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SPORT E CHIESA: PERDITA DI TEMPO O TEMPO DA NON PERDERE?
from Stadium n. 13/2025
by Stadium
don Alessio Albertini
Assistente Ecclesiastico nazionale CSI dal 2012 al 2023
Un noto imprenditore che produceva scarpe aveva due figli. Un giorno decise di mandarli in Africa a fare una vacanza e per cercare anche delle nuove opportunità di business per far crescere la loro azienda. I figli passarono più di un mese in giro per il continente africano e poi tornarono a casa. Il padre convocò il primo figlio chiedendogli come fosse andata la vacanza e se avesse trovato delle opportunità di business. Egli rispose: «Padre, è impossibile provare a vendere scarpe in Africa, nessuno le comprerebbe perché sono abituati ad andare in giro scalzi». Il padre ci rimase un po' male, ma diede ragione al primo figlio. Successivamente convocò anche il secondo figlio e gli pose la stessa domanda. Questi rispose: «Padre, vendere scarpe in Africa sarà facilissimo. Pensa che vanno tutti in giro scalzi, quindi potremo vendere le nostre scarpe a tutti!». In entrambi i casi ciò che ha determinato la scelta è stata l’interpretazione della realtà: “non ne vale la pena” o “grande opportunità”. Questo dilemma mi ha sempre accompagnato nel mio ministero, fin dai primi anni di giovane sacerdote in oratorio, ma ancor di più negli 11 anni che ho trascorso, come Consulente prima e poi Assistente Ecclesiastico nazionale, nella grande famiglia del Centro Sportivo Italiano. Lo sport per la Chiesa è una perdita di tempo o un tempo da non perdere?
Lo sport è di casa nella Chiesa
L’inizio del mio servizio nel CSI è coinciso con l’arrivo di Papa Francesco, che fin dagli esordi del suo pontificato ha invitato a valutare la salute di una parrocchia non semplicemente contando il numero di quelli che la frequentano ma dalla sua disponibilità ad uscire e incamminarsi incontro alla gente per portare il Vangelo, la buona notizia, la potenza di Dio, perché «la gioia del Vangelo è per tutto il popolo, non può escludere nessuno… Tutti hanno il diritto di ricevere il Vangelo». Missione, apertura, accoglienza sono stati temi ricorrenti nella pastorale recente. Disponibilità ad andare verso le “periferie esistenziali”, un impegno che ha smosso tutti quanti, soprattutto le aggregazioni giovanili nelle forme più svariate, “associazioni e movimenti”, che hanno trasformato quest’ansia missionaria in scelte concrete. Tra queste, non dobbiamo trascurare le associazioni sportive impegnate a promuovere l’attività sportiva, soprattutto in parrocchia, dove i ragazzi vivono le prime tensioni sportive ma anche dove è offerta un’opportunità di incontro e formazione per atleti, dirigenti, allenatori e arbitri. Per questa ragione, Papa Francesco ha voluto affermare che «lo sport è di casa nella Chiesa» e ribadire davanti all’intero popolo del CSI radunato in Piazza San Pietro per celebrare i suoi 70 anni di vita: «È bello quando in parrocchia c’è il gruppo sportivo, e, se non c’è un gruppo sportivo, in parrocchia manca qualcosa».
Un sano realismo
Bisogna riconoscere che oggi molte parrocchie sono più propense ad ospitare nei loro ambienti l’attività sportiva piuttosto che a promuoverla. Non essendo una diretta proposta di fede, quella sportiva viene vista da qualcuno come una semplice proposta “ricreativa” che intervalla le proposte serie della vita parrocchiale. È tollerata purché non abbia la pretesa di diventare un’attività pastorale.
Di conseguenza molte società sportive, aumentate di numero e rinchiuse nel loro recinto di allenamenti e partite, si sono avventurate in solitudine su un sentiero che era buono da principio ma che ora porta ad una certa autoreferenzialità, sottomettendosi alle leggi del mercato dello sport, smarrendo l’ideale educativo dell’ambiente in cui abita. Per l’attrattiva che esercita sui ragazzi, per gli spazi e i tempi che occupa, in più di un’occasione l’attività sportiva apre un confronto impari con le altre proposte parrocchiali. Al di là di uno scontro aperto tra società sportiva e parrocchia, il rischio è anche quello di vivere da separati in casa, ignorandosi reciprocamente o riconoscendosi come una “palla al piede” piuttosto che una risorsa. Due mondi distinti che non comunicano se non per lamentarsi: o perché lasciati soli e non sostenuti nella propria attività sportiva; o rimproverati di pensare solo all’attività sportiva distraendo i ragazzi dalle attività della parrocchia.
Per una vera scelta pastorale
Insieme alle fatiche ed alcuni conflitti, ogni momento critico porta insieme anche delle opportunità. Non esistono ricette preconfezionate per risolvere il problema, ma uomini e donne che possono ritrovarsi per prendere piena coscienza che non basta promuovere o sospendere l’attività sportiva per avere la soluzione. È necessario ripensare quale rapporto specifico sussiste tra la proposta della nostra società sportiva e l’attività della parrocchia.
Per fare questo è fondamentale, anzitutto, sgomberare la mente dal credere che è possibile gestire in parrocchia lo sport di oggi come quarant’anni fa. È cambiata la parrocchia, è cambiato lo sport, è cambiata la società, sono cambiate le famiglie, sono cambiati i ragazzi e i loro bisogni.
Allo stesso modo, però, è necessario riconoscere che non perché un’attività sportiva è proposta negli ambienti parrocchiali allora di per sé è educativa. È indispensabile anche un gruppo di persone che abbia la volontà di educare. Il rapporto parrocchia-sport richiede il coraggio di superare un certo pregiudizio per riflettere insieme e sentirsi corresponsabili della costituzione di un gruppo sportivo in parrocchia.
Esplicitare l’implicito
Nella mia esperienza ho trovato coraggiose due domande. La prima è “perché facciamo sport in parrocchia?”. Spesso la programmazione delle attività sportive si riduce a questioni organizzative (cosa? come?) dimenticando la domanda sulla finalità: perché?
Nelle società sportive come in parrocchia si è lentamente insinuata una trasposizione di mete: proprio la gestione delle cose da fare ha inglobato, disinnescandola, l’attenzione ai valori finali. Si stabilisce che bisogna proporre un’attività sportiva, ma sul perché lo facciamo, sullo stile e sul metodo si dice pochissimo. Lo si dà per scontato, rimane implicito.
È importante, secondo una bella espressione del Cardinal Martini, “esplicitare l’implicito”, cioè riscoprire i motivi profondi del nostro agire educativo. E poi una seconda domanda: “chi propone l’attività sportiva in parrocchia?”. Anche qui sembra scontata la risposta: la società sportiva.
In questo modo però potrebbe essere vista come un’attività attuabile da chiunque e da qualsiasi agenzia formativa senza il bisogno della parrocchia. Il valore della proposta sportiva, invece, deve stare nel fatto di essere pensata, voluta e desiderata dalla parrocchia come espressione del suo interesse per i ragazzi e la loro crescita. L’attuazione di questa vicinanza è affidata alla società sportiva, che si trova allora ad essere al servizio dei ragazzi per un preciso mandato della comunità parrocchiale. Di conseguenza questo comporta per la società sportiva una fedeltà allo sport: per svolgerlo con competenza, preparazione, consapevolezza e passione e per offrire una proposta valida e qualificata. La proposta sportiva, anche in parrocchia, per essere fatta bene deve essere fedele agli obiettivi, alle regole, ai tempi propri dello sport. Però è richiesta anche una fedeltà alla parrocchia: ai suoi valori, alla sua visione dell’uomo e del mondo per contribuire a far crescere un ragazzo. Una fedeltà che non può essere data solo dalle circostanze o dall’interesse, ma da un’autentica convinzione personale.
Persona al centro, vittoria assicurata
Le società sportive che si sono sentite a casa nella Chiesa sono quelle che hanno raccolto questa sfida e hanno cercato di trasformare la semplice affermazione “lo sport è educativo” in occasione reale per far crescere una persona e prepararla alla vita. Anzitutto chiedendo allo sport di scendere dal piedistallo dell’autoreferenzialità, che lo porta a considerarsi un idolo, una ragione di vita, per offrirsi invece come promotore della totalità dell’esistenza. Lo stesso impegno che spinge a lottare nello sport deve essere d’aiuto per la vita personale, per la fatica quotidiana. Quando l’attività sportiva si presenta come l’assoluto, i rischi sono sempre in agguato, soprattutto quello di ridurre l’atleta, ma anche l’appassionato, ad un semplice ingranaggio del meccanismo, disumanizzandolo e perdendo così il valore educativo che porta con sé, cioè quello di umanizzare o, per usare le parole di Papa Francesco, «rendere la persona migliore». Da sempre il CSI crede che «lo sport è per l’uomo e non l’uomo per lo sport»: deve servire al suo sviluppo. Il risultato, la vittoria, il prestigio della società, la gratificazione personale vengono dopo. Lo sport è al servizio della persona e non viceversa.

Don Alessio Albertini
Assistente Ecclesiastico Nazionale CSI dal 2012 al 2023.