VOCI
DIAMO VOCE AI DIRITTI UMANI
i fatti e le idee
LUGLIO 2016
NUMERO 3 - ANNO 2
Globalizzare
LA SOLIDARIETÀ
«Quando ho acceso la prima candela di Amnesty avevo in mente un vecchio proverbio cinese: “Meglio accendere una candela che maledire l’oscurità” Questo è oggi il motto per noi di Amnesty» (Peter Benenson)
VOCI Rivista del Centro di Documentazione per la Promozione e l’Educazione alla Tutela dei Diritti Umani “Peter Benenson”
IN QUESTO NUMERO Responsabilitá delle aziende: usare la legge per restituire l’uguaglianza 3 di Liliana Maniscalco
Sulle migrazioni nel XXI° secolo
5
di Giuseppe Provenza
Perché l’Italia non è uno Stato di diritto?
11
Sempre più armi a regimi autoritari: per la nostra sicurezza?
13
Immigrazione: stili di vita e salute
17
Globalizzazione, rivoluzione postmoderna, democrazia e diritti umani
21
Mapping Hebron’s Apartheid: una mappa interattiva della città occupata
25
Gioventù rubata: mamma a quindici anni
27
Amali e l’albero
30
Buone notizie
32
di Michele Iacoviello
COMITATO DI REDAZIONE Giuseppe Provenza Responsabile della Redazione Liliana Maniscalco Responsabile Regionale di Amnesty International
di Giorgio Beretta
di Aurelio Angelini
di Giuseppe Carlo Marino di Marianna Castellari
Daniela Conte Responsabile del Centro di Documentazione per la Promozione e l’Educazione alla Tutela dei Diritti Umani “Peter Benenson” Andrea Cuscona Responsabile Relazioni Esterne e Comunicazione di Amnesty International in Sicilia Silvia Intravaia Grafica e D.T.P.
COLLABORANO Aurelio Angelini, Clelia Bartoli, Giorgio Beretta, Daniela Brignone, Paola Caridi, Francesco Castracane, Giovanna Cernigliaro, Vincenzo Ceruso, Cissé Mouhamed, Coordinamento America Latina - Amnesty International Sezione Italiana, Marta D’Alia, Aristide Donadio, Vincenzo Fazio, Maurizio Gemelli, Javier Gonzalez Diez, Giuseppe Carlo Marino, Maria Grazia Patronaggio, Paolo Pobbiati, Rossella Puccio, Bruno Schivo, Daniela Tomasino, Fulvio Vassallo Paleologo
www.amnestysicilia.org ai.sicilia@amnesty.it Via Benedetto d’Acquisto 30 90141 Palermo
di Rossella Puccio di Daniela Conte
di Giuseppe Provenza
TUTTI I GIORNI www.amnestysicilia.it /amnesty-sicilia /Amnestysicilia Amnesty In Sicilia /amnestysicilia /amnestysicilia /amnestysicilia Questa rivista non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornata senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge n° 62 del 7.03.2001. Le informazioni contenute in questa rivista, pur fornite in buona fede e ritenute accurate, potrebbero contenere inesattezze o essere viziate da errori tipografici. Gli autori di “Voci“ si riservano pertanto il diritto di modificare, aggiornare o cancellare i contenuti della presente senza preavviso. Alcuni testi o immagini inserite in questo blog sono tratte da internet e, pertanto, considerate di pubblico dominio; qualora la loro pubblicazione violasse eventuali diritti d’autore, vogliate comunicarlo via email. Saranno immediatamente rimossi. Gli autori del blog non sono responsabili dei siti collegati tramite link né del loro contenuto che può essere soggetto a variazioni nel tempo. Le opinioni espresse negli articoli presenti in questo numero non necessariamente rispecchiano le posizioni di Amnesty International.
LUGLIO 2016 N. 3 / A.2 - Voci
Editoriale
RESPONSABILITÀ DELLE AZIENDE:
USARE LA LEGGE PER RESTITUIRE L’UGUAGLIANZA di Liliana Maniscalco
Più della metà delle cento maggiori economie del mondo è costituita da aziende. Esse oggi hanno più potere delle persone e hanno influenza sulle loro vite perchè, attraverso le loro decisioni, producono un impatto profondo sulle comunità. Usufruiscono anche di protezione legale, eppure contrastano ogni progresso giuridico verso la consapevolezza ed il rispetto dei diritti umani. Gli interessi economici sono infatti riusciti a far in modo che le leggi funzionassero a tutela degli attori economici, al contrario i soggetti danneggiati dalle loro attività hanno visto spesso la protezione recedere di fronte al potere delle multinazionali. La deregolamentazione e la necessità di attrarre gli investimenti hanno limitato la tutela dappertutto con particolare riferimento ai paesi in via di sviluppo, ma è da relativamente poco tempo che le associazioni per i diritti umani e ambientali, quelle per lo sviluppo e i sindacati hanno sollevato il livello d’attenzione della società civile sulla questione: l’informazione e le campagne su temi, quali il lavoro minorile, i rifiuti tossici e la complicità delle imprese con governi repressivi, hanno suscitato indignazione e queste rivelazioni hanno portato una serie di risposte in termini di attivismo, commercio equo, pubbliche condanne e, infine, reazioni da parte dello stesso mondo economico che ha ampliato lo spettro d’azione dall’investimento socialmente responsabile 3
e dall’impegno delle imprese nel commercio etico a iniziative di pubbliche relazioni e al greenwashing delle aziende. A seguito di ciò è emersa una differenza tra gli approcci di natura volontaria, la cosiddetta Responsabilità Sociale di Impresa (RSI), e quelli basati sulla richiesta di norme che pongano le imprese nella posizione di dovere rendere conto del proprio operato. Essi riflettono equilibri differenti basati sulla centralità dell’azienda, per quanto concerne il primo caso, e dello Stato, per quello che riguarda il secondo. Da oltre dieci anni Amnesty International è impegnata in un programma di ricerca e sensibilizzazione su imprese e i diritti umani, che comprende ricerche su casi specifici. Pur riconoscendo il valore di alcuni approcci volontari, l’analisi e l’esperienza dell’Organizzazione hanno evidenziato la necessità di leggi per rafforzare i titolari dei diritti e per eliminare le scappatoie che permettono a tante aziende di sottrarsi alla giustizia. Le accuse di violazioni dei diritti umani sono particolarmente evidenti nei confronti dell’industria estrattiva probabilmente per la natura invasiva di tali attività dei territori coinvolti. Nei paesi in via di sviluppo soprattutto l’influenza delle imprese può essere fondamentale per lo stato, ma la questione non è lì circoscritta perchè Amnesty ha documentato LUGLIO 2016 N. 3 / A.2 - Voci
Editoriale
abusi in Canada, negli Usa e in Australia, solo per citare qualche esempio. All’impatto che hanno le industrie estrattive si aggiunge la frequenza con cui la ricchezza mineraria coincide con la povertà e l’emarginazione. Molti dei paesi più poveri del mondo sono anche i più ricchi di risorse. Dovrebbe essere possibile che gli investimenti nelle attività estrattive dessero un contributo alla riduzione dell’indigenza diffusa e allo sviluppo sostenibile. Ma è innegabile che decenni di estrazione e di enormi profitti generati hanno alimentato conflitti andando così nella direzione diametralmente opposta a quella della tutela. Tutto questo è stato rafforzato dall’impunità per gli attori statali e per le aziende che violano i diritti umani direttamente o con la complicità degli stati. Le ricerche di Amnesty sottolineano tre problemi significativi: lo stato non riesce a tutelare i diritti umani - spesso a causa del tipo di influenza delle attività economiche che subiscono; i titolari dei diritti non hanno accesso a informazioni vitali; il diritto che regola l’attività delle aziende non ha tenuto il passo con la realtà della natura globalizzata dell’economia. Le soluzioni consistono attualmente nella RSI e nella cosiddetta accountability da parte delle compagnie, la capacità di rendere conto delle proprie azioni in relazione al rispetto dei diritti umani delle persone e delle comunità. Sebbene se ne discuta da molti anni, la RSI non è ben definita. Essa copre una gamma ampia di attività delle aziende e molto variegata e ha inizialmente dato un importante contributo a mutare la propriocezione degli attori economici, tuttavia, poiché viene utilizzata per pubblicizzare le buone pratiche volontarie, igorando tuttavia l’impatto negativo delle operazioni economiche, viene vista con diffidenza e scetticismo. La RSI ha inoltre implicato il coinvolgimento ed il dialogo con la società civile. Ma l’impegno delle imprese con gli attivisti ha anche i suoi limiti. I suoi risultati e le trattative possono essere insostenibili, o prive di credibilità, perché gli accordi possono non essere applicati e l’azione dell’azienda può non essere valutata. Naturalmente resta il diritto. Esso non è la soluzione a tutti i problemi dei diritti umani. Ma fornisce una base su cui costruire soluzioni perchè contribuisce ad assicurare che ogni caso non sia un negoziato tra potenti e meno potenti, un atto meramente volontario o di immagine, un accordo tra mondo dell’economia e dell’attivismo. Voci - LUGLIO 2016 N. 3 / A.2
Amnesty si concentra per questo su tre principali iniziative legali di fondamentale importanza per affrontare l’impatto sui diritti umani da parte delle aziende: leggi per obbligare le aziende a fare del rispetto dei diritti umani un dovere - assicurando che le aziende e le comunità sappiano cosa potrebbe accadere; leggi per rendere disponibili le informazioni. L’informazione è potere e quando le comunità e gli attivisti sanno cosa sta succedendo, possono mettere in discussione e sfidare le aziende e il governo; leggi per colmare le lacune che permettono ad aziende grandi e ricche di sfruttare una regolamentazione debole. Alcune aziende hanno anche capito che la legge è almeno parte della soluzione. Questo è successo in parte grazie alla comparsa di nuovi attori dalle economie emergenti. Norme certe e quadri giuridici possono aiutare a garantire un ambiente operativo senza sorprese e parità di condizioni anche per le imprese. Le norme internazionali in materia d’impatto delle aziende sui diritti umani stanno già emergendo come risultato di un processo delle Nazioni Unite durato sei anni. La sfida della definizione di standard comuni sta spingendo le aziende a conformarsi a essi. Senza legge, solo pochissimi rispetteranno le norme di base in relazione ai diritti umani.
Liliana Maniscalco Responsabile Regionale di Amnesty International
4
Attualità
SULLE MIGRAZIONI NEL XXI° SECOLO di Giuseppe Provenza
La storia dell’umanità è sempre stata caratterizzata, fin dalle origini, da grandi migrazioni. La stessa diffusione dell’uomo nel mondo fu frutto di migrazioni. Agli albori della storia conosciuta, si verificarono spostamenti di intere popolazioni che invadevano nuovi territori, spesso in modo cruento.
di ordine personale nei riguardi di dissidenti, sia nei confronti di intere minoranze etniche o religiose.
Più recentemente le Americhe furono popolate da milioni di europei che lasciarono, nei paesi d’origine, vuoti che costrinsero spesso i governi ad ostacolare, se non vietare, le emigrazioni. Successivamente lo sviluppo economico e l’industrializzazione di vaste zone del continente europeo portarono alla nascita di flussi migratori dal sud al nord dello stesso continente e all’arrivo di migranti prima da colonie e poi da ex colonie.
La prima è il frutto di povertà, spesso gravissima fino al rischio della vita, di intere popolazioni. Si tratta, in questi casi, dell’ingiustizia sociale del mantenimento di grandi disparità economiche fra regioni della terra, disparità che, come spesso avviene in natura, fanno nascere correnti migratorie, quasi a voler colmare i divari esistenti.
Oggi i flussi migratori sono oggetto di cronaca quotidianamente, fino a divenire in molti casi strumento di speculazione politica con conseguente distorsione delle reali cause e soprattutto degli effetti del fenomeno nei paesi di destinazione. In relazione alle loro motivazioni, oggi, come in passato, le migrazioni non sono un unico fenomeno come spesso si crede fermandosi ad osservare il loro aspetto esteriore, ossia l’arrivo delle persone. In realtà si tratta di due fenomeni diversi: quello dei “migranti economici” e quello dei “richiedenti asilo”. La differenza principale, che è sostanziale, è che i primi hanno liberamente effettuato una scelta, quella di cercare lavoro in un paese diverso dal proprio, mentre i secondi sono stati costretti alla fuga o dalla guerra, e quindi dal pericolo di rimanerne uccisi o dalla distruzione della propria casa, o da un regime politico non democratico e dalle connesse persecuzioni sia 5
E’ fondamentale osservare che, qualunque sia il tipo di migrazione, economica o per richiesta d’asilo, ci si trova in presenza di violazioni dei diritti umani.
Ancora più evidenti sono le violazioni dei diritti umani nel caso degli spostamenti dei richiedenti asilo, costretti a fuggire per la salvezza della propria vita. Quali sono oggi le dimensioni del fenomeno e soprattutto quali sono le situazioni da cui si allontanano, o per scelta o per fuga, i migranti? Appare di notevole importanza analizzare questi aspetti sia per rendersi conto in maniera corretta di un fenomeno che viene spesso strumentalizzato, e quindi distorto sia nelle cause che negli effetti, da una propaganda politica che vuole sfruttare a proprio beneficio le paure il più delle volte non giustificate da reali disagi o pericoli, sia per comprendere che è attraverso la rimozione delle vere cause del fenomeno che si può risolvere il disagio dei milioni di persone che ne sono le vere vittime, ossia coloro che, per un motivo o per l’altro, sono stati indotti all’abbandono dei paesi d’origine, e quindi delle loro abitudini, dei loro affetti, delle loro amicizie. LUGLIO 2016 N. 3 / A.2 - Voci
Attualità
Secondo l’ONU alla data del 31 dicembre 2015 i migranti nel mondo (sia economici che richiedenti asilo) ammontavano a 243.700.236, su una popolazione mondiale di 7.349.472.000.
Paese
(fonte: United Nations, Department of Economic and Social Affairs) (http://www.un.org/en/development/ desa/population/migration/data/estimates2/ estimates15.shtml).
Lesotho
-7,36
“
Rep. Dem. Congo
-5,90
“
Sudan
-4,29 “
(International migrant stock by destination and origin – tav. 16)
Chad
-3,45
“
Sierra Leone
-2,77
“
Gabon
-2,03
“
Mozambico
-1,98 “
In base alla stessa fonte, quali sono i paesi con il maggior numero di emigranti? 1) India
15,6 milioni
2) Messico
12,3 “
3) Russia
10,6 “
4) Cina
9,5
“
5) Bangladesh
7,2
“
[...]
[...]
20) Italia
2,9 milioni
21) Myanmar
2,88
“
22) Marocco
2,8
“
e quali sono i paesi con maggiori presenze di immigrati? 1) Stati Uniti
46,6 milioni
2) Russia
14,6 “
3) Germania
12,0
4) Arabia
10,2 “
5) Regno Unito
8,5
[...]
[...]
10) Italia
5,8
“
“
“ (9,50% dei residenti)
Come si può notare, l’Italia si trova sia fra i paesi di immigrazione che tra i paesi d’emigrazione. La stessa cosa vale per la Federazione Russa. È anche interessante rilevare la differenza fra partenze e arrivi di migranti in proporzione alla popolazione, pur nella consapevolezza che in alcuni stati non esistono precise rilevazioni statistiche: (fonte CIA – USA: https://www.cia.gov/library/ publications/the-world-factbook/fields/2112.html#af) Voci - LUGLIO 2016 N. 3 / A.2
Tasso netto di migranti - anno 2015 (segno meno, indica in uscita - segno più, in entrata)
Somalia -8,49 per mille
Nell’ambito del fenomeno migratorio va isolato il dato relativo ai rifugiati. Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR http://popstats.unhcr.org/en/ overview - mid-year statistics), a metà 2015 il numero totale fra sfollati interni e rifugiati era di 57.959.702, intendendosi per sfollati interni coloro che hanno lasciato il luogo di residenza ma non lo stato (oltre 40 milioni) e per rifugiati coloro che si sono trasferiti all’estero (oltre 17 milioni). Quali sono i paesi da cui proviene il maggior numero di rifugiati? (in migliaia) (fonte http://popstats.unhcr. org/en/overview - mid-year statistics - tav. 2): Rifugiati Sfollati Paese in uscita interni
TOTALE
Siria 4.285 7.633 11.918
Colombia 352 6.520 6.872
Iraq 520 3.966 4.486
Afghanistan
2.740
1.150
3.890
Sudan 681 2.343 3.024 Sud Sudan
748
1,792
2.540
Rep. Dem. Congo
610
1.806
2.416
Somalia 1.155 1.152 2.307
Pakistan
315
1.893
2.208
Ucraina 339 1.382 1.721
Nigeria 160 1.509 1.669
Yemen 12 1.267 1.279
Rep. Centro Afric.
481
523
1.004
6
Attualità
A parte la Siria, la cui situazione è ben nota, in classifica si trovano anche paesi di cui si sente parlare ben poco, che tuttavia soffrono di situazioni aberranti in termini di diritti umani e che, conseguentemente, alimentano in maniera considerevole i flussi internazionali di richiedenti asilo, o, in taluni casi i flussi di sfollati che, come si è detto, rimangono all’interno del paese. Esaminando il fenomeno dei flussi di rifugiati se ci soffermiamo ad individuare i paesi che ne ricevono il maggior numero, troveremo anche in questo caso delle sorprese. Si scopre infatti che non sono i paesi da cui provengono le più forti reazioni a ricevere il maggior numero di rifugiati (dati in migliaia): (fonte http://popstats.unhcr.org/en/overview mid-year statistics - tav. 1): Paese
Rifugiati Richiedenti TOTALE in entrata asilo
Turchia
1.839
145
Pakistan
1.541
6
Giordania
664
21
1.183
(dall’Afghanistan)
705
(dalla Somalia)
685
(dalla Siria)
Kenya 552 40
Italia 94 48 142 250
312
562
In queste due tabelle, si rilevano alcune situazioni particolarmente gravi: ff Dei 4 milioni 285 mila rifugiati della Siria, 1 milione 805 mila si trovano in Turchia, 1 milione 164 mila si trovano in Libano e 629 mila si trovano in Giordania. Si noti in particolare che il Libano ha una popolazione di circa 4 milioni e 500 mila abitanti (circa un rifugiato siriano ogni 4 abitanti). ff Dei 2 milioni 740 mila rifugiati dell’Afghanistan, 1 milione 540 mila si trovano in Pakistan e 951 mila in Iran. 7
Sierra leone $ 1.600
Eritrea $ 1.300 Niger $ 1.100 Rep. Dem. Del Congo $ 800 Rep. Centro Africana $ 600 Somalia $ 400
592
(dalla Somalia)
[...] [...] [...] [...]
Germania
Riportiamo i dati del PIL pro-capite (relativi al 2015) di alcuni paesi caratterizzati da grandi emigrazioni, confrontando questi dati con quello medio mondiale ($ 15.800) e con quello italiano ($ 35.700)
PIL pro-capite a parità di Paese potere d’acquisto (2015)
(dalla Siria)
Etiopia 702 3
Sono innanzitutto paesi con bassissimi livelli di reddito.
1.547
Iran 979 - 979
Va innanzitutto messo in rilievo come alcuni dati, soprattutto di carattere economico e demografico siano comuni a tutti i paesi caratterizzati da rilevanti flussi migratori in uscita.
1.984
(dall’Afghanistan)
Compiremo qui un approfondimento di situazioni meno note all’opinione pubblica ma certamente non meno rilevanti.
(fonte CIA – USA: https://www.cia.gov/library/ publications/the-world-factbook/rankorder/2004rank. html):
(dalla Siria)
Libano 1.172 11
ff Del milione 155 mila rifugiati della Somalia, 419 mila si trovano in Kenia.
Si ricorda che ai fini della valutazione del PIL a parità di potere d’acquisto non viene utilizzato il cambio fra il dollaro e la moneta locale (cosa che sarebbe distorcente per diversi motivi) ma una tecnica ormai consolidata basata sul reale rapporto di potere d’acquisto fra le due monete. Come si nota si tratta di paesi caratterizzati da una povertà inimmaginabile per l’Europa ed il nord America, peraltro aggravata dal dato della distribuzione del reddito. Al riguardo si utilizza, (da parte delle maggiori organizzazioni economiche mondiali) un indice ideato dallo statistico italiano Corrado Gini (il fondatore dell’Istat) che prende, appunto il nome di “indice di Gini”, il cui valore va da 1 a 100, indicando nei valori più bassi una buona distribuzione del reddito e nei valori più alti una cattiva distribuzione. Come riferimento si noti che il valore di tale indice a livello mondiale nel 2009 è stato stimato pari a LUGLIO 2016 N. 3 / A.2 - Voci
Attualità
38,1, mentre per l’Italia nel 2012 è stato stimato pari a 31,9: Paese Indice di Gini Anno
Sierra Leone
62,9
1989
Niger 34,0 2007
Rep. Centro Africana
61,3
1993
Si può notare come in Sierra Leone e nella Repubblica Centro Africana il bassissimo reddito sia mal distribuito, aggravando ulteriormente la condizione economica di milioni di persone. Tuttavia ai dati reddituali si possono aggiungere altri indicatori egualmente significativi riguardo alle condizioni in cui vivono intere popolazioni di paesi da cui provengono ingenti flussi migratori, sia di migranti economici che di richiedenti asilo: (Fonte CIA – USA) https://www.cia.gov/library/publications/the-worldfactbook/rankorder/2102rank.html [dato mondiale (2015) = 68,7; Italia 2015 = 82,12]
Aspettativa di vita
% della popolazione popolazione che non dispone rurale di acqua potabile
Sud Sudan
41,3
43,1
Sierra Leone
37,4
52,2
Rep. Centro Afr.
31,5
45,6
31,5
42,7
Nigeria
Percentuale della popolazione che non dispone di assistenza sanitaria (fonte CIA – USA) https://www.cia.gov/library/publications/the-worldfactbook/fields/2217.html#xx [dato mondiale = 32,3; popolazione rurale = 49,5]
Paese
Aspettativa di vita alla nascita
Paese
Paese
alla nascita (2015)
% della popolazione popol. che non dispone di rurale assistenza sanitaria
Sud Sudan
93,3
95,5
Niger
89,1
95,4
Sierra Leone
86,7
93,1
Eritrea
84,3
92,7
Rep. Centro Afr.
78,2
92,8
Nigeria
53,02
Somalia
76,4
93,7
Somalia
51,96
Rep. Dem. Congo
71,3
71,3
Rep. Centro Africana
51,81
India
60,4
71,5
50,87
Sudan
76,4
86,6
Afghanistan
Percentuale di popolazione che non dispone di acqua potabile (fonte CIA – USA) https://www.cia.gov/library/publications/the-worldfactbook/rankorder/2216rank.html [dato mondiale (2015) = 8,9%; fra la popolazione rurale = 15,3%]
Paese
% della popolazione popol. che non dispone rurale di acqua potabile
Mortalità materna (fonte CIA – USA) https://www.cia.gov/library/publications/the-worldfactbook/fields/2223.html#af [dato mondiale = 216 madri morte ogni 100.000 nati vivi; Italia = 4 (2015)]
Paese mortalità materna ogni
Sierra leone
100.000 nati vivi (2015)
1.360
Somalia
68,3
91,2
Rep. Centro Africana
882
Rep. Dem. Congo
47,6
68,8
Chad
856
Sudan
44,5
49,8
Sud Sudan
789
Eritrea
42,2
46,7
Somalia
732
Niger
41,8
51,4
Rep. Dem. Congo
693
Voci - LUGLIO 2016 N. 3 / A.2
8
Attualità
A questi dati altamente significativi, va aggiunto – in estrema sintesi - quanto riporta Amnesty International nel rapporto 2015-2016 su alcuni dei paesi caratterizzati da ingenti flussi migratori in uscita, ma le cui situazioni sono meno note perché meno citate dalle cronache: Repubblica Centro Africana, Repubblica Democratica del Congo, Eritrea, Nigeria, Somalia, Sudan. Repubblica Centro Africana Dal 2013 è in corso una guerra civile che ha visto migliaia di vittime. “Tutte le parti in conflitto hanno commesso crimini di diritto internazionale, compresi crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Le operazioni di sicurezza condotte dai contingenti internazionali e le iniziative politiche, come il forum per la riconciliazione nazionale, che si è tenuto nella capitale Bangui a maggio, non sono riuscite a porre fine alle violazioni e agli abusi del diritto internazionale umanitario e delle norme internazionali sui diritti umani.” Repubblica Democratica del Congo “Il governo ha intensificato le misure repressive contro le proteste scatenate dai tentativi del presidente Kabila di ricandidarsi alla presidenza oltre i due mandati ammessi dalla costituzione. I diritti alle libertà d’espressione, associazione e riunione sono stati sempre più spesso sotto attacco. Difensori dei diritti umani, attivisti giovanili e politici sono stati minacciati, molestati, arrestati arbitrariamente e in alcuni casi condannati per aver esercitato pacificamente i loro diritti. Nel contesto 9
della persistente situazione d’incertezza nell’est della Repubblica Democratica del Congo (Democratic Republic of Congo – Drc), molti gruppi armati hanno commesso gravi violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario. Sia l’esercito congolese sia il contingente di peacekeeping delle Nazioni Unite (UN Organizazion Stabilization Mission in Drc – Monusco) non sono riusciti a proteggere la popolazione civile e questo ha portato a un elevato numero di vittime civili ed enormi flussi di sfollati.” Eritrea “Migliaia di cittadini eritrei hanno continuato a fuggire dal paese per sottrarsi al servizio militare a tempo indeterminato, un sistema a livello nazionale equiparabile al lavoro forzato. Durante l’estate, il terzo gruppo di persone per numerosità, dopo siriani e afgani, ad attraversare il Mediterraneo e la maggioranza delle vittime dei naufragi erano eritrei. Continuava a mancare uno stato di diritto; i partiti politici sono rimasti vietati e né mezzi d’informazione né università potevano svolgere le loro attività. Sono rimaste in vigore le restrizioni imposte alle libertà di religione e di movimento. La detenzione arbitraria senza accusa né processo è rimasta la norma per migliaia di prigionieri di coscienza.” Nigeria “È proseguito il conflitto tra l’esercito militare nigeriano e il gruppo armato Boko haram, che a fine anno aveva già causato la morte di decine di migliaia di civili e oltre due milioni di sfollati interni. Gli episodi di tortura e altri maltrattamenti per mano della polizia e delle forze di sicurezza sono rimasti LUGLIO 2016 N. 3 / A.2 - Voci
Attualità
frequenti. Le demolizioni di insediamenti informali hanno determinato lo sgombero forzato di migliaia di persone. I tribunali hanno emesso nuove condanne a morte ma non sono state segnalate esecuzioni.” Somalia “È proseguito il conflitto armato tra le forze del governo federale della Somalia (Somali Federal Government –Sfg), le truppe di peacekeeping della Missione dell’Au in Somalia (African Union Mission in Somalia – Amisom) e il gruppo armato al-Shabaab, nelle zone della Somalia centrale e meridionale. Tutte le parti in conflitto si sono rese responsabili di crimini di diritto internazionale e violazioni dei diritti umani, nell’impunità. I gruppi armati hanno continuato ad arruolare con la forza minori nelle loro file e a rapire, torturare e uccidere illegalmente civili. Sono dilagati gli episodi di stupro e altre forme di violenza sessuale. Il protrarsi del conflitto, il clima di generale insicurezza e le restrizioni che le parti belligeranti hanno imposto sul territorio hanno impedito l’accesso alle agenzie umanitarie in alcune regioni. Sono stati uccisi tre giornalisti; altri sono stati aggrediti, molestati o sono incorsi in pesanti sanzioni amministrative imposte dai tribunali.” Sudan “Le autorità hanno represso i mezzi d’informazione, le organizzazioni della società civile e i partiti politici dell’opposizione, tramite l’imposizione di gravi restrizioni alle libertà d’espressione, associazione e riunione. I conflitti armati in corso in Darfur, negli stati del Kordofan del Sud e del Nilo Blu hanno continuato a causare sfollamenti di massa e vittime
civili; tutte le parti impegnate nei suddetti conflitti hanno perpetrato violazioni dei diritti umani. Le forze governative hanno distrutto edifici civili, come scuole, ospedali e ambulatori medici situati nelle zone di conflitto e hanno ostacolato l’accesso delle agenzie umanitarie ai civili che necessitavano di aiuti a causa delle ostilità in corso.” La conclusione a cui si giunge dall’osservazione di queste situazioni è che il mondo vive oggi una condizione di ingiustizia sociale non meno diffusa e grave che in passato, malgrado nobilissimi proclami come la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo o le tante convenzioni internazionali, ingiustizia sociale peraltro alimentata da grandi potentati economici che risiedono nei paesi maggiormente sviluppati, quegli stessi paesi che si proclamano vittime dell’arrivo di milioni di persone in fuga dalla povertà, dalle guerre, dalle dittature, ossia da situazioni che in qualche modo arricchiscono qualcuno in “occidente”. Imparino i paesi economicamente più sviluppati a portare nel resto del mondo, anziché guerre e sfruttamento di uomini e risorse, sviluppo economico e crescita socio-economica, e aiutino tutti i popoli nella conquista delle libertà politiche, e verrà meno, per milioni di persone, la spinta a fuggire nella ricerca di condizioni di vita più umane.
Giuseppe Provenza Responsabile Gruppo Italia 243 di Amnesty International Sezione Italiana Membro del Coordinamento Europa di Amnesty International Sezione Italiana
APPELLO: STOP ALLE SPARIZIONI FORZATE IN EGITTO! La brutale uccisione di Giulio Regeni ha scioccato il mondo, ma ha anche acceso i riflettori sul metodo delle sparizioni forzate praticato in maniera sistematica oggi in Egitto. Un nuovo modello di violazione dei diritti umani che i ricercatori di Amnesty International hanno documentato attraverso fatti e testimonianze ...
SPARIZIONI FORZATE IN EGITTO LA STORIA DI GIULIO REGENI NON È UN CASO ISOLATO! Voci - LUGLIO 2016 N. 3 / A.2
FIRMA L’APPELLO ---> http://appelli.amnesty.it/
egitto-sparizioni-forzate/
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Diritti Civili e Politici
PERCHÉ L’ITALIA NON È UNO STATO DI DIRITTO? di Michele Iacoviello
Il concetto dello stato di diritto presuppone che l’agire dello Stato sia “vincolato” dalle leggi. Al contrario nello stato assoluto (ovvero absolutus = sciolto) il sovrano è libero da vincoli e regole. Se uno Stato non rispetta le sue stesse leggi, non può definirsi uno stato di diritto. L’ esame obiettivo della realtà italiana ci conferma necessariamente che lo Stato italiano non rispetta le leggi fondamentali. Basti pensare preliminarmente al fatto che l’attuale parlamento, secondo la Corte costituzionale (sent. n. 1 del 2014), è stato eletto con una legge elettorale incostituzionale, e che quindi le sue deliberazioni sono state considerate valide solo per il principio utilitaristico della conservazione degli effetti degli atti invalidi, posti in essere nell’esercizio di fatto di funzioni pubbliche. Così scrive in modo forbito la stessa Corte costituzionale: “Le elezioni che si sono svolte in applicazione anche delle norme elettorali dichiarate costituzionalmente illegittime costituiscono, in definitiva, e con ogni evidenza, un fatto concluso, posto che il processo di composizione delle Camere si compie con la proclamazione degli eletti. Del pari, non sono riguardati gli atti che le Camere adotteranno prima che si svolgano nuove consultazioni elettorali.” Questo dovrebbe comunque far pensare che l’attuale parlamento avrebbe dovuto solo gestire l’ordinaria
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amministrazione e al più presto convocare nuove elezioni. Al contrario l’attuale parlamento illegittimo ha eletto il presidente della Repubblica, 1/5 dei giudici della Corte costituzionale e soprattutto ha approvato una nuova costituzione, talvolta addirittura con voto di fiducia. Questo costituisce la violazione di qualsiasi principio costituzionale. Come se non bastasse lo Stato troppo spesso non recepisce le norme europee ed internazionali a cui liberamente aveva deciso un tempo di vincolarsi comunque. È noto che, malgrado le condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo, l’Italia non abbia ancora introdotto il reato di tortura. È altresì noto che le vittime dei reati non sono adeguatamente tutelate dallo Stato, che anche per questo è stato condannato in sede europea. Ancora in sede europea l’Italia è stata condannata per il suo assurdo regime della prescrizione penale, che estingue troppi reati. Ad esempio in materia fiscale, di evasione Iva, lo Stato italiano non punisce gli evasori a causa della prescrizione e questo pone anche un problema di concorrenza sleale con le imprese degli altri Stati che sono obbligate a versare l’Iva, mentre in Italia troppo spesso questo reato viene dichiarato prescritto, con indebito vantaggio delle imprese italiane. È inutile stabilire che certi comportamenti sono illeciti e costituiscono reato, quando poi la loro LUGLIO 2016 N. 3 / A.2 - Voci
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applicabilità concreta è ostacolata da un regime di prescrizione unico al mondo. Infatti l’Italia è l’unico Stato in cui la prescrizione decorre dal momento in cui è stato commesso il reato (anziché dal momento della sua scoperta) ed inoltre decorre altresì durante il processo. Questo provoca a sua volta una grande lentezza processuale poiché tutti i colpevoli vengono incoraggiati a resistere in giudizio, senza ricorrere a patteggiamenti e riti alternativi, poiché puntano al traguardo della prescrizione. In questo modo in Italia si celebra un numero di processi assurdo che intasa la macchina della giustizia. Ma anche nei pochi casi in cui si arriva, con un po’ di fortuna, al traguardo della condanna definitiva, assai spesso la pena in concreto non viene applicata. Da un lato infatti, a causa della scarsità dei posti in carcere (che provoca assurde ed inumane condizioni di detenzione), si è abbondato in misure alternative alla detenzione e quindi troppo facilmente vengono scarcerati delinquenti ancora pericolosi. Inoltre addirittura, come insegna la cronaca di questi giorni (v. fatto Quotidiano del 17 giugno 2016), nel Tribunale di Napoli vi sono state 50.000 sentenze di condanna e di confisca, che sebbene definitive non sono state applicate per mancanza di personale ausiliario. In concreto vi sono stati delinquenti condannati con sentenza definitiva che nessuno aveva il tempo di andare ad arrestare e mettere in carcere. Viene quindi a mancare la effettività della legge. Ancora dobbiamo osservare che, secondo un principio elementare dello Stato di diritto le leggi dovrebbero essere chiare ed accessibili a tutti. È dai tempi antichi del codice di Hammurabi che si è sentita l’esigenza di una legge scritta, immutabile e chiara. Questo è il fondamento dello Stato di diritto. Ad esempio le norme europee sono tutte leggibili in modo chiaro, con articolazione nei vari articoli e con omogeneità della materia disciplinata. Al contrario le leggi italiane troppo spesso regolano le materie più eterogenee, e sono espresse in modo inestricabile. Ogni anno si assiste, nella legge di stabilità, all’approvazione notturna di maxi emendamenti mostruosi di oltre 700 commi approvati in poche ore senza che nessuno possa aver avuto il tempo materiale nemmeno di leggerli (non parliamo poi addirittura di comprenderne il contenuto). Siamo quindi sempre più governati da leggi che non vengono nemmeno lette da chi le approva. Inoltre le leggi attuali, da ormai troppi anni, sono comprensibili soltanto dagli addetti
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ai lavori (e nemmeno tutti) e con molta fatica, usando apposite banche dati telematiche che permettono di comprendere tutti i numerosissimi ed intricati rimandi a decreti legge convertiti con modificazioni. Una legge che risulti incomprensibile ed inestricabile pone necessariamente dei problemi di democrazia, poiché fa venir meno il requisito della legge chiara scritta che è una caratteristica dello Stato di diritto. Se le leggi sono comprensibili solamente a pochi addetti agli uffici legislativi dei ministeri e delle commissioni parlamentari, si deve prendere atto che il popolo non è in grado di controllare l’operato dei suoi parlamentari. Infine, sempre di più si assiste a un trasferimento della funzione legislativa dal parlamento al governo. Non è forma, ma è sostanza. Il c.d Jobs Act non è un testo di legge votato dal parlamento, ma è un insieme di vari decreti legislativi approvati nelle stanze del governo, a seguito di SMS inviati da lobbisti interessati a questa o quella innovazione. Mentre la costituzione richiede che la delega al governo (articolo 76) debba contenere strettamente “principi e criteri direttivi “ in modo che il contenuto sia comunque deciso dal parlamento, oggi si tendono a emanare leggi delega molto vaghe e generiche in modo da dare sostanzialmente una delega in bianco e poteri amplissimi al governo. In questo modo chi è eletto dal popolo, di fatto non vota più le leggi. Tirando le conclusioni siamo oggi in presenza di: ff illegittimità del parlamento; ff violazione delle norme costituzionali ed europei; ff mancanza di effettività nell’applicazione della legge; ff incomprensibilità delle leggi emanate; ff trasferimento della funzione legislativa in modo inappropriato dal parlamento al governo. Viene meno pertanto pericolosamente la funzione garantistica della legge validamente votata, come previsto dalla costituzione a favore dei cittadini in uno stato di diritto.
Michele Iacoviello Avvocato di diritto del lavoro e della previdenza sociale
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Armi e Conflitti
SEMPRE PIÙ ARMI A REGIMI AUTORITARI: PER LA NOSTRA SICUREZZA? di Giorgio Beretta
Ha fatto notizia il cosiddetto “Emendamento Regeni” con il quale a fine giugno Senato si è pronunciato a favore della sospensione dell’invio alla Repubblica araba d’Egitto di parti di ricambio per i caccia F-16. Un segnale del Parlamento per la scarsa collaborazione delle autorità egiziane nella ricerca dei responsabili dell’uccisione al Cairo del ricercatore italiano Giulio Regeni. Tuttavia – come si è affrettato a specificare il relatore Gian Carlo Sangalli (PD) – “l’emendamento non vuole essere un atto ostile al governo egiziano”. Un’azione, quindi, dal valore poco più che simbolico, ma che comunque – ha notato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia – rappresenta “un segno di attenzione per la tragica situazione dei diritti umani in Egitto”. Sistemi di sorveglianza e armi all’Egitto Negli stessi giorni in cui il Senato votava l’emendamento, il Ministero dello Sviluppo Economico (Mise) concedeva però ad un’azienda italiana, la Area spa di Vizzola Ticino (Varese), l’autorizzazione per l’esportazione in Egitto di una tecnologia di
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sorveglianza delle comunicazioni via internet. La tecnologia, del valore di oltre 3 milioni di dollari, è destinata al Technical Research Department (TRD) del Cairo, “un’unità opaca, autonoma e priva di controlli democratici dell’intelligence e degli apparati egiziani, protagonista di una intensa attività di sorveglianza delle comunicazioni sia di massa che mirata” – riporta Carola Freudiani in un ampio articolo per “La Stampa”. Amnesty Italia ha commentato la notizia via twitter chiedendo al Governo italiano “di sospendere la fornitura di software-spia, perché sono a rischio i diritti umani dei dissidenti egiziani”. Già in precedenza, Amnesty Italia aveva richiamato l’attenzione sulle forniture di armi dall’Italia per gli apparati di pubblica sicurezza egiziani: si tratta – come ho documentato per l’Osservatorio OPAL di Brescia – di 30mila pistole e più di mille fucili a canna liscia inviati tra il 2014 e il 2015 nonostante sia tuttora in vigore la decisione assunta nell’agosto del 2013 dal Consiglio Europeo di sospendere le licenze
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di esportazione verso l’Egitto di armi e materiali che possono essere utilizzati a fini di repressione interna. L’Italia non è l’unico paese ad aver inviato armi e sistemi militari al regime di al Sisi: lo riporta Amnesty International evidenziando che, solo nel 2014, gli stati dell’Unione europea hanno emesso 290 autorizzazioni all’esportazione di forniture militari all’Egitto, per un valore di oltre sei miliardi di euro, tra cui piccole armi, armi leggere e relative munizioni, veicoli blindati, elicotteri, armi pesanti per operazioni anti-terrorismo e tecnologia per la sorveglianza. Il tutto nonostante stia continuando nel paese una brutale repressione: sono più di 41mila le persone arrestate in modo arbitrario dalle autorità egiziane e centinaia gli scomparsi, tra cui numerosi attivisti per i diritti umani, di cui non si ha notizia da mesi. Il Parlamento europeo lo scorso marzo ha approvato a larga maggioranza una risoluzione che rinnova agli Stati membri la richiesta di sospendere l’invio in Egitto di armi e materiali che possono essere utilizzati per la repressione interna: ma alcuni giorni dopo il presidente francese, François Hollande, è volato al Cairo per firmare diversi accordi commerciali tra cui uno di vendita di equipaggiamenti militari da un miliardo di dollari.
Ancora bombe all’Arabia Saudita Sono inoltre continuate nei mesi scorsi le spedizioni dall’Italia all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti di bombe aeree: si tratta – come ho riportato nell’articolo per “Voci” dell’anno scorso – di bombe prodotte nello stabilimento di Domusnovas in Sardegna dalla RWM Italia, azienda tedesca del gruppo Rheinmetall. Anche in questo caso le spedizioni sono state effettuate nonostante una risoluzione del Parlamento europeo dello scorso febbraio abbia chiesto alla Vicepresidente della Commissione ed Alto Rappresentante della Politica Estera, Federica Mogherini, di “avviare un’iniziativa finalizzata all’imposizione da parte dell’UE di un embargo sulle armi nei confronti dell’Arabia Saudita, tenuto conto delle gravi accuse di violazione del diritto umanitario internazionale da parte di tale paese nello Yemen”. La ministra della Difesa, Roberta Pinotti ha ripetutamente cercato di sminuire la responsabilità italiana nelle spedizioni di queste bombe ma nelle scorse settimane, rispondendo ad una interrogazione parlamentare, il Governo tedesco ha dichiarato che “nessuna competente autorizzazione” è stata emessa da Berlino per componenti riguardanti gli ordigni prodotti a Domusnovas ed inviati alle forze militari dell’Arabia Saudita. Ad oggi sono oltre 8mila i morti, di
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La risoluzione dell’Europarlamento – fortemente richiesta dalle associazioni della società civile – nell’esprimere “grave preoccupazione per gli attacchi aerei da parte della coalizione a guida saudita e il blocco navale da essa imposto allo Yemen, che hanno causato la morte di migliaia di persone” evidenzia che queste azioni “hanno ulteriormente destabilizzato il paese, stanno distruggendo le sue infrastrutture fisiche, hanno creato un’instabilità che è stata sfruttata dalle organizzazioni terroristiche ed estremiste, quali l’ISIS/Daesh e l’AQAP, e hanno aggravato una situazione umanitaria già critica”. La risoluzione evidenzia inoltre che “alcuni Stati membri dell’UE hanno continuato ad autorizzare il trasferimento di armi e articoli correlati verso l’Arabia Saudita dopo l’inizio della guerra” e afferma chiaramente che “tali trasferimenti violano la posizione comune 2008/944/PESC sul controllo delle esportazioni di armi, che esclude esplicitamente il rilascio di licenze relative ad armi da parte degli Stati membri laddove vi sia il rischio evidente che la tecnologia o le attrezzature militari da esportare possano essere utilizzate per commettere gravi violazioni del diritto umanitario internazionale e per compromettere la pace, la sicurezza e la stabilità regionali”. Finora nessuna iniziativa è stata assunta dai governi dei paesi membri per far implementare questa risoluzione.
cui più della metà tra la popolazione civile, e migliaia gli sfollati a seguito dell’intervento militare guidata dall’Arabia Saudita: si tratta, secondo l’Agenzia per gli Aiuti umanitari dell’ONU (OCHA) della maggior crisi umanitaria di tutto il Medio Oriente. Paradossalmente, mentre funziona il blocco degli aiuti, le forniture di armi e sistemi militari continuano ad arrivare indisturbate.
L’UE nel bazar armato del Medio Oriente Non è una novità che i paesi dell’Unione europea, per mantenere competitive le proprie aziende militari costrette a fronteggiare le riduzioni dei budget per la Difesa, stiano incentivando le esportazioni di armamenti ai paesi della Penisola Arabica. Secondo i dati dell’ultimo Rapporto dell’Unione europea nel 2014 il Medio Oriente è stato infatti il principale
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destinatario delle esportazioni di sistemi militari dei paesi dell’Ue: si tratta di oltre 31,5 miliardi di euro di licenze. Questo significa che i paesi dell’UE stanno vendendo rilevanti quantità di armamenti nella zona del mondo di maggior tensione in gran parte governata da regimi autoritari. Nonostante gli espliciti divieti contenuti nella Posizione Comune (2008/944/PESC), i paesi dell’UE hanno continuato ad autorizzare esportazioni di sistemi militari e di armi leggere a governi che abusano dei diritti umani ed a paesi coinvolti attivamente in guerre, come l’Arabia Saudita (3,9 miliardi di euro), il Qatar (11,5 miliardi), l’Egitto (6,2 miliardi) e Israele (998 milioni). Che il Medio Oriente stia diventando un gran bazar degli armamenti “Made in UE” lo dimostra anche il fatto che i ministri della Difesa (e pure le signore ministre della Difesa) dei paesi europei sono sempre più presenti alle esposizioni di armamenti dei paesi del Golfo, tra cui la fiera Idex di Abu Dhabi a cui partecipa puntualmente la ministra Pinotti. Nonostante gli ingenti affari, i governi europei sono però alquanto riluttanti a fornire informazioni dettagliate sulle proprie esportazioni di sistemi militari. E’ sufficiente uno sguardo alla corposa Relazione dell’Ue (qui disponibile in italiano) – pubblicata come sempre con enorme ritardo – per scoprire che diversi Stati membri non comunicano secondo gli standard comuni richiesti, e che alcuni dei maggiori esportatori non forniscono all’UE i dati sulle esportazioni effettive (consegne) di armamenti: tra questi figurano il Regno Unito e la Germania, ma anche la Francia e l’Italia non rivelano i dati sulle
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esportazioni secondo le specifiche categorie di sistemi militari. Invece di migliorare, la Relazione europea sta peggiorando di anno in anno e questo malgrado i ripetuti appelli delle associazioni della società civile e le esplicite richieste del Parlamento europeo. Una tale mancanza di trasparenza non dovrebbe più essere tollerata, ma i governi europei fanno orecchie da mercante. Da mercante di armi, appunto.
I nuovi affari di Finmeccanica Negli ultimi mesi il governo Renzi ha firmato nuovi accordi per forniture di sistemi militari con alcune monarchie del Golfo che fanno parte della coalizione che sta bombardando lo Yemen. A cominciare dal Kuwait con il quale il Ministero della Difesa in aprile ha siglato un accordo intergovernativo che prevede la fornitura di 28 caccia Eurofighter. “Si tratta del più grande traguardo commerciale mai raggiunto da Finmeccanica” - ha commentato trionfante Mauro Moretti, Amministratore Delegato e Direttore Generale di Finmeccanica. Il contratto prevede anche il supporto operativo e “dell’addestramento di equipaggi di volo e personale di terra, che saranno svolte in collaborazione con l’Aeronautica Militare Italiana”. In buona sostanza, la nostra Aeronautica Militare addestrerà i piloti kuwaitiani che andranno a bombardare lo Yemen e i prossimi teatri di guerra. Non solo. Nei giorni scorsi la ministra della Difesa, Roberta Pinotti e il ministro per gli Affari della Difesa del Qatar, Khalid bin Muhammad Al-Attiyah, hanno sottoscritto un accordo per la cooperazione nel settore navale tra i due paesi. La notizia campeggia sul sito
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del Ministero della Difesa che riporta che sono stati firmati, inoltre, dal Ministro della Difesa del Qatar e dagli amministratori delegati di Fincantieri e di MBDA (azienda del gruppo Finmeccanica) i contratti per la fornitura di mezzi navali e sistemi d’arma per circa 5 miliardi di euro. Non poteva mancare, anche in questo caso la soddisfazione dell’AD di Finmeccanica, Mauro Moretti. Finmeccanica infatti fornirà a Fincantieri sistemi e sensori navali di ultima generazione per le 7 nuove navi destinate alla Qatar Emiri Naval Forces. Le 7 unità - di cui 4 corvette, 1 Landing Platform Deck e 2 Off-shore Patrol Vessel - saranno impiegate per compiti di sorveglianza e pattugliamento marittimo nelle acque territoriali e nella “zona economica esclusiva”. Nessun accenno, ovviamente, al fatto che anche il Qatar fa parte della coalizione che da oltre un anno sta bombardando lo Yemen.
E vendiamo pure “l’usato sicuro” Gli affari di armi non si limitano ai nuovi contratti. L’ultima iniziativa è quella di vendere “l’usato sicuro”. Il Ministero della Difesa e la Marina Militare sono infatti diventati i “big player” della manifestazione fieristica “SeaFuture” della Spezia durante la quale hanno cercato acquirenti per le navi dismesse dalla Marina Militare. Con l’approvazione, nel dicembre del 2014, della cosiddetta “Legge navale” (sulla quale il parlamento ha chiesto al Ministero della Difesa urgenti chiarimenti anche a seguito delle notizie emerse nell’ambito dell’inchiesta “Tempa Rossa” in cui è stato iscritto nel registro degli indagati per abuso d’ufficio e traffico d’influenza l’ex Capo di Stato maggiore della Marina, ammiraglio Giuseppe de Giorgi), la Marina Militare ha adesso a disposizione un gigantesco stanziamento di 5,4 miliardi di euro per il rinnovo di gran parte della propria flotta. Può quindi permettersi di provare a piazzare sul mercato le navi dismesse. In ballo ci sono – come ha spiegato tempo fa la ministra Pinotti – 54 vascelli per un totale di 35mila tonnellate di unità navali dismesse o in dismissione: dalle unità della classe Maestrale non ammodernate, alle classe Soldato, dalle unità classe Minerva ai cacciamine classe Lerici. Come ha affermato l’ammiraglio Roberto Camerini nella conferenza stampa di presentazione, queste navi rappresenterebbero “un buon affare per le marine estere più piccole”. Anche in questo caso tra i potenziali acquirenti figurano paesi attivi nel conflitto in Yemen come Bahrain, Emirati Arabi Uniti e Egitto. Ma su questo punto problematico, nessun commento dal governo Renzi.
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Il business del controllo delle frontiere Per contrastare gli sbarchi di migranti e di persone in cerca di rifugio, l’Unione europea invece di sospendere l’invio di armi a paesi in guerra, ha messo in campo una serie di politiche per rafforzare le frontiere esterne. Nel 2015 questo mercato ha comportato affari per 15 miliardi di euro, ma entro il 2022 supererà i 29 miliardi. Frontex, la controversa agenzia europea per la gestione comune delle frontiere dell’Unione, è arrivata quest’anno ad avere un budget di 238,7 milioni di euro contro i 6,3 del 2005, cifra che segna un aumento del 3.688 percento negli ultimi undici anni. Chi sta maggiormente approfittando della “crisi dei migranti” sono, ancora una volta, le industrie europee della difesa. A queste industrie – documenta il rapporto “Border Wars” della Ong olandese Stop Wapenhandel e diffuso in Italia da Rete Disarmo – è andata gran parte dei 316 milioni di euro forniti dall’UE per la ricerca in materia di sicurezza. Ne hanno beneficiato soprattutto le aziende produttrici di sistemi militari come Airbus, Thales e Safran, Indra. Ma anche il colosso italiano Finmeccanica. Proprio Finmeccanica e Airbus sono stati i vincitori di contratti dell’UE particolarmente importanti volti a rafforzare i controlli delle frontiere. Airbus è anche il vincitore dei maggiori contratti di finanziamento dell’UE della ricerca nel settore della sicurezza. Non è certamente un caso: questi colossi degli armamenti stanno infatti contribuendo a determinare la politica europea di sicurezza delle frontiere con capillari attività di lobby. L’Organizzazione europea per la Sicurezza (EOS) comprende Thales, Finmecannica e Airbus e diverse sue proposte sono diventate politiche europee: è il caso, ad esempio, della trasformazione proprio di Frontex in “Guardia costiera e di frontiera europea” (European Border and Coast Guard - EBCG).
In estrema sintesi: le aziende della difesa non solo continuano a fare affari vendendo armamenti ai paesi in zone di conflitto, ma hanno trovato il modo di trarre profitti dalla crisi dei migranti che loro stesse alimentano fornendo armi e sistemi militari. Nel frattempo cresce l’insicurezza collettiva ed aumenta la presenza di militari armati nelle nostre città.
Giorgio Beretta Sociologo, membro della Rete Italiana per il Disarmo
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Sociologia
IMMIGRAZIONE: STILI DI VITA E SALUTE di Aurelio Angelini
La tutela della salute in Italia è sancita dall’articolo 32 della Costituzione che, identificando la salute come “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” non la limita alla cittadinanza italiana o allo status (regolare o irregolare) di residenza. Da qui il diritto di qualunque straniero in Italia di usufruire dei servizi sanitari pubblici (Titolo V della legge 40 del 1998 attuata con norme nazionali, regionali e locali). L’assistenza sanitaria allo straniero in Italia è regolata da norme nazionali e politiche locali. Il testo di riferimento giuridico sull’immigrazione è il Decreto Legislativo n. 286 del 1998 “Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero” che, con il Regolamento d’attuazione (D.P.R n. 394/1999) garantisce il diritto di inclusione ordinaria dei migranti nel sistema di tutela della salute. L’articolo 34 si occupa della questione “assistenza agli stranieri iscritti al Servizio sanitario nazionale (Ssn)”. L’articolo 35 riguarda le condizioni di assistibilità degli stranieri non iscritti al Ssn o perché migranti a breve termine (studenti, turisti, ecc) o perché non in regola. Alcune modifiche sono state introdotte con il D.P.R. 334/2004 che stabilisce per esempio che l’iscrizione non decade nella fase di rinnovo del permesso di soggiorno. Il Testo unico ha influito sui Piani sanitari nazionali e ha dato sia un
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input alle politiche regionali e locali, che nella realtà quotidiana. 1 Da un’analisi della letteratura sulle condizioni sociali e sanitarie dell’immigrato, si possono determinare alcune aree critiche che necessitano di particolare attenzione soprattutto in termini di programmazione e di pianificazione di politica e di comunicazione socio-sanitaria. Possiamo suddividere queste aree in tre ambiti sommariamente delimitati da alcune condizioni patologiche, fisiologiche e sociali. ff condizioni patologiche: malattie infettive (tb, mst, ...), malattie dermatologiche, disagio/ malattie psichiatriche, traumi e incidenti, NCD; ff condizioni fisiologiche: maternità, infanzia, vecchiaia; ff condizioni sociali: prostituzione e tratta, abuso, detenzione; ff aggravanti: disagio sociale, immigrazione “forzata” o “non selezionata”, irregolarità giuridica, mancanza/difficoltà accesso ordinario strutture sanitarie. 1 - Approfondimenti nel documento: La tutela della salute degli immigrati nelle politiche locali (http://www.caritasroma.it/wp-content/uploads/2010/09/DIRITTO_ ALLA_SALUTE.pdf)
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Sociologia
A queste vanno associate le problematiche sociosanitarie dell’immigrazione: ff legate allo status giuridico: accesso ordinario al SSN (diversificato o negato); pregiudizi e paure (da parte dell’immigrato e da parte del sanitario); diritti nascosti; ff legate alla marginalità sociale, fisica-ambientale (fattori di rischio per la salute fisica), psicologico-sociale (fattori di rischio per la salute psichica); ff legate alla marginalizzazione culturale e ai diversi sistemi biomedici di riferimento. (Geraci, Marceca, Mazzetti, 2000; Jayaweera, 2013). Su questo terreno fertile si innestano molto facilmente una serie di patologie. Ad oggi ci si è molto soffermati sulle malattie trasmissibili tra i migranti, ma si osserva una crescita importante anche tra le non trasmissibili che merita una analisi approfondita e la pianificazione di interventi mirati. I cittadini stranieri sono un collettivo “selezionato” sia rispetto al Paese di origine, sia rispetto agli italiani: sono mediamente giovani e in buona salute e anche eliminando il vantaggio derivante dalla struttura per età più giovane, gli indicatori di salute percepita confermano migliori condizioni di salute rispetto agli italiani. Il sistema sanitario deve preservare questo patrimonio di salute ed evitare che il processo di integrazione della popolazione straniera si accompagni al peggioramento delle condizioni di salute. Nell’accesso ai servizi, la fruibilità delle prestazioni è centrale per il mantenimento ed il miglioramento delle condizioni di salute degli immigrati. La popolazione immigrata si trova spesso di fronte a ostacoli linguistici e burocratici che possono renderla vulnerabile, intralciare i percorsi sanitari e favorire complicanze delle malattie. Per dare uniformità di risposta rispetto alle cure nelle Regioni e nelle Province autonome e per raccogliere in un unico strumento le norme nazionali e regionali sull’assistenza sanitaria agli immigrati, il 20 dicembre 2012, la Conferenza Permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, ha definito un Accordo sul documento “Indicazioni per la corretta applicazione della normativa per l’assistenza sanitaria alla popolazione straniera da parte delle Regioni e Province Autonome italiane”. 2 Le norme non bastano per garantire l’accesso ai servizi e alle prestazioni sanitarie. La “paura” e la diffidenza 2 - Per dettagli sulla normativa italiana sul tema, si vedano anche le pagine dedicate sul sito della Società italiana di medicina delle migrazioni (Simm). (http://www.simmweb.it/index.php?id=303&no_cache=1)
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nei confronti del Ssn da parte degli “irregolari” rimangono un problema. Si aggiungono a questo le difficoltà linguistiche e le differenze culturali. Diventa cruciale la formazione degli operatori, per una efficace presa in carico dei migranti e necessaria l’informazione-mediazione verso gli stranieri e la comunicazione verso la società ospitante. Nelle migrazioni un ruolo importantissimo è delle donne. La femminilizzazione dei flussi migratori, e la concentrazione di donne in età fertile, solleva il problema della salute riproduttiva e materno-infantile, e del contributo dei figli dell’immigrazione. Attraverso i dati annuali del Dossier Statistico Caritas/Migrantes 2012 3 è possibile valutare questa situazione: all’inizio degli anni ’90 le donne straniere presenti in Italia non raggiungevano le 300 mila unità, all’inizio del 2000 avevano superato il milione di unità. Alla fine del 2010, le donne sono oltre 2 milioni e 300 mila e costituiscono il 51,8% del totale degli stranieri (nel 2011 la presenza femminile tra i soli soggiornanti non comunitari è del 49,5%). La componente femminile è molto maggiore tra gli immigrati provenienti dall’Europa Orientale rispetto a quelli di origine africana o asiatica, con oltre il 70% per molti Paesi dell’Est Europa, dell’Ex-Unione Sovietica e del Brasile. La distribuzione territoriale è simile a quella di tutta la popolazione migrante: 37% risiede nelle Regioni del Nord-Ovest, 29% in quelle del Nord-Est, 22% nel Centro, il 9% al Sud e il 3% nelle Isole. Esiste una varietà anche nei profili e nei percorsi di integrazione delle donne che, sebbene sia ancora 3 - Cfr. http://www.dossierimmigrazione.it/docnews/file/2012_Dossier_Scheda.pdf
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Sociologia
molto determinata dai ricongiungimenti familiari, in particolare per alcune nazionalità (Pakistan, Bangladesh, Egitto, Macedonia, Tunisia, Giordania, Algeria), prende molte forme. Sono moltissime le donne “primomigranti” (breadwinner o “apripista”) – storicamente arrivano dalle Filippine e più di recente dal Sud America e dall’Europa orientale. Importante anche la presenza delle donne rifugiate o richiedenti asilo o delle vittime della tratta e dello sfruttamento della prostituzione.
sue complicanze (International Diabetes Federation atlas, 2013)
Una ricaduta della presenza femminile straniera, di giovane età, è visibile rispetto alle nascite. Nel 1986 i nati da genitori entrambi stranieri erano l’1% dei nati in Italia, nel 1996 il 4,5%, nel 2010 circa 2 nuovi nati su 10 sono stranieri e, esaminando solo le Regioni del Nord le nascite da madri stranieri arrivano al 30% del totale. Con una media di 2,13 figli ciascuna, le donne straniere contribuiscono alla fecondità nazionale e a invertire il calo demografico italiano.
Lo scopo della terapia del diabete mellito è quello di evitare lo sviluppo delle complicanze della malattia. Si è dimostrato che un controllo intensivo della glicemia al fine di ottenere livelli il più possibile vicini alla normalità è associato a tassi inferiori di complicazioni cardiovascolari in entrambi i tipi di diabete.
Il diabete mellito è una malattia cronica caratterizzata da elevati livelli di glucosio nel sangue (iperglicemia), dovuta a un difetto dell’azione dell’ormone insulina. La prevalenza mondiale del diabete pari all’8,3% (366 milioni di persone) nel 2011, è stimata crescere nel 2030 fino al 9.9% (552 milioni di persone) nel 2030, il che si traduce in circa 3 nuovi casi di diabete ogni 10 secondi (Choudhary, Genovese, Reach, 2013). Il diabete (associato all’obesità) costituisce pertanto una pandemia, che già nel 2010 ha assorbito l’11% della spesa mondiale per la salute, a causa della disabilità e la mortalità associate alla malattia e alle
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Lo step fondamentale della cura del diabete mellito, prima della terapia farmacologica, è rappresentato dall’educazione del paziente a un corretto stile di vita, che in termini di alimentazione (dieta ipoglucidica, astensione o riduzione d’utilizzo di sostanze dannose) che di attività fisica (regolare e prevalentemente aerobica).
Uno dei principali ostacoli all’ottenimento di un controllo glicemico così stringente dei pazienti con diabete è rappresentato dalla paura degli episodi ipoglicemici (sudorazione “fredda”, nausea, tachicardia, irritabilità, formicolio a lingua e labbra, confusione, sensazione di svenimento fino alla perdita di coscienza). Questa paura può portare i pazienti, ma anche alcuni operatori addetti alle cure, a essere troppo conservativi nel trattare la malattia e a non mirare a livelli glicemici ideali. Il risultato di questa inerzia terapeutica è uno scarso controllo del compenso glicemico e una maggiore incidenza di complicanze future. Quindi, tra i comportamenti di cura gioca un ruolo fondamentale l’educazione da parte del personale sanitario all’autocontrollo della glicemia al domicilio e alla gestione dei possibili episodi ipoglicemici.
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Sociologia
La qualità di vita nei pazienti diabetici è spesso compromessa ed è stato largamente dimostrato come gli aspetti emotivi legati alla diagnosi, al bisogno di cure quotidiane e alle complicanze acute e croniche abbiano un forte impatto sul benessere fisico, psicologico e sociale del paziente. Tali difficoltà si presentano in entrambe le forme di diabete, che richiedono continua assistenza medica e un livello di autogestione della terapia superiore a qualsiasi altra malattia cronica non trasmissibile. Ciò che caratterizza questa differenza è la grande quantità di azioni e responsabilità personali che il paziente deve mettere in campo quotidianamente per la propria cura: la gestione diabete non può essere delegata totalmente al medico e, anzi, richiede trasformazioni profonde nella vita quotidiana di chi ne è affetto, rispetto a ciò che si mangia, all’attività fisica, a come si viaggia, a come si comunica con i propri cari e amici, fino a condizionare anche i momenti più intimi della propria esistenza. Si stima che circa il 20-40% dei pazienti presenta difficoltà psicologiche intese come disturbi emotivi legati alla malattia (es. paura di incorrere in ipoglicemia, in complicanze future) o preoccupazioni più generali quali sintomi di stress, ansia e depressione. La solitudine e scarse risorse economiche ostacolano l’aderenza, soprattutto alle prescrizioni che necessitano di un sostegno finanziario e famigliare come alimentazione, attività fisica e regolari controlli periodici, centrali nel trattamento del diabete. Non da ultimo, gli aspetti legati alla qualità della comunicazione e della relazione con l’operatore sanitario, così come a un’efficiente organizzazione del servizio (es. presenza dello stesso specialista ai controlli, tempi di attesa brevi, lungaggini burocratiche) risultano fondamentali nel favorire una buona aderenza da parte del paziente. Per questo, gli interventi educativi hanno recentemente subito una svolta da un approccio meramente didattico-informativo a un modello teorico basato sull’empowerment e centrati sulla persona e sul paziente. Il solo miglioramento della conoscenza in merito a temi e comportamenti di rilevanza medica non porta sempre a un’adeguata auto-gestione della malattia. Di fatto, prendersi cura di sé stessi nella quotidiana gestione terapeutica della malattia cronica può di per sé evocare pensieri ed emozioni negative legate alla malattia. Per evitare il continuo e giornaliero confronto con questi pensieri ed emozioni l’individuo può trovarsi a rimandare, evitare e non emettere i corretti comportamenti di gestione della malattia, arrivando paradossalmente a peggiorare proprio quella condizione di salute che lo preoccupa. Voci - LUGLIO 2016 N. 3 / A.2
Inoltre, modificare abitudini consolidate e automatiche (anche se dannose) è difficile per l’essere umano. La mente umana non ama l’incertezza e il cambiamento di per sé porta a confrontarsi con l’ignoto e, soprattutto, con la concreta possibilità di fallire. Per questo, l’essere umano tende a perpetuare comportamenti che sa essere potenzialmente dannosi grazie al fatto che sono fonte di immediato sollievo e anche di certezza. Infine, ma non meno importante, bisogna considerare come l’essere umano sia spesso portato a seguire eccessivamente le regole proposte e sostenute dal proprio contesto culturale e sociale di appartenenza anche a dispetto di comportamenti inefficaci. Se, per esempio, all’interno di una cultura, l’eccesso di alimentazione ipercalorica e il sovrappeso sono considerati simboli di potere, benessere, salute e status socio-economico elevato, sarà fondamentale prendere in considerazione che l’eventuale rigida adesione al sistema di regole della cultura di appartenenza potrà fungere da ostacolo alla modificazione di stili comportamentali scorretti. Le teorie comportamentali hanno dimostrato che i comportamenti a cui siamo esposti in qualità di osservatori costituiscono una potentissima fonte di apprendimento e che, al contrario, l’apprendimento basato su conseguenze avversive e penalizzanti sia più debole, contesto dipendente e sostenuto da emozioni quali la paura e non dall’acquisizione di repertori comportamentali ricchi e funzionali. Per questo, mirare alla prevenzione di comportamenti negativi e dannosi per la salute attraverso campagne educative e di comunicazione che mirano a spaventare o giudicare moralmente i riceventi, non è stata una strategia efficace. Se viviamo in contesti dove abbiamo imparato alcune condotte attraverso il comportamento stesso delle figure di riferimento (genitori, insegnanti, familiari, ecc.) questi comportamenti tenderanno a essere mantenuti in questi contesti (casa, famiglia, scuola) anche se vengo informato dei danni che provocano. Viceversa modelli genitoriali, familiari, sociali e culturali che mostrano di dare valore alle emozioni anche negative e di poterne parlare e di adottare molteplici strategie comportamentali per affrontarle, sono capaci di promuovere corretti e sani stili comportamentali legati a benessere e salute, anche in presenza delle reali difficoltà della vita di tutti i giorni.
Aurelio Angelini Docente presso l’università di Palermo di Sociologia dell’ambiente; Sociologia delle migrazioni; Ecologia.
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Storia
GLOBALIZZAZIONE, RIVOLUZIONE POSTMODERNA, DEMOCRAZIA E DIRITTI UMANI di Giuseppe Carlo Marino
Nel pormi dinanzi alla questione specifica della cosiddetta “globalizzazione” − con l’obiettivo di vagliarne alcuni aspetti di rilevanza storica incisivi sui processi in corso al di là della stessa dimensione dell’ economia nella quale il fenomeno è fondamentalmente registrato e variamente interpretato – sono stato guidato nel giudizio da un’analisi che avevo già svolto addirittura un decennio fa, quando la globalizzazione era ancora argomento acerbo di non molti studiosi, in un mio libro di piuttosto scarsa fortuna (Eclissi del principe e crisi della storia, Milano, Angeli 2000), scritto allora con le intenzioni di quei naufraghi che consegnano i loro estremi messaggi ad una bottiglia chiusa, affidata alle onde del mare. Adesso, mi trovo io stesso nella fortunata condizione di aver ritrovato quella bottiglia e, riaprendola, di verificare che a tanta distanza di tempo quel che allora era acerbo adesso è diventato maturo.
dallo scontro tra il cosiddetto “mondo libero” e il rosso “impero del male” con il suo corredo di “Stati canaglia”. C’era, in quel clima (l’autore in voga era un sociologo nippo-americano che si chiama, come è noto, Fukujama), chi inneggiava addirittura alla “fine della storia”, ritenendo che ormai il tempo sarebbe andato avanti lineare e senza scosse sul tracciato delle sicurezze indotte da un immaginario trionfo della “libertà”. A lui, e a molti altri di analogo orientamento, sembrava ormai definitivamente assicurato che quell’immaginario trionfo fosse cosi stabile e sicuro da eliminare la differenza tra il presente e il futuro.
Allora, nell’anno 2000, alla svolta di un millennio, era ancora prevalente l’euforia per un mondo che sembrava avere recuperato unità e compattezza di prospettive di sviluppo, di fini e di valori universalmente condivisi (la “democrazia”, le libertà diffuse e a portata di mano anche laddove ancora erano ignote o ignorate, la pace perpetua in una prospettiva di generale appagamento dei bisogni al segno del trionfo di un provvido capitalismo ritornato alla sua natura originaria di motore della “Felicità delle Nazioni”); regnava, in un orizzonte mondiale improvvisamente riunificato, una sorta di pace dopo la tempesta, al di là della cupa età della guerra fredda segnata
Però, non è diffusa la consapevolezza di quanto di irreversibilmente sconvolgente è effettivamente accaduto e sta ancora accadendo, con forte accelerazione dall’ultimo decennio del secolo scorso. Scontato che la storia, in quanto storia, non finisce e non può finire, la stessa “globalizzazione” evidenzia che si è definitivamente chiuso un intero capitolo storico: Il capitolo apertosi a fine Settecento con la cosiddetta “rivoluzione industriale” (coincidente, in altri termini, con una lunga fase storica che si è correntemente intestata alla cosiddetta “modernizzazione”). Non è facile rendersene conto, così come non era facile, a fine Settecento, rendersi conto che si stava chiudendo
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Oggi non c’è chi non veda quanto di provocatoriamente ingannevole e di scriteriato, e persino di insultante per la ragione, ci fosse in quella contingente euforia che aspirava a stabilizzarsi come una definitiva weltanschauung.
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Storia
in via definitiva – sotto la spinta progressiva dei nascenti processi di “industrializzazione” − la lunga fase storica segnata dall’egemonia (tanto economica, quanto sociale) della forma di produzione agraria. Per quanto sia difficile, come ho detto, rendersene conto, mi sembra scontato che dagli anni Ottanta del secolo scorso in poi, abbia preso a evidenziarsi, e a svilupparsi continuativamente, con ritmi via via esponenziali, un processo di rottura della cosiddetta “modernità”; un processo, in breve tempo destinato a mettere in liquidazione l’intera dinamica e la morfologia strutturale della “rivoluzione industriale” (sia della prima avviatasi a fine Settecento, sia della seconda periodizzata tra la fine dell’Ottocento e il successivo Novecento). Un processo di rottura e di radicali innovazioni, questo, che sarebbe errato considerare (così come ancora largamente avviene) come una “terza rivoluzione industriale” e che è invece più ragionevolmente rappresentabile − nel suo farsi soprattutto nell’Occidente capitalistico (ma anche in numerose realtà dell’ex Terzo mondo) − come una nuova rivoluzione strutturale, al di là della lunga età dell’industrialismo, caratterizzata dalla sempre più netta preminenza dell’asse tecnologico-scientifico collegato alla produzione e alla gestione dei servizi, nonché dalla contestuale preminenza di un sempre più anonimo, sovranazionale ed autoreferenziale potere decisionale del capitale finanziario, a scapito del tradizionale ancoraggio dell’economia alla produzione di beni industriali dentro e all’ombra delle fabbriche “fordiste” in assetti di mercato che, per quanto “concorrenziali” tra loro e aperti al mondo, erano pur sempre alimentati da interessi pervicacemente perseguiti entro confini nazionali. Per la prima volta in assoluto, nell’anno 2000, questa nuova rivoluzione la chiamai “rivoluzione elettronicoinformatica” e mi piace adesso sia segnalare la primazia, sia mantenere tale definizione. Essa, la nuova rivoluzione, sembra consistere in una sorta di reazione anti-industriale e “antimoderna” (almeno nel senso di determinare un superamento radicale dell’età propria dell’industrializzazione e della vecchia “modernità” verso un modello di industria che appare nettamente alternativo rispetto a quello che l’ha preceduto) manifestatasi in diretto rapporto con gli sconvolgenti progressi della scienza e della tecnica che hanno paradossalmente indotto, e in certo senso costretto, lo stesso capitalismo industriale a consegnare proprio alla “de-industrializzazione” il suo futuro. Il neologismo postmoderno che ha avuto molta fortuna nel registrarne il senso (anche culturale) in itinere, implica un costante riferimento, appunto, alla “deindustrializzazione” che è la fondamentale dinamica del processo rivoluzionario in corso. Ne consegue uno Voci - LUGLIO 2016 N. 3 / A.2
scenario al quale ci stiamo abituando contrassegnato, tra l’altro, da una crescente invocazione ecologista di vincoli da imporre alle strutture produttive: la rapida liquidazione dell’organizzazione taylorista del lavoro, a vantaggio di sistemi massicciamente automizzati, regolati da robot e affidati, ben più che ai tradizionali operai, al controllo tecnico delle “tute bianche”; la modificazione profonda indotta nel concetto stesso del valore economico dal sempre più evidente primato delle informazioni e dei servizi; la dimensione mondiale delle attività per la di formazione e gli spostamento dei capitali e della dinamica degli affari in un mercato globale dotato di una colossale rete unificata di comunicazioni, funzionante in tempo reale; la corsa alle “innovazioni sulle innovazioni”, con ritmi impressionanti anche per chiunque venga da non troppo lontane esperienze del passato. Tutto questo, ovviamente, senza che i fattori e gli elementi costitutivi del passato industriale vengano eliminati; sono, piuttosto, riassorbiti e innovati: senza dubbio la produzione industriale ancora esiste e continuerà ad esistere in futuro (così come agricoltura e contadini sono sopravvissuti all’interno della “rivoluzione industriale!); solo che gli spostamenti nell’ordine delle priorità del sistema determinati dalla nuova rivoluzione “elettronico-informatica” stanno caratterizzando un’età nella quale non è più l’industrialismo il tratto distintivo e dominante. Veniamo adesso ai principali effetti di tale rivoluzione (evidenti in una rappresentazione ormai diffusa che chiamasi “globalismo”) sulle condizioni sistemiche, sociali e politiche, sulle quali si impiantano e si sviluppano i rapporti tra “potere e cittadinanza”. Un primo effetto, in evidente rapporto con la “deindustrializzazione”, è il tramonto della tradizionale “classe operaia”, e della conseguente soggettività operaia, che era stata centrale sia nell’orizzonte di sviluppo che nelle interne contraddizioni della
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Storia
rivoluzione industriale. Il che non equivale affatto a profetizzare una fine definitiva degli operai quali produttori della nuova fase storica, tenuto conto del fatto incontestabile che i contadini, vittime a loro volta di un analogo processo di lungo periodo avviatosi con la rivoluzione industriale, come ho già ricordato sopra, esistono ancora. Ma nessun nuovo Marx punterebbe oggi su un avvenire rivoluzionario affidato ad una classe operaia in evidente stato di liquidazione. Né basterebbe estendere il concetto all’intero mondo del lavoro, perché si tratta di un mondo così complesso, eterogeneo e contraddittorio che risulta impossibile rappresentarlo “scientificamente” (come Marx avrebbe voluto) come una classe portatrice di ben riconoscibili istanze storiche. La stessa morfologia di una società articolata in “classi” è sempre meno credibile, perché se è vero che non è affatto venuta meno (ma si è addirittura potenziata) la differenza tra una potente minoranza di “sfruttatori” e una larga minoranza di “sfruttati”, stanno velocemente cambiando le aggregazioni sociali corrispondenti a queste due opposte condizioni. In ogni caso, molto meno che per il passato, o nient’affatto, sono rappresentabili nel tradizionale conflitto tra padronato e proletariato. Un secondo effetto, strettamente collegato al primo, riguarda la tradizione borghese. Se la classe operaia è moribonda, la borghesia non gode proprio di buona salute. Anche per essa vale quanto ho già detto per gli operai. Certamente continueremo a vedere parecchie persone del tutto simili ai borghesi di una volta. E’ scontata la riconoscibilità di antiche pratiche di
classe e di conformi mentalità e stili di vita, oltre che in sopravviventi nicchie tradizionaliste, nell’area delle stesse forze che appaiono oggi dominanti (finanzieri e imprenditori, dirigenti e manager, ricercatori e maitre à penser dell’informazione, ecc.). Tuttavia colpisce il fatto che si stiano rapidamente disgregando le tradizionali e consolidate forme di organizzazione sociale e politica alle quali la borghesia, sui fondamenti dello “Stato nazionale”, aveva costruito e mantenuto la sua egemonia. Siamo qui pervenuti, con quest’ultima osservazione, a un punto centrale della mia riflessione. Almeno dalla rivoluzione francese in poi, il rapporto (ma anche il conflitto) cittadinanza-potere è stato pensato e svolto all’interno di un sistema di idee (specificamente di cultura politica di fonte “borghese” che enfatizzava le cosiddette “libertà” e la cosiddetta “volontà generale”), che ha costituito la specifica tradizione liberaldemocratica della modernità. Con l’avvento della rivoluzione elettronico-informatica (ovvero, se si vuole, della postmodernità) anche la tradizione liberaldemocratica è stata messa in liquidazione, insieme agli ordinamenti che la sorreggevano (gli Stati nazionali). Ed è in forse, insieme al liberalismo, la proiezione storica delle idee della borghesia nell’elaborazione politico-culturale delle forze poi espresse dalla società di massa ovvero, in primo luogo, dal movimento operaio. E’ in forse, voglio dire, la “democrazia”. E, questo, a dispetto del fatto indubbio che tanto al liberalismo quanto alla democrazia, e alle loro auspicate coniugazioni nella politica e nella società civile, si faccia ancora ricorso, assai ansiosamente, da ogni possibile tribuna pubblica o privata. Risulta infatti sempre meno convincente l’appello, oltre che alla liberaldemocrazia, alla stessa democrazia, in realtà nelle quali i partiti politici (non penso soltanto all’Italia, ma anche alla Francia, alla Gran Bretagna e alla Germania, per non parlare degli Stati Uniti) vanno perdendo la loro originaria fisionomia di soggetti collettivi ancorati a stabili aggregazioni sociali ideologicamente motivate, trasformandosi in improvvisati comitati (spesso avvertiti come superflui o dannosi dalla gente) per promuovere o tutelare interessi del tutto “pratici” e contingenti, variabili e contraddittori, fungendo assai spesso da sofisticate macchine propagandistiche o da emittenti di messaggi per consentire l’accesso al potere a individui autopropostisi come “carismatici” ( e talvolta così riconosciuti e valorizzati), nonché ad eterogenee ed opportunistiche cordate di ambiziosi. Con il disfacimento della tradizione liberaldemocratica la gestione del potere volge inevitabilmente al
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Storia
populismo e la “cittadinanza” (ovvero la condizione individuale e sociale del “partecipare” con autonoma e libera capacità di critica e di giudizio alla gestione della cosa pubblica) va perdendo ogni qualità, smarrendo persino il suo proprio concetto in una sorta di cangiante spettacolarizzazione del rapporto potere-società che forma e dissolve, in veloci ritmi di apparizioni e dissolvenze, opinioni pressate ora da impellenti bisogni, ora da caduche emozioni e passioni senza costrutto “ideale”, senza consistenza ideologica, persino senza vocazione al futuro. Con analoghi argomenti ho avuto modo di insistere recentemente sul “degrado della cosiddetta vita democratica (l’Italia ne sopporta appieno i pesi con Berlusconi e il berlusconismo) ridotta ad una specie di spettacolo le cui star sono i singoli notabili aspiranti a ruoli carismatici”; evidenziando la presunzione dei cosiddetti ‘eletti del popolo’ di essere legittimati a esercitare un potere politico che (per quanto sia invero piuttosto improprio e fantasmagorico) tende ad esercitarsi non tanto nella legge, quanto soprattutto al di sopra della legge, al limite di un vanitoso autoritarismo”. (Nel piccolo, in Sicilia, conosciamo tanti esempi minori appartenenti a una siffatta sceneggiatura!). In un processo di questa natura − torno ad insistere, perché repetita iuvant – mentre il populismo in varie salse va diventando forma corrente di formazione e gestione del potere politico e vanno perdendo significato le antiche distinzioni tra “destra” e “sinistra” − è anche ben difficile attribuire senso e valore reali alla parola “cittadinanza”. Aggiungo quel che ha rilevato recentemente Luciano Canfora (e l’intuizione implicita nell’affermazione mi sembra francamente insuperabile) “il termine stesso di democrazia è diventato ormai un paradossale stravolgimento del suo originario valore etimologico”. Tutto questo accade – mi sembra − per effetto della globalizzazione capitalistica che va riducendo lo stesso potere politico, nelle sue residuali configurazioni in Stati sempre meno “nazionali” e sovrani, ad un ruolo ancillare rispetto al potere economico-finanziario senza frontiere che è il vero nuovo principe del sistema mondiale in cui si sta svolgendo la rivoluzione elettronico-informatica. Essendo dotato dei peculiari strumenti interpretativi che mi vengono dal fatto stesso di essere uno studioso siciliano, uno storico militante siciliano, mi è parso, in un’organica riflessione messa a punto in un libro recente che ha sollevato non poco interesse (Globalmafia. Manifesto per un’Internazionale antimafia, Milano, Bompiani, 2011), di poter
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riconoscere a questo nuovo principe la sostanziale natura di un “potere mafioso”. Potrei sbagliarmi, ma dati inconfutabili accertano che circa il 60% del capitale finanziario che domina il mondo viene da un meccanismo di traffici e di transazioni legali-illegali alimentato da “denaro sporco”. E certamente non mi sbaglio nel ritenere che gli interessi corrispondenti a tali traffici e transazioni abbiano bisogno di manager (nonché in sede politica, di politici e politicanti) per i quali la legge è sempre un optional e mai una Legge e la “cittadinanza” di quanti nel loro orizzonte sono chiamati a un ruolo da sudditi è soltanto una concessione da mettersi utilmente nel conto della loro infingarda recitazione liberaldemocratica. Invero, alla globalizzazione capitalistica si sta avvitando, come l’edera al tronco, la globalizzazione mafiosa. Per questo, avendo posto all’attenzione la “Globalmafia” come profondo fattore di conflitto e di pervertimento dei processi in corso della rivoluzione epocale che stiamo vivendo, ho ritenuto di poter indicare nell’Antimafia la piattaforma per un’unificazione, anch’essa necessariamente “globale”, delle forze (per adesso dotate di passione civile ma non di concorde ed efficace strategia) che aspirano ad una ricostituzione, adeguata ai tempi, dei valori e del senso della “cittadinanza”. Si tratterà, inevitabilmente, di impegnare ideazione e fatiche ben più in una ricerca in progress che in una reiterazione di convincimenti ed esperienze del passato. Con tutta la sua forza distruttiva, la nuova rivoluzione postindustriale sta ancora avanzando senza che sia possibile prevederne gli esiti finali. Sarebbe comunque impossibile, oltre che “reazionario”, tentare di fermarla. Ma è sensato impegnarsi per orientarne gli sviluppi verso nuovi assetti che, nel mondo – a partire dalla grande e ancora irrisolta questione dei “diritti umani” − ridiano speranza alla possibilità di coniugare progresso, libertà e giustizia sociale (soprattutto la giustizia sociale, che è quell’ineliminabile condizione di autentica “cittadinanza” che adesso manca quasi dovunque o è in pericolo laddove, in passato, si era almeno parzialmente realizzata sotto la spinta dei grandi movimenti di massa). Credo che sia questo il ruolo delle nuove “avanguardie” civili. Chi è giunto alla mia età non ha altra speranza che vederle finalmente nascere.
Giuseppe Carlo Marino Professore Emerito di Storia Contemporanea all’Università di Palermo
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Minoranze
MAPPING HEBRON’S APARTHEID:
UNA MAPPA INTERATTIVA DELLA CITTÀ OCCUPATA di Marianna Castellari La città di Al-Khalil, conosciuta a livello internazionale con il nome ebraico di “Hebron”, è l’unica città palestinese avente colonie israeliane insediatesi nel cuore del centro storico e costruite attorno ad esso. La città è divisa in due aree d’influenza definite dal protocollo di Hebron del 1997: l’area H1, gestita dall’autorità palestinese e l’area H2 sotto il controllo militare israeliano. Quest’ultima comprende il 20 per cento del territorio di Hebron, la maggior parte della città vecchia, gli edifici storici, la moschea principale e la kasbah ma poichè include anche le colonie e gli elementi fisici e architettonici che caratterizzano l’occupazione israeliana, è anche l’area in cui si manifestano le maggiori ingiustizie, soprusi e discriminazioni. Collocata a 32 chilometri a Sud di Gerusalemme e avente una popolazione stimata di 200.000 abitanti, Hebron è stata da sempre conosciuta per la fertilità dei suoi campi e vigneti e per il primato nella lavorazione del vetro, ceramiche e cuoio. Oggi, essa viene crudamente considerata città simbolo dell’occupazione in Cisgiordania. La determinazione e la violenza dei coloni israeliani, la brutalità delle architetture militari, la presenza costante di soldati armati e la distruzione economica e sociale del centro storico, rendono Hebron un esempio tangibile di quali siano le diverse forme in cui l’occupazione si concretizza, trasformando e soffocando il territorio e la popolazione palestinese. In seguito alla guerra del 1967 e alla conseguente occupazione dei territori della Cisgiordania, Hebron, a causa della sua importanza religiosa, divenne una roccaforte per le frange più estremiste del movimento di colonizzazione israeliano. La città viene considerata un luogo sacro per i tre credi, islamico, ebraico e cristiano, secondo i quali il profeta biblico Abramo e sua moglie Sara sarebbero sepolti insieme a Isacco, Giacobbe, Rebecca e Lea nel luogo in cui oggi sorge la Moschea di Abramo, dagli ebrei chiamato Tomba dei Patriarchi. Singoli gruppi di individui diedero vita ai primi insediamenti ma il loro sviluppo ed espansione fu portato avanti negli anni grazie all’approvazione, alla cooperazione e al supporto dei vari governi israeliani che si sono susseguiti negli anni. Israele, infatti, garantisce numerosi incentivi finanziari per lo sviluppo delle colonie, incoraggiando molti israeliani o neo-israeliani a trasferirsi oltre la “green line”, nei territori occupati.
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Attualmente la maggior parte dei coloni ad Hebron vive nell’insediamento di Kiryat Arba, un quartiere residenziale costruito ex-novo, rigidamente pianificato e facilmente riconoscibile, situato a Nord-Est del centro storico. I coloni più radicali hanno invece, sin dall’inizio, cercato di insediarsi all’interno della città vecchia, distruggendo il fabbricato storico e occupando illegalmente edifici privati e strutture pubbliche palestinesi. Tutte queste colonie e quelle costruite da Israele negli ultimi cinquant’anni sono considerate una violazione della legge internazionale secondo l’articolo 49 della quarta convenzione di Ginevra, il quale attesta che “la potenza occupante non può deportare o trasferire parte della sua popolazione civile nel territorio da essa occupato”. Hebron riflette in scala minore, le politiche di espropriazione, separazione e di segregazione che caratterizzano la più ampia strategia di occupazione attuata nei Territori Palestinesi. All’interno dell’area H2 è possibile distinguere un macchinoso sistema di frammentazione del tessuto urbano, il quale garantisce alla potenza occupante un facile controllo
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Minoranze
sul territorio e sulla popolazione locale. Differenti livelli si accostano e si sovrappongono per rendere funzionante questo meccanismo. Le architetture e le infrastrutture dell’occupazione sono gli elementi di questo sistema. Le colonie, la rete di strade che li connette, le aree militari, i checkpoint, le cabine e le torri di avvistamento, le barriere e le chiusure di separazione, i militari e le telecamere di sorveglianza ne sono invece la configurazione concreta. L’esercito israeliano ha un compito ben preciso a Hebron ossia “proteggere” i propri connazionali, i coloni, e sorvegliare il territorio occupato. Per raggiungere questo obiettivo si serve di una determinata politica di sterilizzazione urbana: una strada cerniera è stata pianificata per mettere in comunicazione diretta i diversi insediamenti israeliani, facilitando il movimento dei coloni ed escludendo il transito dei palestinesi. Questa strategia di occupazione si basa su una precisa e invasiva trasformazione del paesaggio e della conformazione urbana, causando il graduale allontanamento della popolazione araba locale tramite un processo di giudaizzazione del territorio. La maggior parte dei vicoli che un tempo si diramavano nel centro storico ora sono bloccati da grate metalliche o muri di cemento, come un lungo tratto della strada Al-Shuhada, un tempo il luogo più vitale, commercialmente e socialmente attivo di tutta la città. Per i coloni e per i soldati questo territorio militarmente occupato non è altro che un’appendice dello stato di Israele, circondata dalla città palestinese di Al-Khalil. I checkpoint rappresentano le frontiere, i muri e le grate metalliche ne sono i confini, i coloni i cittadini e i palestinesi, al contrario, gli stranieri. L’area H2 non ha più le forme e lo spirito di un centro abitato, si presenta come un’area militare asettica e altamente controllata. Molti urbanisti descriverebbero questa avvilente situazione urbana utilizzando il termine “uccisione” della città. Per descrivere questa complessa situazione sociopolitica, che si riflette drasticamente sulla realtà urbana e umana, è necessario utilizzare l’ausilio di un linguaggio grafico e visivo, le parole non sono esaustive e la mappatura risulta essere il mezzo più idoneo per garantire una facile e veritiera comprensione di quello che sta accadendo nell’area H2 della città e che riflette più in generale la situazione esistente in Cisgiordania al giorno d’oggi. Da questi presupposti nasce il progetto interattivo “MAPPING HEBRON’S APARTHEID”, realizzato in collaborazione con il Politecnico di Hebron e l’associazione locale “Youth Against Settlements”. Il sito on-line (www.hebronapartheid.org) ha l’obbiettivo di informare e denunciare, utilizzando l’analisi urbana come mezzo per illustrare la complessità Voci - LUGLIO 2016 N. 3 / A.2
dell’occupazione israeliana, descrivendo la gravità delle politiche urbane di espropriazione e separazione attuate nella città vecchia di Hebron/Al-Khalil. Il cuore della piattaforma comprende una mappa interattiva dell’area occupata della città. Essa mostra il rilievo completo di tutti gli elementi architettonici e infrastrutturali utilizzati dai militari israeliani per sterilizzare l’area in cui sorgono le colonie e che permettono la supervisione del territorio circostante. Un glossario grafico aiuta a spiegare la terminologia e a descrivere gli elementi mappati, mentre una linea del tempo interattiva e le introduzioni scritte forniscono le informazioni storiche principali. Una grafica molto comprensibile rappresenta quale sia la evidente strategia urbana che rende possibile l’occupazione e ne prevede la sua espansione. Per garantire un’approfondita descrizione la mappa è arricchita da numerosi documenti, scaricabili in formato pdf, che illustrano nel dettaglio la situazione attuale. Le viste tridimensionali raffigurano gli insediamenti israeliani, evidenziandone la differenza con il fabbricato storico palestinese. All’interno di queste immagini sono state inserite tutte le architetture, infrastrutture e apparecchiature che rendono possibile l’attuazione delle politiche di controllo e frammentazione del tessuto urbano. Si è cercato di ricostruire la storia di quei luoghi della città vecchia fortemente trasformati dalla brutalità e freddezza delle strutture militari, descrivendone le funzioni primarie e utilizzando come titoli i nomi arabi originali. Parte integrante della strategia di occupazione israeliana si fonda infatti sulla distorsione e manomissione della memoria storica palestinese e l’unico modo per contrastarla consiste nel garantire una documentazione dettagliata della situazione precedente. Un layer della mappa più descrittivo é infine rappresentato dalle interviste ad alcune delle famiglie che vivono all’interno dell’area occupata; dare spazio a queste voci di resistenza quotidiana ha reso il progetto una testimonianza concreta e umana della situazione attuale. “Mapping Hebron’s apartheid” è un accessibile database di informazioni e costituisce uno strumento oggettivo di analisi e comprensione, rappresentando così un attendibile e strutturato documento di denuncia della politica di occupazione israeliana in Cisgiordania e degli effetti devastanti che essa provoca sul territorio e sulla popolazione palestinese.
Marianna Castellari Architetto, ha collaborato al progetto interattivo “Mapping Hebron’s Apartheid”.
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Giornalismo
GIOVENTÙ RUBATA: MAMMA A QUINDICI ANNI di Rossella Puccio
In Italia sono oltre 10 mila, solo il 18 per cento sono straniere. La maggior parte ha tra i 18 e 19 anni, ma ben 2.500 sono minorenni. La Sicilia è la prima regione italiana, seguita da Puglia e Campania. Palermo è la città con la maggiore incidenza: nel 2012, secondo l’Istat, 139 minorenni hanno partorito un bimbo.
Le interviste riportate nell’articolo sono state effettuate durante le riprese dell’inchiesta ‘Le piccole donne dei Danisinni’ realizzata da Rossella Puccio, nell’omonimo quartiere palermitano, in cui il fenomeno delle gravidanze precoci è tutt’ora in aumento, soprattutto a seguito della chiusura del consultorio e dell’asilo nido Galante, unici presidi sociali insieme alla parrocchia Sant’Agnese. Hanno sguardi da bambine, nonostante una cultura degenerata le abbia costrette a un ruolo che forse neppure comprendono fino in fondo, non solo quello di donna ma quello ancora più complesso di madre. Con i loro figli si tolgono appena un decennio, e fa effetto vederle spingere un passeggino o tenere in braccio quello che potrebbe essere il fratello minore. Questo è uno dei tanti copioni di un fenomeno in preoccupante ascesa: le mamme adolescenti. In Italia, ogni anno, avvengono 10mila parti di ragazzine tra i 13 e i 19 anni, talvolta anche più piccole. Chi pensi si tratti soprattutto di straniere sbaglia: l’82% sono italiane, oltre 7mila contro le 2mila di altra nazionalità. Questa Italia che spesso cede ai luoghi comuni e formula pensieri errati e intolleranti, sotto
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la spinta di quell’ignoranza sull’immigrazione che ci pone tra i peggiori informati sul tema, anche nella classifica Ocse. A livello mondiale la situazione è ancora più complessa. Il rapporto sulle mamme bambine presentato nel 2013 dall’Unfpa, Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, ha evidenziato come ogni giorno, 20mila ragazze sotto i 18 anni diventano madri nei Paesi del sud del mondo. Le giovani sotto i 15 anni che partoriscono ogni anno sono due milioni su un totale di 7,3 milioni di madri adolescenti; un trend in preoccupante aumento: si stima che nel 2030 il numero di partorienti sotto i 15 anni potrebbe salire a tre milioni l’anno. Circa 200 di loro muoiono
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per complicazioni legate alla gravidanza o al parto. Più in generale, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ogni giorno nel mondo 830 donne muoiono durante la gravidanza o nel dare alla luce un bambino, a causa di infezioni o emorragie che nella maggioranza dei casi potrebbero essere evitate con assistenza prenatale e opportune diagnosi. Questo tasso di mortalità materna (calcolato come numero di decessi per 100.000 parti) è mediamente di 12 nei Paesi industrializzati, di 500 nell’Africa a sud del Sahara, mentre In Italia si attesta a quattro. Una società troppo erotizzata, l’ignoranza sessuale, famiglie instabili ed economicamente degradate, la solitudine e il disagio giovanile, sono tutte componenti di questo fenomeno che in alcune città siciliane, Palermo tra tutte, è radicalizzato da generazioni. «Già a 15 anni ho avuto il mio primo figlio, non ho capito niente, ma bene…» – sorride imbarazzata come se cercasse nel mio sguardo indulgenza, fiutando una diversità che all’inizio ha scambiato per giudizio, tenendomi a una distanza che ho fatto fatica ad azzerare. Enza, è una donna di quarant’anni, la prima a raccontarmi della sua gravidanza, quando era ancora una bambina. Ed è proprio lei a convincere le ragazzine, che ci stanno intorno durante l’intervista, a parlare. Sono giovani e riottose, adesso al suo posto a dovere gestire la propria baby maternità, che a stento riescono a spiegare. Si aggiusta gli occhiali, mi chiede cosa deve dire, ricambiando il sorriso la invito a parlarmi della sua esperienza in quello stesso quartiere di ventisei anni fa, dove niente sembra essere cambiato. «Ero piccola non è che potevo… - fa una lunga pausa indirizzando quelle parole alle altre intorno come a scusarsi, poi riprende -. Noi, facciamo tutto presto». Sono risposte secche e diffidenti, a difesa di quella bolla di isolamento in cui si trovano, pretendendo o forse sperando che sia la città a venire nel loro atollo e non viceversa. Il gineceo privato in cui ci troviamo si chiama Danisinni, un quartiere palermitano socialmente svantaggiato, un mondo appartato e lontano dal resto, con la sua piazza i suoi vicoli e parentele che si mescolano continuamente. Un rione periferico come tanti a Palermo, in cui l’incidenza dei parti precoci non è indifferente, così come la delinquenza e il degrado socio-economico. Un lascito inquinato che non smette di essere tramandato, come il linguaggio che lo accompagna: ‘metterla incinta’, ‘fujtina’, che ancora oggi resiste. Spaccature dove il concetto di ‘contraccezione’ si scontra contro tabù arcaici mescolati a ignoranza. Dietro queste storie si celano forti criticità, come il basso livello di istruzione, condizioni di deprivazione e di svantaggio. Così i nuovi nuclei familiari che si creano coincidono con quelli di origine: vivono
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negli stessi quartieri, e frequentemente nella stessa abitazione dove coabitano tre generazioni con uno scarto minimo di età. Tamara Trovato, operatrice sociale volontaria ai Danisinni, ha raccontato come la continuità familiare della maternità precoce non solo sia un modello ricorrente, ma venga vissuto con assoluta naturalezza. Talvolta madre e figlia vivono contemporaneamente la maternità. In questa famiglia grappolo, in cui si condividono i pochi e affollati metri quadrati di una casa molto spesso fatiscente, i ruoli si confondono, l’aggravamento delle già precarie condizioni economiche genera instabilità affettive e psicologiche che si ripercuoteranno sull’equilibrio del nascituro. In questo contesto, ciò che è peggio, è l’arrivo di una seconda gravidanza a distanza di poco tempo. Il fenomeno delle mamme adolescenti è assai complesso, e va necessariamente raccontato in prima persona, attraverso la voce di chi ha dovuto rinunciare alla propria adolescenza e crescere troppo in fretta: «Ero piccola, per me era una cosa nuova, stavo diventando mamma ed ero contenta, ma non sapevo che cosa era», racconta Veronica, mamma a 16 anni, mentre intreccia le mani della sua bambina, ora cinquenne. Potrebbero sembrare sorelle sedute così al sole nella piazza Danisinni, con le unghie spizzicate e le mani macchiate di colore, mentre l’una mi racconta in un italiano claudicante e l’altra, la figlia, gioca con un cellulare. Il numero delle partorienti teenager potrebbe essere più elevato (un aumento annuale dello 0,5%, come segnalato dall’Istat) visto che sei ragazzine su dieci scelgono l’interruzione volontaria, la Sicilia in testa con una percentuale di aborti più alta tra le minorenni: il 10,6% contro l’8,5% della media nazionale. Nove ragazzine su dieci sono quelle che, invece, rischiano una gravidanza precoce, entro il primo anno di attività sessuale. Il primo rapporto viene vissuto come una sorta di iniziazione all’età adulta, senza nessuna formazione socio-affettiva e conoscenza della contraccezione. In molti, tra i giovani, sono convinti che non si possa rimanere incinta durante il primo rapporto. L’età media della prima volta è di 15 anni, e potrebbe continuare a scendere, come sottolineano gli esperti della Società Italiana Ginecologia ed Ostetricia. Il vero problema è la mancanza di una rete diffusa di servizi per le donne e per l’infanzia, a partire dai consultori e dagli asili nido, che conferisce all’Italia altra maglia nera in Europa. A rendere più complessa la situazione è l’incapacità e impossibilità di reinserire socialmente e lavorativamente le giovani donne, soprattutto quelle che a causa di una gravidanza precoce hanno dovuto interrompere il percorso di formazione scolastica. In
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pochissime lavorano e, abbandonata quasi del tutto la scuola, vivono la propria vita in casa; le uniche concessioni relazionali si limitano alla famiglia e al quartiere a cui appartengono LA CHIUSURA DI CONSULTORI E LA SCARSEZZA DI ASILI NIDO, MAGLIA NERA ALL’ITALIA. «Ho avuto la bambina a 16 anni, il consultorio era chiuso. Forse se c’era una guida a farmi capire che ero piccola e non era opportuno fare una bambina, magari una ci pensava – continua a spiegarmi Veronica, mentre intorno c’è chi si lamenta di non fare più il Pap-test o un controllo ginecologico da otto o nove anni, per mancanza di soldi o informazioni su come fare, ma anche impossibilità a raggiungere presidi sanitari perché sprovvisti di mezzi di trasporto e soldi (ai Danisinni i servizi pubblici non raggiungono neppure la piazza, nda) –. Non sapevo a che cosa andavo incontro, essendo che non avevo aiuto di nessuno, non c’era il consultorio e siamo andati da un dottore ‘estraneo’ (sconosciuto, nda) però non è che ci seguiva o ci spiegava a cosa andavamo incontro». L’assenza di servizi integrati o più semplicemente dei consultori, soprattutto in contesti svantaggiati, è spesso la causa o l’acceleratore di questo fenomeno. E’ proprio quello che è accaduto ai Danisinni, dove a oggi la parrocchia sant’Agnese è l’unico presidio sociale del rione, «perché i due baluardi: la scuola d’infanzia e l’asilo da diversi anni sono chiusi (nove anni l’asilo e il consultorio da circa sei) – spiega Fra Mauro Billetta, parroco del quartiere -. Piccole difficoltà hanno determinato quella temporanea chiusura che è diventata a tempo indeterminato. L’asilo e il consultorio costituivano dei centri di aggregazione e quindi di educazione e accompagnamento alla crescita, al rispetto, alla conoscenza di sé per i minori e per le giovani donne». Durante l’intervista Fra Mauro racconta come i Danisinni siano una realtà con una loro cultura e appartenenza molto forte, dovuta anche a un ecosistema del tutto particolare essendo una porzione di città non di transito in cui si deve appositamente andare, con una organizzazione sociale che si è sviluppata intorno alla piazza, che costituisce il letto del fiume Papireto. Un luogo che sta affondando nel suo isolamento e che sta pagando lo scotto della sua caratteristica morfologia: «Noi abbiamo un poliambulatorio portato avanti da volontari che si prestano gratuitamente. E’ un delirio, potremmo dire, perché a Palermo ci sono centinaia di professionisti di supporto a minori e famiglie svantaggiate che con la chiusura dei centri sociali e dei consultori hanno dovuto lasciare la missione educativa, demandata alle buone pratiche del volontariato. A livello statistico a questa chiusura – continua il parroco – è corrisposto
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un aumento delle gravidanze precoci». La strada da percorrere è la programmazione di interventi di prevenzione socio-assistenziali ed economica destinati non solo ai minori o alle giovani mamme, ma anche alle famiglie. Interventi integrati per realtà multiproblematiche, come quelle in cui si radica il fenomeno delle gravidanze precoci; al mero supporto medico-sanitario va affiancato quello educativo e psicologico sia nelle scuole che nei quartieri, progetti di educazione sessuale per interrompere un modello genitoriale sbagliato e trans-generazionale, per offrire una possibilità di scelta e riscatto al minore e alla società. Per offrire la possibilità di poter essere adolescente e sognare. LE MAMME MINORENNI IN ITALIA: CAUSE E CONSEGUENZE. SICILIA AL PRIMO POSTO A detenere il triste primato di regione italiana con il più alto tasso di mamme adolescenti la Sicilia, seguita da Puglia e Campania. Una situazione che si presenta anche altrove, col 90% dei casi, all’interno di nuclei familiari in cui la figura del padre è assente perché altrove, in carcere o morto. Poi c’è quel 68% di casi in cui le neo mamme subiscono l’abbandono del partner, così da costringere le minori a restare nella propria famiglia di origine e, spesso, a delegare alla nonna il ruolo di co-mamma. Per quasi tutte questo passaggio veloce all’età adulta comporta una serie di rinunce: nessuna progettualità futura, l’interruzione del percorso scolastico (il 74% termina le scuole medie e solo il 21% arriva alla licenza superiore); stringendole in una rete di isolamento e diffidenza, che spesso si traduce in depressione postpartum, che colpisce il 70% delle giovani, con effetti a caduta sui figli, a rischio di abusi, maltrattamenti, o nella migliore della ipotesi portatori di quel ‘gene’ della maternità precoce. Come ravvisato da operatori, volontari, e anche esperti, il problema è il processo di adultizzazione dei minori che in assenza di punti di riferimento, sia all’interno della famiglia che all’esterno, cercano l’approvazione del gruppo, quasi sempre formato da ragazzi più grandi già attivi sessualmente. La bassa scolarità, l’assenza di punti di riferimento e la mancanza di un progetto di vita trasformano così la gravidanza in un’opportunità sociale che piuttosto che isolare le giovani è come se le mettesse in luce, conferendogli un peso sociale all’interno del gruppo d’origine. Rossella Puccio Giornalista, fotoreporter, videoreporter, scrive su temi sociali e ambientali
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AMALI E L’ALBERO Recensione di Daniela Conte
“Nella valle tutti sapevano dell’Albero senza foglie né radici. Con il tronco nodoso, rami lunghi e spogli come dita tese a graffiare il cielo. Vagava nelle notti scure, piangendo lente lacrime di resina, alla ricerca delle radici perdute” Così inizia il racconto scritto da Chiara Lorenzoni, un testo poetico, pieno di atmosfere lievi che incorniciano una storia attualissima. La storia di Amali, una ragazza che non ha dimenticato le sue radici e si trova in un luogo dove è riuscita a recuperare la propria vita, e la storia dell’Albero in cerca delle sue radici e di una terra dove farle nuovamente attecchire. Proprio la personificazione dell’Albero, figura cara alle più note fiabe della nostra infanzia, sembra quasi assimilare in sé la storia di Amali, in un percorso simbolico, costellato di incontri suggestivi, atmosfere incerte, in cui i pensieri e le parole della ragazza si intrecciano con le azioni e i desideri dell’Albero. La storia si dipana tra edifici di città, paesaggi notturni, ambienti marini e innevati, quasi a disegnare un viaggio nella natura incontaminata e antropica, in cui è chiara l’assonanza tra i due protagonisti, due solitudini che si incontrano e si ritrovano nella comune condizione di migranti in terra straniera. Sarà proprio la ragazza a dare risposte all’Albero, a spiegare come ogni luogo può essere e deve diventare “casa”.
Le illustrazioni di Paolo Domeniconi incorniciano gli eventi, ne danno una prospettiva concreta e fantastica allo stesso tempo, basti pensare alla scena dell’Albero che, proteso con i suoi lunghi rami ossuti verso Amali, sembra quasi proteggerla con la sua umbratile e incombente presenza sugli edifici, sul cielo carico di neve, sulla notte silenziosa e sola, mentre tutti gli altri, spinti da pregiudizi e false leggende metropolitane, hanno paura di lui e dei suoi lamenti carichi di richieste inattese. È l’incontro di due solitudini in cerca di radici e desiderose di accoglienza in luoghi sconosciuti: c’è la nostalgia di casa – “Ho perso le mie radici e non so qual è il mio posto”….dice l’Albero piangendo…. La ripetizione anaforica “Nel paese di prima”, nelle parole e nei pensieri di Amali, rievoca il senso di nostalgia per una casa ormai perduta, in cui i luoghi affettivi sono diventati solo ricordi del passato. Basta girare pagina, però, per immergersi in una nuova realtà e cambia anche lo sfondo: Amali sembra ritrovare istantaneamente, nel dialogo diretto con l’Albero, le parole di conforto che le aveva rivolto suo padre - “Guarda il cielo…. Il cielo è uno solo e abbraccia tutti i posti e tutti i paesi del mondo”…. In qualunque luogo noi siamo, sembra dire, la nostra nuova casa è sotto un cielo di stelle.
Testi di Chiara Lorenzoni Illustrazioni di Paolo Domeniconi EDT - Giralangolo, Torino, 2016 Età di lettura: dai 6 anni Pagine: 28
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testo di Chiara Lorenzoni, illustrazioni di Paolo Domeniconi, Edizioni EDT Giralangolo, Torino 2016, con la partecipazione di Amnesty International Sezione Italiana
Trattazione poetica e suggestiva della condizione dei migranti Il piacere di una lettura che si fa insegnamento-apprendimento
Da questa riflessione scaturisce l’accettazione da parte dell’Albero che il luogo in cui si trova può essere considerato casa, sebbene non sia quello delle origini. Ed ecco che il paesaggio si fa sereno, odoroso di fiori: l’Albero ha trovato la sua terra, ha abbandonato l’aspetto cupo di scheletro nodoso, lasciando ad Amali germogli frondosi. È questa, in realtà, una considerazione che induce a pensare e a riflettere sulla condizione dei migranti di oggi, di ieri e di sempre. Amali si trova in un paese nuovo dove non può più sentire i profumi del vento, di deserto e di cacao della sua infanzia; in questo “paese di adesso” vive altre sensazioni, vede paesaggi nuovi ai suoi occhi, incontra persone diverse, ma non avverte più nel suo cuore la paura “che prende tutta la pancia”. Il racconto vuole solleticare la nostra attenzione su un fatto preciso, invitandoci a riflettere su questo: sulla possibilità che esista un mondo di natura in cui la comunità sia composta da persone uguali nella condizione di esseri umani, diverse nelle caratteristiche fisiche, culturali, psicologiche, comunque accoglienti ed empatiche, inclini all’ascolto e al dialogo, proprio come i rami dell’Albero, che erano protesi a chiedere sostegno e ad afferrare aiuto. L’autrice tratta il tema dei migranti in maniera soave e poetica, senza mai scadere nei facili formalismi retorici: il viaggio in mare, ad esempio, viene descritto così, con una frase“… quella notte sul barcone….”. Null’altro viene detto, tutto è lasciato all’immaginazione, nessuna immagine inquietante accompagna la traversata, solo un dolore /pianto composto, misto a paura e attesa. 31
In questo caso è l‘illustrazione a suggerire e a descrivere lo stato d’animo dei migranti e i colori si fanno cupi come il cuore dei protagonisti della traversata e di chi accompagna il loro viaggio con gli occhi del lettore. Il libro propone almeno tre chiavi di lettura analitica. È presente il tema delle radici, come legami di relazioni amicali e familiari; è presente il tema del viaggio, inteso come fuga dal proprio paese, con la difficoltà di lasciare la propria casa, le proprie cose, i propri affetti, e la paura e la speranza in un nuovo inizio, incerto e complesso; è presente il tema dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani, pur nella diversità. Intorno a questi temi, prendendo spunto dalle immagini che ne illustrano i passaggi, è possibile sviluppare percorsi educativi rivolti ad alunni delle scuole Primarie e Secondarie di I grado, trasformando il piacere della lettura in studio e ricerca, condivisione e analisi. Un libro da consigliare ai bambini e agli adolescenti, perché racconta in maniera lieve la storia triste e desolata di una condizione di migrante adolescente in fuga dal proprio paese, che riesce tuttavia a trovare accoglienza e protezione in una nuova vita.
Daniela Conte Resp. del Centro di Documentazione per la Promozione e l’Educazione alla Tutela dei Diritti Umani “Peter Benenson”
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Buone Notizie AZERBAIJAN 19 aprile 2016 Gli attivisti per i diritti umani Leyla e Arif Yunus arrivati in Olanda Leyla ed Arif erano stati condannati il 13 agosto del 2015 rispettivamente a 8 anni e mezzo e a 7 anni di carcere per frodi fiscali. Rispettivamente il 12 novembre e il 9 dicembre 2015 erano stati liberati per motivi di salute. In realtà le loro condanne sono da riferire alla loro attività in difesa della democrazia e dei diritti umani. Leyla è Presidente dell’Istituto per la Pace e la Democrazia. Arif è un attivista politico d’opposizione. Essi sono stati presi di mira per i loro tentativi di spingere per una soluzione pacifica del conflitto armeno-azero e per la loro feroce critica della repressiva politica interna del governo azero. Leyla ha ricevuto numerosi riconoscimenti di alto livello per il suo lavoro per i diritti umani, tra cui Cavaliere dell’Ordine francese della Legion d’Onore e il premio Theodor Haecker. È stata anche finalista del prestigioso premio Sakharov per la libertà di pensiero ed ha avuta la nomination per il Premio Nobel per la Pace 2015. L’ottenimento della liberazione dal carcere e successivamente del permesso a recarsi all’estero è da collegare alle pressioni pervenute al governo azero, sia da parte di organi sovranazionali che da parte di organizzazioni per i diritti umani, fra cui Amnesty International che ha rivolto parecchi appelli alle autorità azere.
FEDERAZIONE RUSSA 12 maggio 2016 Il Tribunale di Voronezh annulla il ricovero psichiatrico forzato dell’attivista di opposizione Dmitry Vorobyovsky. Venerdì 6 maggio 2016 alcuni uomini avevano bussato all’abitazione di Vorobyovsky qualificandosi come dipendenti della società del gas. Quando l’uomo aveva aperto la porta era stato trascinato su un’ambulanza. Dmitry Vorobyovsky è molto conosciuto nella città di Voronezh per le sue frequenti proteste in sostegno di prigionieri politici e per la sua opposizione alle scelte politiche del governo. In seguito al ricorso del suo avvocato, il tribunale ha revocato il ricovero e Vorobyovsky è stato liberato. Il suo avvocato ha dichiarato che gli appelli delle organizzazioni per i diritti umani (fra cui Amnesty International n.d.r.) hanno svolto un ruolo determinante per la liberazione dell’attivista.
STATI UNITI 23 maggio 2016 La Corte Suprema Federale annulla la condanna a morte di un uomo in Georgia per pregiudizi razziali nella giuria. La Corte Suprema degli Stati Uniti si è espressa severamente nei confronti dello Stato meridionale della Georgia per aver predisposto una giuria di soli bianchi per mandare un uomo di colore nel braccio della morte, ed ha stabilito che i pubblici ministeri avevano intenzionalmente distorto il processo cancellando tutti i potenziali giurati neri con un palese atto di discriminazione razziale. Gli otto giudici dell’alta corte federale hanno votato con 7 voti contro 1 la revoca della condanna a
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morte di Timothy Tyrone Foster, ordinando un nuovo processo in un caso che è stato descritto come uno degli atti più visibilmente eclatanti di discriminazione razziale nel sistema giudiziario americano da molti anni. Foster aveva fatto ricorso sostenendo che l’accusa nei suoi confronti fosse a sfondo razziale, in violazione della sentenza Batson v. Kentucky, 476 U. S. 79 del 1986, con cui l’Alta Corte Federale aveva stabilito che l’esclusione non motivata di un potenziale giurato da parte della Procura non può essere effettuata per motivi razziali.Il giudice aveva respinto tale domanda, e la Corte Suprema della Georgia aveva confermato. In seguito Foster aveva ottenuto copia del file utilizzato dal pubblico ministero durante il suo processo. Tra gli altri documenti, il file conteneva copie della lista dei potenziali giudici, in cui il nome di ogni potenziale giurato nero era evidenziato in verde, con la leggenda “rappresenta neri”.
AZERBAIJAN 26 maggio 2016 Liberata la giornalista d’opposizione Khadija Ismayilova La giornalista è stata liberata dopo un anno e mezzo di carcere. Era stata arrestata il 5 dicembre 2014 ed il 1° settembre 2015 era stata condannata a sette anni e mezzo di reclusione per frode, impresa illegale, evasione fiscale e abuso d’ufficio. In realtà era stata condannata per aver pubblicato numerosi articoli in cui esponeva le violazioni dei diritti umani e la corruzione ai massimi livelli nel paese, compresa la famiglia del Presidente Azero Ilham Aliyev. Khadija Ismayilova aveva già ricevuto minacce legate al suo giornalismo investigativo. Il 7 marzo 2012, un anonimo aveva minacciato di diffondere un video registrato nel suo appartamento che mostrava la sua vita intima. A quanto pare qualcuno aveva segretamente posto telecamere nascoste nella sua casa. A quel tempo, Khadija Ismayilova stava indagando su accuse di legami tra la famiglia del presidente Ilham Aliyev e un redditizio progetto di costruzioni a Baku. Khadija aveva respinto il tentativo di essere messa a tacere ed aveva esposto pubblicamente il tentativo di ricatto, dopo di che la minaccia fu messa in atto e il suo video apparve su internet. Anche per effetto delle pressioni e degli appelli pervenuti da organizzazioni per la difesa dei diritti umani, fra cui Amnesty International, la Corte Suprema dell’Azerbaigian ha ridotto la sua pena di tre anni e mezzo, e l’ha sospesa con la condizionale.
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«Io ho un sogno, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue condizioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali.» (Martin Luter King – Washington – 28 agosto 1963)
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