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Le mille strade

Le mille strade

transiti, abbandoni, riappropriazioni di Fabrizio Violante

Ne L’invenzione del quotidiano (1980), Michel De Certau racconta la sensazione provata di fronte alla vista su Manhattan dall’alto del World Trade Center: “È un’ondata di linee verticali. Un’agitazione che si arresta, per un attimo, al nostro sguardo”. Una visione che incanta. Fin dove il suo sguardo può spaziare sul territorio urbano, “lo spettatore può leggervi un universo che si alza nell’aria”. Eppure da questa prospettiva, da questa lontananza che permette di abbracciare l’immensità dell’estensione metropolitana, si nisce per “sottrarsi alla presa della città”, per estraniarsi dal brulicante “intreccio dei comportamenti quotidiani” che de niscono la sua identità. Perché è in basso , nella strada, che le storie dell’umanità cittadina hanno luogo . “C’è solo la strada / su cui puoi contare / la strada è l’unica salvezza / c’è solo la voglia e il bisogno di uscire / di esporsi nella strada e nella piazza”, cantava infatti Giorgio Gaber in uno dei suoi indimenticati spettacoli di teatro canzone scritti con Sandro Luporini, perché “bisogna ritornare nella strada / nella strada per conoscere chi siamo / [...] e anche nelle case più spaziose / non c’è spazio per veri che e confronti”. Sì, c’è solo la strada. È solo qui, nello spazio pubblico, che possiamo ritrovare il confronto con l’altro, il senso dell’agire collettivo.

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La strada evidentemente non può essere intesa solo come mera infrastruttura, ma è soprattutto espressione e simbolo morfologico-memoriale della storia della città ed elemento che la in uenza in modo determinante. È nella strada che si comprende il vero rapporto tra forma e vita della città. È proprio vagando e divagando lungo percorsi casuali o imprevedibili nel tessuto viario, che possiamo vivere l’esperienza più autentica della dimensione urbana: solo prendendo parte a quello che la scrittrice e attivista Jane Jacobs, nel suo celebre saggio Vita e morte delle grandi città (1961), de nisce “il balletto del marciapiede” possiamo cogliere l’espressione spontanea delle comunità che popolano

Flâneries in lm: transiting, leaving, reclaiming by Fabrizio

Violante

The street may obviously not be considered merely as an infrastructure, it is above all the expression and morphological-memorial symbol of the history of the city and an element that signi cantly in uences it. The street reveals the true relationship between the form and the life of the city. Flânerie , wandering with no precise destination, in no hurry, moved only by the desire to experience the life, the lives of the metropolis, is an aesthetic and emotional experience typical of modernity, and for this reason often documented in cinema, the modern art par excellence. The urban exploration of the distracted, anxious or hunted walker, his routine or random, spontaneous or compulsory itinerary, is a recurring motif especially in French cinema, starting with the experience of the young Turks of the Nouvelle Vague who, in the late 1950s, abandoned lm sets to discover the city. The most signi cant urban visions of the time may be found in lms such as Ascenseur pour l’échafaud , Le signe du lion , Zazie dans le metro , À bout de souffle and many others. But this essay dwells more in depth on Cléo de 5 à 7 by Agnès Varda, considering it to be a fundamental lm in an ideal lmography that draws its theme from the promenade through the city, moving the pedestrian’s steps through the time and space of the street in the imaginative dimension of cinema.

Nella pagina a anco: fotogrammi del lm Cléo de 5 à 7 (1962), diretto da Agnès Varda.

la città, fatta di relazioni che si rinnovano costantemente, di incontri e scontri tra uguaglianze e alterità, di mediazioni tra desideri e interessi molteplici e contrastanti. Senza dimenticare che la città – con le sue identità, i suoi con ni, le sue prospettive – è in continuo divenire, secondo dinamiche sempre più complesse, che sfuggono ai tentativi di de nizioni de nitive. Ecco allora che camminare si con gura come una pratica che non si esaurisce nel semplice spostamento, ma è un modo per reinterrogare in profondità la quotidianità e il divenire della vita urbana, che può essere letta solo a livello di marciapiede . La ânerie , concepita come vera e propria arte del vagabondaggio urbano, è dunque la prospettiva privilegiata attraverso cui leggere la città nei suoi caratteri più sintomatici o più nascosti, per interpretarla e dare così vita a una nuova visione dell’universo urbano. Uno spazio diventa luogo , di inclusione e di radicamento, quando muovendoci liberamente gli attribuiamo signicati e appartenenze identitarie. Le strade sono percorsi senza ne, dove ogni probabilità può avverarsi e il âneur , con la sua propensione all’investigazione urbana e la sua sensibilità verso sospensioni e mutazioni, passeggia nello spazio e nel tempo, vagabonda senza fretta e senza un ne preciso, con sguardo sognante e disponibilità all’ascolto dei rumori e dei silenzi, dei ritmi e della musicalità frastornante delle strade, lì dove alberga il subconscio della città. Curioso di ogni aspetto del paesaggio mobile della metropoli, dell’in nita varietà delle sue coreogra e spontanee, delle sue trasparenze e opacità, attraversa luoghi paci cati e spazi dell’imprevisto, entrando in aperta relazione umorale ed emotiva con tutti i mondi che incontra. Viene alla mente il lm They Live ( Essi vivono , 1988), diretto da John Carpenter, dove il protagonista, proprio vagabondando per le strade di Los Angeles, trova per caso un paio di occhiali neri con i quali riesce a vedere la realtà come è veramente, smascherando inganni e nzioni creati da alieni invasori, che vivono tra noi e ci condizionano con messaggi pubblicitari subliminali. Ecco, la ânerie potrebbe de nirsi, assecondando il piacere della citazione cine la, come l’attitudine, l’istinto, il coraggio di indossare quegli stessi occhiali e di guardare alla vera essenza della città che si cela dietro le apparenze. Camminare nella città senza una meta precisa, senza fretta, come qualcuno “che porta al guinzaglio delle tartarughe lungo le vie”

– secondo la descrizione che Charles Baudelaire fa del âneur , il nuovo soggetto della metropoli moderna –, mossi solo dal desiderio di esperirne la vita, le vite, per il solo gusto di lasciarsi andare alla sua provvisorietà, alle sue sorprese, è un’esperienza estetica ed emotiva tipica della modernità e per questo più volte fotografata dal cinema, arte moderna per eccellenza che, più di ogni altra arte che l’ha preceduta, ha radicalmente cambiato la nostra visione della città. Perché, se è vero che la ânerie consente al soggetto che la pratica di cogliere la città in sensi e forme che mettono in discussione e ricongurano i con ni tra reale e immaginario, è però soprattutto nello sguardo cinematogra co che lo spazio urbano si dispiega nelle sue possibilità, nel suo essere spazio aperto, polimor co e polisemico. Uno spazio che il cinema appunto risemantizza, raccontandone storie ogni volta diverse, stravolgendo segni e signi cati di luoghi reali o possibili, ossia immaginati ricon gurando, attraverso un montaggio signi cativo, frammenti urbani diversi, anche molto distanti tra loro (nel tempo e nella localizzazione) e che nella realtà difficilmente potrebbero convivere. Il cinema attraversa la città come il passante ne percorre le vie. Il fuori campo abita l’inquadratura allo stesso modo della città che abita lo sguardo del âneur , anche se i suoi occhi riescono a raggiungerne solo alcuni frammenti. Certo, è pur vero che la città è un mistero mai del tutto svelato e da sole le immagini non possono che dare risposte parziali. Ma la stretta relazione che intercorre tra luoghi e visione (còlta dall’assonanza anglofona tra le parole site e sight ), esaltata dal continuo spostamento del punto di vista che compie il âneur con le sue traiettorie casuali, si invera perfettamente nel usso dei movimenti della macchina da presa cinematogra ca, nel continuo avvicendarsi delle inquadrature, nello stringersi o allargarsi del campo della ripresa, nelle sottolineature sonore in presa diretta o extradiegetiche, dai quali lo spettatore si lascia trascinare con un abbandono empatico e una resa all’immedesimazione che solo l’esperienza lmica è in grado di generare. Il cinema, insomma, ci muove e ci commuove , ci coinvolge in uno sviluppo narrativo e in un percorso spaziale, che interroga al tempo stesso la dimensione temporale e quella interiore. Come nelle parole del cineasta lippino Lav Diaz, semplicemente “il cinema ha il potere di restituire quello che non vediamo, quello che non sentiamo [...]: se fai attenzione a quello che ti circonda, se davvero riesci ad immergerti nella realtà attorno a te, ecco in quel momento le azioni assumono un signi cato diverso, più profondo”. Il cinema mette in luce qualcosa di più e di diverso dalla verità; rivela le memorie che dimorano negli spazi e nelle architetture e a volte ne redime i destini. Flâneur e spettatore cinematogra co sono dunque entrambi animati da un irresistibile desiderio di vedere il mondo e lasciarsene sorprendere, di agire il proprio sguardo indagatore secondo prospettive mai sse, libere, contraddittorie, alternative. Entrambi disponibili a continui riposizionamenti e abbandoni, a visioni frammentarie, uttuanti, fantasmagoriche, inebrianti. Solo al cinema però, lo spettatore, immobile nella sua poltrona, vede la città muoversi verso di lui (o allontanarsi, o scomparire): palazzi, strade, piazze, ponti, donne, uomini, statue, automobili, tutte le gure e le storie che popolano l’in nità di luoghi mentali e sici che determinano la città, ricomposti nel montaggio lmico, lo avvolgono e lo proiettano in un’esperienza immersiva che, come detto, trascende i limiti di spazio e tempo della realtà fattuale. Il suo corpo si lascia trasportare dal movimento che lo schermo gli mostra, la sua mente si consegna all’illusione. È evidente che la città che vede il passante non è comunque la stessa che vede lo spettatore. E anzi le città somigliano sempre più alla loro immagine cinematogra ca, perché il cinema è un incredibile eccitatore di immaginario collettivo, tanto che il viaggiatore contemporaneo si muove troppo spesso più per andare a riconoscere i brani di città adibiti a set di lm celebri, che a conoscere veramente la meta urbana prescelta. Attraverso il cinema rifondiamo continuamente la nostra città immaginaria, oppure ci costituiamo abitanti di città in cui non abbiamo mai risieduto o abbiamo conosciuto solo nella frammentarietà della visione cinematogra ca: la città lmata, in sostanza, si carica di possibilità, di signicati e simboli ulteriori rispetto alla città reale e sublima la propria temporalità eternizzandosi nell’istante in cui l’ occhio della macchina da presa la ssa sulla pellicola (e la imprime nella memoria dello spettatore).

L’esplorazione urbana del passeggiatore svagato, angosciato, braccato, il suo cammino abituale o casuale, spontaneo o obbligato è un topos inevitabilmente ricorrente nel cinema, soprattutto quello francese, a partire dall’esperienza dei giovani turchi della NouvelleVague che, sul nire degli anni Cinquanta, abbandonano i teatri di posa e riscoprono la città, portando la cinepresa tra le strade, inquadrando percorsi reali, il cammino senza meta del âneur , l’attraversamento intenzionale del pedone, la soggettiva dell’abitante che respira la propria città, per restituire la geogra a vera e sentimentale della metropoli contemporanea, al di là di ogni luogo comune di stampo pubblicitario e cartolinesco . Parigi è il luogo d’elezione di questi cineasti: è la città insistentemente intercettata, indagata, sezionata , nelle sue luci e nelle sue ombre, nelle continuità e nelle fratture, nelle centralità e nelle marginalità; avvicinata allo sguardo dello spettatore, e al tempo stesso allontanata, aderendo a un sentimento urbano inedito no ad allora sullo schermo, più socialmente autentico e plausibile, che mette in singolare rapporto metaforico spazi urbani, corpi e sentimenti dei personaggi. L’immaginario urbano attivato dal cinema della nuova onda si contamina di ogni messa in discussione della società contemporanea, così che anche le realtà più problematiche della città diventano patrimonio conoscitivo condiviso: i grands ensambles , i quartieri dormitorio delle periferie alienate entrano nel panorama lmico del nuovo cinema francese, come frontiera disagiata della metropoli capitalista, la faccia oscura dello sviluppo economico.

Seguendo i sentieri della spettatorialità, per loro natura parziali e legati alle incertezze e alla soggettività della memoria, le opere cinematogra che più signi cative per un’indagine dell’attraversamento a piedi della città, potrebbero essere individuate, in ordine meramente cronologico, in una serie di lm come Ascenseur pour l’échafaud ( Ascensore per il patibolo , 1957), opera prima di Louis Malle, un noir originale e palpitante in cui una serie di casualità infernali scatenano un incastro drammatico e inesorabile. Indimenticabile la scena che vede la protagonista, interpretata dall’attrice Jeanne Moreau, vagare angosciata per le strade di una Parigi notturna e indifferente alla disperata ricerca del proprio amante. A sottolineare signi cativamente la sequenza, le note dolenti della tromba di Miles Davis. La musica jazz – registrata dal musicista nel tempo di una sola session , improvvisando sulle immagini mute del lm – crea un perfetto tessuto sonoro per la progressione drammatica della scena, esaltando l’atmosfera scivolosa e straniante delle strade in cui la donna si aggira inquieta, entrando e uscendo dai bistrot dove invece un’umanità indifferente si agita divertita, in una doppia traccia di vitalità e di alienazione urbana. La città è qui uno spazio insensibile , abitato da gure quasi evanescenti, uno sfondo distratto e allucinato che la donna attraversa come in trance , coinvolta solo dal desiderio inappagato di ritrovare l’uomo perduto. Le signe du lion ( Il segno del leone , 1959) è invece l’esordio registico di Eric Rohmer, che rivela una faccia inedita della capitale francese, quella dei luoghi marginali vissuti dai clochard e delle strade deserte piegate dalla calura agostana, attraversati da uno squattrinato musicista americano costretto a trascinarsi in un lungo cammino da Saint Germain de Prés, dove prima di perdere l’alloggio passava il tempo bighellonando tra caffè e compagnie bohémien, no alla periferica Nanterre, dove spera di trovare una possibilità lavorativa che lo risollevi dall’abbrutente condizione di senzatetto. Un tragitto interminabile, che attraversa ampie zone di una Parigi inedita nel cinema del tempo, assolata e ostile, uno spazio pietri cato che schiaccia il protagonista no a precipitarlo in un vero e proprio sentimento di avversione verso l’ambiente metropolitano:“la sporcizia di Parigi, la sporcizia delle pietre”, è la frase emblematica che lo sentiamo ripetere più volte. La città che inizialmente gli sembrava il centro del mondo, un luogo di festa e divertita dissolutezza, ora gli appare un’odiosa e ossessionante successione di pietre e architetture. Il lm è insomma tutto costruito sui percorsi urbani del protagonista, abilmente ripresi da angolature singolari, e sui rapporti segreti che regolano le differenze di scala tra corpi e spazi della città. Anche il viaggio del nostro eroe sbagliato è registrato quasi nella sua durata reale, per ribadire la crudele immensità della metropoli per un uomo diventato ormai socialmente ed economicamente troppo piccolo per lei.

Nel suo terzo lm, Zazie dans le métro ( Zazie nel metrò , 1960), Louis Malle porta sullo schermo il romanzo di Raymond Quenau calandolo in una città destrutturata e folle, colorata e spiazzante, dove anche le architetture storiche più iconiche vengono continuamente confuse e scambiate. Zazie è una bambina vivace e curiosa, ospite degli zii parigini e desiderosa di vedere la metropolitana, che invece è chiusa al pubblico a causa di uno sciopero. Nel suo vagabondaggio incrocia una umanità variegata e surreale; attraversa divertita il caos delle bancarelle nel mercato delle pulci; visita laTour Eiffel, che le permette di volare con lo sguardo sulla città ai suoi piedi; si muove sicura nel turbinio del traffico stradale; percorre i passages nel quartiere della Borsa; si lascia affascinare dai neon delle insegne di Pigalle di notte, nché nel nale non incontra la madre, spiazzandola con il suo disincanto quando, alla domanda su cosa avesse fatto a Parigi, risponde con un semplice e de nitivo «Sono invecchiata». Malle trova un corrispondente cinematograco al tono del romanzo, accumulando stili diversi, gag comiche, accelerazioni, colori fumettistici, riprese sghembe perché, come ammette egli stesso,“disintegrare il linguaggio cinematogra co tradizionale era il mezzo più efficace per disintegrare un mondo anch’esso disintegrato e caotico”. Sperimentazione delle possibilità del cinema, quella di Zazie, che segna anche il primo lungometraggio di Jean-Luc Godard À bout de souffle ( Fino all’ultimo respiro , 1960), lm culto e programmatico della Nouvelle Vague, girato quasi completamente in esterni, dove un personaggio irrequieto e malandrino, romantico e scapestrato, ruba un’auto e poi raggiunge l’innamorata, si accompagna con lei per le vie riconoscibili e ben contrappuntate da riferimenti monumentali della Parigi solare e trafficata degli arrondissements centrali, no all’incontro fatale con la pistola di un implacabile poliziotto. Anche qui la città è còlta nella sua viva quotidianità, con macchina da presa a spalla e immagini documentaristiche, quasi un reportage giornalistico della ruggente capitale francese, città dell’amore romantico e delle mille occasioni, che sorride inconsapevole alle schermaglie e agli amoreggiamenti dei due compagni di ânerie . Il tono delle loro passeggiate è svagato, le con denze che si scambiano dimostrano un’intimità distratta e super ciale: il regista restituisce l’immagine della città che gli è familiare, in contrasto con la tragedia immi- nente che chiuderà la vicenda, la città che gli piace e in cui immerge il suo cinema irriverente, ben distante provocatoriamente dai toni ansiogeni del polar cui la trama invece rimanderebbe. Due anni dopo il capolavoro di Godard, Agnès Varda gira Cléo de 5 à 7 ( Cléo dalle 5 alle 7 , 1962), opera fondamentale in un’ideale lmogra a che tematizzi la traversata urbana, che dislochi il cammino del pedone attraverso il tempo e lo spazio della strada nella dimensione immaginativa del cinema.

Su questo lm è quindi importante soffermarsi approfonditamente. Lo spunto narrativo è semplice: il primo giorno d’estate una giovane cantante, bella e viziata, attende il risultato di un esame medico, che le verrà comunicato solo a ne giornata. Teme di avere una malattia grave e, presa da un’insopprimibile paura, interroga una cartomante. Le parole della veggente non sono rassicuranti, i tarocchi prevedono un futuro oscuro. Da qui in poi la regista costruisce un racconto in tempo reale dell’esplorazione urbana ed esistenziale che Cléo, perfettamente incarnata nel corpo attoriale di Corinne Marchand, compie nelle due ore che precedono la consegna del referto: un percorso interiore, dall’apprensione alla lucida presa di coscienza della propria fragilità, e un percorso sico, che tocca in successione vari luoghi di Parigi. Quella che Varda mette in scena è la cronaca fedele di questo movimento, dell’anima e del corpo, che si rivela allo spettatore come una straordinaria promenade lmica tra le strade della capitale francese, restituita nella sua topogra a concreta e mappabile, e fotografata con grande libertà espressiva, riprese mobili e leggere in accordo dialettico con la mobilità vivace della metropoli degli anni Sessanta: il set ideale per un lm che riesce con apparente, ferma, spontaneità a toccare le corde sensibili della vita; un lm che racconta un’attesa che sa di angoscia, ma la trasforma in una personale sinfonia urbana, dove la gioventù piena e sfrontata della protagonista – che teme di essere giunta troppo presto al limite dei suoi sogni esistenziali – è solo il brivido di un attimo rispetto al tempo senza tempo della scena che la circonda. Il palcoscenico urbano dove Varda ambienta il breve dramma di Cléo, donna sola nella folla, vive un tempo stabile, che non conosce la nitezza dell’esistenza umana. Anche il lm sembra non avere un inizio, come fosse semplicemente la continuazione di qualcosa che è avvenuto prima che l’obiettivo della macchina da presa arrivasse a registrarne l’accadimento. L’incipit, infatti, tutto concentrato sul responso delle carte, non appartiene alla città, è chiuso nella dimensione onirica dell’appartamento della cartomante ed è girato non a caso a colori, mentre il racconto vero e proprio è in bianco e nero e si anima a partire dall’uscita di Cléo dall’antro dove ha interrogato il proprio destino, per immergersi nel usso vivido della dimensione urbana. Una volta varcata la soglia, inevitabilmente il fuori entra in campo, lo pervade di tutti i suoi frammenti di vite e sorprese, di gesti e parole, di gioie e turbamenti, di luci e ombre. La macchina da presa la segue, con una carrellata laterale, sostenendo il ritmo della sua camminata concitata, nché entra in un affollato caffè, dove l’aspetta la fedele domestica Angèle. A lei nalmente rivela senza remore ogni timore:“Le carte dicono che sono malata!”. Queste parole, cariche di sgomento, che Clèo pronuncia come una momentanea, involontaria liberazione, introducono il racconto in presa diretta del suo inferno, del suo vagare tra le strade di una Parigi invece incantata – còlta nel solstizio d’estate, il giorno dell’anno con più luce –, tra tentativi di distogliere i pensieri dalla possibile malattia e abbandoni al usso vitale del mondo urbano che la circonda.

Con uno stile coinvolgente, che mescola sapientemente la ricercatezza linguistica e l’immediatezza del documentario, Varda accompagna la protagonista rivelando un certo senso di sorellanza, un’intima e benevola disposizione verso questa cantante in cerca di successo, corteggiata e vezzeggiata, ma poco incline alla disponibilità verso il prossi- mo, che, nello spazio breve di un pomeriggio che non dimenticherà, cammina per le strade di Parigi come percorresse l’esile linea del destino che divide le speranze dai disincanti. Lo spettatore è attratto sempre più a fondo nel costante movimento della città, procede insieme alla protagonista – seguendo un itinerario quasi tutto compreso nel quattordicesimo arrondissement , il quartiere sulla rive gauche prediletto dai cineasti della Nouvelle Vague –, si aggira nel labirinto districato della città, nel traffico incessante, umano e veicolare, che anima vie e piazze, dove tutto è familiare e inatteso al tempo stesso. La Parigi di Varda esiste e vive concretamente in ogni fotogramma, si manifesta con le sue architetture, i suoi interni e i suoi esterni, le sue densità e le sue rarefazioni, dando pieno diritto di cittadinanza alle ansie e ai desideri di Cléo e insieme degli stessi spettatori. L’ élan vital della metropoli parigina si respira in ogni sequenza: la macchina da presa non distoglie mai il proprio sguardo dall’incedere della protagonista, dai suoi attraversamenti di boulevards , piazze, giardini, spazi domestici, caffè, atelier d’arte, sale di proiezione. Luoghi saturi di aspettative e presenze, abitati dai fantasmi di esistenze passate e dalla consistenza del presente, impregnati di memorie e di aspettative, ma soprattutto ingombri di lei, di Cléo, e della sua paura. Insieme ad Angèle, la protagonista lascia il caffè e fa rientro al proprio appartamento, dove aspetta due compagni di lavoro per provare alcune nuove canzoni. Per un po’ mantiene il suo solito atteggiamento civettuolo, poi, precisamente a metà lm, avviene in lei un netto passaggio di stato d’animo, sancito liberandosi della parrucca, della provocante vestaglia bianca e indossando un sobrio abito nero. È arrivato per lei il momento di abbandonare il personaggio della “bambina viziata che si compatisce”, come l’ha apostrofata il pianista, e guardare la vita, gli altri con più autentica partecipazione. “Per me, il primo atto femminista è alzare lo sguardo dal tuo ombelico o dalla tua cucina e iniziare a guardarti intorno”, è così che la regista spiega questa prima presa di coscienza della sua protagonista. Cléo, quindi, esce da sé e subito dopo dall’appartamento, che d’improvviso le è apparso soffocante. Ha voglia di perdersi ancora nella folla cittadina, di muoversi nella varietà della strada, dove tutto è visibile e nascosto al tempo stesso, un territorio prediletto per lei, che ora vorrebbe nascondersi al mondo e al contempo ritrovarsi al suo centro, scovarvi la propria vera identità o qualcosa a cui appigliarsi.

Dopo una parentesi in compagnia di un’amica, il pomeriggio itinerante della nostra protagonista prosegue in taxi, nché non si ritrova casualmente al parc Montsouris. Qui, scendendo l’ampia scalinata d’accesso, si abbandona a un divertito intermezzo canoro: la natura rassicurante del giardino è per lei un perfetto palcoscenico, un’oasi di calma nel ritmo movimentato della grande città. Ma è solo un momento, poi il sorriso si spegne e Cléo si riconsegna alla malinconia. Tuttavia, il disorientamento esistenziale che l’ha richiamata nella breve odissea alla ricerca dello spaesamento nello spazio molteplice della città, ha ormai liberato in lei un’insospettabile disponibilità all’incontro. Quando un giovane soldato le si avvicina e comincia a parlarle, questa volta si lascia coinvolgere e nisce a passeggiare in sua compagnia tra i viali alberati. Lui è all’ultimo giorno di licenza e in serata è costretto a partire per il fronte in Algeria. Lei gli confessa le proprie ansie. Così il militare si offre di accompagnarla in ospedale per ritirare i risultati delle analisi. Decidono di prendere l’autobus, un altro mezzo per immergersi ancora una volta nello slancio vibrante della città. Giunti a destinazione, i due incontrano appena in tempo il dottore, che sta lasciando il nosocomio alla guida di una decappottabile. Riconosciuta la paziente, questi si sporge dal nestrino e rivela la diagnosi prima di ripartire velocemente. La regista inquadra i due giovani, presi da un moto di stupore, scegliendo di sistemare la macchina da presa sull’automobile che riparte in velocità, creando così uno zoom all’indietro in rapido e straniante movimento, come a tradurre in questo spostamento l’istantaneo passaggio emotivo della protagonista dall’attesa allo shock. Nonostante le parole del dottore non le abbiano chiarito la natura della malattia, Cléo nalmente si tranquillizza: “Mi sembra di non avere più paura. E mi sembra di essere felice”, rivela al soldato, scoprendo nella sua vicinanza una rinnovata con denza con la vita. Nell’ultima scena i due si sorridono lievemente e si guardano negli occhi, forse aprendosi alla possibilità di una futuro amore. Così Varda regala ai suoi personaggi il valore incommensurabile del libero abbandono agli inestricabili meccanismi dell’anima e regala agli spettatori un lm di rara intensità nel mostrare la vita nel suo autentico uire, in una città che si offre come paesaggio elettivo di un viaggio di formazione e di paci cazione.

Agnès Varda mostra di essere un’appassionata camminatrice urbana, che conosce bene la città perché l’ha memorizzata anche con i piedi , entrando in piena sintonia con le sue vibrazioni. Mostrandosi attraverso il personaggio di Cléo, rivela il carattere della âneuse , che interroga la sua Parigi in cerca di ispirazione: “mi attira di continuo, mi stimola, mi offre spettacolo e poesia senza nessuna fatica, se non quella di muovere le gambe”, scrive Virginia Woolf di Londra, ma le sue parole si addicono senza forzature anche alla regista belga, che nella sua lunga carriera più volte è tornata a leggere – e tradurre nella lingua del cinema – il libro di pietra della sua città d’elezione.

Sono molti i lm della Nouvelle Vague e del cinema francese successivo che si potrebbero ancora citare, e non pochi anche gli esempi prodotti dal cinema del nostro Paese (dal periodo del Neorealismo alle opere più signi cative di Michelangelo Antonioni, soprattutto), anche se in generale si rivela meno attento al tema del camminare come pratica di indagine e scoperta della città; ma tra tutti è importante un ultimo riferimento al seminale La haine ( L’odio , 1995) di Mathieu Kassovitz, che ha avuto il merito di sollecitare, anche fuori dai consessi specialistici, il dibattito sull’evoluzione della città moderna, e ancora oggi non manca di ispirare felici intuizioni. Il lm apre squarci laceranti sulle derive della città contemporanea, sull’indifferenziato sviluppo edilizio delle periferie dei grands ensambles , sulle brutture e i fuori scala dimensionali delle architetture abitative che affollano, come alveari spiazzanti e alienanti, i quartieri della marginalizzazione e del concentrazionismo sociale. Quella di Kassovitz rappresenta un’audace (e certo anche furba ) operazione lmica di grande successo, nella quale signi cativamente i banlieusards protagonisti guardano Parigi come una città sognata a cui non appartengono e dalla quale sono respinti come eccedenti . Il loro territorio è abitato da architetture anonime e indistinte, luogo dell’alienazione e della segregazione di classe, un incubo urbano che contraddice la città centrale spettacolare e affascinante, la ville lumière delle opportunità e degli incontri, cui fa da specchio una banlieue di scontri e scon tta fatale. I tre giovani intorno a cui si costruisce la trama si muovono per tutta una notte nella città che non li riconosce, stranieri in una società privilegiata che non li accoglie, no all’alba che li vede riatterrare nel loro ambiente solo per ritrovarsi ancora una volta di fronte alle armi puntate dei poliziotti. Un nale amaro che si intona perfettamente alle immagini diffuse dai media internazionali della racaille (de- nizione sprezzante dei banlieusards usata dall’allora ministro degli Interni Nicolas Sarkozy) infuriata che ha incendiato le periferie francesi nell’autunno del 2005: una moltitudine in rivolta, tenuta a bada dai manganelli della polizia, pronta a sovvertire l’ordine sociale e urbanistico di una città che li allontana e li ghettizza.

Come visto, il cinema si apre la strada (le strade) attraverso le vite che abitano la città, lascia tracce per chiunque sia disposto a seguirle: l’occhio cinematogra co (il kinoglaz di vertoviana memoria) segue in niti percorsi, segna solchi alle proprie spalle, perché lo spettatoreneseguagliindirizzi,ancheconcedendosi la possibilità di distrarsi, di fermarsi, di deviare, per arrivare a scoprire le trame del complicato ordito urbano, nell’illusione di afferrarne i discorsi, anche quelli meno espliciti, di svelare il segreto dell’arcano labirinto mentale e fattuale delle sue storie. Il cinema è la guida (in)coerente della città moderna e postmoderna, il medium per eccellenza perché lo spettatore de nisca, tra rivelazioni e ngimenti, la propria posizione rispetto alla realtà urbana rappresentata e venga in ne a patti con le verità e le derive che lo circondano. Senza dimenticare, mai, che al cinema ogni parola è sincera e bugiarda al tempo stesso, ogni orizzonte è provvisorio, ogni sguardo è necessariamente parziale, ogni geogra a, ogni biogra a, che pure rimandi a dati reali, è anche e comunque inventata. Complicità e tradimento, questo chiede la strada al cinema e il compito del cineasta, come dell’architetto (e di tutti quelli che a vario titolo sono coinvolti nell’analisi e nella piani cazione urbana e territoriale), prendendo a prestito quanto scrive Italo Calvino, dovrebbe essere sempre quello di “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

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