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Camminare, un progetto per la città futura
di Rosario Pavia
Abbiamo perso da tempo il senso del camminare. L’attraversamento della città e del territorio è diventato un atto meccanico, passivo, banale, ma nello stesso tempo reso difficile da ostacoli e divieti, oppresso dalla congestione automobilistica, morti cato da un paesaggio ostile e anonimo. Riportare il camminare al centro delle politiche urbane sarebbe un atto rivoluzionario che rimetterebbe in discussione il modo stesso di fare e gestire i piani urbanistici, da tempo conformati dalla mobilità automobilistica 1 . Estendere lo spazio pubblico e la rete dei percorsi pedonali, renderebbe le città più sane, più vivibili, più coese socialmente. Camminare in sicurezza per raggiungere i nodi del trasporto pubblico, ma anche i servizi di quartiere, a partire da quelli sanitari e dalle scuole; camminare per raggiungere i beni comuni come i parchi, per conoscere la città con i suoi patrimoni di architetture e di storie; camminare per incontrarsi, confrontarsi, non essere soli. Obiettivi non facili, ma perseguibili attraverso un progetto politico e culturale in grado di coinvolgere la cittadinanza e mobilitare risorse e investimenti speci ci. Il progetto parte dal basso, dal suolo della città, dalle reti della pedonabilità per inserirsi con determinazione nel sistema della mobilità urbana. Non è un progetto riduttivo, al contrario porta con sé un’idea di città, in cui realizzare un rapporto più consapevole tra comunità e contesto urbano. Una città più umana ed ecologica che si fa carico della crisi climatica (come di quella sanitaria) e si organizza per contenere i consumi energetici, le emissioni di gas nocivi, che resiste e si adatta al cambiamento. Ri ettere sul camminare ci porta a riper-
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1 Questo articolo fa riferimento e sviluppa le ri essioni presenti nei miei libri: Rosario Pavia, Babele, La città della dispersione , Meltemi, Roma 2002; Rosario Pavia , Il passo della città. Temi per la città futura , Donzelli, Roma 2015; Rosario Pavia, Tra suolo e clima. La terra come infrastruttura ambientale, Donzelli Roma 2019.
Walking, a project for the future city
by Rosario Pavia
The growing attention to the role of pedestrian routes in the mobility system and to the notion of proximity in urban regeneration projects (see the 15-minute city), requires consideration of the meaning that walking has had on the construction of cities and our perception of space. We have long lost our sense of walking. Traveling across the city and the territory has become a mechanical, passive, routine act, made more difficult by obstacles and restrictions, oppressed by traffic congestion, morti ed by a hostile, anonymous landscape. To bring walking back to the centre of urban policies would be a revolutionary act that would challenge the way city plans are developed and managed, as they have long been conditioned by automobile mobility.
Extending public space and the network of pedestrian routes would make cities healthier, more liveable and socially cohesive. Walking safely to reach public transport nodes, as well as neighbourhood services; walking to reach public commons such as parks, to get to know the city: these are not easy goals, but they can be pursued with a political and cultural project that can involve citizens and mobilise resources and speci c investments. The article ends with a reference to an ongoing experience in Rome in recent years, in which several citizens’ associations have organized a series of walks around the walls of Rome.
correre una storia che affonda le sue radici in un passato profondo e ci accompagna lungo tutto lo sviluppo delle città che, ricordiamolo, venivano attraversate e misurate dai nostri passi. Una storia che si interrompe solo agli inizi del XX secolo. Riportare l’attenzione sulla centralità del camminare ci consentirà di delineare un progetto culturale e operativo per la città di domani.
Origini nomadi
Camminando percepiamo lo spazio, lo misuriamo, lo assimiliamo. È così da un tempo immemorabile. L’atto del camminare ci riporta alle origini, ai primi passi dei nostri lontani progenitori, quando con fatica si elevarono in posizione eretta e camminando poterono osservare lo spazio delle savane africane. Le prime tracce di una camminata, impresse su un suolo di cenere e fango, risalgono a 3,7 milioni di anni. Sono di due ominidi, pro- babilmente una femmina e un bambino, in fuga per l’eruzione di un vulcano. Le tracce furono rinvenute da antropologi in missione in Etiopia che chiamarono la femmina in fuga amichevolmente Lucy (da Lucy in the sky with diamonds , la canzone dei Beatles che ascoltavano più frequentemente durante il lavoro di scavo). Molto di più della continuità genetica, sono proprio quei passi pietri cati a farci sentire il legame con queste prime specie umane. Il camminare è uno dei nostri caratteri distintivi.
Camminare, osservare, pensare, comunicare; in questo processo c’è tutta la storia dell’umanità, da quella più profonda e naturale (la pre-preistoria che procede con il tempo geologico) a quella più recente degli ultimi millenni quando si affermano i sistemi insediativi stanziali. C’è un nesso tra il cammino e il pensiero su cui dobbiamo tornare a ri ettere, poiché questo rapporto, che rende possibile la nostra percezione dello spazio, si è oggi fortemente banalizzato. Siamo strutturalmente e antropologicamente dei camminatori.
Dall’Africa centro-orientale, la specie umana nelle sue complesse articolazioni si è diffusa, nell’arco di centinaia di migliaia di anni, ovunque. Attraverso continue diaspore, ritmate dal tempo geologico, gruppi di camminatori hanno esplorato e colonizzato il pianeta. In questo tempo lungo, il camminare e le nostre capacità adattative si sono depositati nel nostro Dna.
Fu l’Homo Sapiens, comparso in Africa circa 200.000 anni fa, a compiere le ultime grandi migrazioni raggiungendo 60.000, 40.000 anni fa anche l’Australia e circa 12.000 anni addietro l’America del Nord da cui scesero no all’estremo Sud dell’attuale America Latina.
C’è qualcosa di stupefacente e di mitico in questo viaggio, in questo migrare e percorrere territori prima sconosciuti e poi fatti propri attraverso un reticolo di sentieri, di strade, di nodi d’intersezione. Camminare e riconoscere i luoghi, segnarli, ricordarli, raccontarli. Sono questi primi camminatori, come ci ha ricordato Bruce Chatwin, a scoprire il paesaggio?
Legati a terra
Siamo strutturalmente dei pedoni, ma abbiamo dimenticato il nostro rapporto con il terreno, con il suolo che ogni giorno calpestiamo. A pensare che il termine pedone deriva dal greco pedon, che signi ca appunto suolo.
Siamo ancora capaci percepire il nostro peso, la forza di gravità che ci spinge in basso e ci lega al suolo? I nostri corpi si muovono automaticamente con indifferenza, abbiamo perso il legame che univa i nostri passi alla mente e al terreno, eppure tra un passo e l’altro si realizza un processo decisivo: il nostro appoggio si riduce, una gamba avanza sospesa, mentre l’altra scarica a terra il peso del corpo. Non cadiamo perché il baricentro attraverso cui passa la risultante dei pesi delle varie parti del corpo si sposta ritmicamente entro la base di appoggio. Il nostro è un equilibrio dinamico: nel movimento il corpo insegue il suo baricentro, la forza muscolare reagisce a quella gravitazionale, i pesi si distribuiscono in modo equilibrato e vengono scaricati a terra attraverso il piede. A terra il piede reagisce alla conformazione del suolo, sente la forza di gravità e l’attrito del contatto. Il corpo misura sensorialmente il movimento nello spazio. Ma c’è di più, nella postura eretta, l’asse corporeo, allineandosi con quello di gravità, stabilisce una ripartizione simmetrica di pesi e di parti. Si realizza così una stabilità statica, provvisoria perché è il movimento la nostra condizione di vita. Probabilmente l’espressione «sentirsi centrati» deve molto alle relazioni tra corpo e gravità; sono queste del resto a sostanziare il rapporto tra architettura e corpo umano. Le leggi statiche del corpo sono per Leon Battista Alberti le stesse dell’architettura. Anche Le Corbusier ce lo ricorda: il suo Poème de l’angle droit nasce proprio da questa gura originaria, dall’intersezione dell’asse corporeo con l’orizzontalità del suolo
Il passus romano
A lungo le città sono state misurate dal passo dei loro cittadini; la conformazione urbana si adeguava al sito e al movimento degli abitanti. Il passo, del resto, era l’unità di misura dei Romani: il passus misurava 148 cm e corrispondeva in realtà a un passo doppio, ovvero a 5 piedi di 29,5 centimetri. Il riferimento costante al corpo umano come misura per il controllo dello spazio lo ritroviamo in tutte le culture antiche e resiste ancora oggi nel mondo anglosassone. L’espressione «città a misura d’uomo» ha proprio nel passo la sua ragione originaria. La dimensione spaziale delle città era legata a distanze percorribili a piedi, attraverso strade che contenevano spesso tratti scalinati (in questo caso l’unità di misura romana torna utile al nostro discorso: il gradus infatti indicava sia il passo semplice sia il gradino, vale a dire che nel passus erano già comprese l’alzata e la pedata). Con il passus i Romani hanno misurato l’intero territorio, da quello urbano, organizzato per insulae , a quello rurale strutturato dalla centuriazione (il lato della griglia quadrata era pari a 480 passi, 710,40 metri). Questo forte legame tra la forma, la vita della città e la misura del passo si è mantenuto no a ieri. Solo nel corso del secolo passato, l’avanzata inarrestabile delle auto e del trasporto veloce ha trasformato la struttura delle città introducendo nuovi comportamenti e nuove modalità di percezione. Da fattore centrale dell’organizzazione urbana, il muoversi a piedi è divenuto una modalità residua, marginale. Il processo è stato rapido e accolto con indifferenza. Come siamo arrivati a questo radicale mutamento?
Misurare lo spazio
Nel passato, nelle piccole città come nelle grandi ci si muoveva fondamentalmente a piedi: camminando la città veniva assimilata, compresa, misurata nelle sue dimensioni, nelle sue distanze, nei suoi tempi di percorrenza.
Nell’antichità solo Roma e Alessandria d’Egitto raggiunsero dimensioni di metropoli. A Roma le Mura Aureliane si sviluppavano per circa 19 chilometri. Dal Foro, collocato al centro, le porte della città erano distanti mediamente 2,5 chilometri: tale era la lunghezza della via Lata no alla Porta Flaminia. Sul suo tracciato si è sovrapposto l’attuale Corso, oggi in gran parte pedonale. Le città antiche, occorre ricordarlo, erano decisamente piccole. Priene e Mileto, entrambe con un impianto ippodameo, avevano gli assi stradali principali rispettivamente di 1 e 2 chilometri. Solo Atene raggiunse dimensioni consistenti inglobando nel suo territorio il porto del Pireo. La popolazione era probabilmente superiore a 100.000 abitanti, ma questo doveva destare timore e preoccupazione se Aristotele consigliava città non più grandi di 10.000 abitanti e Platone ssava il loro limite a 5.000 cittadini. Portici e marciapiedi quali cavano le strade e le piazze più importanti della città antica. Le strade, come il teatro, comunicavano il senso di un’appartenenza e i valori della comunità.La Grecia ela romanitàpredisposero un repertorio di spazi pubblici di riferimento per i secoli successivi. Nelle città medievali europee le strade e le piazze in connessione con gli edi ci monumentali continuarono a svolgere un ruolo di rappresentazione e di identi cazione sociale. È nel Rinascimento, con l’invenzione della prospettiva, che la misura dello spazio trovò una sua rappresentazione simbolica. Lo spazio veniva ora misurato non solo dai passi, ma da uno sguardo che riduceva la realtà a geometria. Lo sguardo prospettico misurava la profondità dello spazio, coglieva la distanza degli edi ci, ne assimilava le dimensioni. C’era una perfetta corrispondenza tra le dimensioni contenute delle città e la lunghezza degli assi stradali prospettici realizzati in quel periodo: si pensi a alla via Nova di Genova (oggi via Garibaldi) lunga solo 250 metri, o a via Giulia a Roma di circa 900 metri. La profondità di questi assi era organica al meccanismo della prospettiva centrale, la loro dimensione era, per così dire, l’unità di misura dell’intera città. La città europea del classicismo con la sua strumentazione tecnica e la sua cultura visiva entrò in crisi nel corso del XVII e XVIII secolo. A Parigi e a Londra la gestione della città era fuori controllo, per la continua crescita della popolazione, il disordine edilizio, la mancanza d’igiene, la con ittualità sociale. Le soluzioni, sul piano estetico, furono ricercate fuori, nello spazio vuoto dei giardini, in continuità con la natura vista come salvezza e forza riparatrice. A Parigi il nuovo modello urbano fu sperimentato a Versailles. La sua ampiezza (l’asse lungo del Grand Canal si sviluppa per oltre 3 chilometri partendo dalla reggia), la sua articolazione secondo schemi geometrici, le prospettive lunghissime, che sembrano inseguire lo spazio aperto e in nito, alludono a una città diversa, ordinata geometricamente, in grado di ampliarsi con continuità e varietà. Nel giardino all’inglese, invece, i con ni, le barriere erano nascosti in avvallamenti progettati con cura in modo che lo sguardo potesse spingersi oltre, perdersi in una spazialità in nita. In questi nuovi spazi i percorsi non sono assiali ma sinuosi, irregolari, le viste cambiano continuamente, ci si muove in un contesto frammentario, unicato all’improvviso da vedute d’insieme. Per avere la misura di questi nuovi spazi non c’è altro modo che percorrerli. Il percorso, come il camminare, diviene un’esperienza estetica, un godimento dello spirito, ma anche del corpo. Sia i parchi del classicismo francese che i giardini all’inglese aprono a una nuova sensibilità dello spazio, la loro vastità anticipa la nuova dimensione della città moderna, i loro strumenti di controllo saranno ripresi e adattati alla nuova scala degli interventi urbanistici.
2 e 3 - Progetto “Intorno alle mura di Roma”, area Gianicolo (in alto) e area Porta Metronia (in basso). (foto di Roberto Corradini).
La città come racconto
L’in uenza della cultura paesaggistica del Settecento sull’urbanistica moderna va oltre la formazione di città nuove come Washington e San Pietroburgo: incide, infatti, sulla trasformazione delle grandi città europee a partire da Parigi. Con Haussmann Parigi viene trasformata radicalmente: i grandi boulevard tagliano il denso tessuto edilizio esistente e proiettano la città verso l’esterno. Gli assi rettilinei, nonostante l’impiego di fondali monumentali come l’Opéra, l’Arco di Trionfo o le stazioni ferroviarie sono troppo lunghi, per una visione prospettica in grado di misurare le distanze e percepire il disegno delle architetture (i Boulevard Saint-Germain e Montparnasse sono lunghi più di 2 chilometri). Nello spazio dei bou- levard, tutto è sfumato, la città diventa sequenza, successione di edi ci; i lari alberati sottolineano la direzione e danno continuità al percorso. La strada diviene lo sfondo della vita e dei romanzi della commedia umana. Tutto è nuovo, in movimento, la folla si riversa nelle strade, attraversa la città e, a differenza del passato, ora le classi sociali possono confrontarsi, osservarsi, affrontarsi. La strada diventa il luogo della differenza e della varietà. È questo nuovo spettacolo fatto di colori, atmosfere, suoni, ussi, di merci esposte nelle vetrine, di caffè debordanti sui larghi marciapiedi che attrae lo sguardo dei pittori impressionisti e sprigiona la curiosità del âneur (Balzac de nisce nella Fisiologia del matrimonio la ânerie come la «gastronomia dell’occhio»). Un tale spettacolo per la sua frammentarietà non può essere che ricomposto a posteriori, in tal senso la città assume una dimensione narrativa. La città moderna si dispiega come un grande racconto.
Attraversare la città
Attraversare la città camminando è oggi difficile, rischioso, ostacoli di ogni tipo ne ostacolano il percorso: dalla congestione automobilistica, all’inquinamento acustico e dell’aria, allo spazio ridotto dei marciapiedi, alla sosta incontrollata delle auto, al posizionamento irrazionale dei cassonetti per la raccolta dell’immondizia, mentre una edilizia mediocre e un paesaggio urbano anonimo e senza qualità sottraggono al camminare, ogni interesse ed esperienza creativa. La città contemporanea è sempre più un intreccio di reti che si sovrappongono e si contraddicono, un labirinto in cui è difficile orientarsi, in cui le reti pedonali sono marginali, discontinue, spesso ridotte a percorsi obbligati nelle aree turistiche dei centri urbani o nel chiuso dei recinti commerciali e dei parchi a tema.
Camminare non è più un’attività quotidiana, integrata al ritmo della vita, ma un’esperienza occasionale, ossessivamente raccomandata dai medici per la salute della persona (i 10.000 passi, ovvero circa 7 km), oppure un impegno sportivo da consumare su un tapis roulant o in un parco. Un nuovo igienismo sembra voglia prendersi cura della città., ma mentre all’inizio della città moderna la medicina e l’ingegneria igienista erano fortemente integrate all’architettura e all’urbanistica e insieme si proponevano nuovi modelli urbani e nuove infrastrutture, oggi assistiamo a una frammentazione disciplinare, da cui non emerge nessuna idea di città e nessuna cura.
Forse è giunto il momento di porre la questione del camminare e dello spazio pubblico in termini nuovi, legandola al tema della sostenibilità ambientale e a una nozione di territorio come sistema di reti. È quello che si sta promuovendo in alcune città europee, come ad Amburgo dove si è piani cato che tutta la città debba essere attraversabile pedonalmente entro il 2030. Come a Parigi dove la sindaca Anne Hidalgo ha lanciato il progetto La ville du quart d’heure con l’obiettivo di rendere accessibili pedonalmente e in bicicletta i servizi di ogni ambito urbano. Come a Barcellona dove il nuovo piano urbano della mobilità sta sperimentando, nel tessuto edilizio delle manzanas , un’organizzazione spaziale fondendo nove blocchi in una unica supermanzana (in modo da lasciare il traffico automobilistico sul perimetro esterno, e ricavare, all’interno, maggiore spazio pubblico, percorsi pedonali e ciclabili in un cluster riservato alla mobilità sostenibile)
Ovunque nel mondo da Curitiba, a Manhattan, a Milano si affermano i movimenti che occupano porzioni di spazio urbano sottraendolo alle arterie stradali per restituirlo alla cittadinanza. Sono azioni che partono dal basso, da movimenti come geen guerrilla, depaving movement, tactical urbanism Tattiche urbane, non ancora strategie, ma il messaggio è chiaro: esiste un grande domanda per una città più verde, più sana, con più spazio pubblico. Una città dove si possa camminare in sicurezza lungo percorsi protetti. La richiesta è pressante e viene anche dalle nuove condizioni di vita imposte dalla pandemia del Covid 19. Il distanziamento ci porta a privilegiare gli spazi esterni, ad ampliare gli spazi pubblici e i marciapiedi, a moltiplicare le piste ciclabili e i percorsi pedonali, a scoprirne di nuovi, come a Roma dove le banchine del Tevere sono divenute grandi vie per i pedoni che possono camminare insieme, alla giusta distanza, lontano dal traffico, in un ambiente straordinario da restituire alla città. Occorre riscattare la distanza imposta dal Covid 19 e rendere chi cammina partecipe di una comunità e di un progetto.
Lo spazio pubblico va ripensato nel profondo e in modo nuovo, non solo come luogo di qualità per l’incontro sociale, ma come rete importante del sistema urbano della mobilità, come infrastruttura che contribuisce all’equilibrio ambientale di un mondo sempre più urbanizzato e a rischio.
Lo spazio pubblico, come rete del camminare, ha il compito di restituire alla città il senso della misura, della narrazione , della scoperta. Riportare i percorsi pedonali al centro dell’organizzazione della città è un atto ordinario e rivoluzionario insieme. Rivoluzionario perché implica un modo diverso di intendere la piani cazione urbana. È ordinario perché costringe il progetto a misurarsi con un’attività quotidiana di base, che ha a che fare con la vita, il corpo, i sensi. L’ordinarietà in questo caso ha le radici profonde di una umanità che ha trovato nel passo e nella libertà di movimento nello spazio la sua identità, le sue origini, ma anche il suo futuro. È questo legame tra passato e futuro che fa del camminare un atto etico e progettuale. L’uomo che cammina in un ambiente che cambia è un delicato sensore che reagisce ai mutamenti del clima, agli effetti dell’inquinamento, del suolo, dell’aria, delle acque. Nell’atto del camminare insiste un progetto di resilienza e di ricerca di condizioni migliori di vita. In fondo i percorsi pedonali sono i corridoi ecologici per la specie umana e la sua biodiversità.
A piedi nella città futura
In un’intervista del 1976, alla domanda come immaginasse la città del futuro, Italo Calvino rispose: “mi piacerebbe una città in cui si potesse andare in bicicletta. La città del futuro dovrebbe ritrovare la pluralità dei mezzi di trasporto sia collettivi che individuali, su percorsi diversi, magari a diverse altezze: vie per pedoni, per ciclisti, per auto, per camion, vie uviali per battelli”. La città sognata da Calvino assomiglia a Venezia, nella quale la circolazione motorizzata avviene nei canali e dove ci si può muovere a piedi:“sono sempre contento quando in una città trovo un posto dove ci sono marciapiedi sopraelevati, con le ringhiere”. Calvino sapeva bene già allora che era difficile muoversi a piedi, che il vero problema delle città non era tanto la mobilità quanto l’accessibilità. “Una città più è grande più offre occasioni di cose da vedere e da fare (… ) quando tutto diventa faticoso si comincia a lasciar perdere, a trascurare gli spettacoli, a vedere sempre meno gli amici. Così si nisce per starsene il più possibile chiusi in casa come faccio io” 2 . Per Calvino la città del futuro doveva ritornare ad essere lo spazio del camminare, dell’incontro, della visibilità.
Forse dovremo ripartire dai marciapiedi.
Il progetto Intorno alle mura di Roma
Le mura Aureliane rappresentano un patrimonio storico culturale unico, eppure versano in uno stato di abbandono e di degrado. La cinta muraria, nonostante la sua potenza, è un patrimonio inerte che non si è integrato al sistema urbano, non è diventato un’infrastruttura per la riquali cazione della città, né una vera risorsa per i cittadini e i turisti.
L’associazione Mura Latine, l’INARCH Lazio e il Dipartimento di Architettura e Progetto della Sapienza hanno avviato un programma di ricerche e di iniziative per la riscoperta delle potenzialità delle mura e la promozione di un parco urbano e di un itinerario pedonale lungo il suo perimetro, riprendendo le proposte e le indicazioni dell’ambito di programmazione strategica Mura individuato dal Piano Regolatore urbanistico di Roma approvato nel 2008 e mai attuato.
Il programma Intorno alle mura di Roma ha riportato l’attenzione della cittadinanza, delle istituzioni, degli operatori pubblici e privati su una risorsa straordinaria, che va riscoperta come bene comune e riproposta come grande progetto urbano capace di interpretare e riquali care le relazioni tra il centro città e la sua prima espansione. L’iniziativa “camminare intorno alle mura Aureliane” ha coinvolto oltre 2.000 cittadini che tra il 2018 e il 2022 hanno seguito con partecipazione le comunicazioni e i commenti di archeologi, urbanisti, storici dell’arte, botanici e sociologi che guidavano le camminate e a turno si passavano la parola. Lungo il percorso numerosi sono stati gli interventi di associazioni, di residenti, di rappresentanti dei municipi attraversati.
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