invasione russa che molti non si aspettavano — almeno in queste proporzioni — pone due ordini di problemi. Il primo è come uscirne, nel rispetto del diritto internazionale, evitando che la situazione sfugga di mano e permettendo a tutti di salvare la faccia; il secondo è avviare una riflessione su cosa ci ha portati fino a questo punto. Questa Lettera vuole formulare alcune osservazioni preliminari su questo secondo aspetto. Una riflessione va fatta, per cercare di capire come si possa prevenire in futuro crisi così drammatiche e come neutralizzare — per quanto sia ancora possibile — gli effetti di
e la Russia. Non credo di peccare di ingenuità se dico che questa crisi, una volta avviata a soluzione, dovrebbe costituire per noi il pretesto per voltare pagina e superare il clima di rissa permanente che ha caratterizzato negli ultimi anni i rapporti tra l’Occidente, Unione europea e Stati Uniti da una parte, Russia di Putin dall’altra. Un clima che ci ha portati dove siamo ora. La storia è piena di esempi di guerre che sono scoppiate senza che nessuno lo volesse veramente o di incidenti che hanno portato a conflitti non desiderati. Il meccanismo che ha portato alla Prima guerra mondiale lo conosciamo tutti: un concatenarsi di mobilitazioni generali che ha avuto come conseguenza una guerra che tutti pensavano sa-
quella attuale. A prescindere dall’esito dei negoziati tra Mosca e Kiev, prima o poi un dialogo stabile con la Russia dovrà riprendere (magari partendo da uno Stato neutrale come la Svizzera o attraverso i buoni uffici della Santa Sede). Se la diplomazia è l’arte di prevedere le crisi e le situazioni critiche, qui ha evidentemente clamorosamente fallito. Se è anche l’arte di risolvere i conflitti è ora che si rimetta all’opera. Non si può dialogare solo quando si è sicuri che i propri interessi (e non quelli degli altri) saranno salvaguardati. La porta al dialogo va sempre lasciata aperta perché parlarsi è sempre meglio della guerra, e se la guerra è in corso, non parlarsi può solo peggiorare le cose. Come sappiamo è molto facile raggiungere punti di non ritorno e questo va assolutamente evitato. La guerra in Ucraina è di gran lunga il più grave scontro tra paesi occidentali e Russia dalla dissoluzione dell’ex Unione Sovietica. Ci si è arrivati perché negli ultimi quindici anni c’è stata incomunicabilità tra l’Occidente
rebbe finita prima di Natale e invece sono stati quattro i Natali passati al fronte. Oggi rifiutare l’ineluttabilità della guerra e lavorare per la pace deve essere ancora più esplicito: con l’abolizione della coscrizione obbligatoria le guerre sono diventate più facili da fare; più facili, ma non meno letali, soprattutto per l’elevato numero di civili coinvolti e le enormi distruzioni che comporta. Certo il punto al quale siamo arrivati rende tutto più complicato anche perché, se è vero che va evitata una «escalation» difficile da controllare, è altrettanto vero che per essere credibili dobbiamo essere uniti. Non sono in grado di dire se all’epoca della riunificazione della Germania ci fu un’intesa verbale con Gorbaciov in base alla quale i paesi occidentali — Stati Uniti in primis — si sarebbero impegnati a non allargare il perimetro della NATO, evitando di includere sia gli ex satelliti europei dell’Unione Sovietica sia gli Stati che avevano fatto parte dell’Unione Sovietica prima della sua dissoluzione. Comunque sia le cose sono andate di-
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versamente e oggi, di trenta Stati membri della NATO, quasi la metà sono ex appartenenti al blocco comunista. Fuori dalla sfera della NATO e ai confini o in prossimità dei confini dell’Unione europea sono rimaste la Bielorussia, la Moldavia, l’Armenia, l’Azerbaigian, la Georgia e appunto l’Ucraina. Anche se non abbiamo certezza di un impegno a non allargare la NATO fino a lambire i confini della Russia, si tratta pur sempre di un impegno plausibile. Tutti ricordiamo che allora molti, a cominciare dalla Francia, temevano una Germania unita. Un timore ben sintetizzato dalla famosa battuta di Andreotti (che peraltro parafrasava una frase detta anni prima dal francese Mauriac): «Amo talmente la Germania che ne preferivo due». Se non ci fu una decisione politica in tal
strumento NATO appariva idoneo a far fronte ai rischi per la sicurezza di un mondo non più bipolare. Infine un ipotetico scioglimento della NATO avrebbe rischiato di spezzare quel legame transatlantico diventato elemento fondante della politica estera della maggior parte dei paesi europei. Qualcosa si è inceppato in quella che doveva essere la nuova era dei rapporti con Mosca. Da un lato la Russia, passato lo stordimento iniziale seguito al crollo dell’Unione Sovietica, ha cercato di recuperare un ruolo di grande potenza sullo scacchiere mondiale; dall’altro i paesi occidentali, in primis gli Stati Uniti, hanno voluto stravincere (corsi e ricorsi della storia: si pensi alla pace di Versailles) o voluto dare l’impressione di stravincere, il che non cambia molto. Nei fatti si è rea-
senso, questa però era nella logica delle cose, per non dire nell’interesse dell’Occidente. D’altronde era viva la speranza che il crollo dell’Unione Sovietica avrebbe potuto avviare una inedita fase di collaborazione con la Russia per costruire un mondo di pace e privo dalla minaccia di guerra nucleare che aveva caratterizzato gli anni seguenti alla fine della Seconda guerra mondiale. L’invito al presidente Eltsin di partecipare al G7 di Napoli (1994) e il Vertice NATO di Pratica di Mare con la firma della Dichiarazione di Roma (2002) rientravano in questa logica e facevano ben sperare, anche perché non avendo sciolto la NATO, qualcosa andava fatto. Qualcuno si è domandato: perché la NATO non si è dissolta, visto che la sua ragion d’essere era venuta meno con la fine del Patto di Varsavia? In realtà la storia ci insegna che le Organizzazioni internazionali tendono a perpetuarsi e non scompaiono a meno che non ci sia un evento drammatico, come una guerra mondiale. D’altro canto nuove minacce alla sicurezza si profilavano e lo
lizzata una politica tendente a ignorare e a emarginare la Russia, relegata a rango di «potenza regionale», per usare l’infelice espressione del presidente americano e Premio Nobel per la pace, Obama (certe cose si possono pensare, ma perché dirle?). Emblematica a tale riguardo è la posizione presa dall’Europa e dagli Stati Uniti allo scoppio delle crisi balcaniche. Certo c’era una Russia debole, ma si è fatto la scelta di ignorarla nonostante i rapporti storici che aveva nella regione, in particolare con la Serbia. Dal mancato coinvolgimento della Russia, si è passati a una politica di contrapposizione che sta rischiando di portarci a una situazione di non ritorno, anche per l’improvvida decisione di Putin di invadere l’Ucraina (cosa diversa dalla Crimea). Gli storici avranno modo di valutare come si è arrivati fino a questo punto. Poco importa vedere di chi è la colpa (o la colpa maggiore) di questa situazione. Quello che invece importa è salvare la pace e mettere in piedi mec-
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canismi e prassi che non ci portino più vicini a una guerra con la Russia, o comunque a una guerra in Europa. Magari esaminando, dossier per dossier (e sono tanti!), tutte le questioni che ci separano dalla Russia. Più complessa di quanto si possa pensare è anche l’adozione di sanzioni, che si prendono quando non si vuole fare la guerra. Le sanzioni si sono rivelate sovente uno strumento poco efficace, colpiscono prevalentemente le classi sociali meno favorite e danneggiano gli stessi paesi che le promuovono e alcuni più di altri (nel caso di specie, gli Stati Unti molto meno dei paesi europei e questi ultimi non nella stessa misura). Il problema è che al punto al quale siamo arrivati le sanzioni, almeno nell’immediato, appaiono l’unica vera risposta realistica alla Russia, in attesa di una apertura di negoziati.
matiche con Pechino. Invece oggi abbiamo fatto un favore alla Russia e alla Cina, aiutandole a uscire dal loro rispettivo isolamento. Gli Stati Uniti, che dopo il crollo dell’Unione Sovietica erano riusciti a evitare il sorgere di una nuova potenza euroasiatica, si trovano ora a dover combattere (per il momento solo in senso metaforico) su due fronti: quello europeo e quello del Pacifico. Una seconda conseguenza è la crescente assertività della Russia in politica estera. Mosca, avendo pessimi rapporti con l’Occidente, gioca a tutto campo, sentendosi più libera di muoversi in autonomia sullo scacchiere internazionale e scegliendo di volta in volta i suoi partner. Meritano una riflessione a parte i rapporti Russia-Turchia, un paese quest’ultimo sovente rivale della Russia, ma nei confronti del quale Mosca è riuscita a instaurare una sorta di modus vivendi con un almeno ap-
A prescindere dall’Ucraina, vale la pena interrogarsi sulle conseguenze di anni di incomprensione e di contrapposizione tra Russia e Occidente. Mi limito qui a citarne due. Una prima è il riavvicinamento di Mosca a Pechino. I rapporti tra la Russia e la Cina hanno avuto alti a bassi nella storia, ma i due grandi paesi, quando hanno voluto, sono riusciti sempre a trovare un’intesa, come avvenne con i Trattati di Nercinsk (1689) e di Kiachta (1727) che definirono i confini tra i due paesi e introdussero il libero commercio, cosa che in Europa era di là da venire. Fu il genio di Kissinger a spezzare quello che durante la Guerra Fredda era un vero e proprio incubo per gli occidentali, l’alleanza tra due grandi paesi comunisti, uno armato fino ai denti, l’altro il più popoloso paese della terra, allacciando relazioni diplo-
parente reciproco vantaggio. L’impegno di Russia e Turchia in Libia e Siria sono a tale riguardo eloquenti. Mario Giro, parafrasando Papa Francesco ha scritto: «Lo schiamazzo bellico sposta l’ordine delle priorità globali». Al di là dei lutti e dei danni che comporta un conflitto, sia pur limitato, e delle conseguenze anche psicologiche che ingenera e che si perpetuano per anni a conflitto terminato, il rischio è che una guerra metta tutto in secondo piano, esattamente il contrario di quello di cui il mondo di oggi ha bisogno. La pandemia ci dovrebbe aver insegnato che non possiamo più fare tutto da soli e che vanno rilanciati dialogo, multilateralismo (purché serio ed efficace) e cooperazione internazionale. Le grandi sfide internazionali — cambiamento climatico, lotta alle diseguaglianze, sa-
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lute, migrazioni — ci impongono di collaborare anziché distrarci con inutili conflitti. È fin troppo evidente che l’apertura in futuro di un dialogo e di un negoziato a tutto campo con la Russia, a cominciare dalla riduzione degli armamenti che sembra finita nel dimenticatoio, partirà a dir poco in salita. Non abbiamo però altra scelta. Da dove cominciare? La prima cosa da fare sarà abbandonare quel linguaggio da Guerra Fredda che per troppi anni ha caratterizzato le nostre relazioni con Mosca: da una parte gli Stati democratici, dall’altra gli Stati autoritari. Non dobbiamo dimenticarci che tra i dodici Stati fondatori della NATO c’era il Portogallo del dittatore Salazar (mentre la Spagna pur facendo di fatto parte del blocco occidentale è entrata nella NATO nel 1982). Tra gli Stati autoritari, a parte la Russia e la Turchia (che è
sura nella quale ci siamo fatti imprigionare dalla pandemia, e caratterizzata da un impegno più generoso e lungimirante nei confronti degli Stati meno favoriti (a cominciare dalla riduzione del debito e dalla lotta al cambiamento climatico). In questo modo la stessa Unione europea diventerà sempre di più un interlocutore indispensabile in campo internazionale. Infine, abbiamo bisogno di una diplomazia discreta, non «urlata». Quest’ultima è la peggiore perché mira a venire incontro agli umori dell’opinione pubblica distraendola dai problemi di politica interna, oltre a essere generalmente sprovvista di strategie per il futuro. L’opinione pubblica va coinvolta, ma non come faceva Trump per compiacere gli operai della «rust belt», bensì spiegandole bene e motivando perché dalla collaborazione internazionale tutti ci guadagniamo.
membro della NATO), oggi annoveriamo la Cina che più che uno Stato autoritario è una vera e propria dittatura retta da un partito unico. Sono membri dell’Unione europea, Stati, come la Polonia e l’Ungheria, che definire modello di democrazia sarebbe un pò troppo. Si potrebbe continuare all’infinito. Quello che conta non è vedere chi ha ragione e chi ha torto, ma ridare voce alla diplomazia e ascoltare di meno chi propone opzioni militari. D’altronde in politica estera non vi sono buoni e cattivi, vi sono interessi confliggenti che vanno composti con pazienti e faticosi negoziati. Ci vuole però una politica estera puntellata da forti consensi interni e da una «deterrenza credibile». Meglio ancora una deterrenza accompagnata da un «soft power», basato su un’apertura al mondo, contrapposta alla chiu-
Si sente spesso parlare di «grandi questioni di principio» che vanno a ogni costo salvaguardate: io credo che la questione di principio più importante sia quella di evitare nuove guerre. Anche se siamo convinti che il nostro modello di società sia superiore (ma qual è il nostro modello, quello cosiddetto «renano» o quello nordamericano?), dovremmo rifuggire dalla tentazione — o dal dare l’impressione — di imporlo; la cosa veramente importante è che non impongano a noi modelli di società che non ci piacciono. Senza avere neanche lontanamente la pretesa di essere esaustivo, a prescindere dalla crisi ucraina, i vantaggi di un dialogo con la Russia sono molteplici. In primo luogo, c’è la questione cinese. La Cina di oggi non è quella povera e rinchiusa in sé stessa di Mao. È un paese
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che compete con gli Stati Uniti nei settori ad alta tecnologia e che appare destinato a diventare in pochi anni la prima potenza economica mondiale e in prospettiva militare. Soprattutto la Cina compete con successo in settori che sono fondamentali per lo sviluppo dell’industria del futuro, a cominciare dalle energie rinnovabili, dalla digitalizzazione, dall’intelligenza artificiale, dalle automobili elettriche. In questo contesto una solida intesa sino-russa potrebbe essere un serio problema. Noi abbiamo bisogno di concentrarci sul rinnovamento del nostro apparato industriale, raggiungere l’autonomia strategica in settori che giudichiamo essenziali per la nostra economia e la nostra sicurezza e non dimostrarci impreparati di fronte a grandi sfide come la transizione energetica che a loro volta hanno implicazioni geopolitiche (basti solo pensare alla disponibilità di terre rare). In secondo luogo la politica di contrapposizione alla Russia, se sembra aver compattato la NATO e gli europei, a lungo andare potrebbe far emergere quelle divisioni che l’acuirsi della crisi ucraina ha fatto passare in secondo piano. Ne risentirebbero le relazioni transatlantiche ritornate in auge dopo l’eclisse trumpiana. Finora il fronte anti russo è rimasto solido, ma non è detto che sarà così in futuro. Già oggi in Italia i «filo Putin» o «filo russi» che dir si voglia, scomparsi all’inizio della crisi, cominciano piano piano a far capolino ponendo dei distinguo. Non possiamo dimenticare che Germania e Italia hanno bisogno più di altri, di fonti energetiche sicure e la Russia è primaria fornitrice di gas, idrocarburo indispensabile nella fase di transizione verso le energie rinnovabili (il gas emette meno CO2 del petrolio che a sua volta ne emette meno del carbone). In terzo luogo, la mancanza di dialogo con Mosca ha lasciato libera la Russia di perseguire azioni di politica estera che a loro volta si stanno rivelando un volano di destabilizzazioni regionali. Dovunque si apra uno spa-
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zio, Mosca tende a riempirlo. La Francia ha abbandonato l’operazione Barkhane in Mali, necessaria per contrastare il terrorismo e l’immigrazione clandestina — temi che preoccupano in primis l’opinione pubblica europea — lasciando il campo ai mercenari russi della Wagner. In Libia è successo lo stesso, e accanto a russi e turchi sono intervenuti i loro comprimari non europei. In quarto luogo, qual è l’interesse dell’Unione europea? E quello della NATO? L’Unione europea non può certo tornare indietro nel processo di allargamento, ma ha veramente interesse ad allargarsi fino a comprendere l’Ucraina? Abbiamo interesse a far diventare membri paesi che finiscono con il minare il processo di integrazione europea e costarci un sacco di soldi? Volendo potremmo sempre aiutarli con accordi ad hoc di cooperazione. Lo stesso dicasi per la NATO: un’eventuale inclusione dell’Ucraina ci farebbe importare insicurezza, mentre l’apporto delle Forze armate ucraine alla nostra sicurezza sarebbe minimo. Si tratta di questioni che non appaiono più all’ordine del giorno, ma che fino allo scoppio della crisi ucraina aleggiavano creando un clima di incertezza sulle relazioni internazionali. Per converso la crisi ucraina offre l’opportunità all’Unione europea di dimostrare che non soltanto dal 1945 in poi è stata in grado di evitare la guerra tra i suoi membri, ma sa essere un continente che esporta pace, oltre a essere un punto di riferimento per i valori che incarna: economia sociale di mercato, rispetto delle libertà fondamentali, rifiuto della pena di morte. Non è poi affatto detto che in prospettiva l’interesse dell’Ucraina sia di legarsi strettamente alla UE e alla NATO, ma potrebbe essere quello, per esempio, di replicare il modello Finlandia in voga durante la Guerra Fredda. Kiev avrebbe tutto da guadagnare da rapporti sereni con il suo grande vicino una volta risolto il contenzioso delle regioni russofone. Certamente la mossa
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di Putin rimette tutto in discussione. Gli accordi di Minsk, oltre a non essere stati attuati, erano imperfetti. Si era pensato a un modello Alto Adige per il Donbass. Si tratta però di operazioni finanziariamente costose e nel caso ucraino la popolazione che avrebbe potuto essere coinvolta, quella delle regioni di Donetsk e di Lugansk, è effettivamente numerosa (mentre gli altoatesini sono meno dell’1% della popolazione italiana). Però pensare a modelli che tutelino i diritti, a cominciare da quelli economici, culturali e linguistici, delle minoranze, potrebbe essere utile in altri contesti geografici prima che si presentino situazioni come quella che abbiamo vissuto con l’Ucraina. Da una ripresa del dialogo ci guadagnerebbe sicuramente la Russia. Ha un forte esercito, è ricca di materie prime di cui il mondo ha assoluto bisogno, ma ha un’economia che non è riuscita a rinnovarsi come avrebbe dovuto e una popolazione in declino. Gli stessi numeri elevati di morti per Covid-19 sono indice di un sistema sanitario con molte falle. Quindi anche la Russia ha bisogno di normalizzare i rapporti con l’Occidente e non potrà contare certo sulla sola Cina che, fra l’altro, a lungo andare rischia di fagocitarla. Inoltre la Cina non ha interesse, come non lo aveva Mao Zedong, ad appiattirsi sulle posizioni di Mosca, fra l’altro rischiando di mettere a repentaglio i suoi ambiziosi disegni di penetrazione economica e commerciale a livello mondiale. È stato scritto che la Russia ha bisogno di esportare gas più di quanto l’Europa abbia bisogno di importarlo. Vero o non vero, uno dei problemi della mancata modernizzazione dell’economia russa risiede proprio nella eccessiva dipendenza dalle esportazioni di materie prime. Le privatizzazioni attuate in Russia non hanno contribuito a sviluppare un’industria moderna e ad attrarre cospicui investimenti occidentali come sono riusciti a fare gli ex satelliti dell’Europa orientale (sia
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pure fortemente aiutati dai fondi strutturali europei). La Russia ha bisogno dell’Europa e degli Stati Uniti, a meno che non voglia tornare alla logica del confronto est-ovest, che è finito come è finito, e soprattutto partiva da basi ideologiche diverse da quelle attuali (il consolidamento del «socialismo in un solo paese» come premessa per la sua esportazione nel resto del mondo). La Russia avrà bisogno però di sentirsi rassicurata e non circondata dalla NATO o da paesi potenzialmente ostili o ritenuti tali. Non andrà isolata. Avrà bisogno di sentire che conta ancora nel mondo, che viene coinvolta sulle grandi decisioni e che la sua voce è ascoltata. Due invasioni da ovest, Napoleone e Hitler, hanno lasciato il segno. La sindrome dell’accerchiamento, giusta o sbagliata che sia, dura dall’epoca degli zar. Tutto è possibile, ma riesce difficile prevedere che Putin, con la sua nostalgia di una Russia, allora Unione Sovietica, che pesava nel mondo quasi alla pari con gli Stati Uniti, voglia riprendere la politica espansionista che è stata di Lenin e che Stalin ha proseguito e realizzato con lo scellerato patto Ribbentrop-Molotov. Del resto, un’occupazione permanente dell’Ucraina oltre ad avere degli effetti devastanti e del tutto imprevedibili sul piano internazionale, sarebbe troppo costosa in termini di perdite per i russi, che non dimenticano che fu proprio tra gli ucraini che le truppe tedesche di invasione trovarono sostegni che avrebbero potuto essere ben maggiori senza la politica della terra bruciata realizzata da Hitler (parimenti i russi non si sono dimenticati che se ne sono dovuti andare via dall’Afghanistan anche a causa delle perdite elevate e ritenute non più sopportabili tra le loro truppe). La Russia dovrebbe riflettere sulle conseguenze di un prolungarsi del conflitto in Ucraina, non soltanto dal punto di vista economico e finanziario (crollo del rublo e della borsa di Mosca, rischi per gli investimenti russi nel mondo e freno agli investimenti stranieri nell’eco-
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nomia russa, ecc.). L’opinione pubblica internazionale ha reagito in maniera inaspettata alla guerra: manifestazioni in tutto il mondo con centinaia di migliaia di manifestanti solo a Berlino, mentre la Comunità di Sant’Egidio dal canto suo ha organizzato veglie di preghiera e manifestazioni dove è presente con le proprie comunità (persino in Africa: Burundi, Mali, Lesotho, Malawi, Sudafrica, Mozambico, ecc.); le sanzioni oltre ad avere un impatto sui portafogli di chi viene colpito hanno anche un impatto simbolico, in termini di immagine negativa per i russi; vi sono poi delle sanzioni che potremmo definire «informali», che nascono da reazioni spontanee della società civile: a titolo di esempio, il Teatro la Scala che si rifiuta di accogliere l’orchestra di Mosca; la finale di Champions League che da San Pietroburgo viene spostata a Parigi; Sotheby’s che non vuole più lavorare con i russi, ecc. Tutti fattori che impattano su una Russia che non è la Corea del Nord (e nemmeno l’Unione Sovietica) e che ha una opinione pubblica informata e abituata a viaggiare (le città d’arte italiane, come Roma e Firenze, sono penalizzate soprattutto dalla scomparsa dei ricchi clienti russi…). Lo stesso fronte interno russo, compresa la dirigenza, starebbe mostrando delle crepe (qui dovremmo forse già porci il problema dell’incognita di una destabilizzazione del regime russo: forse è meglio il diavolo che si conosce…). Le manifestazioni di protesta contro la guerra che si sono svolte in Russia, persino a Novosibirisk, sono eloquenti in proposito. Guardando agli europei, le conseguenze immediate della crisi ucraina potrebbero essere: un’accelerazione della diversificazione delle fonti di approvvigionamento energetico (Stati Uniti, Qatar) e in Italia una riduzione dei tempi biblici per le autorizzazioni a realizzare impianti eolici e fotovoltaici (speriamo!); un rinnovato interesse per una politica europea di difesa,
a cominciare dalla standardizzazione degli armamenti (che presuppone una politica industriale che avrebbe il duplice vantaggio di interessare settori ad alta tecnologia e potrebbe avere ricadute positive sulla modernizzazione dell’industria europea); una politica di maggiore attenzione verso la Cina, non monopolizzata però dalle questioni economiche; un rafforzamento dei legami tra Francia, Germania e Italia. Quest’ultimo punto non è da poco, anche perché da una rinnovata intesa tra questi paesi — dopo la Brexit e alla luce del Trattato del Quirinale — potrebbe partire quella spinta che da tempo attendiamo per un rilancio del processo di integrazione europea che tenga però seriamente conto, più del passato, dei bisogni e delle aspettative di una opinione pubblica resa vulnerabile da una globalizzazione non controllata. La diplomazia italiana, nell’ambito delle alleanze delle quali fa parte, avrà le sue carte da giocare come paese tradizionalmente vocato al dialogo e attento all’ascolto. Aiuta, come si diceva, un’opinione pubblica tradizionalmente avversa alla guerra (lo era anche nel giugno del 1940, ma purtroppo le cose sono andate in altro modo). La società civile, a prescindere dalla questione russo-ucraina, è sensibile al tema della pace. Si è svolto nei giorni scorsi a Firenze un incontro dei sindaci e dei vescovi del Mediterraneo. Il focus era sul Mediterraneo, altra regione martoriata dai venti della guerra, ma quello che è interessante notare è che tale evento si è tenuto sulla falsariga dei Colloqui Mediterranei che Giorgio La Pira lanciò alla fine degli anni Cinquanta. La Pira fu considerato un visionario, quasi un pazzo, però non si lasciò scoraggiare e il suo esempio, dialogare con chi detestiamo, potrebbe servirci oggi. Giuseppe Morabito, Circolo di Studi Diplomatici
L’ambasciatore Giuseppe Morabito, Nasce a Roma nel 1953 e si laurea in Scienze politiche alla Università La Sapienza. Dal 1978 al 1981 è corrispondente dall’Italia e dalla Santa Sede del settimanale brasiliano Istoè. In carriera diplomatica dal 1981 al 2018. Ambasciatore di grado. A Roma si è occupato di paesi dell’est, di PESC e di Consiglio d’Europa. Successivamente è stato responsabile dell’UTC (Unità Tecnica Centrale) e vice direttore generale alla Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo, e direttore generale dei paesi dell’Africa sub-sahariana. È stato ambasciatore a Beirut e a Lisbona. Il Circolo di Studi Diplomatici è un’associazione fondata nel 1968 su iniziativa di un ristretto gruppo di ambasciatori con l’obiettivo di non disperdere le esperienze e le competenze dopo la cessazione dal servizio attivo. Il Circolo si è poi nel tempo rinnovato e ampliato attraverso la cooptazione di funzionari diplomatici giunti all’apice della carriera nello svolgimento di incarichi di alta responsabilità, a Roma e all’estero.
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La privatizzazione delle guerre: i «contractors» Le guerre moderne, almeno finora, non sono globali ma tendono a essere locali e vengono definite dagli esperti con i termini «conflitti a bassa intensità», «guerre asimmetriche», «proxy war» a seconda delle condizioni, degli interessi e delle finalità che muovono le ostilità. Ai nuovi conflitti si è accompagnata una conseguente smobilitazione degli eserciti regolari, che ha favorito la nascita e la proliferazione delle cosiddette “compagnie militari private”. Si è giunti così al moderno fenomeno della privatizzazione della guerra. Con questo non si è tornati ai secoli dove la guerra la facevano solo i mercenari, ma sul campo accanto a eserciti nazionali possono esserci anche quelli senza bandiera a pagamento. Negli ultimi due decenni, la generalizzata ristrutturazione delle Forze armate e la parallela riduzione dei bilanci della difesa nella maggior parte dei paesi ha comportato una profonda trasformazione dei settori militari, che ha favorito la creazione di eserciti professionisti e reso necessario il ricorso a mezzi che presentino una maggiore efficienza economica, tramite un’outsourcing delle attività militari. Ciò ha anche portato sul mercato una nutrita schiera di ex militari, che ha contribuito all’espansione del fenomeno delle compagnie militari private, consentendo alla spregiudicatezza commerciale di accompagnarsi al pensiero strategico degli Stati. Con il termine «compagnie militari private» si intendono società di natura privata che offrono prestazioni legate strettamente all’ambito militare e a quello della sua sicurezza, funzioni tradizionalmente svolte dallo Stato. Armano e dotano i loro dipendenti di equipaggiamenti sofisticati e stipulano contratti con Governi che vogliono portare avanti operazioni militari all’estero, con compiti di supporto all’esercito regolare. Nel riferirsi a queste compagnie si utilizza il termine generico di «contractors». La guerra è un compito complesso che richiede, malgrado i progressi negli armamenti, una grande quan-
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tità di persone da dispiegare tanto in prima linea quanto nel supporto logistico. Quando un paese decide di entrare in guerra per aumentare il numero dei suoi effettivi si trova di fronte a due opzioni: ricorrere alla coscrizione militare o ai contractors. I conflitti odierni sono così diventati anche una partita giocata in prima linea da aziende private, guidate da manager e costituite da consulenti, tecnici, combattenti, tutti con contratti da onorare. Questo è il contesto nel quale proliferano le «Private Military and Security Companies», ovverosia i contractors. Sia gli attori statali sia quelli non statali hanno spesso fatto — e fanno — affidamento sui loro servizi, poiché queste società sono più flessibili, più economiche, meno responsabili e, a volte, più efficaci delle Forze armate regolari. Le compagnie private che offrono diversi servizi nel settore della sicurezza (dall’intervento diretto sul campo alla gestione di operazioni di sorveglianza, logistica e addestramento) rappresentano, in qualche modo, l’evoluzione moderna del fenomeno del mercenariato. Un sistema in crescita, che può rivoluzionare, se non l’ha già fatto, il modo di fare la guerra. I contractors non sono più semplici mercenari al soldo di qualche piccolo emirato o qualche signore della guerra. Queste organizzazioni paramilitari sono ormai delle vere e proprie Forze armate parallele, sempre più utilizzate anche dalle superpotenze per gestire i conflitti in cui non vogliono, o non possono, impiegare i propri soldati, ma anche per controllare aree di interesse strategico in cui le autorità degli Stati hanno difficoltà a farlo. Sgombrato il campo da questioni di natura etica (che ogni utilizzo di questi uomini implica), va ormai compreso che non possano più essere ritenuti secondari nella comprensione delle guerre. Il loro uso è non solo assodato, ma anche, in certi teatri bellici, piuttosto consistente. L’industria che è stata creata con il loro impiego (un giro d’affari vicino ai quattrocento miliardi di dollari) conferma l’importanza di un mondo che ha assunto un valore
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politico, diplomatico ed economico assimilabile a quello di vere e proprie forze parallele. I conflitti del nostro secolo, in particolare in Afghanistan, Iraq, Ucraina e Siria hanno visto le società private militari coinvolte in supporto logistico alle operazioni ad alta intensità. La compagnia di contractors mediaticamente più nota è la russa Wagner. In Russia i motivi della nascita delle organizzazioni di sicurezza private risalgono alla gestione del trapasso dall’Unione Sovietica allo Stato federale, dove, per forza di cose, si dovette ridimensionare l’organigramma dell’esercito. In questo contesto, pur garantendo la conservazione di alcuni simboli e di un’ideale discendenza dall’Armata Rossa, il Cremlino licenziò migliaia di militari, molti dei quali aprirono le prime compagnie di mercenari. Nel 1998 erano presenti cinquemila compagnie di vigilantes, ovverosia di sicurezza private. Dato arrotondato per difetto, visto che molte per motivi fiscali o legali erano ufficialmente registrate come club sportivi. La Russia post-sovietica ha seguito la tendenza alla privatizzazione della sicurezza militare relativamente tardi, principalmente a causa della resistenza interna delle Forze armate nonché delle difficoltà economiche. Mentre ci sono migliaia di società di sicurezza private che operano nel paese, sorvegliano le infrastrutture e forniscono servizi di protezione personale, le società militari private non possono ancora essere stabilite legalmente sul territorio della Federazione Russa. Ciò non le ha impedito di diventare negli ultimi anni uno strumento essenziale con cui Mosca espande la sua influenza nel mondo per difendere i suoi interessi economici, senza esserne direttamente coinvolta. Attualmente si registra una presenza di mercenari russi in almeno trenta paesi, il che mostra l’estensione di questo fenomeno. Sebbene le iniziative mercenarie siano tecnicamente illegali secondo la Costituzione russa, la verità è che sono diventate una componente chiave nella strategia della «guerra ibrida» di Mosca, offrendole un mezzo per realizzare i suoi obiettivi politici nel mondo, senza intervenire direttamente.
La partecipazione occulta a scenari bellici non è nuova per il Cremlino. Nel periodo della Guerra Fredda, l’Unione Sovietica ha inviato specialisti militari sotto la copertura di «consiglieri» in molti conflitti in tutto il mondo. Consiglieri sovietici e dei paesi del bocco socialista hanno svolto un ruolo importante nella modernizzazione delle Forze armate di Siria, Egitto, Libia e in numerosi altri Stati. Non c’è pertanto da stupirsi se negli anni recenti «volontari russi» hanno partecipato ai conflitti separatisti in Moldova (Transnistria) e Georgia (Ossezia e Abkhazia), mentre Mosca negava ufficialmente il suo coinvolgimento nei conflitti, etichettandoli come guerre civili. Il gruppo Wagner è la compagnia di contractors più importante e ha iniziato la sua attività in Europa nel 2014, nel contesto del primo conflitto ucraino. L’organizzazione ha sede in Argentina ed è stata fondata all’incirca nel 2013 da Dimitri Utkin, ex colonnello di origine ucraina delle Forze speciali russe dal nome di battaglia Wagner (da cui la denominazione del gruppo) e da Yvgenij Prigozhin, un discusso uomo di affari nel settore del catering, ritenuto molto vicino al Cremlino (i giornali russi lo chiamano lo «chef di Putin») e accusato dagli Stati Uniti di aver organizzato una campagna di troll online per interferire nelle elezioni presidenziali del 2016. Utkin, ritiratosi dall’esercito, aveva messo in piedi assieme ad altri veterani i «Corpi slavi», una struttura paramilitare andata senza successo in Siria a sostenere il regime di Bashar al-Assad, ciò che lo ha spinto a rifondare l’organizzazione ribattezzandola, appunto, Wagner. La sede legale del gruppo si trova a Buenos Aires, in quanto la Costituzione russa stabilisce che le questioni di sicurezza e difesa sono appannaggio esclusivo dello Stato. La sede operativa del gruppo, però, è a Molkino, nel distretto di Krasnodar, dove avviene il reclutamento e l’addestramento dei mercenari, generalmente ex militari dell’esercito regolare russo.
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L’ambiguità giuridica sullo status del gruppo è interessante. La Russia non è la sola al mondo a servirsi di contractors nelle operazioni militari, ma è l’unica che non li riconosce legalmente, negando poi ovviamente non solo il suo coinvolgimento ma addirittura la loro stessa esistenza. Malgrado ciò, il gruppo Wagner appare strettamente connesso al Cremlino, tanto che da poter essere considerato come una ulteriore sezione dell’apparato militare di Stato russo, piuttosto che come una compagnia privata indipendente. Tra i due, infatti, esiste un rapporto esclusivo: la Russia è l’unica fruitrice dei servizi offerti dal gruppo. La sede operativa del gruppo a Molkino è situata all’interno della base del «Direttorato principale per l’informazione (GRU)», l’intelligence militare russa di cui lo stesso Utkin faceva parte. In diverse occasioni, poi, la compagnia ha utilizzato infrastrutture e trasporti appartenenti al ministero della Difesa russo e i due fondatori, Utkin e Prigozhin, sono vicini al Presidente Putin. La prima missione ufficiale del gruppo Wagner è stata a marzo del 2014, quando un buon numero di contractors furono impiegati a fianco delle forze militari russe nell’operazione di invasione della Crimea. Dal 2015 il personale del gruppo si è poi spostato nel Donbass, a supporto delle repubbliche separatiste di Donets’k e Luhans’k, dove, tra l’altro, operano anche miliziani (caucasici e balcanici) a pagamento ucraini. È pressoché certa la partecipazione dei mercenari della Wagner anche all’invasione russa in corso dell’Ucraina. Secondo la stampa internazionale, sarebbero a Kiev e dintorni, con l’obiettivo di uccidere il presidente Zelensky, il sindaco di Kiev Vitalij Klitschko e altre figure di alto profilo istituzionale e militare. Al contrario delle forze convenzionali militari, si mesco-
lano tra i civili o si travestono da soldati ucraini, con anche il compito di organizzare attacchi fasulli e pretestuosi a soldati russi per giustificare eventuali ritorsioni. Quanto avvenuto e sta avvenendo in Ucraina costituisce un caso emblematico di applicazione della dottrina della guerra ibrida da parte della Federazione Russa. Secondo questo modello, il contingente militare statale è integrato da mercenari ingaggiati da compagnie militari private. Un principio applicato in numerosi conflitti, come quelli in Medio Oriente e Africa. Dal 2015 in Siria combattono migliaia di contractors del gruppo Wagner insieme all’esercito regolare russo. Tra le principali missioni dei mercenari, c’è la messa in sicurezza delle infrastrutture energetiche, indispensabili al regime di Assad per riconquistare il controllo sul territorio. Tra gli scenari in cui opera il gruppo, poi, c’è anche il conflitto in Libia, dove i mercenari sono stati impiegati a sostegno del generale Haftar. In Africa subsahariana per conquistarsi le risorse minerarie, la Russia ha poi voluto incrementare la propria presenza nella regione e il compito, non a caso, è stato affidato alla Wagner, che ha iniziato a collaborare con diversi Stati africani. In Sudan, un gruppo di specialisti riconducibili alla compagnia di Prigozhin ha scritto il programma di riforme politiche ed economiche, che il presidente Omar al-Bashir ha proposto nella sua campagna per la rielezione. In Madagascar, l’attuale presidente, Andry Rajoelina, ha vinto le elezioni grazie al sostegno della Wagner che si occupa, tra le altre cose, di realizzare e distribuire il più venduto giornale dell’isola. Nella Repubblica Centrafricana, paese poverissimo ma importante esportatore di diamanti, l’esercito del presidente Tuoderau, alleato di Mosca, è supportato
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da «truppe» russe. In Mozambico, tuttavia, un’operazione simile è stata un fallimento. I mercenari del gruppo Wagner, arrivati nel 2019 per sostenere il governo di Maputo nella sua lotta contro i jihadisti a Cabo Delgado, sono andati incontro a forti perdite e di conseguenza hanno dovuto rinunciare alla propria missione. Sono stati poi sostituiti da un’altra azienda di contractors, la sudafricana Dyck Advisory Group. Da ultimo si avverte la presenza della Wagner in Mali, dove i militari, nel maggio 2021, si sono impadroniti del potere e hanno invitato le truppe francesi a lasciare il paese. Non solo Medio Oriente e Africa, ma anche in America Latina agisce la Wagner. In Venezuela circa quattrocento «mercenari russi» sarebbero arrivati alla fine del 2018, per collaborare a garantire la sicurezza di Maduro e del suo entourage. La notizia è stata data dalla Reuters e poi clamorosamente confermata da fonti anonime russe. Tuttavia, l’ambasciatore russo a Caracas l’ha definita una «barzelletta». I contractors sono usati dalla Russia per diverse ragioni. I loro servizi sono più flessibili ed economici di quelli delle Forze militari regolari e le morti dei mercenari non vengono conteggiate tra quelle dei soldati russi. I contractors costituiscono quindi un importante mezzo con cui la Russia può espandere la propria influenza economica e militare all’estero, garantendo al Governo la facoltà di dichiararsi formalmente estraneo a qualsiasi azione illecita. Il gruppo Wagner concorre alla realizzazione degli interessi nazionali russi senza coinvolgere direttamente lo Stato. In questo modo Mosca si garantisce la pressoché totale immunità di fronte alla comunità internazionale: la mancanza di responsabilità dello Stato rende impossibile le sanzioni in casi di evidente violazione del diritto internazionale. Per la strategia russa della guerra ibrida i contractors sono un elemento essenziale. Con il loro utilizzo il Cremlino può apparentemente ridurre la propria presenza militare in numerosi conflitti, consentendo una presenza di Forze armate russe sul campo molto più numerosa di quanto ufficialmente risulti. Un elemento importante per l’immagine della Russia di fronte alla comunità internazionale, perché le permette di negare il suo coinvolgimento in territori dove il suo esercito non è formalmente presente.
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La Russia non è però l’unico Stato a servirsi di eserciti privati. Gli Stati Uniti utilizzano la Blackwater (o Academi) per alcune operazioni all’estero. Una delle braccia armate anche delle monarchie del Golfo, che possono contare sui soldi e non sugli uomini, per combattere le loro guerre. La Blackwater, è stata creata nel 1997 a Reston, dove ha la sede ufficiale, in Virginia. A fondarla è stato un ex Navy Seal, Erik Prince, che poi, nel corso degli anni, decise di cambiare nome spesso alla sua società, fino all’approdo al nome odierno di Academi. I suoi dipendenti sono ex-militari, con un background nella protezione del personale diplomatico in zone di guerra. Ne vengono formati circa trentacinquemila all’anno, nelle speciali strutture di addestramento e nei poligoni di cui la società dispone. Poco dopo la sua nascita, la Blackwater si è conquistata una certa nomea grazie alla partecipazione nelle guerre in Iraq e Afghanistan nel 2004. Le operazioni a cui i suoi contractors presero parte si distinsero subito per la particolare efferatezza, con metodi che mettevano a rischio i civili. Emblematica la strage di Nisour Square, la piazza di Baghdad dove, nel settembre 2007, quattro uomini di Blackwater al servizio di protezione dell’ambasciata americana aprirono il fuoco sulla folla uccidendo diciassette civili innocenti. Il clamore suscitato dall’episodio costrinse Washington a processare e condannare i responsabili della strage, poi graziati da Trump con uno dei suoi ultimi atti da presidente. Gli Stati Uniti da tempo hanno impostato una strategia, ma ben differente a quella russa, che prevede un certo uso delle compagnie militari private nella gestione degli scenari di guerra, dove Washington non ha interesse ad avere una presenza massiccia di truppe. La più lunga convivenza tra contractors e soldati ha avuto luogo in Afghanistan. I combattenti delle agenzie private impiegati dal Governo americano sono stati migliaia, e migliaia soprattutto i morti. Il numero di vittime tra i contractors al servizio degli Stati Uniti è stato di molto superiore a quella dei militari, raggiungendo la cifra record di quasi quattromila caduti. Un numero rilevante se si pensa alla pochissima pubblicità che viene data allo sfruttamento di queste compagnie da parte del Pentagono, ma che dimostra come il metodo della «privatizzazione» della guerra
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non sia qualcosa da considerare avulso dalla strategia militare statunitense. Del resto, una compagnia privata costa meno rispetto alle forze regolari (un battaglione di fanteria in guerra costa centodieci milioni di dollari all’anno, mentre un’unità militare privata novantanove) e un suo «dipendente» morto non pesa nell’opinione pubblica quanto un regolare soldato. Il paese che, al momento, utilizza i contractors in maniera accorta è la Cina. Il gigante asiatico impiega le compagnie militari private per difendere i propri investimenti esteri. La «Belt and Road Initiative (BRI)» ha portato Pechino ad assoldare una grande quantità di contractors, per sorvegliare l’implementazione degli ambiziosi progetti infrastrutturali legati alla BRI. La caratteristica principale degli uomini arruolati da Pechino è che essi non hanno il permesso di essere armati o di aprire il fuoco. L’utilizzo di armi è consentito dalla Repubblica Popolare Cinese solo in casi di estrema necessità, proprio per evitare un evidente coinvolgimento di Pechino negli affari interni degli altri paesi. Negli anni recenti vi è stato un netto cambiamento nell’utilizzo delle società militari private. Mentre prima venivano usate in larga parte aziende estere, perché i contractors cinesi erano considerati inesperti, ora viene preferito l’impiego di compagnie private cinesi e in questo modo si evita che i dollari investiti dai cinesi finiscano in un fiume generalmente collegato ad altre potenze (Stati Uniti e Russia in primis). Una delle principali compagnie di sicurezza private impiegate è la DeWe, che di base a Pechino è specializzata in evacuazione di personale in situazioni di pericolo. Nel luglio del 2016 ha effettuato un’operazione di salvataggio nel sud del Sudan, evacuando a Nairobi il personale della China National Petroleum Corporation. Indubbiamente anche la Cina utilizza i contractors con l’intento di nascondere le proprie ingerenze in paesi esteri, ma ciò viene fatto in maniera discreta.
Nell’ambito delle compagnie di sicurezza è da citare la maggiore al mondo per i suoi introiti: la G4S. È una multinazionale con sede a Londra, attiva dal 2004, che offre un’ampia gamma di servizi, tra cui la messa a disposizione sul campo di personale specializzato. La Gran Bretagna se ne è servita per la sorveglianza di alcune sue prigioni e centri di immigrati. Una collaborazione che non è durata a lungo, per le polemiche susseguenti a maltrattamenti inflitti ai detenuti, da parte dal personale della G4S. Non risulta che Londra abbia impiegato la società all’estero, ma il suo fatturato annuo e le ottantacinque filiali sparse nel mondo, molte delle quali in aree a rischio, ne fanno a tutti gli effetti una compagnia di contractors. L’America Latina prolifera da tempo in strutture private di sicurezza. Si tratta di organizzazioni paramilitari nate per la difesa di privati cittadini contro la criminalità, che poi sono state utilizzate da alcuni Stati per combattere i movimenti terroristici insurrezionali, come avvenuto negli anni Novanta soprattutto in Perù e Colombia (FARC, Sendero Luminoso). Con la fine di questi movimenti alcune strutture paramilitari sono rimaste, diventando delle polizie private o mettendosi al soldo dei narcotrafficanti. Questo tipo di contractors ha sempre agito all’interno dei paesi e malgrado disponga di una potenzialità non tanto dissimile a quella della Wagner o della Blackwater nessun governo ha mai fatto ricorso ai loro servizi. Anche la Francia è stata sospettata di ricorrere a mercenari, soprattutto in Africa, ma la Legione straniera non ha nulla a che vedere con i contractors. È parte regolare delle Forze armate transalpine — anche se il suo reclutamento avviene in maniera anomala (può essere arruolato anche un cittadino straniero) — e i suoi comandanti in capo sono tutti espressione della catena di comando ufficiale. Giorgio Malfatti di Monte Tretto, Circolo di Studi Diplomatici
L’ambasciatore Giorgio Malfatti di Monte Tretto, laureato in Scienze politiche alla Università La Sapienza di Roma, è entrato in carriera diplomatica nel 1975. Nel corso della sua attività professionale, in qualità di Ambasciatore, ha ricoperto incarichi diplomatici presso il ministero degli Affari Esteri e come Capo missione a Cuba, nel Kazachstan e in Uruguay. Nell’ultimo decennio ha ricoperto la carica di Segretario generale dell’Istituto Italo-Latinoamericano di Roma. È attualmente responsabile istituzionale di un programma europeo per il contrasto alla criminalità organizzata in America Latina. Il Circolo di Studi Diplomatici è un’associazione fondata nel 1968 su iniziativa di un ristretto gruppo di ambasciatori con l’obiettivo di non disperdere le esperienze e le competenze dopo la cessazione dal servizio attivo. Il Circolo si è poi nel tempo rinnovato e ampliato attraverso la cooptazione di funzionari diplomatici giunti all’apice della carriera nello svolgimento di incarichi di alta responsabilità, a Roma e all’estero.
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O SSERVATORIO Biden rilascia la nuova strategia indo-pacifica. Un nuovo tassello nell’approccio alla competizione con Pechino. L’insediamento nel gennaio 2021 dell’amministrazione guidata da Joseph Biden è avvenuto in un clima di notevole incertezza per quanto riguarda la politica estera. In una campagna elettorale pesantemente segnata dal tema Covid-19, infatti, Biden si era astenuto dal commentare dal dibattito di politica estera. Ça va sans dire, il dossier che, almeno per la politica internazionale, catturava maggiormente le attenzioni degli analisti e dei commentatori era l’approccio strategico che il nuovo inquilino della Casa Bianca avrebbe tenuto verso la Repubblica Popolare Cinese (RPC). I pochi mesi che ci separano dal gennaio 2021 sono, ovviamente, insufficienti per stabilire quale sia l’approccio strategico dell’esecutivo dell’ex vice-presidente che ha prodotto solo un documento strategico provvisorio. Tuttavia, la pubblicazione nel febbraio 2022 di una nuova Indo-Pacific Strategy ha chiarito la visione di politica estera dell’amministrazione e si è aggiunta ad alcuni interessanti libri bianchi già pubblicati nonché ai discorsi dei principali funzionari, prima e dopo l’insediamento. Vale la pena menzionare che da presidente eletto,
Copertina del documento ufficiale (whitehouse.gov).
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INTERNAZIONALE Biden aveva più volte rimproverato Trump di aver scaricato alleati europei e asiatici che sarebbero potuti, invece, essere fondamentali in funzione anti-cinese. In uno dei suoi primi comunicati da eletto, Biden aveva accolto con piacere i messaggi di congratulazioni arrivatigli dai leader dei paesi asiatici e del Pacifico e, in una mossa inaspettata, si era riferito all’area strategica come Indo-Pacifico, termine attribuitole principalmente dall’amministrazione Trump (1). In questo modo, il Presidente-eletto sembrava condividere l’orizzonte geopolitico dell’amministrazione precedente e richiamare il concetto trumpiano (mutuato da quello di Shinzo Abe) (2) di Free and Open Indo-Pacific che ribattezzava come «Indo-Pacifico sicuro e prospero». L’allora primo ministro del Giappone Yoshihide Suga aveva dichiarato anche che Biden, durante una telefonata, gli avrebbe garantito l’applicabilità della clausola di mutua difesa del Trattato nippo-americano anche per le isole Senkaku, che la Cina rivendica da decenni. Durante la campagna, il candidato democratico aveva, inoltre, espresso in più occasioni posizioni piuttosto severe riguardo alla Cina, definendo Xi Jinping un «delinquente» (3) verso cui la nuova amministrazione avrebbe dovuto adottare un approccio più duro (4). Inoltre, Biden si era scagliato duramente contro Pechino, accusandola di «genocidio» nei confronti degli uiguri nello Xinjiang (5), termine che neanche l’amministrazione Trump, fortemente critica del trattamento riservato alla popolazione turcofona, aveva mai utilizzato. Una volta in carica, Biden stesso sembrava aver pochi dubbi sulla natura e l’intensità della sfida posta dalla Cina alla sicurezza statunitense quando già nel febbraio 2021 riconosceva che gli Stati Uniti erano impegnati in una «competizione estrema» (6) con la RPC. La valutazione sarebbe stata ripetuta in diverse occasioni da altri membri dell’esecutivo americano come il segretario alla Difesa Lloyd Austin. Il segretario di Stato Antony Blinken ha aggiunto anche Pechino costituirebbe il «principale test geopolitico» del XXI secolo (7). D’altronde, si ricordi che l’amministrazione di Barack Obama e Joe Biden era stata l’artefice di quel ribilanciamento militare, politico-diplomatico, economico-commerciale verso l’Asia-Pacifico conosciuto come Pivot to Asia (8). A tal scopo, l’America del ticket
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U.S. Indo-Pacific Command Joint Force conduce operazioni a doppia portaerei nel Mar Cinese Meridionale (navy.mil).
Obama-Biden aveva avviato il progressivo disimpegno dal Mediterraneo e dall’Europa in favore di una crescente attenzione strategica verso l’Estremo Oriente. Per l’amministrazione Obama, gli Stati Uniti dovevano «coinvolgere ma limitare» la RPC, trattandola come uno strategic partner, ricercando in grandi accordi multilaterali la fonte della stabilità regionale e accompagnando tali iniziative a un potenziamento della presenza politico-militare nella regione. Pur promuovendo ancora una «relazione costruttiva» con Pechino, allo stesso tempo la National Security Strategy del 2015 aveva introdotto maggiori elementi di confronto. Il nuovo approccio strategico americano costruito intorno al Pivot to Asia ambiva, quindi, a «gestire la competizione [cinese] da una posizione di forza, insistendo affinché la Cina si conformasse alle norme e alle regole internazionali» (9). Militarmente, il Pivot to Asia si era tradotto nell’Air Sea Battle poco dopo ribattezzato come Joint Concept for Access and Maneuver in the Global Commons, un concetto operativo che enfatizzava la necessità di garantire libertà di manovra e accesso dove questi fossero interdetti da bolle A2/AD, in primis nel Pacifico occidentale. La Quadriennal Defense Review 2014 ribadì che «negli anni a venire, paesi come la Cina continueranno nel loro tentativo di contrastare la potenza americana tramite approcci A2/AD e utilizzando tecnologie nel dominio cyber e in quello dello spazio» (10). La nomina di Kurt Campbell,
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la mente dietro il Pivot obamiano, a coordinatore del desk Indo-Pacifico in seno al Consiglio nazionale per la sicurezza dell’esecutivo Biden, ha confermato che l’ascesa cinese era il cruccio principale della nuova presidenza. A seguire nel luglio 2021, al roster di Biden si è aggiunto il nuovo Assistant Secretary of Defense for Indo-Pacific Security Affairs Ely Ratner, già vice-consulente di Biden nel secondo mandato obamiano. Da tempo Ratner era una delle voci prominenti in tema di politica estera americana verso la Cina proponendo una «competizione differenziata con Pechino, una in cui la rivalità si sviluppi dossier per dossier» assumendo quando necessario «la forma del containment», altre volte una «difensiva» o una «focalizzata sul potere nazionale all’interno del paese» (11). La Interim Guidance (White House, 2021) del marzo 2021 ha, pertanto, riassunto la visione strategica della presidenza Biden. Nel contesto di «crescente rivalità con Cina e Russia», gli Stati Uniti riconoscono nello «Indo-Pacifico» (12) il quadrante geografico prioritario di azione. Mentre «la distribuzione del potere nel mondo sta cambiando e creando nuove minacce» (pp. 7-8), Pechino, tra gli attori che stanno ingaggiando Washington in una «competizione strategica» (p. 20), è l’unica «potenzialmente in grado di combinare le proprie capacità […] per montare una sfida costante a un sistema internazionale stabile e aperto» (p. 8).
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Contemporaneamente alla Guidance, il National Intelligence Council ha rilasciato il suo annuale Threat Assessment. In esso, Pechino è presentata senza mezzi termini come un attore spasmodicamente alla ricerca della parità — convenzionale e strategica — con Washington, impegnato nella ricerca di «un potere globale» (13) nonché nel tentativo di «influenzare la democrazia americana» e insidiare l’alleanza tra i paesi occidentali. A maggio 2021, Politico rivelava come fonti nel Pentagono confermavano che la nuova formula per descrivere le relazioni sino-americane nell’amministrazione fosse «competizione strategica» (14). Alla luce di ciò si possono, dunque, leggere le principali iniziative di politica estera verso la Cina e la regione indo-pacifica realizzate dall’esecutivo Biden nonché la nuova strategia rilasciata nel febbraio 2022. In primis, Washington ha promosso una rivitalizzazione del QUAD, il dialogo di sicurezza tra Australia, Giappone, India e Stati Uniti, attestandosi in questo modo in scia di quanto fatto già da Trump, ma ampliando il mandato della cooperazione (15). Il QUAD nasce «come iniziativa giapponese orientata alla creazione di un concerto di potenze marittime capaci di bilanciare la proiezione navale cinese negli oceani Pacifico e, in misura minore, Indiano» (Ivi, p. 39). Sotto Biden, l’Asia tsar Kurt Campbell ha sostenuto una nuova enfasi su settori non propriamente di sicurezza, puntando a gestire le sfide del XXI secolo, tra cui l’avvento di una quarta rivoluzione industriale, e la necessità di ridurre la dipendenza dei paesi del sudest asiatico dalla diplomazia dei vaccini della Cina. Non solo qualitativamente, la Casa Bianca ha cercato di aumentare il raggio del QUAD anche dal punto di vista quantitativo, per esempio sponsorizzando un ingresso della Corea del Sud, almeno a livello informale, nel gruppo. Nonostante ciò, Washington si è trovato di fronte al rifiuto di Seul, che si è smarcata da questo tipo di richieste, limitandosi ad alcune conces-
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sioni a livello bilaterale, ma non in seno al QUAD. Per la prima volta nella storia del dialogo, i presidenti degli Stati membri del QUAD si sono incontrati di persona nel settembre 2021 per avviare una cooperazione anche in numerosi nuovi settori quali la lotta al cambiamento climatico, la cyber-security, le infrastrutture strategiche, lo spazio, l’educazione e gli scambi culturali. In un secondo momento, assieme a Canberra e Londra, Washington ha anche siglato AUKUS, una partnership rafforzata di sicurezza che permetterà all’Australia di dotarsi di sottomarini a propulsione nucleare, strumento cruciale di deterrenza e difesa, nonché di alcune tecnologie emergenti e dirompenti. L’iniziativa è da subito stata interpretata come un chiaro monito a Pechino nonché il nuovo tassello di una più comprensiva strategia di contenimento della RPC, stavolta fondata su alleanze e accordi mini-laterali piuttosto che su un’unica, monolitica alleanza come fatto durante la Guerra Fredda contro l’Unione Sovietica. Si noti, infatti, che nonostante la copertura mediatica abbia enfatizzato — e a tratti distorto (16) — l’importanza della componente sottomarina, l’accordo va ben oltre quest’ultima, espandendo la cooperazione in settori cruciali come, tra gli altri, l’intelligence — su cui l’accordo va oltre di quanto già previsto dall’alleanza Five Eyes — l’industria della difesa, la protezione degli asset strategici, l’intelligenza artificiale. Infine, vale la pena menzionare che a oggi l’amministrazione Biden ha mantenuto i dazi imposti dalla precedente amministrazione Trump su prodotti cinesi per un totale di 350 miliardi di dollari. Non è, quindi, inspiegabile il tono di cordiale sospetto con cui si è tenuto il tanto atteso incontro tra Joseph Biden e il presidente cinese Xi Jinping nel novembre 2021. Alla fine, il summit si è concluso con poco o nulla, facilitato sicuramente dalla conoscenza pregressa che i due presidenti avevano l’uno dell’altro ma ostacolato da
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un oggettivo deterioramento in atto delle relazioni bilaterali sui principali dossier internazionali. È in questo contesto che nel febbraio 2022, la Casa Bianca ha rilasciato la sua nuova Indo-Pacific Strategy che afferma senza mezzi termini che la Cina «sta perseguendo l’obiettivo di una sfera di influenza nell’IndoPacifico» per, infine, «diventare la potenza più influente del mondo» (17). Non a caso, pertanto, il raggio della capacità coercitiva cinese è oramai «globale» seppur il suo nucleo centrale sia ancora da ricercare nell’Indo-Pacifico. I dossier principali nell’area sono chiari alla Casa Bianca: la coercizione economica operata nei confronti dell’Australia, il conflitto lungo la «Linea di controllo effettivo» con l’India, la crescente pressione su Taiwan e «l’intimidazione dei vicini nel Mar Cinese orientale e meridionale» (ibid.). L’azione cinese non sarebbe solo mirata a intimidire gli Stati della regione, ma più in generale a modificare lo status quo esistente in Asia e nel mondo, una postura evidentemente revisionista secondo Biden che, quindi, riecheggia quanto già sostenuto dal suo predecessore (18). Rispetto a questa minaccia, Washington non avrebbe più l’obiettivo «di cambiare la RPC» ma, piuttosto, di «plasmare l’ambiente strategico in cui essa opera» per costruire «un equilibrio di influenza» favorevole «agli Stati Uniti, ai [loro] alleati e partner» (ibid.). A questo scopo e probabilmente in maniera diversa da quanto fatto dall’amministrazione Trump, l’attuale inquilino della Casa Bianca e il suo ga-
binetto si ripropongono di dare maggiore enfasi ad «alleanze modernizzate» e «partnership flessibili» (p. 10). Il testo giunge come primo documento strategico vero e proprio dell’esecutivo precedendo la National Security Strategy definitiva nonché la National Defense Strategy e suggerendo che queste rifletteranno — e non viceversa — la priorità attribuita da Biden e la sua amministrazione al quadrante indo-pacifico e alla Cina. Se è vero che quando la Casa Bianca e il Pentagono rilasceranno i propri libri bianchi sarà possibile inquadrare la politica estera verso la Cina in un più ampio framework globale, non è neanche da escludere che il Consiglio di sicurezza nazionale o il Dipartimento di Stato producano documenti specifici sulla Cina in linea con quanto fatto dall’esecutivo guidato da Trump (19). In conclusione, l’amministrazione Biden sembra aver sposato la linea muscolare inaugurata dall’esecutivo precedente dando una valutazione realista dello stato delle relazioni bilaterali con la Cina. Ciononostante, i documenti e le dichiarazioni dei funzionari di Pennsylvania Avenue, Foggy Bottom e il Pentagono hanno arricchito la postura americana di una rinnovata attenzione ai consessi multilaterali — o, piuttosto, minilaterali — e ai partner e agli alleati nell’Indo-Pacifico. Tutti considerati cruciali per prevalere nella competizione strategica con la RPC. Lorenzo Termine Centro Studi Geopolitica.info, Sapienza Università di Roma
NOTE (1) Si veda bit.ly/3v5FLXZ. (2) Si veda Dell’Era, A. (2021). Il Giappone e il QUAD-Intervista al prof. Giulio Pugliese (EUI-Oxford). Consultabile su bit.ly/3p6FFeY. (3) Si veda bloom.bg/33EICf2. (4) È il senso del suo articolo su Foreign Affairs del marzo 2020 consultabile su: fam.ag/3v41r6R. (5) Si veda bit.ly/3v7BUtf. (6) Le parole sono tratte dall’intervista su «Face the Nation». Si veda qui bbc.in/33OujV0. (7) Citato in fam.ag/3ILiApr. (8) Si veda bit.ly/3tnrQKv. (9) White House (2015) National Security Strategy. Consultabile su bit.ly/34HrVzS, p. 24. (10) Department of Defense (2014). Quadriennal Defense Review. Consultabile su bit.ly/33qZ96r, p. 6. (11) Fontaine, R. e Ratner, E. (2020). The U.S.-China confrontation is not another Cold War. It’s something new. Consultabile su wapo.st/34YQKYH. (12) White House (2021). Interim National Security Strategic Guidance. Consultabile su bit.ly/3AgAkWL, p. 9. Interessante notare la continuità nell’utilizzare la nozione di Indo-Pacifico in luogo dell’obamiano Asia-Pacifico. (13) US Director of National Intelligence (2021). Annual Threat Assessment. Consultabile su bit.ly/3r7d4Yi, p. 6. (14) Si veda qui politi.co/32JDAxm. (15) Pugliese, G. (2021). Il Dialogo di Sicurezza Quadrilaterale nell’Indo-Pacifico. Focus Euroatlantico, XII, 37-51. (16) Si veda a tal proposito stanford.io/3H7Sls0. (17) White House (2022). Indo-Pacific Strategy. White House. Consultabile su bit.ly/3LpXizT, p. 5. (18) Sul tema del revisionismo si veda Termine, L., & Natalizia, G. (2020). Gli «insoddisfatti». Le potenze revisioniste nella teoria realista delle Relazioni Internazionali. Quaderni di Scienza Politica, 27(2-3), 331-357 e sul revisionismo nel caso cinese Natalizia, G., & Termine, L. (2021). Tracing the modes of China’s revisionism in the Indo-Pacific. Italian Political Science Review/Rivista Italiana di Scienza Politica, 51(1), 83-99. (19) White House (2020). US strategic approach to the People’s Republic of China. Consultabile su bit.ly/3tKlKWa; Department of State (2020). The elements of the China challenge. Consultabile su bit.ly/3nJ3dWh.
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M ARINE FILIPPINE Acquisito il missile antinave supersonico «Brahmos»
MILITARI FINLANDIA Programma per nuovi dragamine
Il dipartimento della Difesa delle Filippine ha assegnato alla società Brahmos Aerospace un contratto del valore di 18,9 miliardi di peso (375 milioni di dollari americani) per la fornitura di tre batterie per la difesa costiera equipaggiate con missili antinave supersonici «Brahmos», in aggiunta ad addestramento, supporto logistico e manutentivo. Il reggimento per la Difesa costiera del Corpo dei Marine delle Filippine riceverà il sistema, a partire dall’inizio del 2023. Grazie a un accordo governativo in tema di difesa siglato fra l’India e le Filippine nel 2017, seguito più recentemente da un altro nel marzo del 2021, queste ultime diventano il primo cliente export del sistema grazie al quale intende esercitare una capacità di deterrenza nei confronti dell’espansionismo cinese nella regione.
Il Comando logistico delle Forze armate finlandesi ha bandito una gara per l’acquisizione di due piattaforme contromisure mine destinate a rimpiazzate le due unità delle classi «Kiiski» e «Kuha». I requisiti della gara, riguardano l’acquisizione di nuove capacità nel settore del dragaggio mine, comprese nuove piattaforme dedicate con capacità autonome d’impiego autonome e in controllo remoto, oltre all’imbarco di sistemi analoghi, nonché sistemistica per il dragaggio a influenza magnetica; le nuove piattaforme dovranno poter operare con capacità di dragaggio meccanico nei confronti di mine ad attivazione acustica, magnetica ed elettrica. Le unità misurano circa 24 m e hanno sufficiente spazio sulla coperta per l’equipaggiamento antimine meccanico nonché capacità d’impiego prolungato e in condizioni climatiche rigide con cambusa, cucina, spazi comuni e di assistenza sanitaria.
Il dipartimento della Difesa delle Filippine ha acquisito il sistema missilistico supersonico antinave BrahMos per impieghi di difesa costiera. Il contratto assegnato alla joint venture indo-russa BrahMos Aerospace prevede l’acquisizione di tre batterie missilistiche su mezzi mobili (BrahMos Aerospace).
Il Comando logistico delle Forze armate finlandesi ha bandito una gara per l’acquisizione di due piattaforme contromisure mine destinate a rimpiazzate i due dragamine ancora in servizio delle classi «Kiiski» e «Kuha» (Marina finlandese).
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Marine militari
FRANCIA Nuova strategia per la difesa dei fondali marini Il Ministro delle Forze armate francesi, Florence Parly e il capo di Stato Maggiore della Difesa, generale Thierry Burkhard, hanno presentato il 14 febbraio la nuova «Strategia per la difesa dei fondali marini» che mira ad ampliare le capacità di sorveglianza e di azione della Marine Nationale fino a 6.000 m di profondità. Con la seconda più grande Zona Economica Esclusiva (ZEE) al mondo, «la Francia vuole poter garantire la libertà di azione delle sue forze e proteggere la sua sovranità, le proprie risorse e infrastrutture anche nelle profondità oceaniche», ha affermato il ministro della Difesa Parly, a fronte dell’ampliarsi delle azioni da parte di alcuni Stati per appropriarsi di risorse (minerarie, biologiche o fossili) o di aree marittime rispetto alla situazione geopolitica dell’area. Per espandere le proprie capacità investigative e di azione fino a 6.000 metri di profondità, «la Francia si doterà di capacità militari esplorative d’alto mare, composte da droni subacquei autonomi (AUV, Autonomous Underwater Vehicle) e teleguidati (ROV, Remotely Controlled Vehicle)». In tale ambito, la Marine Nationale e il ministero della Difesa stanno lavorando affinchè il CEPHISMER (CEllule Plongée Humaine et Intervention Sous la MER) diventi un centro di competenza in grado di implementare una capacità militare complementare allo SLAMF per profondità superiori a 300 metri. Per quanto riguarda gli sviluppi tecnologici e capacitivi, i piani prevedono principalmente il supporto all’innovazione nello sviluppo di sensori a bordo di AUV e ROV per impieghi d’altura, e lo studio delle particolari modalità di propagazione acustica a bassissima frequenza. Sul fronte della legislazione, la Francia sta lavorando al completamento del progetto di revisione della normativa nazionale sulla posa dei cavi sottomarini (piano di autorizzazione nel mare territoriale e di avviso nella ZEE), all’integrazione delle attività di «nave autonoma/droni marittimi» nei regolamenti collegati ai compiti dello Stato nel dominio marittimo mentre un’apposita ordinanza emessa dal Primo Ministro francese servirà a definire le aree di tutela degli interessi di difesa nazionale ai fini della ricerca scientifica marina.
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Infine, la Francia supporterà l’elaborazione di una strategia per lo sviluppo di un cluster tecnologico e industriale della Difesa di settore, avvalendosi di soluzioni sviluppate per esigenze civili e in linea con il piano Francia 2030.
GRAN BRETAGNA Difesa contro le nuove minacce missilistiche Il ministero della Difesa britannico ha confermato i piani per l’introduzione di una capacità di difesa contro i missili balistici (BMD, Ballistic Missile Defence) a bordo dei sei caccia lanciamissili «Type 45» della Royal Navy per la fine del presente decennio. Queste unità sono dotate del sistema missilistico «Sea Viper» che rappresenta la variante britannica del sistema missilistico superficie-aria PAAMS (Principal Anti-Air Missile System) sviluppato in cooperazione fra Francia, Italia e Gran Bretagna dal consorzio EUROPAAMS fra Eurosam e MBDA UK. Il sistema «Sea Viper» condivide lo stesso munizionamento «Aster 15» e «30» nonché i relativi lanciatori verticali «Sylver» del sistema PAAMS (E) in servizio con le Marine francese e italiana, ma si differenzia da quest’ultimo per l’impiego del radar multifunzionale BAE Systems «Sampson» e un sistema di comando e controllo (C2) specifico per le esigenze inglesi. En-
Il ministero della Difesa britannico ha confermato i piani per l’introduzione di una capacità di difesa contro i missili balistici a bordo dei sei caccia lanciamissili «Type 45» della Royal Navy per la fine del presente decennio (Crown copyright).
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trambi le versioni del PAAMS dispongono del radar a lunga portata «S1850M». L’intenzione di procedere con l’aggiornamento del sistema «Sea Viper» è stata dichiarata per la prima volta nel documento «Defence Command Paper» presentato al Parlamento britannico nel marzo 2021. In una recente risposta al report emesso dalla Camera dei Deputati sulla necessità di dotarsi di una Marina più capace, pubblicato il 25 febbraio, il Ministero della Difesa ha specificato che il sistema «Sea Viper» è sottoposto a un programma di potenziamento delle capacità denominato SVE (Sea Viper Evolution) entro la fine del presente decennio. Si tratterebbe della capacità difensiva principalmente diretta contro missili balistici antinave (ASBM, AntiShip Ballistic Missile). Secondo il programma SVE Capability 1 già finanziato dal ministero della Difesa, il sistema missilistico «Aster 30» verrà aggiornato allo standard «Block 1» che si caratterizza per l’adozione di una testa in guerra «duale» in grado di offrire una capacità per la difesa contro i missili balistici in aggiunta a quella d’ingaggio di minacce aeree e missilistiche convenzionali. Sempre secondo quanto divulgato, la Royal Navy procederà anche a una fase preparatoria e di valutazione della capacità SVE Capability 2, per incrementare ulteriormente le capacità BMD, sfruttando la nuova munizione «Aster 30 Block 1 NT» (New Technology) in fase di messa a punto. Unitamente al potenziamento delle capacità del munizionamento sarà necessario un aggiornamento del software/firmware del sistema radar così come del sistema C2 del sistema missilistico per la scoperta e tracciamento di minacce particolarmente sfidanti e complesse come i missili balistici antinave, da associare a modifiche al sistema di comando, controllo e combattimento (CMS, Combat Management System) delle unità classe «Daring» «Type 45». Con separato programma denominato Sea Viper-CAMM (SVCAMM), la Royal Navy sta procedendo a installare e integrare sui caccia classe «Daring», il sistema missilistico MBDA CAMM (Common Anti-Air Modular Missile) e in particolare 24 nuove celle di lancio verticale a prora delle 48 celle del VLS «Sylver» per missili «Aster», unitamente a un aggiornamento tecnologico del C2 del sistema «Sea Viper».
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INDIA Consegnato ultimo «P-8I» Il gruppo Boeing ha annunciato la consegna del dodicesimo esemplare del velivolo da pattugliamento «P8» nella versione per la Marina indiana. Si tratta del quarto e ultimo esemplare di «P-8I» appartenente al lotto supplementare di macchine ordinato dal ministero della Difesa indiano nel 2016. Il «P-8I» fa parte integrale della componente navale della Marina indiana con oltre 35.000 ore di volo dall’entrata in servizio nel 2013.
INTERNAZIONALE Svoltasi l’esercitazione «Dynamic Manta 2022» Dal 21 febbraio al 4 marzo, la NATO ha condotto l’esercitazione «Dynamic Manta 2022» nel Mediterraneo centrale, al largo delle coste orientali della Sicilia. Pianificata e condotta annualmente dal Comando Marittimo della NATO (MARCOM), l’obiettivo di Dynamic Manta è fornire a tutti i partecipanti un addestramento complesso e stimolante per migliorare l’interoperabilità e le competenze nella lotta antisom e di superficie. «Esercitazione come quest’ultima, insieme all’addestramento regolare tra le unità delle Marine alleate e le nostre forze navali permanenti multinazionali, sono un moltiplicatore di forze che contribuiscono alla creazione di una componente multinazionale ed interoperabile, pronta a lavorare insieme come componente marittima della VJTF (Very High Joint Readiness Task Force)», ha affermato il contrammiraglio Stephen Mack, comandante delle Forze subacquee della NATO in una videoconferenza all’inizio dell’esercitazione. «È un grande onore per l’SNMG2 (Standing NATO Maritime Group 2), partecipare all’esercitazione di punta della NATO per quest’anno. Grazie a Dynamic Manta 22, ancora una volta, la NATO coglie l’occasione per coordinare gli sforzi in modo sinergico, contribuendo in modo decisivo a mostrare la coesione tra gli alleati e ad affinare tattiche, tecniche e procedure», ha affermato il contrammiraglio italiano Mauro Panebianco, comandante dell’SNMG 2, che ha guidato le forze coinvolte nell’esercitazione «Dynamic Manta 2022», a bordo dell’ammiraglia dell’SNMG 2, la fregata Margottini della classe «Bergamini». Secondo informazioni e immagini dell’inizio esercitazione, DYMA 2022 ha visto il coinvolgi-
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ISRAELE Qualificato il sistema «C-Dome»
Dal 21 febbraio al 4 marzo, la NATO ha condotto l’esercitazione antisom «Dynamic Manta 2022» nel Mediterraneo centrale, al largo delle coste orientali della Sicilia. Pianificata e condotta annualmente dal Comando Marittimo della NATO (MARCOM), quest’ultima si è svolta quest’anno sotto il controllo del Comando dell’SNMG2 (Standing NATO Maritime Group 2) - (MARCOM).
mento di tre piattaforme subacquee rappresentate da un battello «U212A» classe «Todaro» italiano, un battello «Tipo 214» classe «Papanikolis» greco e un sottomarino d’attacco nucleare della Marina francese non meglio identificato. La componente di superficie ha compreso le fregate Margottini (ammiraglia SNMG 2) e Carabiniere (classe «Bergamini»), Aegean (classe «Elli») greca, Goksu (classe «G») turca, Montreal (classe «Halifax») canadese, Alvaro De Bazan e Blas De Lezo (classe «Alvaro De Bazan») nonchè Navarra (classe «Santa Maria») spagnole, Auvergne (classe «Aquitaine») francese e il pattugliatore d’altura Trent (classe «Batch 2 River») inglese, l’unità rifornitrice Stromboli, affiancata dalla nave per il supporto logistico Robert E Peary (classe «Lewis e Clark»). Identificati dalle nazioni partecipanti, gli otto pattugliatori marittimi ad ala fissa provenivano dal Canada («CP-140 Aurora»), Francia, Germania («P-3C Orion»), Grecia, Stati Uniti e Regno Unito («P-8A Poseidon»). Fra i velivoli ad ala rotante identificati erano presenti assetti forniti dall’Italia («EH-101») e dal Regno Unito («Merlin»). «DYMA 22 è stata concepita per fornire formazione avanzata alle unità partecipanti, affinare le loro capacità ASW e dare l’opportunità di esercitarsi e condividere nuove tattiche e metodologie d’impiego per migliorare la loro interoperabilità», ha affermato il contrammiraglio Vito Lacerenza, comandante delle Forze sottomarine italiane, parlando durante una videoconferenza anticipatoria dell’esercitazione.
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Secondo quanto annunciato dalle Forze di Difesa israeliane e dal gruppo Rafael Advanced Defence Systems, unitamente all’Israeli Missile Defense Organization (IMDO), facente parte della direzione per la ricerca e lo sviluppo del ministero della Difesa israeliano, sono stati completati con successo una serie di tiri reali del sistema «C-Dome». Si tratta della versione navale del sistema di difesa missilistico «Iron Dome» che fa parte del sistema di combattimento delle nuove corvette classe «Sa’ar 6». L’unità capoclasse Magen e il suo equipaggio hanno condotto con successo i tiri reali in una serie di scenari complessi contro molteplici minacce particolarmente sfidanti, fra cui razzi, bersagli simulanti missili da crociera e UAV. Secondo quanto annunciato, questa campagna di lanci rappresenta una pietra miliare nella messa in servizio del sistema e dimostra la capacità operativa della Marina israeliana di difendere le risorse strategiche e gli interessi vitali dello Stato di Israele dalle minacce attuali e in evoluzione. Congratulandosi con i diversi attori coinvolti nella campagna valutativa del sistema, il Ministro della Difesa israeliano Benny Gantz ha sottolineato che i sistemi in fase di sviluppo quale parte integrante del sistema di difesa missilistica multilivello di Israele, consentono alla Nazione di operare contro i paesi alleati dell’Iran nella regione e di difendere la medesima
Le Forze di Difesa Israeliane hanno annunciato di aver completato con successo una serie di tiri reali del sistema missilistico «C-Dome». Si tratta della versione navale del sistema di difesa missilistico Rafael «Iron Dome», che fa parte del sistema di combattimento delle nuove corvette tipo «Sa’ar 6» (Rafael).
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dai loro sistemi d’arma, che vengono costantemente aggiornati. Il sistema navale per la difesa missilistica «C-Dome» si basa sul sistema di difesa «Iron Dome» sviluppato da Rafael, e il sistema di comando e controllo sviluppato dalla società mPrest. Per poter portare a termine la sua missione, il sistema «C-Dome» si interfaccia con il radar a quattro facce fisse a scansione elettronica attiva Elta/IAI «Adir».
ITALIA Varo tecnico per il quarto PPA Con una cerimonia tenutasi presso il cantiere di Riva Trigoso lo scorso 12 febbraio è stato celebrato il varo tecnico del quarto Pattugliatore Polivalente d’Altura (PPA). Si tratta dell’unità Giovanni delle Bande Nere (P 434), che ha preso il nome dal condottiero italiano del Rinascimento e membro della famiglia Medici (Forlì 1498 - Mantova 1526). Alla cerimonia erano presenti il Vicesegretario Generale/Vice Direttore Nazio-
nale degli Armamenti, ammiraglio Dario Giacomin, il Direttore di NAVARM, l’ammiraglio ispettore Massimo Guma, e il Direttore di OCCAR-EA amm. (ris) Matteo Bisceglia. Il dottor Giuseppe Giordo per Fincantieri e l’ing. Gabriele Pieralli per Leonardo rappresentavano il consorzio tecnico, responsabile dello sviluppo, costruzione e futuro supporto nave. Il varo della quarta unità della classe «Thaon di Revel» rappresenta una tappa decisiva e fondamentale per il programma PPA. L’unità sarà la prima della classe nella sua configurazione «completa» o «PPA Full», e quindi caratterizzata dalla dotazione completa in termini di elettronica e sistemi d’arma nonché la prima della classe a montare i gruppi elettrogeni di Isotta Fraschini Motori. La nave dispone della suite DBR (Dual Band Radar) con i radar a quattro facce fisse con antenna a scansione elettronica attiva in banda «C» e «X» mentre il sistema di sorveglianza elettro-ottico/IR DSS-IRST e la suite integrata per la guerra elettronica fornita dal
Lo scorso 12 febbraio, presso il cantiere Fincantieri di Riva Trigoso, è stato celebrato il varo tecnico del quarto Pattugliatore Polivalente d’Altura (PPA). Si tratta dell’unità GIOVANNI DELLE BANDE NERE (P 434), che rappresenta il primo Pattugliatore Polivalente d’Altura (PPA) nella configurazione «Full» (Fincantieri).
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gruppo Elettronica sono nella configurazione completa così come la piattaforma sarà dotata del sonar a elemento rimorchiabile Leonardo WASS ATAS. L’armamento comprende il sistema missilistico MBDA SAAM ESD PPA con due VLS a otto celle per missili «Aster 15» e «30», il cannone da 127/64 mm LW (LightWeight) con munizionamento «Vulcano» e il cannone da 76/62 mm «Sovraponte» con munizionamento DART e «Vulcano». I due «PPA Full» sono contrattualmente predisposti per l’impiego dei missili antinave MBDA Italia «Teseo Mk2/E», la cui versione risulta in fase di sviluppo. La consegna dell’unità è prevista per il 2024.
Conseguimento della SDR per l’U212 NFS Il programma per lo sviluppo, costruzione, messa in servizio e supporto della nuova classe di battelli «U212 NFS» (Near Future Submarine) ha conseguito e superato con successo un’altra importante tappa e verifica fondamentale rappresentata dalla SDR (System Design Review) in conformità ai rigorosi principi di «system engineering» adottati per questo progetto. Il superamento di questa importante tappa è stata un’attività molto impegnativa, che ha richiesto un notevole sforzo da parte delle parti interessate, tra cui la divisione del programma NFS di OCCAR, i principali attori industriali coinvolti e rappresentati da Fincantieri e Leo-
nardo oltre alla filiera industriale nazionale. Tutti gli sforzi sono stati volti a completare le attività richieste entro i tempi e le scadenze previste al fine di rispettare il cronoprogramma lavori del progetto. Sebbene l’Italia sia attualmente l’unico paese partecipante, il programma U212 NFS è secondo OCCAR, un catalizzatore per il potenziamento delle competenze tecnologiche per i paesi dell’UE ed extra UE.
Rientra in linea il caccia Duilio (D 554) A seguito di un ciclo manutentivo della durata di diciassette mesi presso l’Arsenale Militare di Spezia, il caccia lanciamissili Caio Duilio (D 554) della classe «Doria» (tipo Orizzonte) è tornato in servizio operativo all’inizio del mese di febbraio. Nonostante i vincoli COVID-19, le attività si sono concluse con successo rispettando i tempi, e il sistema PAAMS è stato dichiarato pienamente operativo dalla MM. Nel corso di tale periodo, la Divisione di programma FSAF/PAAMS di OCCAR ha gestito in contemporanea diverse attività complesse: la manutenzione preventiva e la revisione completa (MOH, Major Overhaul) rispettivamente del sistema radar a lunga portata «S-1850M» LRR (Long Range Radar) realizzata dalla società Thales Nederland nei Paesi Bassi e del sistema di lancio verticale (VLS MOH, Vertical Launching System Major Overhaul) per i missili
Il programma per lo sviluppo, costruzione, messa in servizio e supporto della nuova classe di battelli «U212 NFS» (Near Future Submarine) per la MM ha conseguito e superato con successo un’altra importante tappa e verifica fondamentale rappresentata dalla SDR (System Design Review) - (OCCAR).
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«Aster 15» e «30» svolta dal consorzio Eurosam comprendente Thales, MBDA Francia e Italia. Sono state inoltre svolte attività di manutenzione preventiva e correttiva e controlli dell’intero sistema missilistico «PAAMS (E)» incentrato sulla famiglia di munizioni Aster e il radar a scansione elettronica passiva «EMPAR» di Leonardo al fine di garantire all’utilizzatore finale la prontezza operativa richiesta. Le attività sono state svolte in Italia (La Spezia) e Olanda (Hengelo) con il coinvolgimento di attori industriali nazionali e locali. L’utilizzo congiunto del contratto per il supporto integrato (ISS, In-Service Support) «FSAF/PAAMS 16.ISS.01» con Thales Nederland per l’esecuzione del contratto «S1850M LRR MOH», «FSAF/PAAMS 18.ISS.01» con Eurosam per l’VLS MOH e del contratto 19.ISS.01 per la fornitura di materiali di consumo e servizi, ha efficacemente risposto alle esigenze, dati i vincoli di tempo e risorse. Inoltre, l’efficiente cooperazione franco-italiana tra MARICOMLOG (Comando Logistico MM) e l’omologo SSF (Service de Soutien de la Flotte) della Marina Nationale, nella condivisione di pezzi di ricambio e informazioni è stata decisiva per raggiungere l’obiettivo in tempo utile, ridurre i costi e creare ottimizzazione.
57 giorni di attività, ha pattugliato le acque antistanti la Tripolitania, la Cirenaica, lo Stretto di Sicilia e il Mar Ionio, contribuendo in maniera fattiva al contrasto alle attività illecite e deterrenza nei confronti di organizzazioni criminali in quelle zone, operando a tutela degli interessi nazionali per la protezione delle linee di comunicazione, delle navi commerciali e delle piattaforme off-shore nazionali.
Brevetto per otto nuovi palombari Con una cerimonia tenutasi presso il Comando Subacquei e Incursori «Teseo Tesei» (COMSUBIN) della Marina Militare, alla presenza del sottosegretario alla Difesa, senatrice Stefania Pucciarelli, del presidente della commissione Difesa della Camera onorevole Gianluca Rizzo, del sottocapo di stato Maggiore della Marina Militare, ammiraglio di squadra Giuseppe Berutti Bergotto e di autorità civili e militari, è stato conferito il brevetto da palombaro a otto allievi del corso ordinario Palombari «Kraken» 2021. Grazie anche alla possibilità offerta dal concorso per
Cambio del Comando Tattico dell’«Operazione Mare Sicuro» A bordo del caccia Luigi Durand De La Penne, ormeggiato al pontile NATO della Base Navale di Augusta, si è volta lo scorso 22 febbraio, la cerimonia di avvicendamento del Comando dell’«Operazione Mare Sicuro» (OMS). Alla presenza del comandante in capo della Squadra navale, ammiraglio Aurelio De Carolis, il contrammiraglio Riccardo Marchiò ha ceduto l’incarico di Comandante Tattico al contrammiraglio Lorenzano Di Renzo. Il dispositivo aeronavale impegnato nella 48^ rotazione dell’«Operazione Mare Sicuro», nei
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Con una cerimonia tenutasi presso il Comando Subacquei e Incursori «Teseo Tesei» (COMSUBIN) della Marina Militare, è stato conferito il brevetto da palombaro a otto allievi del Corso ordinario palombari «Kraken» 202.
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Volontari in Ferma Prefissata di un anno (VFP1), numerosi giovani sono stati selezionati per affrontare l’impegnativo corso formativo della durata di circa un anno che ha permesso al Gruppo Scuole di brevettare otto operatori che hanno ricevuto una preparazione di altissimo livello fisico e professionale di base necessaria per essere impiegati in ogni operazione subacquea complessa e intervenire su qualsiasi ordigno esplosivo rinvenuto in un contesto marittimo.
Attività addestrativa per la Seconda Divisione navale Nel corso della seconda settimana di febbraio si è tenuta un’intensa settimana di attività addestrativa in mare sotto la guida del comandante della Seconda Divisione navale, l’ammiraglio Vincenzo Montanaro. L’attività, svoltasi nelle acque del Golfo di Taranto, ha visto la partecipazione dei principali assetti operativi della Squadra navale fra cui la portaerei Cavour, la portaeromobili Garibaldi, il caccia lanciamissili Doria, le navi anfibie San Giorgio e San Marco, la fregata Marceglia, il rifornitore Stromboli, il pattugliatore Foscari, il cacciamine Alghero e il sommergibile Scirè. Anche il caccia lanciamissili della US Navy classe «Arleigh Burke Flight IIA», ha partecipato alle attività addestrative pianificate dalla Seconda Divisione, consentendo di confermare l’interoperabilità con gli assetti delle marine alleate, nonché di affinare le procedure operative in uso.
RUSSIA Taglio lamiera per due nuovi sottomarini «Progetto 677» Presso i cantieri dell’Ammiragliato di San Pietroburgo si è svolta lo scorso 14 febbraio la cerimonia congiunta del taglio lamiera del quarto e quinto battello del «Progetto 677», classe «Lada». A seguito della consegna e delle attività di prova e valutazione condotte prima e dopo di quest’ultima, i cantieri costruttori e il team di progetto Rubin stanno procedendo all’aggiornamento del sistema di controllo della piattaforma e di combattimento, del sistema propulsivo e di navigazione dei successivi battelli.
STATI UNITI Battesimo per il primo prototipo LDUUV Con una cerimonia tenutasi presso la base navale di Newport, è stato battezzato il primo dei prototipi dei veicoli subacquei autonomi di grandi dimensioni o LDUUV (Large Displacement Unmanned Undersea Vehicle) tipo «Snakehead». Alla cerimonia
QATAR Consegnato l’OPV Musherib Il primo dei due OPV realizzati da Fincantieri per le QENF (Qatar Emiri Naval Forces) è stato consegnato al nuovo utilizzatore. Si tratta dell’unità Musherib, il cui equipaggio proseguirà l’addestramento e la qualifica operativa in Italia, sotto l’egida della Marina Militare italiana.
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Il primo dei due OPV realizzati da Fincantieri per le QENF (Qatar Emiri Naval Forces), rappresentato dall’unità MUSHERIB, è stato consegnato a queste ultime. L’equipaggio dell’unità proseguirà l’addestramento e la qualifica operativa in Italia, sotto l’egida della Marina Militare italiana (Fincantieri).
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della US Navy in sostituzione del velivolo ad ala fissa imbarcato «C-2A Greyhound», ha raggiunto la capacità operativa iniziale a seguito del completamento del primo dispiegamento a bordo della portaerei a propulsione nucleare Carl Vinson (CVN 70). Quest’ultima ha visto la partecipazione quest’estate di un nucleo di «CMV-22B» del Fleet Logistics Multi-Mission Squadron (VRM 30) quale parte integrante del Carrier Air Wing imbarcato.
Taglio lamiera per la 14a unità classe «San Antonio»
La US Navy ha battezzato il primo dei prototipi dei veicoli subacquei autonomi di grandi dimensioni o LDUUV (Large Displacement Unmanned Undersea Vehicle) tipo «Snakehead» (US Navy).
hanno preso parte i rappresentanti del Naval Undersea Warfare Center (NUWC) e del Program Executive Office for Unmanned and Small Combatants (PEO USC) della US Navy. Si tratta di velivoli subacquei modulari e riconfigurabili multi-missione di diverso diametro, lunghezza e dislocamento, destinati a essere utilizzati sia da piattaforme di superficie che subacquee equipaggiate con batterie al litio di ultima generazione e dotati di una suite di sensori e sistemi per la navigazione e le operazioni autonome in supporto alle piattaforme pilotate.
Con una cerimonia tenutasi il 28 gennaio presso i cantieri Huntington Ingalls Industries (HII) di Ingalls, è stata tagliata la prima lamiera della quattordicesima unità da trasporto anfibio tipo LPD classe «San Antonio». Si tratta della futura unità Harrisburg, che rappresenta la prima piattaforma del «Flight II» della classe «San Antonio». Le unità che appartengono a questa nuova sottoclasse sono destinate a rimpiazzare le unità classe «Whidbey» (LSD 41/49).
IOC per il convertiplano «CMV-22B» Secondo quanto annunciato dalla US Navy, il convertiplano Bell/Boeing «Osprey» nella versione «CMV-22B» destinato a fornire il supporto logistico (COD, Carrier Onboard Delivery) a bordo delle portaerei
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Con una cerimonia tenutasi il 28 gennaio presso i cantieri Huntington Ingalls Industries (HII) di Ingalls, è stata tagliata la prima lamiera della quattordicesima unità da trasporto anfibio tipo LPD classe «San Antonio» (HII).
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Primo Triton IFC-4 per la US Navy Il gruppo Northrop Grumman ha consegnato il 1 febbraio alla US Navy, il primo velivolo senza pilota a lunga autonomia e capacità d’impiego ad alte quote «MQ-4C Triton» nella configurazione per l’intelligence multi-missione specificatamente sviluppata per le esigenze della Marina americana.
TURCHIA Prime prove in mare per l’ammiraglia della Marina turca La nuova nave d’assalto anfibio tipo LHD (Landing Helicopter Dock) Anadolu, destinata a diventare l’am-
miraglia della Marina turca una volta che entrerà in servizio, ha effettuato le prime prove in mare alla fine del mese di febbraio, operando dai cantieri costruttori Sedef Shipyard sul mare di Marmara. A seguito dell’estromissione da parte del programma «F-35», i piani del ministero della Difesa turco prevedono l’imbarco di velivoli senza pilota armati. Questi ultimi, in fase di sviluppo e realizzazione da parte della società Baykar e denominati «TB3» sono stati specificatamente progettati per l’impiego imbarcato. A seguito di tali importanti cambiamenti, non è ancora noto ufficialmente quando l’unità verrà consegnata. Luca Peruzzi
Il gruppo Northrop Grumman ha consegnato all’US Navy all’inizio di febbraio, il primo velivolo senza pilota a lunga autonomia e capace d’impiego ad alte quote «MQ-4C Triton» nella configurazione per l’intelligence multi-missione (Northrop Grumman).
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S CIENZA I grandi tecnici della Marina Militare: l’ingegner Cesare Laurenti - 1a Parte In questa rivista abbiamo dedicato una serie di articoli ai grandi tecnici e scienziati della Marina Militare, esaminando in particolare le figure di Benedetto Brin, Giancarlo Vallauri, Giuseppe Rota, Domenico Chiodo, Umberto Pugliese, Vittorio Cuniberti, Edoardo Masdea, Ugo Tiberio, Gian Cesare Laurenti in divisa da maggiore del genio navale (archivio Battista Magnaghi, Umautore). berto Cagni, Angelo Scribanti, Gioacchino Russo, Francesco Rotundi e Nello Carrara. Tratteremo ora dell’ingegnere del Genio Navale Cesare Laurenti, brillante progettista navale che operò, prima all’interno della Regia Marina e poi nell’industria privata, nel settore della progettazione e realizzazione dei sommergibili. Cesare Laurenti nacque a Terracina il 15 luglio 1865 da Gioacchino e da Teresa Castaldi. La famiglia si trasferì pochi anni dopo a Civitavecchia, dove avviò un’agenzia di spedizioni marittime, ancora oggi attiva. Iniziò gli studi superiori a Siena e in seguito si trasferì a Roma. Nel 1885 prestò servizio militare come soldato del Regio Esercito, e successivamente frequentò la Regia Scuola di applicazione per gli ingegneri di Roma, laureandosi il 27 novembre 1889 in ingegneria civile. Nella stessa scuola ricoprì il ruolo di assistente per alcuni mesi, fino a quando entrò per con-
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T ECNICA corso nel corpo del Genio Navale della Regia Marina, dove fu nominato ingegnere di 2a classe il 13 novembre 1890. Quindi fu destinato a Genova, dove frequentò per 18 mesi i corsi della Regia Scuola Superiore Navale (RSSN), per specializzarsi e completare la sua istruzione professionale conseguendo la laurea in ingegneria navale nel giugno 1892 con una tesi basata sul progetto di un ariete torpediniere, conseguendo la votazione di 69/70 per lo scritto e 70/70 per l’orale. Nell’ambito dei numerosi progetti di ammodernamento della flotta italiana voluti dal generale Benedetto Brin quando era ministro della Marina, venne realizzato presso il Regio Arsenale della Spezia il Delfino, il primo sottomarino italiano, impostato nel 1889/90 su progetto del generale del Genio Navale Giacinto Pullino (1), realizzato anche come risposta a un analogo progetto francese, il Gymnote, costruito quattro anni prima. Ricordiamo che, all’epoca, la politica estera e militare italiana era caratterizzata dal confronto con la Francia. Il Delfino era un battello sottomarino spinto da un motore elettrico alimentato da accumulatori, dotato di timoni orizzontali ed eliche verticali per le manovre in immersione, con la visione esterna assicurata da oblò, non essendo dotato di periscopio. Subito dopo il varo avvenuto nel 1892, Brin affidò la direzione tecnica dei collaudi e delle prove del sottomarino al giovane ingegner Laurenti, che documentò alcune di queste iniziali esperienze nel campo dei battelli subacquei nell’articolo «Motore elettrico per torpediniere sottomarine» pubblicato nel 1896 sulla Rivista Marittima; l’articolo riportava la descrizione del motore impiegato a bordo del Delfino, pur senza citarlo
Il sottomarino francese GYMNOTE (immagine d’epoca, dalla Rivista Marittima, 1901).
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Scienza e Tecnica
Il sottomarino DELFINO, costruito dal Regio Arsenale della Spezia (immagine d’epoca, dalla Rivista Marittima, 1901).
Il sommergibile DELFINO dopo i lavori di trasformazione (foto d’epoca, dalla Rivista Marittima, 1995).
esplicitamente, con anche un esame critico sulla scelta del tipo di motore, e riportava i risultati delle prove di collaudo al banco del motore stesso. Nel 1895 Laurenti fu promosso ingegnere di 1a classe e trasferito presso l’arsenale militare di Taranto, dove, fra l’altro, diresse la costruzione della nave Puglia (2). Il 3 ottobre 1898 fu imbarcato sulla corazzata Lepanto (3) per circa un anno, come era prassi allo scopo di far acquisire ai giovani ingegneri familiarità con le navi e la vita di bordo. Il 1° settembre 1899 fu comandato al ministero della Marina a Roma e frequentò il corso di elettrotecnica presso la Regia Scuola di applicazione per gli ingegneri riportando la votazione finale di 90/100. All’inizio del XX secolo si ebbe un’accelerazione nello sviluppo delle unità subacquee, passate da essere puri sottomarini, mezzi, come il Gymnote, il Delfino nella configurazione originaria o i primi mezzi statunitensi, dotati della sola propulsione elettrica e idonei a operare solo in immersione con autonomia molto bassa, a essere dei sommergibili (o, come si diceva all’epoca, delle «torpediniere sommergibili»), mezzi dotati di doppio impianto di propulsione e idonei a effettuare navigazioni in superficie, come una torpedi-
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niera convenzionale dell’epoca, per immergersi solo quando richiesto dalla situazione operativa. Anche in Italia il nuovo secolo risvegliò l’interesse per l’utilizzo militare dei mezzi subacquei: il ministro della Marina, l’ammiraglio Giovanni Bettolo, bandì un concorso per il progetto di una torpediniera sommergibile. Laurenti nel 1900 pubblicò sulla Rivista Marittima l’articolo «La navigazione subacquea a scopo di guerra», in cui illustrò i progressi tecnici raggiunti da varie marine straniere e affrontò quindi in dettaglio i requisiti richiesti ai sottomarini, visti da Laurenti come la naturale evoluzione delle torpediniere. Laurenti si occupò, fra l’altro, dell’utilizzo nei sommergibili dei differenti tipi di motori, a benzina, a vapore ed elettrici, propendendo per questi ultimi, ritenuti i più affidabili, nella navigazione subacquea e per motori a vapore con combustibile liquido in emersione. Laurenti evidenzia anche la mancanza di una strumentazione affidabile per la navigazione in immersione. Nelle conclusioni egli prevedeva che il sommergibile sarebbe divenuto un mezzo bellico in grado di rivoluzionare del tutto la guerra navale, anche se al momento lo considerava un’arma prettamente difensiva. L’articolo suscitò una vivace discussione sulle pagine della rivista, con una risposta del Tenente di Vascello Giovanni Sechi (4) che contesta quanto affermato da Laurenti, giudicando il sottomarino o sommergibile impossibilitato a svolgere il compito delle torpediniere, e relegandolo ad un ruolo di difesa statica dei porti; nel settembre 1900 nella rubrica «lettere al direttore» Laurenti, in risposta a quanto scritto da Sechi, affronta vari argomenti, dalla situazione nella lotta tra cannone e corazze alla tattica d’impiego dei sommergibili in particolare per l’attacco con il siluro alle unità maggiori, mettendo in luce una notevole verve polemica nei confronti di chi lo aveva contraddetto. In un successivo articolo, «La navigazione subacquea nel secolo XIX» (Rivista Marittima, giugno 1901), Laurenti espose la storia dei primi tentativi di realizzare un sommergibile, sia a uso mercantile e scientifico che per fini militari, fino all’inizio del ‘900. Si tratta di un bell’articolo, di ampio respiro e corredato di varie illustrazioni e disegni, oltre che di una serie di tabelle con le principali caratteristiche di tutti i som-
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Immagine di un motore elettrico oggetto di un articolo di Cesare Laurenti nel 1896 sulla Rivista Marittima, che probabilmente rappresenta il motore installato sul DELFINO.
mergibili realizzati, basato su di una profonda conoscenza della materia, che conclude delineando le linee guida che avrebbe seguito negli anni successivi nella progettazione e costruzione dei sommergibili, realizzati per l’Italia e per le principali marine straniere. Nel luglio 1901 pubblica un breve articolo sulla Rivista Marittima «L’antidoto dei sottomarini», in risposta a un articolo apparso in Inghilterra che annunciava la realizzazione di un’arma efficace contro il nuovo e terribile mezzo bellico, asserendone la totale inconsistenza. Nel Dicembre 1901 Laurenti pubblica sulla Rivista Marittima un articolo su «Il trasporto dell’energia elettrica a bordo delle navi da guerra» nel quale propugna la diffusione di macchinari ausiliari elettrici in sostituzione dei precedenti ausiliari a vapore a bordo delle grandi navi da guerra (corazzate ed incrociatori), esaminando anche gli impianti di distribuzione (all’epoca in corrente continua) e la relativa tensione (al massimo si arrivava a 160V) e i sistemi di generazione, per concludere ipotizzando l’impiego dell’elettricità anche per la propulsione, soluzione che sarà adottata per la prima volta solo una decina d’anni dopo su alcune unità della US Navy a iniziare dalla corazzata USS New Mexico. Nell’agosto 1902 seguì un articolo su «Installazione elettrica a terra negli stabilimenti della marina fran-
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cese», nel quale Laurenti esamina l’impiego dell’energia elettrica nelle officine degli arsenali francesi, ma con un occhio anche agli stabilimenti italiani, in sostituzione dei sistemi di trasmissione del moto, a partire da una macchina a vapore, mediante alberi e cinghie. Il 27 gennaio 1902 Laurenti e Giacchino Russo depositano in Gran Bretagna la richiesta di brevetto GB190202165A relativa al cleptoscopio. Si trattava di un primo tipo di periscopio, detto anche apparato «Russo-Laurenti» dal nome dei due ufficiali del Genio Navale, coetanei e compagni di studi presso la Regia Scuola Superiore Navale di Genova, che ne depositarono il brevetto (5). Il brevetto fu concesso il 27 febbraio 1903. In Italia il brevetto era stato depositato il 28 luglio 1901 e perfezionato il 4 settembre 1901. In questo periodo venne quindi risolto, anche grazie al contributo del Laurenti e di Giacchino Russo, il problema della visione esterna, essenziale per l’azione bellica dei sommergibili. Nel 1902 venne deciso di riarmare e modificare il Delfino. Il primo sommergibile italiano, tra il 1902 e il 1904, sotto la direzione di Laurenti subì una radicale trasformazione: fu installato un motore a benzina per la navigazione in emersione, venne aggiunta la torretta su cui fu applicato il cleptoscopio, furono eliminate le
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eliche verticali. In pratica il battello, che era nato come un sottomarino puro, cioè un mezzo ideato per operare solo in immersione, venne trasformato in sommergibile, cioè mezzo idoneo a operare in emersione come una nave convenzionale oltre che di immergersi. Nel giugno del 1903 uscì sulla Rivista Marittima un articolo dal titolo «Sull’impiego dei sottomarini» firmato dal tenente di vascello F. Marulli. L’autore, dopo una trattazione teorica delle diverse possibilità di attacco di unità subacquee contro unità di superficie, esamina i risultati di esercitazioni svolte recentemente dalla marina francese nella rada di Cherbourg, per concludere auspicando che i futuri sottomarini italiani siano «marini», rapidamente sommergibili e rapidamente manovrabili, e che si sacrifichino tutte le altre prestazioni a favore della velocità di attacco, ed evidenziando comunque i limiti dei sottomarini, impiegabili solo per la difesa ravvicinata costiera, e anche in questo caso senza lasciarsi «trascinare dalla moda»; in sintesi Marulli appare alquanto scettico sulle reali possibilità d’impiego dei mezzi subacquei al di fuori di alcuni limitati casi. Laurenti nel giugno 1903 risponde a Marulli con una «lettera al direttore» nella quale pur esprimendo apprezzamento per l’articolo, ne modifica le conclusioni in senso favorevole all’impiego del sommergibile per la difesa delle coste; in questa lettera Laurenti evidenzia anche chiaramente la distinzione tra i sottomarini ed i sommergibili, ed esprime l’opinione che il futuro è di questi ultimi. Nell’Agosto 1903 pubblica sulla Rivista Marittima ancora un breve articolo di argomento elettrotecnico, e cioè «Le motrici a combustione interna nelle stazioni centrali di produzione di energia elettrica», nel quale esamina l’impiego, in alternativi al vapore, dei motori a combustione interna. Dal 1° novembre 1904 Laurenti fu destinato al Regio Arsenale di Venezia. Per aggiornarsi e confrontarsi con i progressi tecnici delle altre marine, in particolare nel settore dei sottomarini e sommergibili, Laurenti, compì alcuni viaggi in Gran Bretagna e in Germania fra il 1904 e il 1905. Dal 16 giugno 1905 al 15 maggio 1906 fu imbarcato di nuovo sul Delfino, che provvide a migliorare ulteriormente. Incaricato del progetto di una nuova classe di som-
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mergibili, la prima realizzata in Italia dopo lo sperimentale Delfino, Laurenti elaborò un progetto nuovo, completamente differente da tutti gli altri, il quale prese il suo nome, cioè «sommergibile tipo Laurenti». Il Glauco, progettato da Laurenti quando era Maggiore del Genio Navale e impostato sotto la direzione dello stesso Laurenti presso il Regio Arsenale di Venezia, fu il secondo sommergibile costruito in Italia, tra il 1903 e il 1905; in questo progetto la falsatorre era molto spostata in avanti, mentre nei modelli successivi venne gradatamente spostata a centro nave. Il Glauco era ancora, di fatto, un’unità sperimentale, e, come il resto della classe (Squalo, Narvalo, Otaria e Tricheco), ebbe un ruolo più addestrativo più che operativo, non solo per il personale della nascente specialità sommergibilista, ma per gli stessi stati maggiori della nostra marina, ancora poco convinti dell’utilità del nuovo mezzo. Gli ultimi articoli del Laurenti sulla Rivista Marittima, pubblicati nel 1904, 1905 e 1907, sono dedicati a incidenti che hanno portato alla perdita di sommergibili. Nel 1904 nell’articolo «La perdita del sottomarino inglese A-1», dedicato all’affondamento del sommergibile britannico A-1 al largo di capo Nab per urto con un transatlantico, alle sue cause e alle sue conseguenze; Laurenti esprime l’opinione che, nonostante i danni riportati nell’urto, sarebbe stato possibile per l’equipaggio (composto da 11 persone, tra cui 2 ufficiali, tutte perite nell’incidente) salvare il battello e la loro stessa vita con opportuni provvedimenti, che però non furono adottati per le condizioni del personale, fe-
Il sottomarino britannico A1, affondato per urto contro un transatlantico (foto d’epoca, dalla Rivista Marittima, 1896).
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Ricostruzione, effettuata da Cesare Laurenti, dell’incidente che ha causato la perdita del sottomarino britannico A1 (foto d’epoca, dalla Rivista Marittima, 1896).
rito e stordito dall’urto. Inoltre Laurenti critica il tipo di battello (tipo Holland di progetto statunitense), per la sua impossibilità a immergersi verticalmente, e le caratteristiche tecniche del periscopio, in particolare l’arco di vista limitato a 45°. Nel 1905 nell’articolo «I disastri dei sottomarini» Laurenti passa in rassegna i maggiori incidenti verificatisi nel settore delle unità subacquee, e in particolare quelli più recenti del sommergibile britannico A-8 (affondato l’8 giugno 1905 all’uscita dal porto di Plymouth) e del francese Farfadet (affondato il 7 luglio 1905 nel porto di Biserta). Secondo Laurenti tutti gli incidenti esaminati rientrano nelle categorie dell’allagamento o dell’esplosione di gas (idrogeno prodotto dalle batterie al piombo o vapori di benzina) e sono stati causati da errore umano, in particolare da parte dei Comandanti dei battelli; Laurenti evidenzia che,
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per la particolare complessità dei sommergibili e per la loro concezione, commettere errori è più facile che non sulle unità di superficie, e che le conseguenze di questi errori possono essere molto più gravi, e di conseguenza il personale destinato all’imbarco sui mezzi subacquei deve essere selezionato con cura. Dal punto di vista tecnico Laurenti trae dall’esame degli incidenti la convinzione che nei nuovi battelli debbano essere adottati, per consentire una maggiore sicurezza, quattro provvedimenti: il doppio scafo, la zavorra esterna distaccabile, la compartimentazione interna con paratie stagne e una razionale disposizione delle aperture dello scafo per accesso e ventilazione. Nel 1907 esce un ultimo breve articolo del Laurenti sulla Rivista Marittima intitolato «La catastrofe del Lutin» dedicato alle cause dell’affondamento del sommergibile francese Lutin, della stessa classe del già citato Farfadet, e affondato nei pressi di Biserta nell’ottobre 1906 con la perdita dei 16 membri dell’equipaggio. Secondo Laurenti il sommergibile aveva il difetto di essere stato concepito con le lamiere interne dei doppi fondi piane (e non cilindriche come sui sommergibili che progetterà lo stesso Laurenti), e quindi con resistenza limitata alla pressione esterna; nel caso del Lutin, la presenza di una pietra impedì la chiusura
Schema della suddivisione dei battelli francesi del tipo del Lutin, affondato al largo di Biserta (Tunisia) il 16 ottobre 1906 (foto d’epoca, dalla Rivista Marittima, 1907).
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di una valvola di allagamento del doppio fondo prima di un’immersione, e il doppio fondo stesso, sottoposto alla pressione esterna, cedette determinando l’allagamento e la perdita del battello. Laurenti in conclusione auspica l’adozione di sottomarini che, anche a scapito della velocità massima raggiungibile, navighino in immersione con una grande riserva di spinta, a differenza di quanto avveniva sui sottomarini dell’epoca, dotati di riserva di spinta negativa (i battelli francesi) o di una riserva di spinta positiva molto piccola (i battelli di altre nazioni tra cui gli italiani). Laurenti fu insignito di medaglia d’oro di prima classe per l’incremento apportato alle scienze nautiche con i suoi studi sui sommergibili. Il 16 luglio 1906 si congedò dalla Regia Marina e fu collocato nella riserva con il grado di Maggiore del genio navale. Già cavaliere della Corona (1892), fu insignito dal re il 21 luglio 1906 della croce di cavaliere dell’Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro. Assunse quindi la direzione dei cantieri navali Fiat S. Giorgio del Muggiano, fondati nel 1907 con capitale Fiat e Odero proprio per la produzione di sommergibili. Il cantiere spezzino divenne, sotto la sua direzione, un centro d’eccellenza mondiale nella costruzione dei sommergibili, primato che conservò per alcuni decenni, anche se a partire dal 1918 fu oggetto di vari cambi di denominazione e di proprietà. Nell’epoca in cui era direttore Laurenti, la società era dotata di una sede a Torino, per la produzione di tubi lanciasiluri e altri apparati, nella sede che diventerà poi la Fiat Grandi Motori. Il primo sommergibile progettato da Laurenti dopo il congedo fu il Foca, prodotto alla Spezia, impostato nel 1907 e consegnato alla Regia Marina nel 1909. Il progetto, derivato da quello del Glauco, era caratterizzato da soluzioni innovative per l’epoca, come per esempio la propulsione su 3 assi con 2 motori a benzina per asse e un motore elettrico solo sugli assi esterni, ove i motori degli assi esterni, accoppiando opportunamente i due giunti posti a monte e a valle dei motori elettrici potevano trascinare le dinamo per ricaricare le batterie oppure l’elica mentre il motore centrale era connesso al solo propulsore, o le pompe assetto e i compressori connessi agli assi delle eliche per economizzare sul peso. Dopo qualche tempo il Glauco fu
modificato con l’abolizione dell’asse centrale, per assumere una più tradizionale configurazione su due assi. Nel 1907 Laurenti depositò negli Stati Uniti due richieste di brevetto, le prime di una serie abbastanza numerosa. La prima richiesta (brevetto US985911 concesso nel 1911) era relativa al progetto di massima di un sommergibile con scafo esterno a libera circolazione nella parte superiore dello scafo; si trattava del concetto base dei primi sommergibili tipo Laurenti, applicato in particolare al Foca. La seconda richiesta (brevetto US934192 concesso nel 1909) era invece relativa a un sistema di lancio per siluri subacqueo con coperchio esterno del tubo lanciasiluri azionabile dall’interno. Un battello gemello del Foca (HSwMS Hvalen) fu ordinato dalla Reale Marina Svedese e confermò la propria affidabilità percorrendo, dopo la consegna nel 1909, l’intero percorso dall’Italia alla Svezia con i propri mezzi, mentre un altro battello più piccolo (HDMS Dykkeren) dotato alla consegna solo di propulsione elettrica (successivamente venne aggiunto un motore a benzina) venne ordinato dalla Marina Danese e consegnato sempre nel 1909. Nel 1908 Laurenti depositò negli Stati Uniti una richiesta di brevetto (US922298 concesso nel 1909) relativo a una superficie orizzontale posizionata sopra la poppa di un sommergibile, in modo da aumentare la resistenza idrodinamica nei confronti delle variazioni d’assetto; lo stesso apparato venne brevettato anche in Australia (brevetto AU1121408A richiesto sempre nel 1908). Nel 1908-1910 Laurenti concepì anche il progetto di un sommergibile con una velocità subacquea attorno ai 15-16 nodi, elevatissima per l’epoca. Questo progetto, sviluppato in varie versioni con dislocamenti tra le 250 e le 1000 tonnellate, era dotato di apparato motore unico pneumatico a combustione ideato dall’ingegner Del Proposto (6). Non erano presenti batterie, dinamo e motori elettrici, ma solo bombole di aria compressa, e su ognuno dei 2 assi erano calettati un motore diesel e un motore pneumatico reversibile. In immersione l’aria compressa evoluiva nel motore pneumatico e quindi, a pressione ridotta, alimentava come comburente il motore diesel. ....... segue nel prossimo. Claudio Boccalatte
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COSA SCRIVONO GLI ALTRI
«I Nuovi Dopoguerra» e «The Putin Doctrine» ASPENIA, N.94/2021-FOREIGN AFFAIRS, VOL. 101, N. 1, JANUARY-FEBRUARY 2022
Dopo aver varato il concetto di «pace fredda» (che abbiamo illustrato nella rubrica dello scorso settembre), nell’Editoriale del numero in parola, sempre firmato da Roberto Menotti e Marta Dassù, come chiave esegetica per spiegare la realtà contemporanea si introduce il paradigma di «nuovi dopoguerra». «Stiamo vivendo due difficili dopoguerra-ammettendo che la battaglia contro il Covid-19 sia sotto controllo e che il ritiro dall’Afghanistan concluda le “forever wars”, le guerre infinite in cui gli Stati Uniti e i loro alleati si sono impegnati con esiti diversi da parecchi decenni a questa parte. C’è un “dopoguerra economico”, che ricorda ad alcuni gli anni Trenta del secolo scorso, mentre ad altri evoca invece i vecchi anni Settanta, con il rischio di pressioni inflattive. E c’è un “dopoguerra geopolitico”, legato almeno in modo simbolico al ritiro americano e della NATO dall’Afghanistan: segno, per alcuni, del progressivo declino occidentale, all’ombra di un’America che, anche con Joe Biden, si concentra a casa e sulla competizione con la Cina e con l’indicazione, per altri, che la coesione fra democrazie liberali continua a scricchiolare, a tutto vantaggio dei regimi autoritari». I «dopoguerra» avvengono in un sistema internazionale che definiamo multipolare, ma che non sappiamo più come governare, precisano gli autori. In entrambi i casi infatti — cioè ripresa economica postpandemia e gestione delle conseguenze del ritiro dall’Afghanistan — c’è l’esigenza, e anche l’opportunità di una «ricostruzione», ossia di uno sforzo creativo per sviluppare idee nuove, con effetti diretti e indiretti delle decisioni che stiamo prendendo, che saranno probabilmente profondi e di lungo periodo. Nella fitta e dettagliata disamina critica che ne segue, due punti rimangono centrali: il dopoguerra economico, basato
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su una rifondazione del capitalismo stesso e il dopoguerra geopolitico, non possono essere disgiunti. Di qui uno sferzante appello all’Unione europea, di cui si stigmatizzano «le divisioni fra Stati nazionali in politica estera; l’assenza di una cultura e di una visione strategica condivise; l’abitudine ormai patologica a delegare la nostra sicurezza; la riluttanza a investire nello strumento militare pensando che basti la potenza civile. Non basta — concludono gli autori — se la dura lezione afghana deve servire, e se l’Europa vuole diventare un attore centrale dei due dopoguerra, deve finalmente capire che ripresa economica e strategia geopolitica vanno combinate. E derivarne scelte conseguenti, non solo parole. Su questo siamo in estremo ritardo». Per quanto attiene poi la crisi ucraina, attualmente in corso mentre si scrive, viene esaminata da Marta Dassù nell’articolo «Il dialogo con Putin non sarà una Yalta 2», apparso sulle colonne del quotidiano La Repubblica del 10 gennaio scorso, laddove si ribadisce che il pacchetto negoziale proposto da Putin (in estrema sintesi, «gli Stati Uniti non stabiliranno basi militari nel territorio degli Stati dell’ex Unione Sovietica che non sono membri della NATO» ed «eviteranno l’adesione di Stati dell’ex Unione Sovietica alla NATO, impedendo una sua ulteriore espansione a est»), non è accettabile né per gli Stati Uniti, né per la NATO, né per gli europei nel loro insieme, «per quanto divisi possano essere sulla gestione del problema Russia». «Putin sembra voler riannodare il filo della storia. Punta al riconoscimento di una sfera di influenza della Russia, con una sorta di Yalta 2, che in qualche modo ripari la sconfitta nella Guerra Fredda, tolga dal tavolo ulteriori allargamenti della NATO (Ucraina e Georgia) e precluda lo spiegamento militare della NATO verso est». Rovesciare l’esito della Guerra Fredda non sarà però possibile, sottolinea l’autrice, per gli Stati Uniti e l’Europa si tratta
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di stabilire un equilibrio tra principi da difendere, inclusa la libertà dei paesi democratici di scegliere le proprie alleanze e l’interesse a evitare nuove guerre alla periferia del vecchio continente. «La prospettiva, quindi, non è la Yalta 2 cui sembra aspirare Putin. Potrebbe essere forse — ma è un grande forse — l’avvio di un dialogo alla Helsinki 2 sulla sicurezza europea [al pari di quello del 1975]. Se i paesi europei si muoveranno in tale direzione ai tavoli internazionali, il loro peso diventerà importante invece che marginale». Sulla strategia del presidente Putin approfondita è l’analisi che ci presenta sulle pagine del bimestrale Foreign Affairs (che quest’anno festeggia i suoi primi cento anni!) Angela Stent-Senior Fellow presso la Brookings Institution, ex ufficiale dell’intelligence statunitense e autrice del libro (2019), nell’articolo «The Putin Doctrine. A Move on Ukraine Has Always Been Part of the Plan», nel quale avanza la tesi che l’attuale crisi tra Russia e Ucraina è una vera e propria «resa dei conti» che è stata portata avanti per trent’anni. «Si tratta di molto più dell’Ucraina e della sua possibile adesione alla NATO. Si tratta del futuro dell’ordine europeo creato dopo il crollo dell’Unione Sovietica». Durante gli anni Novanta dello scorso secolo, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno progettato infatti un’architettura di sicurezza euro-atlantica in cui la Russia non aveva un chiaro impegno o interesse, e da quando il presidente russo Vladimir Putin è salito al potere, la Russia ha sfidato quel sistema. Putin si è regolarmente lamentato del fatto che l’ordine globale ignora le preoccupazioni per la sicurezza della Russia e ha chiesto che l’Occidente riconosca il diritto di Mosca a una sfera di interessi privilegiati nello spazio post-sovietico. Ha organizzato incursioni negli Stati vicini, come la Georgia, che sono usciti dall’orbita della Russia per impedire loro di riorientarsi completamente. Putin ha ora fatto un ulteriore passo avanti con questo approccio, sostiene
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l’autrice, sta minacciando un’invasione dell’Ucraina molto più completa dell’annessione della Crimea e dell’intervento nel Donbass effettuato nel 2014, un’invasione che minerebbe l’ordine attuale e potenzialmente riaffermerebbe la preminenza della Russia in quello che insiste prefigura come il suo posto «legittimo» nel continente europeo e negli affari mondiali (evento che purtroppo, come noto, nonostante gli sforzi della diplomazia occidentale, si è verificato con l’attacco iniziato alle ore 5.45, ora di Mosca del 24 febbraio scorso). Chiamatela pure «la dottrina Putin», suggerisce la Stent, il cui elemento centrale è convincere l’Occidente a trattare la Russia come se fosse l’Unione Sovietica, una potenza da rispettare e temere, con diritti speciali nel suo vicinato, nel suo estero-vicino e una propria voce in ogni seria questione internazionale. La dottrina sostiene che solo pochi Stati dovrebbero avere questo tipo di autorità, insieme alla completa sovranità. Implica la difesa dei regimi autoritari in carica e l’indebolimento delle democrazie. Una dottrina legata invero all’obiettivo generale di Putin: invertire le conseguenze del crollo sovietico, dividere l’alleanza transatlantica e rinegoziare l’accordo geografico che ha posto fine alla Guerra Fredda! Ma la convinzione di fondo di Putin è che l’Occidente abbia ignorato quelli che ritiene «legittimi interessi» della Russia, determinata com’è a riaffermare il suo diritto di limitare le scelte sovrane dei suoi vicini e dei suoi ex-alleati del Patto di Varsavia (in una sorta di riedizione della dottrina brezneviana della «sovranità limitata»), costringendo l’Occidente ad accettare questi limiti, sia con la diplomazia che — appunto — con la forza militare. Gli Stati Uniti, dal canto loro, afferma in conclusione l’autrice, dovrebbero continuare a perseguire con la Russia un dialogo sul doppio binario della diplomazia-deterrenza, cercando di creare un modus vivendi che sia accettabile per entrambe le parti «senza compromettere la sovranità dei
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loro alleati e partner». Allo stesso tempo, dovrebbero continuare a coordinarsi con gli europei — che invero ancora una volta si sono presentati all’appuntamento ucraino sempre più in ordine sparso, espressione tangibile di un’Unione che non riesce a pensarsi se non come potenza economica senza tradurla in potere diplomatico e strategico — per rispondere alla sfida russa e onerosi con pesanti sanzioni alla Russia in caso di uso illegittimo della forza (come puntualmente si è verificato!). Il tutto, mentre si rafforza l’asse sino-russo con la dichiarazione congiunta rilasciata da Putin e Xi Jinping in occasione dell’apertura delle Olimpiadi invernali di Pechino, nella quale si accusa — incredibile dictu — la NATO e i paesi occidentali di «destabilizzare» l’equilibrio internazionale, esprimendo la propria opposizione a un ulteriore allargamento della NATO verso est e invitando l’Alleanza Atlantica ad abbandonare i propri atteggiamenti ideologici da Guerra
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Fredda! Ed è ovvio che quando Xi parla di Ucraina e di NATO pensa in realtà a Taiwan e alla cosiddetta «NATO asiatica», cioè al QUAD (Quadrilateral Security Dialogue) e all’AUKUS (acronimo dei tre paesi firmatari), le due alleanze cioè stipulate tra Washinton con le democrazie asiatiche più Australia e Regno Unito. Uno dei prezzi della crisi ucraina sono infatti i rapporti sempre più stretti tra Mosca e Pechino per contrastare Washington e i suoi alleati su due fronti: l’Atlantico- Mediterraneo e l’Indo-Pacifico, anche se poi di fatto, nella crisi ucraina, Pechino sinora si è mossa con molta cautela. E intanto, come negli anni 50 e 60 del secolo scorso all’epoca di Kruscev, col discorso «incendiario» di Putin del 24 febbraio sulle «conseguenze inimmaginabili» in caso di intervento militare occidentale (al quale ha fatto da accorato pendant quello del presidente ucraino Zelensky) lo spettro dell’uso delle armi nucleari ritorna nel cuore dell’Europa.
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«A Maritime Strategy to Deal with China» USNI PROCEEDINGS, FEBRUARY 2022
La strategia riguarda come mettere a disposizione risorse limitate nello spazio e nel tempo per raggiungere i propri obiettivi contro un possibile concorrente, esordisce con piglio didascalico Thomas G. Mahnken. I suoi elementi essenziali sono la razionalità (l’esistenza di obiettivi politici e un piano per raggiungerli) e l’interazione con un concorrente che cerca, per lo meno, di raggiungere obiettivi diversi. La strategia è sempre «situazionale», nel senso che si sviluppa una strategia contro un particolare avversario. Inoltre, una solida valutazione netta dei relativi punti di forza e di debolezza di un concorrente è fondamentale per qualsiasi strategia di successo. Per il prossimo futuro, lo sviluppo di una strategia per competere con la Cina dovrebbe avere la massima priorità. Qualsiasi strategia per competere con la Cina nel «Pacifico occidentale e oltre» sarà, per definizione, una strategia marittima: le azioni dentro, attraverso e dai mari giocheranno un ruolo centrale. Una strategia che sfrutta la geografia marittima che circonda la Cina, utilizzando una combinazione di forze interne ed esterne al fine di scoraggiare o sconfiggere l’aggressione cinese, è la tesi sostenuta dall’autore, presidente e AD dell’autorevole Center for Strategic and Budgetary Assessments di Washington e membro della National Defense Strategy Commission. Una strategia marittima per la Cina dovrebbe cercare di affrontare i «quattro elementi» del comportamento cinese che sono di maggiore preoccupazione per gli Stati Uniti e i loro alleati. Il primo riguarda l’approccio cinese agli affari esterni, definito «predatorio e corrosivo per gli interessi degli Stati Uniti»; la seconda preoccupazione riguarda l’orientamento geopolitico della Cina che, negli ultimi decenni, ha adottato sempre più un orientamento marittimo, con l’obiettivo di negare la tradizionale forza degli Stati Uniti di proiettare la potenza militare da lontano; la terza preoccupazione, legata alle due precedenti, deriva dalla crescente insoddisfazione della Cina per lo status
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quo internazionale e, infine, un’ultima ruota attorno al sistema politico interno della Cina, il cui Governo autoritario e il disprezzo per i diritti umani e la libertà personale hanno causato tensioni con gli Stati Uniti e i loro alleati nella regione Asia-Pacifico e oltre. Se la strategia deve concentrarsi su un particolare avversario, deve essere anche estremamente attenta alla geografia, tanto più che le principali preoccupazioni territoriali della Cina — Taiwan, il Mar Cinese Meridionale e il Mar Cinese Orientale — sono molto più vicine a Pechino che agli Stati Uniti. Una strategia marittima dovrebbe cercare di sfruttare la geografia a tutto vantaggio degli Stati Uniti, utilizzando la geografia del Pacifico occidentale per limitare l’accesso della Cina agli oceani aperti in tempo di crisi o in guerra. Vista da Pechino, la Prima Catena di Isole limita l’ingresso cinese nel grande Pacifico e nell’Oceano Indiano, attraverso solo una manciata di Stretti e, quindi, proprio la Prima Catena di Isole oggi dovrebbe essere considerata un’area — chiave che gli Stati Uniti devono controllare con una strategia di pressione marittima basata su due elementi che si sostengono a vicenda: forze interne (con l’impiego di una rete di sensori aerei, marittimi e terrestri per aumentare il controllo situazionale) ed esterne (costituite principalmente da Forze aeree e navali, in grado di fornire un elemento flessibile e agile per supportare le suddette forze interne lungo la First Island Chain e sfidare, all’occorrenza, le forze cinesi nei tempi e nei luoghi che saranno ritenuti più opportuni, massimizzando così la propria efficacia e offrendo, in caso di conflitto, una difesa in profondità anche lungo la Seconda Catena di Isole). Questa, in punto di massima generalizzazione, la proposta avanzata dall’autore, articolata in dettaglio in funzione dei vari scenari ventilati. Il dato più importante che l’arti-
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colo pone in risalto è che «Gli Stati Uniti oggi soffrono di un deficit critico nel pensiero strategico sulla sfida più importante dell’era attuale: l’ascesa della Cina e la minaccia che rappresenta per gli interessi degli Stati Uniti nel Pacifico occidentale e oltre — ragion per cui, sostiene l’autore — Affrontare tale deficit è una questione della massima importanza e urgenza».
«L’arte di pensare la guerra» e «Perchè la storia è maestra di vita» LA REPUBBLICA, 5 E 18 GENNAIO 2022
Gianni Riotta, noto giornalista e scrittore, in un incisivo elzeviro richiama l’attenzione del lettore sull’arte di pensare la guerra, «un’arte che, grazie a Dio, gli europei hanno dimenticato da decenni — anche se — per millenni i nostri antenati hanno vissuto coniugando vita, pensieri, politica e tecnologia, sulla guerra, non sulla pace» in un contesto storico in cui «la cultura dei popoli è stata forgiata dal modo di combattere», per dirla con Hans Delbrück nella sua monumentale Storia dell’ arte della guerra nel contesto della storia politica. Dopo un impressionistico excursus storico, l’autore
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continua affermando come «nel XXI secolo ci illudevamo, speravamo, che la guerra fosse diventata tabù del passato», ma purtroppo di fronte all’attualità dobbiamo ammettere che non è così. I venti di guerra in Ucraina, Taiwan e nel Sahel ci costringono a un duro esame di coscienza e purtroppo i nostri figli potrebbero vedersi costretti di nuovo a «pensare la guerra» e non bisogna lasciarli impreparati. Quando chiesero a uno stratega tedesco perché lo Stato Maggiore italiano fosse stato sorpreso a Caporetto nel 1917, rispose «perché non studiano Clausewitz!». Di qui una rapida disamina delle crisi attuali che potrebbero portare a un conflitto, tipo l’inasprirsi dei toni di minaccia di Xi Jinping nei confronti dell’indipendenza di Taiwan, la «provincia ribelle», «Putin (che) sa pensare bene alla guerra, (perché) al Kgb, dove si è formato, era materia di studio. Con gli attacchi in Georgia, Siria, Crimea e Ucraina, ha messo l’Occidente sulla difensiva per 22 anni e sa di avere ora il tempo giusto per il raid contro Kiev (e purtroppo proprio così è stato!) — e infine — nel Sahel, dal Mar Rosso all’Atlantico, lambendo milioni di essere umani, sconvolti dal cambio climatico, emigrazione e
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guerre civili, i combattenti locali vivono la guerra come solo modo di essere». Sebbene abitualmente non ci si pensi, l’Europa non è mai stata così vicina a essere coinvolta in un conflitto. «Budget militari dell’Unione, eserciti, investimenti, tecnologia, sono temi che noi europei ignoriamo a nostro rischio. Se non torneremo a “pensare la guerra” – è la conclusione dell’autore - sarà la guerra a pensare a noi». In occasione poi del 90° anniversario della nascita di Umberto Eco, celebre semiologo e scrittore di successo, alla ripubblicazione di molte delle sue opere da parte di varie case editrici, il quotidiano romano ci ripropone l’intervento a difesa della storia tenuto dallo scrittore alle Nazioni unite nel 2013 in un appello accorato nel contesto culturale attuale. «I mass media sono principalmente interessati al presente. Accade sempre più spesso che in Italia i giovani (inclusi molti studenti universitari), quando interrogati sui fatti che riguardano, la Seconda guerra mondiale, non sanno come definire personaggi storici come Badoglio, Churchill o Roosevelt — o che pensino (come è realmente accaduto) — che Aldo Moro fosse il leader delle Brigate Rosse. O peggio ancora, non sono
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in grado di raccontare qualcosa di preciso su eventi avvenuti dieci anni prima della loro nascita. Purtroppo, una tale perdita di memoria si sta verificando anche nel mondo degli eruditi». Non ignorare la storia ci permette di «non reinventare continuamente l’acqua calda» nella vita quotidiana, nel mondo della cultura e nelle grandi decisioni strategiche. Se Hitler avesse letto qualcosa su Napoleone — ci ricorda Eco — o almeno Guerra e Pace di Tolstoj, avrebbe compreso che è piuttosto difficile per un esercito conquistare Mosca prima dell’arrivo dell’inverno, spingendo così i russi a venire a patti. Parimenti se il presidente Bush jr. avesse letto racconti storici documentati sui tentativi inglesi e russi di vincere una guerra in Afghanistan, avrebbe sospettato che quel paese presenta molte caratteristiche orografiche e sociali che rendono assai difficile sottometterne il territorio. E allora? Il vecchio detto «historia magistra vitae» è molto più serio e attuale di quanto comunemente si pensi, visto che nessuna «civiltà» (nel senso più profondo del termine) può sussistere e sopravvivere senza una memoria collettiva. Ezio Ferrante
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Giancarlo Elia Valori (a cura di)
Intelligenza artificiale tra mito e realtà Motore di sviluppo o pericolo imminente? Rubbettino Editore Soveria Mannelli (CZ) 2021 pp. 207 Euro 17,10
Il professor Giancarlo Elia Valori non ha di certo bisogno di presentazioni alcune (1), essendo egli uno dei grandi protagonisti della geopolitica contemporanea. Il libro è impreziosito da due autorevolissime prefazioni di altrettanti chiarissimi professori universitari come Oliviero Diliberto (2) e Sergio della Pergola (3); mentre una introduzione è stilata da Pasquale Forte (uno dei maggiori esperti, se non forse il massimo esperto, di Intelligenza Artificiale). Al fine di dare contezza al lettore, la struttura della monografia appare suddivisa de facto in tre parti come segue. Una prima parte è costituita da brevi capitoli di natura prettamente storica e come tali introducono alla tematica, partendo dagli esordi dell’informatica fino all’alba dell’Intelligenza Artificiale (in sigla ormai nota come «AI»). Così abbiamo, in sequenza: cosa è l’intelligenza artificiale. Come si è passati dal computer veloce ma «stupido» alle reti neurali (pp. 25-29); storia. Alan Turing e il problema dell’Imitation Game (pp. 31-35); come si sviluppa l’Intelligenza Artificiale nell’ultimo mezzo secolo (pp. 37-41); il Machine Learning può sostituire il cervello umano? (pp. 43-48); l’algoritmo definitivo e il Reverse Engineering (pp. 49-52); il Machine Learning nel gioco dell’imitazione (pp. 5360); il percorso evolutivo dell’Intelligenza Artificiale (pp. 61-67); dall’Intelligenza Artificiale debole all’Intelligenza Artificiale forte. Dal Machine Learning al Deep Learning (pp. 69-75).
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Una seconda parte si incentra su come l’Intelligenza Artificiale sia declinabile nei suoi vari aspetti. L’autore parte da un quadro generale di riferimento (intitolato Lo stato dell’arte. Le principali applicazioni contemporanee dell’intelligenza artificiale, pp. 77-92), per poi scendere nel dettaglio con i capitoli che successivi, quali: l’Intelligenza Artificiale nell’intelligence e nella previsione dei fenomeni sociali e politici (pp. 93-130); la nuova frontiera: il Quantum Computing (pp. 131-138); la geopolitica dell’Intelligenza Artificiale (pp. 139-144); il domani della geopolitica: l’Intelligenza Artificiale e la Cina (pp. 145-160). In breve, questi capitoli illustrano le ricadute geopolitiche dell’AI, con particolare riferimento alla Cina, che si propone di diventare leader nel settore, sfidando così ancora una volta, l’egemonia statunitense nel settore. Segue quindi una terza parte che si potrebbe definire come conclusiva; in essa l’autore afferma apertamente la sua con due «capitoli» intitolati: abbiamo un quadro del presente. E il futuro? (pp. 161-176); dal gioco dell’imitazione al gioco della sostituzione (pp. 177-188). Ma il libro non termina qui; in fatti l’autore offre al lettore tre interessanti «Appendici»: cyberspazio e politica mondiale (pp. 189-194); intelligence e geopolitica del dopo-Afghanistan (pp. 195-200); l’egemonia della conoscenza e il nuovo ordine mondiale. Gli USA e il resto del mondo (pp. 201-206). Quindi il volume termina con una bibliografia (p. 207). Leggendo questa fatica del professor Valori si ha subito l’impressione che questa non sia una semplice monografia su un tema così affascinante, bensì un vero e proprio manuale, il cui merito, è quello di introdurre il lettore — con un linguaggio semplice e accessibile — a temi quanto mai rilevanti e complessi. Ancora una volta Giancarlo Elia Valori colpisce nel segno, anzi nel segno dei tempi, poiché realizza una vera e propria bussola d’orientamento. Parimenti, vi è un sottile fil rouge che sembra legare tutti i capitoli, ovvero la dimensione geopolitica che l’AI sottintende e attua. In poche parole questo libro
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ci fa comprendere come lo «spazio» dell’AI sia oggi al centro degli interessi delle grandi potenze e come questa competizione sia appena iniziata, ma i cui effetti segneranno il futuro dell’umanità senza ombra di dubbio alcuna. Il testo è quindi una sorta di vero e proprio «caleidoscopio» (per riprendere una immagine citata da Oliviero Diliberto nella sua prefazione) che aiuta a comprendere cosa sia l’AI e quali siano gli impatti, le dinamiche e anche i pericoli. Il presente libro esprime un vero e proprio percorso, direi di apprendimento, di informazione, in una parola di conoscenza dello «stato dell’arte». Ma soprattutto è un libro che «svela» il significato etico che l’AI dovrà necessariamente avere. Questa infatti non è più un mito, ma una realtà, seppur in fieri, con cui andremo a confrontarci sempre di più nei prossimi anni (teniamo presente che l’AI è già nella nostra vita, si pensi per esempio al mondo finanziario). Dunque, in merito alla dimensione etica, l’autore osserva che: «Un uomo agisce perché “lo vuole”. Una macchina si attiva, lavora e agisce in funzione di un preciso risultato perché gli viene ordinato» (p. 183). Questo mi sembra l’intimo senso, o meglio il
limite, dell’AI che tutti dovranno tenere presente. Infatti poche righe più avanti l’autore conclude che: « (…) l’intelligenza artificiale è e resterà “al servizio” dell’uomo e non sarà mai una minaccia se usata correttamente dall’uomo. Potremo insegnare a un drone a uccidere un uomo. Ma non saremo mai capaci di insegnargli a provare rimorso o a pentirsi di quello che ha fatto. La differenza è e resterà tutta qui» (p. 186). Giancarlo Elia Valori si conferma, ancora una volta, come un autore con la «A» maiuscola e la Rivista Marittima esprime particolari felicitazioni e rallegramenti per questa sua ultima fatica. Questo è un libro che coglie, ancora una volta, i problemi della contemporaneità ma che guarda al futuro. Un futuro in cui tale tecnologia e scienza sarà sempre più impattante sulle vite di tutti e con essa egli ci ricorda il monito — ovvero il limite — che è e deve essere etico, senza il quale ogni cosa umana (dall’accensione del fuoco all’energia atomica) può diventare elemento distruttivo per l’umanità stessa. Danilo Ceccarelli Morolli
NOTE (1) A titolo di cronaca (e in modo molto succinto), egli è Honorable de l’Academie des Sciences de l’Institut de France; Vice Presidente dell’Istituto Weizmann di Parigi; membro dell’Advisory Board School of Business Administration College of Management di Israele. Parimenti egli è: Cavaliere del Lavoro della Repubblica Italiana e Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine del Merito della Repubblica Italiana; Ufficiale della Legion d’Onore (Francia); Cavaliere di Gran Croce al Merito Melitense (SMOM). (2) Ordinario dell’Università «Sapienza» di Roma, è stato ministro di Grazia e Giustizia (1998-2000); dal 1999, insieme al prof. Sandro Schipani, è stato fautore dell’ingresso del diritto romano nella Repubblica Popolare Cinese; attualmente è anche preside dell’Istituto Italo-Cinese oltre che della facoltà di Giurisprudenza dell’Università «Sapienza», nonché direttore del Corso di alta formazione in diritto romano e diritti dell’antichità (sempre presso la predetta università). (3) Professore emerito di studi sulla popolazione dell’Università Ebraica di Gerusalemme.
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