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Trasmissione straordinaria

LA STORIA DI UNO ZAPPING DECISAMENTE FORTUNATO TRASMISSIONE STRAORDINARIA

di Ronnie dei Miracoli

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Lo zapping, il passare da un canale all’altro senza un punto di arrivo ben preciso, può avere dei risultati impensabili ed esaltanti. E quando questi risultati arrivano a portarti sulla Sarthe in un pomeriggio speciale, la storia nasce da sola.

I mai decretati confini della diversità fra oggi e ieri affiorano limpidi ogni volta che sospiro per guardarmi indietro. Nessuna opinione discutibile, sono netti, decisi, e clamorosamente insindacabili. È la linea rossa che delimita il sapere, e nel farlo dichiara la differenza che passa fra l’essere volutamente dentro la storia e lo Sport per carpirne il momento e le sfaccettature ed il dichiararsi apertamente sconfitto e menefreghista.

Per quello che mi riguarda risiede qui il solco fra il niente che mi appassiona oggi al cospetto della Gara per antonomasia, seppur disputata in tono minore, che ebbi l’opportunità di gustarmi tanti anni fa.

Ho sempre capito poco di segnali tv, parabole e diavolerie annesse. Fu quindi grande la sorpresa quando, una notte del 1994, zappingando furtivo fra una fu Giovannona Coscialunga ed un AAA zitto e ascolta godi in silenzio mi ritrovai a piè pari in una emittente mai vista. Mi ci volle un attimo per capire che si trattava di roba seria, con tutti i crismi del canale ufficiale, altro che Telemotozappa. Non so a cosa fosse dovuta cotanta botta di culo ma quella che inopinatamente appariva sullo schermo era la seconda rete nazionale francese, Antenne 2.

Televisione carina, plurale, ideale per abbeverare il mio opinabile francese e per passare il tempo. Tutto interessante ed al tempo stesso non trascendentale, non fosse che un pomeriggio di un sabato a caso, capitando sul suddetto canale, vidi Lei ed in un attimo nulla fu più come prima.

Era il collegamento, era il via della unica gara che avrei davvero voluto vedere in vita mia dal vivo, era il materializzarsi della causa del sacro pellegrinaggio per ben due volte organizzato e conseguentemente andato a monte. Era la trasmissione, in chiaro, sconcertante, splendida ed inaspettata della 24 ore di Le Mans 1994.

Oggi non si direbbe, ma all’epoca guardare in diretta la Sarthe, perdipiù gratuitamente, era un qualcosa che sfondava le barriere dell’inenarrabile, quindi per un attimo pensai ad un qualcosa tipo telecamera nascosta oppure scherzo del

destino babbeo ed insolente. Niente di tutto ciò: il giudice supremo del mio già provato subconscio fece pari e patta optando per una forma di parziale risarcimento per l’enorme delusione dei mancati sacri viaggi in terra di Gallia.

E dire che pareva una di quelle edizioni destinate a filar dritte nel dimenticatoio, quella. Ma non per cattiveria, quella no, quella mai, la Sarthe non si tocca, è sacra. Però era una edizione particolare, come dire, diversa. Sembrava messa assieme con i più o meno presentabili avanzi degli anni buoni. Vuoi la crisi, la fuga delle Case, la cultura sportiva che certo non abbondava, insomma, tutto remava contro quella edizione che pareva tenuta assieme, proprio come molte vetture presenti al via, col fil di ferro. Toyota eternamente protesa al colpo gobbo, Courage belle ed inconcludenti, ma soprattutto una marea di Gt fra le quali spiccava qualche esercizio di ottimismo applicato a vecchie biposto che a rigor di logica

Qui in alto: la Dauer Porsche 962 vincitrice dell’edizione 1994

sarebbero state buone giusto per essere cannibalizzate dai cacciatori di ricordini.

Il mio interesse volgeva soprattutto su queste ultime, che vedevo come risultato di una specie di sottile tortura mascherata da accanimento terapeutico applicato alla meccanica e che veniva riservato a chi, invece della meritata pensione, si ritrovava ancora una volta nella torrida ed estenuante campagna francese a fare a botte con le ragazze piu giovani ed a buttare fuori fumo quasi fosse stato un vecchio MAN guidato dalla più attempata delle matrone.

Il simbolo supremo di cotanto improvvido esperimento era la Dauer Porsche 962, ossia vettura registrata tramite arzigogoli regolamentari con fiche da GT ma alla prova dei fatti rimasuglio strafatto ed ipercompresso della gloriosa biposto che fu.

Era a loro, alle Courage Porsche ed in minima parte anche alle Toyota che chiedevo di portare a casa il pezzo grosso,

perché tanta era la rabbia verso le strette regolamentari volute dall’innominabile successore del mai abbastanza rimpianto Jean Marie Balestre e che sembravano voler indirizzare il mondo dell’Endurance verso la sagradelpaese style, una roba stucchevole che gia aveva ridotto allo sfacelo sportivo gare gloriose e storiche come Spa o il Nurburgring.

Eppure quella che doveva essere un disastro, un casino, uno schifo totale ed un esempio di cosa non fare per passare il tempo nel forno della piu remota provincia francese apparve ai miei occhi come una esagerata convincente e commovente dimostrazione di stile. Perché ai tempi ci potevano essere le competizioni, più o meno lunghe, più o meno durature, più o meno credibili. Eppoi c’era Lei, Le Mans. Che era gara a sé, campionato a sé, leggiadra, inesorabile ed altezzosa ma al tempo stesso caritatevole e verace, impareggiabile tarlo ed oggetto del desiderio confessato senza pudore alcuno da chiunque avesse mai avuto in testa l’idea di passare la vita a correre in macchina.

Per me, figlio degli anni 70, Le Mans era stata i ritagli di vecchie riviste annegati nel celestino e arancio Gulf, il ricordo di una epoca solo sfiorata e conclusa con Moby Dick e Lancia medesimamente vestite. Le Mans era stata anche l’epopea Porsche Rothmans, Bell, Mass, Pierino e l’ inizio del decennio con il Wankel che beffava tutti.

Le Mans era per me la fatica, il sonno, era quel qualcosa che da queste parti solo io comprendevo, era la foto in camera della A442 ma era anche il ricordo di Lafosse e Gartner. Era la notte, la poesia del baratro di Mulsanne che tutto inghiottiva ed era soprattutto l’alba, simbolo stesso di rinascita, di vittoria, di tempo che si piega alla volontà dell’uomo.

Per me Le Mans era stata, era, e sarebbe stata anche in futuro una entità a sé stante, una gara che, conscia della propria superiorità, se ne fotteva degli anni e dei cambiamenti. Sempre ritta, dignotosa, ruspante eppure immancabilmente snob.

Furono due giorni davvero particolari. Ogni momento era buono per girare canale e gettare il vocabolo oltre il mio je suis Catherine Deneuve per capire quando ci sarebbe stato il prossimo collegamento.

Niente discoteca, niente mussa (!), occhi dolenti, telefono spento, dormire poco, come un meccanico, come un pilota, come un diciassettenne che altro non chiedeva se non quello di inebriarsi del proprio sogno, che ora se ci penso mi strappo un sorriso amaro.

Ah, gia, la gara. Per fortuna la vecchia guardia fece il proprio compito a dovere. La mia diletta, la Courage di Ferte’, Raphanel e Fabre vari fece disperatamente angoscia. Ed allora l’attenzione si sposto’ sulla Toyota Sand di Irvine e Krosnoff, vincente proprio quel tanto che non bastava. Infatti ad una decina di minuti dalla fine cambio orecchiabilmente in vacca e testimone che passa alla piu inipotizzabile dei residuati biologicamente modificati, la Dauer dell’ex figliol prodigo Dalmas, l’inrugginibile Haywood e l’ incompreso Baldi, altro avventore delle piste che mai ebbe il giusto riconoscimento al proprio valore.

Il campo visivo annacquato dal sole torrido, la 36 che si avvicina, esausta, al traguardo. Di bianco intonso non ha più nulla, sembra emanare sudore, fatica. Taglia il traguardo e vince. Lei come me, sfatto sul divano. E grazie ad un segnale provvisorio e provvidenziale, sono anche io finalmente possessore del piu bello dei sogni.

Nella pagina a fianco, in alto: la formazione della Nissan, poi vincitrice di classe con la vettura numero 75. In basso: La Toyota quasi vincittrice.

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