Voci - Numero 1 Anno 3 - Amnesty International in Sicilia

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VOCI

DIAMO VOCE AI DIRITTI UMANI

i fatti e le idee

GENNAIO 2017

NUMERO 1 - ANNO 3

I Diritti Umani

PER LA PACE


VOCI Rivista del Centro di Documentazione per la Promozione e l’Educazione alla Tutela dei Diritti Umani “Peter Benenson”

COMITATO DI REDAZIONE Giuseppe Provenza Responsabile della Redazione Liliana Maniscalco Responsabile Regionale di Amnesty International Daniela Conte Responsabile del Centro di Documentazione per la Promozione e l’Educazione alla Tutela dei Diritti Umani “Peter Benenson” Andrea Cuscona Responsabile Relazioni Esterne e Comunicazione di Amnesty International in Sicilia Silvia Intravaia Grafica e D.T.P.

COLLABORANO Aurelio Angelini, Clelia Bartoli, Giorgio Beretta, Daniela Brignone, Paola Caridi, Marianna Castellari, Francesco Castracane, Giovanna Cernigliaro, Vincenzo Ceruso, Cissé Mouhamed, Coordinamento America Latina - Amnesty International Sezione Italiana, Marta D’Alia, Aristide Donadio, Vincenzo Fazio, Maurizio Gemelli, Javier Gonzalez Diez, Michele Iacoviello, Giuseppe Carlo Marino, Maria Grazia Patronaggio, Andrea Pira, Paolo Pobbiati, Rossella Puccio, Bruno Schivo, Daniela Tomasino, Fulvio Vassallo Paleologo

www.amnestysicilia.org ai.sicilia@amnesty.it Via Benedetto d’Acquisto 30 90141 Palermo

IN QUESTO NUMERO Il valore di una firma

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Italia privata e Italia pubblica e la difesa dei diritti delle donne

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La Corte Penale Internazionale e il mal contento dell’Africa

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di Andrea Cuscona

di Giuseppe Provenza

di Mouhamed Cissé

In Cina torna la questione operaia

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La primavera siriana. Sei anni di assedio contro il regime di Assad

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Egitto, il caso Ahmed Nagy e il sostegno di Amnesty International

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di Andrea Pira

di Daniela Brignone

di Paola Caridi

TUTTI I GIORNI www.amnestysicilia.it /amnesty-sicilia /Amnestysicilia Amnesty In Sicilia /amnestysicilia /amnestysicilia /amnestysicilia Questa rivista non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornata senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge n° 62 del 7.03.2001. Le informazioni contenute in questa rivista, pur fornite in buona fede e ritenute accurate, potrebbero contenere inesattezze o essere viziate da errori tipografici. Gli autori di “Voci“ si riservano pertanto il diritto di modificare, aggiornare o cancellare i contenuti della presente senza preavviso. Alcuni testi o immagini inserite in questo blog sono tratte da internet e, pertanto, considerate di pubblico dominio; qualora la loro pubblicazione violasse eventuali diritti d’autore, vogliate comunicarlo via email. Saranno immediatamente rimossi. Gli autori del blog non sono responsabili dei siti collegati tramite link né del loro contenuto che può essere soggetto a variazioni nel tempo. Le opinioni espresse negli articoli presenti in questo numero non necessariamente rispecchiano le posizioni di Amnesty International.

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Editoriale

IL VALORE DI UNA FIRMA di Andrea Cuscona

“Questa petizione davvero serve a qualcosa? Che cosa può fare la mia firma?”. Ammettiamolo: chi si dedica al volontariato ha sentito e letto mille volte queste legittime domande da parte di chi si avvicina ad un tavolino per strada o di chi vuole condividere un appello online. Rispondere in maniera tecnica è utile, ma serve ancor più capire davvero il valore che assume ogni singola firma. Per comprendere meglio quanto sia importante ciascuno di noi e quanto sia dirompente la forza di quel gesto (ritenuto spesso inutile) occorre, innanzitutto, intraprendere un percorso intimo. Non ha importanza che sia breve o lungo, purché si faccia il passo. Per rendere l’idea, credo sia giusto riflettere prima su alcuni dati. Nel 2016 appena trascorso il Mondo è stato dilaniato da conflitti ancora aperti, la situazione dei migranti ha assunto proporzioni enormi, in ognuno dei 365 giorni dell’anno i diritti umani sono stati violati nelle maniere più atroci, quotidianamente qualcuno ha visto la propria dignità calpestata. I numeri non sono tutto, forse siamo abituati a percepirli come “freddi”, ma dobbiamo leggere le cifre pensando sempre che dietro ad ogni unità c’è (o c’era) una persona in carne ed ossa. In attesa del prossimo rapporto annuale 2016/17 stilato da Amnesty, facciamo riferimento a quello 2015/16 ed estrapoliamo solo una sintesi: ff 160: i paesi nei quali AI ha svolto ricerca o ricevuto informazioni da fonti credibili su violazioni dei diritti umani nel corso del 2015 ff 60.000.000: le persone che si trovano lontano dalle loro case, molte delle quali da diversi o molti anni (*) 3

ff almeno 113: paesi nei quali la libertà d’espressione e di stampa sono state sottoposte a restrizioni arbitrarie ff almeno 30: i paesi che hanno rimandato illegalmente rifugiati verso paesi in cui sarebbero stati in pericolo ff almeno 19: i paesi nei quali sono stati commessi crimini di guerra o altre violazioni delle “leggi di guerra” ff almeno 36: i paesi nei quali gruppi armati hanno commesso abusi ff almeno 156: i difensori dei diritti umani morti durante la detenzione o altrimenti uccisi (**) ff almeno 61: i paesi i cui governi hanno messo in carcere prigionieri di coscienza, ossia persone che avevano solamente esercitato i loro diritti e le loro libertà, più di un terzo dei paesi esaminati da AI ff almeno 88: i paesi nei quali si sono svolti processi iniqui ff almeno 122: i paesi nei quali vi sono stati maltrattamenti e torture ff almeno 20: i paesi, quattro dei quali nel 2015, che hanno riconosciuto per legge i matrimoni o altre forme di relazione tra persone del medesimo sesso. (*) Fonte: Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (**) Fonte: Front Line Defenders GENNAIO 2017 N. 1 / A.3 - Voci


Editoriale

Dunque? Dunque occorre lottare con forza, attivarsi, tenere alta la guardia, non arrendersi e continuare ad indignarsi. Ci sono tanti modi per far parte della grande comunità globale dei difensori dei diritti umani e la firma (su carta o via web) non è affatto un gesto inutile. Per capirlo, forse, basterebbe guardare il sorriso delle tante vittime di violazioni che vedono una luce in fondo al tunnel anche grazie al lavoro di Amnesty, ascoltare le loro dichiarazioni colme di gratitudine, leggere i ringraziamenti che giungono da ogni parte del Mondo. Per poter realizzare tutto questo serve una mano, la stessa mano che impugna una penna per firmare un appello. Grazie al lavoro di Amnesty, alle pressioni sui governi, ai nostri ricercatori, alle mobilitazioni, ai flash mob, alle iniziative e a tanto altro ancora abbiamo fatto sì che nel 2016: ff sia stata sospesa la condanna a due anni per lo scrittore egiziano Ahmed Nàgi ff il Ciad abbia elevato a 18 anni l’età minima per sposarsi ff in India sia stato scarcerato da detenzione illegale un noto difensore dei diritti umani del Kashmir ff il Sudafrica risarcirà le vittime della strage della miniera di Marikana ff due ragazze marocchine siano state rilasciate dal carcere sol perchè sorprese a baciarsi in pubblico ff in Bahrein sia stato prosciolto un attivista politico

ff in Gambia siano tornati in libertà 19 oppositori dopo le elezioni ff l’Irlanda risarcirà una donna cui era stato impedito di abortire ff in Mauritania siano stati rilasciati 10 attivisti del movimento antischiavista C’è moltissimo da fare, indubbiamente. Ho citato solo alcune delle centinaia di buone notizie, limitandomi a quelle giunte in dicembre, non tanto per celebrare il lavoro quotidiano svolto da Amnesty, quanto per evidenziare il fatto che senza l’apporto decisivo delle firme di tutti questi risultati non sarebbero stati possibili. Ecco qui il “percorso intimo” di cui scrivevo poco sopra: capire quanto siamo importanti, gli uni per gli altri. In conclusione, l’invito che rivolgo a chi ancora non si è messo alla prova é: non fatevi abbindolare dal disfattismo, perchè è una sirena ingannevole nel mare magnum della vita. Piuttosto, come ha detto qualcuno ben più importante di me, “è meglio accendere una luce che maledire l’oscurità”: ecco, le luci possiamo essere noi, uniti nella lotta per i diritti umani. Coraggio!

Andrea Cuscona Responsabile Relazioni Esterne e Comunicazione di Amnesty International in Sicilia

VERITÀ PER GIULIO REGENI Giulio Regeni era un cittadino italiano e uno studente di dottorato presso l’Università di Cambridge, nel Regno Unito. Stava conducendo una ricerca sui sindacati indipendenti in Egitto nel periodo successivo al 2011, quando finì il governo di Hosni Mubarak. Era al Cairo per svolgere la sua ricerca quando, il 25 gennaio 2016, il quinto anniversario della “Rivoluzione del 25 gennaio”, è scomparso. Il suo corpo, con evidenti segni di tortura, è stato ritrovato nove giorni dopo, il 3 febbraio, in un fosso ai bordi dell’autostrada CairoAlessandria. Da allora è partita una grande campagna e migliaia di persone, enti, scuole, media hanno esposto striscioni con la richiesta di verità per Giulio Regeni. FIRMA L’APPELLO ---> https://www.amnesty.it/appelli/corri-con-giulio/

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Attualità

ITALIA PRIVATA E ITALIA PUBBLICA E LA DIFESA DEI DIRITTI DELLE DONNE di Giuseppe Provenza

Fra i tanti mali che affliggono l’umanità, uno dei più abietti è costituito dal comportamento violento di molti, troppi uomini nei confronti di donne loro compagne, o ex compagne o che li hanno rifiutati. È questo un triste e vergognoso fenomeno che non ha né confini geografici, né limitazioni culturali. Si verifica in paesi con antiche tradizioni di sottomissione della donna all’uomo, così come in paesi considerati evoluti nelle relazioni sociali e nel rispetto del prossimo e quindi dei diritti umani, si verifica negli ambienti più degradati della società, così come in quelli a più elevati livelli di cultura e di tenori di vita. Purtroppo della frequenza di atti di violenza da parte di uomini sulle donne non si ha una rilevazione precisa poiché la gran parte degli episodi rimane nascosta o per timore o per pudore. Ad emergere e ad indicare la gravità della situazione è l’aspetto più grave della violenza sulle donne che è il femminicidio. In questa situazione mondiale di diffusa presenza di uomini che usano violenza alle donne, l’Italia, che campione di rispetto dei diritti umani non è, ancora una volta si distingue. Lo dicono le cifre ufficiali dell’aspetto che, come si diceva, emerge perché non nascondibile, quello del femminicidio. I casi di femminicidio in Italia negli ultimi anni sono stati (stando ai dati ufficiali): 157 nel 2012, 179 nel 2013, 136 nel 2014, 128 nel

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2015. Nei primi 10 mesi del 2016 sono stati 116. Un numero assolutamente intollerabile, un femminicidio ogni due giorni e mezzo. Ma ciò che, se possibile, fa ancora più impressione è il numero che fornisce l’Istat riguardo alle donne italiane che hanno subito violenza: 6.788.000. È un numero spaventoso perché corrisponde a circa il 27% delle donne italiane fra 15 e 65 anni. Come si sa l’Europa, con il suo organismo deputato alla difesa dei diritti umani, il Consiglio d’Europa, ha affrontato il problema con la “Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica”, comunemente nota come la “Convenzione di Istanbul”, approvata nel 2011 ed entrata in vigore il 1° agosto del 2014 dopo la ratifica del decimo paese. L’Italia è stato uno dei primi paesi a ratificare la convenzione il 19 giugno del 2013, dopo l’approvazione della legge da parte del Senato. Già nell’agosto dello stesso anno l’Italia recepiva nel proprio ordinamento la convenzione mediante il decreto legge, trasformato in legge in ottobre, che, sostanzialmente adottava uno dei tre pilastri della convenzione. Questa, infatti, enuncia che si possa lottare contro il triste fenomeno della violenza sulle donne mediante le tre “P”: Prevenzione, Protezione, Punizione. GENNAIO 2017 N. 1 / A.3 - Voci


Attualità

PAESE

Abitanti in migliaia

N. case

Posti letto

Direttiva Consiglio d’Europa

Rapporto percent.

Norvegia

4.830

46

815

483

169%

Slovenia

2.040

16

249

200

122%

Austria

8.370

30

759

837

91%

Germania

80.580

353

6.800

8.058

84%

Albania

2.830

8

200

283

71%

Bosnia

3.840

10

185

384

48%

Grecia

11.280

25

480

1.128

43%

Italia

60.190

65

453

6.019

7.5%

Bulgaria

7.585

6

55

759

7.25%

Fonte: Women Against Violence Europe (http://www.wave-network.org/country-info)

Ciò che l’Italia ha realizzato, con quel provvedimento legislativo, è stato intervenire in termini del terzo pilastro: la Punizione, mediante opportune ed apprezzabili modifiche al Codice Penale ed al Codice di Procedura Penale. Tuttavia, e veniamo al titolo di questo articolo, per quanto giusto sia stato modificare le leggi, non è soltanto punendo che si può contribuire a lottare contro la violenza di genere. Limitandosi a questo intervento lo Stato Italiano ha mantenuto l’atteggiamento tenuto in precedenza, atteggiamento che non appare rivolto alla prevenzione ed alla protezione, come invece raccomanda la Convenzione di Istanbul. In sostanza le donne italiane continuano a percepire lo Stato come distante quando i fatti avvengono e a sentire il sostegno quasi esclusivamente da parte delle tante Organizzazioni private che operano sul territorio italiano in maniera tanto encomiabile, pur a fronte di grosse difficoltà di ogni genere, a partire da quelle economiche. Fra le più diffuse e note citiamo “Posto Occupato”, Organizzazione premiata dalla Circoscrizione Sicilia di Amnesty International per il lavoro che porta avanti quotidianamente, DiRe (Donne in Rete), Telefono Rosa, UDI (Unione Donne Italiane), Pangea, e tante altre. Le organizzazioni italiane del settore hanno fortemente criticato il “Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere” varato nel 2015 dal Governo Italiano, soprattutto per lo scarso impegno economico previsto. Il piano scadrà a giugno 2017, ma, a fine 2016 praticamente nulla è stato fatto Voci - GENNAIO 2017 N. 1 / A.3

sia in termini di prevenzione, ossia con progetti di “educazione” da portare avanti nelle scuole, sia in termini di protezione, ossia ampliando e rafforzando la rete dei centri antiviolenza e delle case rifugio. Finora, infatti, dei fondi stanziati in merito, di per sé insufficienti, circa 10 milioni l’anno, soltanto una piccola parte è andato ai centri antiviolenza, che restano quasi del tutto affidati alla solidarietà dei privati nei confronti delle donne vittime di violenza. In tale stato di cose, particolarmente riprovevole appare il divario esistente fra i posti letto disponibili in Italia in case rifugio e quelli disponibili in altri paesi, tenuto conto, soprattutto, che, in base alla direttiva del Consiglio d’Europa (un posto letto ogni 10.000 abitanti) l’Italia dovrebbe avere circa 6.000 posti letto, mentre ne ha poco più di 450, contro i 6.800 della Germania. Gli italiani solidali verso le donne vittime di violenza, mentre, quindi, sentono gratitudine nei confronti di tutti quei volontari che quotidianamente, lavorano con sacrificio e nell’ombra in aiuto delle donne, non possono non manifestare disapprovazione nei confronti di uno stato che, a parole, dichiara la volontà di combattere la violenza sulle donne, mentre, nei fatti, praticamente nulla fa in direzione della prevenzione, che non può che essere suo esclusivo compito, e poco si impegna in termini di protezione, lasciando quasi sole, a partire dagli aspetti economici, le organizzazioni del settore. Giuseppe Provenza Responsabile Gruppo Italia 243 di Amnesty International Sezione Italiana Membro del Coordinamento Europa di Amnesty International Sezione Italiana

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Africa

CORTE PENALE INTERNAZIONALE E IL MAL CONTENTO DELL’AFRICA di Mouhamed Cissé

Nel 2016 l’Africa del Sud, il Burundi e la Gambia hanno assunto la decisione di ritirarsi dal Trattato di Roma, convenzione che ha creato la Corte Penale Internazionale. L’Unione Africana ha parlato di una giustizia con due pesi e due misure e ha anche, nel corso del 26esimo vertice, minacciato un ritiro collettivo dal trattato degli Stati Africani.

portare in tribunale l’imperatore Guglielmo II e i suoi ufficiali, senza che questi potessero essere protetti dall’immunità propria del loro rango. Il difetto di pertinenza della qualità ufficiale previsto nello statuto di Roma deriva dunque proprio da ciò e non mira necessariamente ai capi di Stato africani ma riflette una più ampia volontà di lotta contro l’impunità.

Allo scopo di dissipare le controversie ideologiche e di permettere il discernimento della verità storica e giuridica riguardo in particolare al rapporto tra la CPI e gli Stati africani, è urgente e opportuno fornire qualche elemento di risposta.

Le discussioni e negoziazioni sulla questione continuarono in seno alla Società delle Nazioni e successivamente in seno ai diversi comitati ad hoc dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. L’elaborazione della Convenzione per la nascita di un tribunale penale internazionale per la soppressione e la condanna di crimini di Apartheid e altri crimini internazionali si fonda su una delle bozze di questi scambi. Dopo una lunga interruzione dovuta principalmente a dei disaccordi sulla definizione di certi crimini, furono le ONG che con il loro attivismo contribuirono in modo decisivo a permettere la ripresa delle discussioni. Questo soprattutto nel contesto delle atrocità commesse negli anni ’90 in Ex Jugoslavia e in Ruanda e specificamente dopo la creazione del Tribunale Penale Internazionale per l’Ex Jugoslavia nel 1993 e del TPIR nel 1994 attraverso delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza

La corte è stata creata con il secondo fine di diventare strumento per una nuova forma di neo colonialismo dell’Occidente contro gli Stati africani? I capi di Stato africani erano bersagliati già allora? Analisi del ruolo delle ONG. L’idea di stabilire una giurisdizione permanente internazionale fu evocata seriamente la prima volta durante le guerre dei Balcani nel 1912 -1913 e successivamente durante la I guerra mondiale, e in particolare durante le discussioni relative al Trattato di Versailles. Uno degli obiettivi ricercati era di trovare una formulazione che potesse permettere di 7

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Africa

dell’ONU. E’ la bozza di Siracusa, che vide una forte partecipazione delle ONG, che ha infine deciso la creazione della CPI non attraverso una risoluzione del Consiglio di Sicurezza ma piuttosto attraverso un trattato al fine di assicurare un’adesione più ampia. Bisogna notare che la funzione di controllo delle ONG di difesa dei diritti dell’uomo continua ancora oggi ad essere determinante. Sono queste infatti che trasmettono gran parte del materiale di investigazione all’Ufficio del Procuratore per cominciare gli esami preliminari prima che quest’ultimo apra delle indagini ufficiali. Ripercorrere la storia della creazione della CPI permette di comprendere appieno l’apporto fondamentale di questo strumento nel complesso mosaico di strumenti esistenti nel mondo di oggi. La CPI è veramente uno strumento nelle mani degli occidentali per imporre la loro volontà ai loro avversari? La Corte esercita la sua competenza contro i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità, il genocidio e il crimine di aggressione. La Corte è adita in primo luogo quando la situazione è deferita al Procuratore da uno Stato membro; in secondo luogo quando la situazione è deferita dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU; e infine quando il Procuratore proprio motu apre un’inchiesta sulla base delle informazioni ricevute. Lo Statuto della CPI va più lontano prevedendo i casi in cui la Corte può esercitare la sua competenza se uno Stato non membro accetta comunque la sua competenza con una dichiarazione presentata all’Ufficio di Cancelleria. Su dieci esami preliminari aperti in questo momento, quattro vedono gli Stati africani coinvolti. Su questi quattro, tre esami sono stati aperti su decisione del Procuratore di aprire un’inchiesta di sua propria iniziativa. Il quarto Stato ha lui stesso deferito il caso davanti la Corte. L’ufficio del Procuratore indaga in questo momento su dieci situazioni (di cui due nello stesso paese). Otto Stati africani sono implicati. Di questi paesi africani, cinque hanno loro stessi deferito la situazione davanti al Procuratore (Repubblica Centrafricana, Mali, Costa d’Avorio, Uganda e RDC), un caso proprio motu da parte dell’Ufficio del Procuratore (Kenya) mentre negli altri due casi, si tratta di una decisione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (Libia e Sudan). La richiesta di intervento della Corte da parte degli Stati africani in proporzione così elevata porta a credere che la Corte abbia una sua utilità e che il suo intervento non sia frutto di una decisione imposta dall’ Occidente contro i paesi africani. Dei capi di Stato africani, vista le situazioni prevalenti nei loro rispettivi paesi, hanno preso dunque l’iniziativa di far riferimento a questo nuovo organo internazionale sia in qualità di Stati membri sia, nel caso di Stati Voci - GENNAIO 2017 N. 1 / A.3

non membri, riconoscendo comunque la competenza della Corte su dei presunti crimini commessi sul loro territorio. Certuni diranno che i politici africani usano la Corte come strumento politico per inviarvi i propri avversari politici. Ma in realtà, il meccanismo di apertura di una inchiesta è complesso e lo standard “base ragionevole per aprire una inchiesta” è elevato. In effetti, l’Ufficio del Procuratore deve presentare alla Camera Preliminare una domanda di autorizzazione accompagnata da ogni elemento giustificativo. La risposta può essere negativa. Pertanto, una decisione del Procuratore di aprire un’inchiesta per sua propria iniziativa non conduce a un’apertura automatica di una situazione o di un caso. Il Procuratore è autonomo e indipendente nell’esercizio delle sue funzioni cosi come i giudici. Il modo di designazione di questi ultimi, le qualifiche richieste e l’importanza nella loro scelta da parte degli Stati membri di tener conto della rappresentanza geografica equa scarta ogni equivoco quanto alla possibilità d’imposizione dei giudici da parte degli occidentali. Un altro argomento, e non da meno, riposa sul fatto che la “corte penale internazionale è complementare alla giurisdizioni penali nazionali”. Lo statuto assicura la preminenza dell’organo giudiziario interno sulla CPI anche se si parla di complementarità dei due organi. La competenza della Corte non potrebbe essere imposta “quando il caso è oggetto di una inchiesta o azione giudiziaria da parte di uno Stato che ha competenza, a meno che questo Stato non abbia la volontà o sia nell’incapacità di portare avanti l’inchiesta o le condotte”. Emerge di nuovo lo spirito degli esperti di diritti umani che hanno partecipato alla redazione dello statuto. La critica riguardante le potenze come USA, Russia e Cina che non hanno aderito è giustificata? Sono intoccabili? Secondo i termini dello Statuto, per la loro non adesione, i cittadini americani (cosi come per tutti i paesi che non hanno aderito) non possono essere perseguiti nel territorio degli Stati non membri ma al contrario possono esserlo nel territorio di uno Stato membro. Per evitare questo pericolo, gli USA hanno proceduto alla firma di accordi bilaterali con questi Stati in vista di garantire la protezione dei loro cittadini. Nondimeno, si può constatare che questo strumento non lascia questi grandi paesi indifferenti. Infatti, nel 2002 con una manovra diplomatica senza precedenti – e con un valore giuridico discutibile – l’amministrazione Bush J. minacciò di ritirare la firma apposta il 31 dicembre 2000 dal suo predecessore, il Presidente Clinton. La ragione della minaccia era che il governo americano temeva un’azione giudiziaria

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Africa

contro il personale dei servizi segreti o ufficiali per ragioni politiche. Analogamente, il 16 novembre 2016, il Ministro russo degli Affari Esteri ha annunciato la firma di un decreto da parte del Presidente Vladimir Putin di ritiro della firma della Russia dalla Statuto di Roma. Ciò è avvenuto all’indomani della pubblicazione di un rapporto di esame preliminare dell’Ufficio del Procuratore che faceva riferimento a movimenti di truppe russe in Ucraina e in Crimea. La Russia ha firmato lo Statuto di Roma nel 2000 e non sembra ad oggi per niente interessata a ratificarlo. Si tratta dunque di una ritorsione politica di fronte alla decisione dell’apertura di un esame preliminare in Georgia e in Ucraina più che di una reale critica contro le azioni della corte. Queste azioni di ritorsione non hanno impedito all’Ufficio del Procuratore di continuare le sue indagini in Ucraina, di condurre degli esami preliminari relativamente alle azioni condotte dall’Inghilterra in Iraq o di Israele sul territorio palestinese. Gli africani si pongono la giusta domanda? La creazione e la nascita della Corte ha delle ricadute benefiche sulle loro popolazioni in materia di protezione dei diritti umani? La Corte è uno strumento di lotta contro i crimini più gravi, contro l’impunità e di prevenzione nonché uno strumento di peacebuilding. Il preambolo riflette maggiormente l’intenzione dei redattori ed è conforme allo spirito della loro visione. Seppur non facendo parte della parte operativa dello Statuto, il preambolo delinea gli obiettivi principali ed è il risultato di lunghe negoziazioni che stanno alla base dell’accettazione dello Statuto. Secondo il Preambolo, la Corte ha un carattere universale, prende in considerazione “tutti i popoli”, denuncia i “milioni di vittime di atrocità”, e soprattutto “afferma che i crimini più gravi che toccano l’insieme della comunità internazionale non saranno lasciati impuniti e che la loro repressione deve essere effettivamente assicurata attraverso misure prese nel quadro nazionale e attraverso il rinforzamento della cooperazione internazionale”. I redattori si dicono “determinati a mettere fine all’impunità degli autori di questi crimini e a concorrere anche alla prevenzione di nuovi crimini”. Cosi la lettura di questo paragrafo indica la doppia funzione della Corte: da un lato di perseguire i crimini più gravi assicurando la lotta contro l’impunità e dall’altro come strumento di prevenzione. Inoltre, l’amnistia non sarà più permessa per i crimini previsti dalla Corte. Grazie a questo strumento, la tensione tra amnistia e lotta contro l’impunità fa pendere chiaramente la bilancia a favore della

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lotta contro l’impunità. Questo stato di fatto riflette l’incidenza delle ONG nella loro volontà di prevedere degli strumenti di protezione delle popolazione. La CPI, oltre ad essere uno strumento di azione giudiziaria e di lotta contro l’impunità è uno strumento di dissuasione efficace? La risposta è certamente mitigata quando si considera, per esempio, la situazione in Siria e le numerose minacce di apertura d’inchiesta contro i belligeranti. Di fronte agli interessi delle grandi potenze in Siria, ci sono poche chance di veder materializzarsi una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che preveda l’apertura di un’inchiesta in questo paese. In certi casi, gli interessi nazionali prevalgono chiaramente e lo strumento del diritto è brandito. In Africa dell’ovest, la minaccia di fare ricorso alla CPI sembra essere largamente accettata e funzionante. Delle minacce di ricorso alla CPI sono state utilizzate sia da parte del Segretario Generale delle NU sia dalle organizzazioni regionali come la CEDEAO. L’importanza della Corte come strumento con una propria mission nel contesto internazionale è innegabile. Si constata che oltre alla funzione di strumento di lotta contro l’impunità, si aggiunge la sua funzione centrale nella ricostruzione post-conflitto (peacebuilding). In effetti, “la corte stabilisce i principi applicabili alle forme di riparazione, come la restituzione, l’indennizzo o la riabilitazione, da accordare alle vittime o a chi ne ha diritto”. Il Prof. Vincent Chetail ritiene che in un contesto caldo che segue le situazioni di conflitto armato, giudicare i crimini di guerra è una tappa essenziale ai fini di restaurare la pace e di procedere ad una rottura con il passato. Egli aggiunge inoltre che l’esperienza ha dimostrato che la riconciliazione e la riparazione delle vittime ha dei benefici in un approccio che unisce gli aspetti interni e internazionali della giustizia, il quale ha un obiettivo che va al di là della semplice repressione criminale dei crimini commessi nel passato. Vista l’importanza della corte, tutte le ONG e gli operatori sociali in contesti difficili dovrebbero far propria la missione di informare correttamente sul funzionamento e sugli obiettivi della CPI, in modo da aiutare a cambiare la percezione di “(in)giustizia internazionale” che buona parte della popolazione civile ha.

Mouhamed Cissé Consulente per i diritti umani del Comune di Palermo Direttore della MhD Consulting

GENNAIO 2017 N. 1 / A.3 - Voci


Estremo Oriente

IN CINA TORNA LA QUESTIONE OPERAIA di Andrea Pira

Tre anni di carcere con sospensione della pena per aver disturbato l’ordine sociale. La condanna è stata comminata lo scorso settembre a tre attivisti del Panyu Migrant Workers Documentation Service Center, una delle più conosciute organizzazioni non governative che si occupano di dare assistenza ai lavoratori migranti. Lo scorso novembre un’altra condanna, questa volta a ventuno mesi di detenzione è stata inflitta a un quarto attivista per i diritti dei lavoratori che gravita attorno al centro nella ricca provincia costiera del Guangdong, uno dei motori produttivi della Repubblica popolare. L’accusa di disordini contro il direttore del centro Zeng Feiyang e i suoi compagni Zhu Xiaomei, Tang Huangxing e Meng Han, si riferisce all’attività e al sostegno dato ai lavoratori per organizzarsi e reclamare salari e migliori condizioni nei posti di lavoro. I tre erano in custodia da dicembre del 2015. Gli arresti rientrano nella più ampia stretta del governo cinese contro gli attivisti per i diritti civili e umani. Nella versione dei fatti data dall’agenzia giornalistica di Stato Xinhua, i sindacalisti avrebbero «incitato gli operai a interferire con il lavoro nelle fabbriche e con la normale produzione, disturbando l’ordine sociale».. Per di più Zeng si sarebbe anche lasciato andare a condotte lascive, avrebbe tradito la moglie con almeno Voci - GENNAIO 2017 N. 1 / A.3

otto amanti e frequentato prostitute. O almeno così riporta la stampa ufficiale nello sfruttare argomenti ricorrenti nelle cronache che riguardano personaggi invisi alle autorità, contro i quali si costruisce una campagna diffamatoria che tocca anche l’ambito privato. Il caso è arrivato fino alle Nazioni Unite. Su ricorso dell’International Trade Union Confederation, l’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) ha esortato la Cina a garantire che i quattro sindacalisti possano continuare a fornire servizi di consulenza, senza alcun impedimento. Il comitato per la libertà d’associazione dell’Ilo ha inoltre rimarcato la mancata ratifica da parte di Pechino di due delle convenzioni fondamentali dell’organizzazione: quella sulla libertà d’associazione e il diritto a organizzarsi e quella sul diritto alla contrattazione collettiva. L’apparente clemenza della corte, che ha disposto la sospensione della pena per i sindacalisti, non deve comunque trarre in inganno. Di fatto non potranno infatti più continuare a sensibilizzare i lavoratori sui propri diritti, perché al minimo segno di disordine o protesta, il rischio è che possano finire in carcere. “Il governo continuerà ad avere grossi problemi indipendentemente dall’assistenza del Centro Panyu”, spiegava lo scorso settembre William Nee, ricercatore di Amnesty International a Hong Kong, in 10


Estremo Oriente

un’intervista alla Reuters “Non potranno ignorare le vertenze, soprattutto perché nella maggioranza dei casi i lavoratori chiedono ciò di cui hanno diritto al 100%”. Il caso è comunque stata occasione per le frange più nazionaliste della stampa e del governo di puntare il dito contro l’ingerenza di “forze straniere” accusate di voler destabilizzare la Cina. In una confessione pubblica trasmessa dall’emittente di Stato, Cctv, Zeng ha confermato di aver ricevuto formazione e fondi dall’estero. L’attivista ha quindi ammesso di aver assecondato i voleri dei propri finanziari di utilizzare “metodi estremi” per portare avanti le rivendicazioni degli operai. In questo caso le forze straniere hanno un nome e un cognome. Si tratta del China Labour Bulletin, organizzazione non-governativa di Hong Kong fondata a Han Dongfang, il leader operaio di Tian’anmen, che funge da sorta di proto-sindacato indipendente. La spontaneità della confessione può essere messa in discussione. Le autocritiche e le ammissioni di colpa in diretta televisiva stanno diventando una costante nella Cina del presidente Xi Jinping, presa nel mezzo della campagna anti-corruzione, con la quale il capo di Stato sta facendo un repulisti tra le file del Partito. Complice il rallentamento dell’economia negli ultimi anni si è assistito a un aumento delle rivendicazioni. 11

Secondo i dati raccolti proprio dal China Labour Bulletin, dall’inizio del 2016 gli scioperi e le proteste sono stati oltre 1.600 in tutto il Paese, ma in particolare nelle aree costiere e nella provincia sudoccidentale del Sichuan. Per il governo rientrano nel grande calderone degli “incidenti di massa” che possono turbare l’armonia sociale e alle quali Pechino risponde alternando il bastone della repressione alla carota degli aumenti del salario minimo e a una maggiore attenzione per le condizioni di vita e produzione dei lavoratori. Gli sforzi del centro, non sempre trovano attuazione nella periferia dell’impero. In Cina esistono norme del lavoro che tuttavia non sempre sono applicate dagli imprenditori o dalle autorità locali. Spesso gli stessi lavoratori rinunciano al contratto per poter passare più facilmente e senza lacci da una fabbrica all’altra, alla ricerca di stipendi più alti e condizioni migliori. Inoltre manca un sindacato che svolga a pieno il proprio compito. L’azione collettiva, scrive ancora il China Labour Bulletin, è perciò “il solo modo che i lavoratori hanno per proteggere i propri interessi”. Guardare a quanto succede come a un risveglio o a una presa d’atto dei propri diritti sarebbe però non centrare il punto. “Le lotte di questa classe lavoratrice contemporanea estremamente mobile e flessibile riguardano i bisogni immediati: il salario non GENNAIO 2017 N. 1 / A.3 - Voci


Estremo Oriente

corrisposto oppure un condizionatore che non funziona nell’officina”, nota Gabriele Battaglia in un’analisi su Internazionale. La protesta paga. A fine 2016 i lavoratori di un’industria elettronica di Dongguan, la città fabbrica della Cina, andata in bancarotta hanno ricevuto i compensi dovuti e finora mai corrisposti dopo che lo stabilimento un anno fa era stato chiuso. La stampa locale ne ha dato notizia. Ciò di cui non ha parlato, denuncia ancora il CLB, sono le violenze della polizia e gli arresti che i lavoratori hanno dovuto subire prima che gli venisse riconosciuto dal sistema legale quanto spettava loro. Le azioni collettive, aggiungono Mark Selden e Jenny Chan del China Policy Institute dell’università di Nottingham, sono tuttavia di corto respiro, confinate a una sola azienda o settore.”Sebbene alcune di queste lotte abbiamo portato ad aumenti salariali, la dura realtà svela che le vittorie non si sono tradotte in benefici sul lungo termine con la formazione di sindacati reattivi o con l’emergere di un’agenda sul lavoro più ampia”, scrivono i due studioso. Di contro, l’attivismo operaio sconta la repressione e gli arresti proprio nel Guandong, dove è più forte il legame transfrontaliero con le ong che hanno sede a Hong Kong. Pechino sente i rischi legati a questi sommovimenti. Il Partito al potere continua a chiamarsi comunista e

quindi implicitamente a presentarsi come difensore delle istanze dei lavoratori. L’impegno a continuare a garantire benessere alla popolazione è inoltre alla base del patto sociale dal quale il Pcc trae legittimità. Non sfugge quindi che lo stesso presidente Xi Jinping abbia esortato l’Acftu ad auto-riformarsi e cercare una maggiore connessione con i lavoratori, abbandonando l’immagine burocratica che dà di sé. La seconda economia al mondo è in una fase di transizione. L’obiettivo di crescita per il 2016 era stato fissato tra il 6,5 e il 7%. Quando i risultati sull’anno saranno resi noti, probabilmente il dato si collocherà sulla parte mediana, se non su quella bassa della forchetta. Nei prossimi anni il ritmo potrebbe anche essere più lento. Ufficialmente le previsioni del tredicesimo piano quinquennale indicano una crescita media del 6,5% nell’arco di tutto il lustro. A metà dicembre, Xi ha comunque aperto all’ipotesi che possa essere più bassa, accogliendo i consigli delle istituzioni finanziarie internazionali. Tale processo di trasformazione prevede, almeno a parole, una riorganizzazione delle grandi aziende di Stato e una riduzione della capacità produttiva in eccesso. Tradotto, ci potrebbero essere conseguenze sull’occupazione, le cui ripercussioni il governo intende scongiurare. La crescita della seconda economia al mondo si sta inoltre sempre più spostando sui servizi. La riprova sono le proteste contro la nuova turnazione che hanno investito Wal-Mart in diverse città della Cina. Anche in questo caso il malcontento riflette la necessità dell’azienda di adattarsi a un contesto, quello cinese, dove sempre più diffuso e capillare è l’e-commerce. Nei mesi scorsi la protesta operaia ha interessato inoltre Coca Cola, Sony. In questo caso i lavoratori volevano certezze per il passaggio degli stabilimenti da una proprietà straniera ad aziende cinesi. Il colosso delle bibite ha ceduto alcuni impianti per il packaging a conglomerati locali, spingendo i dipendenti a chiedere compensazioni per possibili licenziamenti o tagli agli stipendi. Scene non molto diverse si sono viste a Guangzhou contro la cessione della controllata Sony Electronics Huanan. Il timore è che la nuova proprietà non riesca a garantire le stesse condizioni concesse dagli stranieri, con il rischio che possano anche peggiorare.

Andrea Pira Giornalista, sinologo, si occupa e scrive di diritti umani e libertà civili

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Medio Oriente

LA PRIMAVERA SIRIANA. SEI ANNI DI ASSEDIO CONTRO IL REGIME DI ASSAD di Daniela Brignone

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Ancora una volta il Medio Oriente è teatro della ricerca di un nuovo equilibrio mondiale. La mattanza che si svolge per le strade di Aleppo e nel restante territorio siriano, di cui giunge notizia giornalmente, coinvolge non solo militanti pro governativi e ribelli, ma anche civili, tra cui donne e bambini, innocenti testimoni della tragedia di un popolo dalla storia millenaria. In un contesto più ampio che tocca parte dei paesi arabi e che è noto come la “primavera araba”, la guerra siriana nasce da manifestazioni contro il regime di Bashar al-Assad. Dal 15 marzo 2011 scoppia quella che oggi è considerata come la principale guerra del XXI secolo. Iniziata come pacifica opposizione contro il regime, la guerra civile siriana si è trasformata in un conflitto di vaste proporzioni, degenerato in un genocidio. L’aspra repressione da parte dell’esercito di Assad nei confronti degli oppositori e degli autori di slogan antiregime, fomenta la violenza dei ribelli e i tentativi di conquista di città come Damasco e 13

Homs. La coesistenza armata dei due schieramenti, soprattutto nella città di Aleppo, instaura un clima di forte tensione, inasprito dalla componente religiosa che vede in opposizione musulmani sunniti, che rappresentano la maggioranza della popolazione, e sciiti, sostenitori di Assad. Le milizie jihadiste dello Stato Islamico (IS) che nel 2014 hanno proclamato la nascita di un Califfato nello stato siriano, si schierano contro Assad e l’intervento straniero, ma allo stesso tempo sono determinate a cancellare la storia e l’identità di un popolo con violenza nel nome di un regime d’intolleranza religiosa. Stati Uniti e Russia, tra accuse di faziosità a favore dell’uno o dell’altro schieramento, intervengono con raid aerei contro i gruppi terroristici, favorendo l’avvio delle trattative di pace tra regime e opposizione a Ginevra il 14 marzo 2016, non ancora concluse. Il regime dittatoriale di Assad ha sollevato un muro di incomunicabilità, delineando nettamente la divisione tra la maggioranza sunnita e la fazione sciita. GENNAIO 2017 N. 1 / A.3 - Voci


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Scompare fisicamente la civiltà antica che ha conosciuto i fasti di Ebla, di Damasco e di Palmira, quest’ultima vittima della distruzione operata dall’IS, e con essa qualunque istanza liberale della popolazione, costretta all’isolamento dal mondo. Sono poche e incerte, infatti, le notizie che pervengono dai media. Si contano numeri impressionanti di giornalisti, siriani e stranieri, uccisi o scomparsi in due anni, che si sono assunti la responsabilità e l’alto rischio di testimoniare le violenze del regime di Assad. Quelli che riescono a sopravvivere, recano testimonianze devastanti di un territorio lacerato, nel corpo e nell’anima. Tra questi, l’italiano Michele Pero, autore dei reportage “Syria, Aleppo, la città fantasma sotto le bombe” e “Syria, un passo verso il cielo”, che racconta l’atmosfera, il pericolo quotidiano, la lotta per la sopravvivenza, in cui la gente locale è costretta a vivere e che opprime incessantemente un popolo, le cui tradizioni ataviche e la narrazione millenaria sono minacciate dalla violenza nella sua forma più disumana. Pero, autore, tra l’altro, di reportage sui conflitti in Croazia, Bosnia, Albania e Kosovo, sa cogliere il profondo degrado e la disumanità, ma anche il dolore dietro gli sguardi, e ne presenta le immagini drammatiche, scioccanti. Sono le immagini di tutte le guerre che ognuno di noi conosce, direttamente o indirettamente, e che accomunano l’esperienza siriana Voci - GENNAIO 2017 N. 1 / A.3

a tutte le tragedie dell’umanità, a cui ogni individuo non potrà mai abituarsi. Il progresso genera anche una crescente brutalità nei confronti della popolazione con l’utilizzo di mezzi repressivi sempre più sofisticati: sistemi di tortura nelle carceri, artiglierie, gas sarin, raid aerei e attacchi chimici per sconfiggere i ribelli. Il sito del Centro di documentazione delle violazioni in Siria, Vdc, parla di 171.886 morti tra marzo 2011 e dicembre 2016, di cui 108.322 civili. Aleppo ha il più alto numero di vittime, seguite da Damasco. Secondo Amnesty International le persone morte in carcere dall’inizio del conflitto fino ad agosto 2016 ammontano a 17.723. Ma si parla anche di genocidio di bambini. Quelli che sopravvivono hanno la morte nel cuore, il disincanto, la paura negli occhi. Crescono troppo in fretta, con il fucile in mano che ha rubato loro le fantasie infantili, conformandosi inevitabilmente alla realtà che li circonda. Ogni scatto propone una visione straniata dei luoghi, irriconoscibili e privi ormai della propria identità, come la gente che vaga tra i cumuli di macerie di edifici vuoti come scheletri. Non si può pensare alla Siria senza ricordare tristemente epoche remote e civiltà che furono, luogo mitico di storie e di leggende che parla il linguaggio antico di una cultura millenaria, che lascia il posto all’orrore, 14


Medio Oriente

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alla distruzione di tesori artistici incomparabili. Città dalle profonde contraddizioni, sospese tra le infinite miserie del popolo e la ricchezza e la sontuosità dei privilegiati in una coesistenza di solitudine, di violenza e ricerca individuale di salvezza, anche negli occhi di chi, come le donne, abituate tradizionalmente alla devozione e al silenzio, sente il bisogno di farsi ascoltare e di agire. Non c’è tempo per provare malinconia o sentimentalismi. è tempo solo di fuggire o, per chi è impossibilitato, di combattere per salvare ciò che resta, anche un ideale, per tenere stretto un luogo, un simbolo affettivo o la propria libertà all’interno di una guerra assurda e sanguinaria, in virtù di una nuova presa di coscienza, quella del proprio valore e della propria dignità. Secondo i dati dell’UNHCR, sono oltre 4.7 milioni i migranti che sono fuggiti dalla Siria in cerca di asilo. Molti nei territori limitrofi (Egitto, Turchia, Giordania), altri in occidente, mescolandosi ai migranti che approdano sulle coste italiane e greche. Ci si chiede cosa è rimasto, a giudicare dalle immagini che giungono fino a noi, di quei luoghi mitici e se sarà 15

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mai possibile il recupero di un territorio dissanguato e traumatizzato. Una profonda e dolorosa ferita ha segnato la popolazione a cui rimane l’angoscia e l’incubo quotidiani, tra rovine e vuoto esistenziale, e con la perdita della sacralità dell’esistenza.

Daniela Brignone Storica dell’arte e critica

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Letteratura

EGITTO, IL CASO AHMED NAGY E IL SOSTEGNO DI AMNESTY INTERNATIONAL di Paola Caridi

Funzionava così, in Egitto. Gli scrittori sottoponevano la loro produzione (romanzi, poesie, saggi...) all’autorità competente per la censura nel ministero della cultura. Ricevevano un benestare, oppure vedevano cassata parte dei loro scritti per una serie infinita di accuse: tra le più in voga era le censure per frasi politicamente non opportune, oltraggiose per pubblico pudore, offensive per il sentimento religioso. Cominciava allora un tira e molla tra lo scrittore e il burocrate, tra tentativi di ridurre l’intervento censorio e la pressione politica e psicologica esercitata dal regime. Funzionava così, in Egitto, sia per gli scrittori che sostenevano il regime e sia per quelli dichiaratamente nelle file dell’opposizione, che cercavano in qualche modo di ricavarsi uno spazio di autonomia e di libertà condizionata. Il tira e molla con gli uffici della censura, lungi dall’essere confinato in una dimensione burocratica, è spesso divenuto ‘oggetto’ di performance artistiche. Alaa al Aswani ne ha fatto un bel racconto, per esempio. E sono esilaranti, in un film profetico sulla rivoluzione egiziana del 2011 come Microphone di Ahmed Abdalla, le scenette tra il burocrate che si professa artista, da un lato, e i giovani musicisti della nuova scena in buona parte hip-hop di Alessandria d’Egitto. Funzionava così e funziona ancora tutto sommato allo Voci - GENNAIO 2017 N. 1 / A.3

stesso modo, in Egitto. Con una differenza. Finora l’intervento statale si sostanziava in una pressione sulla produzione artistica. Superato l’ostacolo della censura di Stato, si poteva incorrere, sì, in un procedimento giudiziario. Ma la libertà personale dello scrittore non era stata sinora messa in discussione. Come invece è accaduto nel caso di Ahmed Nagy. È per questo che è un caso simbolico e allo stesso tempo atipico, quello di Ahmed Nagy, scrittore egiziano, poco più che trentenne. Esponente della nouvelle vague letteraria egiziana, Ahmed Nagy ha pubblicato stralci del suo ultimo romanzo su una delle riviste di critica più importanti nel 2014. Il romanzo è poi uscito anche in traduzione italiana, lo scorso settembre, con il titolo Vita: Istruzioni per l’Uso, pubblicato dalla coraggiosa casa editrice il Sirente e con il sostegno di Amnesty International. Ahmed Nagy aveva superato lo scoglio della censura, in una prima fase, e quindi tutto sembrava a posto. Sino a che un individuo, Hani Saleh Tawfik, non ha depositato una denuncia contro Ahmed Nagy, con l’accusa di avergli provocato - con alcune pagine del suo romanzo - palpitazioni cardiache, problemi di salute e un calo pressorio. La macchina della giustizia si è messa in moto, Ahmed Nagy ha subito un primo processo conclusosi con l’assoluzione, ed è poi stato condannato in un secondo processo con il massimo 16


Letteratura

animali, dove gli stessi panorami cittadini sono stravolti. Scritto prima della rivoluzione di Tahrir del 2011, il romanzo è a dir poco profetico, e parla di una generazione piegata dall’autocrazia. La generazione a cavallo del 2011. Non è un caso. Su questa generazione lo scrittore si è interrogato più volte, come uno dei suoi esponenti di punta. In un suo lungo articolo-confessione, Ahmed Nagy ne ha tracciato un ritratto perfetto. È la generazione che ha fatto la rivoluzione e soprattutto che, in pochi ahimè lo sanno in Italia, aveva lavorato per un cambiamento importante dell’Egitto già da alcuni anni prima di piazza Tahrir. Una generazione che, sin dall’adolescenza, aveva compreso di non poter più sostenere e sopportare la dittatura. “La prima volta che ho visto la bestia è stato nel 2005”, scrive nel suo “Addio alla giovinezza”. Aveva dunque 20 anni, Ahmed Nagy. E a vent’anni ha visto - come migliaia di ragazzi egiziani - forze dell’ordine in divisa e baltagyyia (i membri dei servizi di sicurezza in borghese) scagliarsi contro i suoi coetanei pacifici nel centro del Cairo. Una vita blindata, all’insegna della paura e del silenzio.

della pena, due anni di detenzione, e una sanzione contro la casa editrice egiziana 1. In galera per alcune pagine in cui il protagonista beve alcolici, si fa le canne e fa sesso al di fuori di un rapporto matrimoniale. Pagine esplicite, senza dubbio, che al Salone Internazionale del Libro di Torino dello scorso maggio abbiamo deciso di leggere ad alta voce in versione integrale in una serata dedicata agli scrittori incarcerati e vessati. Pagine esplicite che hanno significato, per Ahmed Nagy, una detenzione che viola la libertà di espressione e di scrivere e di pensare. A nulla sono valse le pressioni sinora esercitate in ambito internazionale, ivi compreso il premio Barbey Freedom To Write del prestigioso Pen International. Il cambio di passo è evidente. E i motivi vanno ben oltre le pagine esplicite di un romanzo. Semmai, è il romanzo in toto a rappresentare, per il regime egiziano, un j’accuse politico pesantissimo. Vita: Istruzioni per l’uso è un romanzo da collocare pienamente nel filone della letteratura distopica. Ambientato in una città del Cairo futura e fosca, dove le persone diventano  1  -  La pena di Ahmed Nagy è stata sospesa dal tribunale competente nella seduta del 18 dicembre scorso, in attesa della pronuncia della Corte di Cassazione, all’inizio di gennaio. Quattro giorni dopo la sospensione, Ahmed Nagy è stato liberato la mattina del 22 dicembre, dopo una estenuante procedura fatta di tappe e di attese della documentazione. Per lo scrittore si tratta di libertà a tempo, in attesa della prossima sentenza.

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“Gli zombie vecchi avevano occupato tutti i posti” scrive ancora. “Il generale zombie, lo sheykh zombie, il presidente zombie, il businessman zombie, il partito di governo zombie, l’opposizione zombie, gli islamisti moderati zombie, e gli islamisti radicali zombie. E tutto quello che hanno offerto ai giovani è stato di essere zombie anche loro e di lasciar perdere i loro sogni idealistici e la loro etica. Siamo stati obbligati a mescolarci con questi zombie. Siamo stati obbligati a conversare con loro, a convincerli, talvolta a blandirli, per proteggere noi stessi dalla loro malvagità.” “Con le mani fredde, siamo stati in mezzo a loro; abbiamo guardato ma non abbiamo visto”, è il modo in cui il poeta Youssef Rakha ha descritto anni dopo la situazione in un suo grande poema, “Dormire con la realtà”. “Quando ci siamo opposti agli zombie o ci siamo rifiutati di digerire la loro arcaica interpretazione della nazione e della religione, ci hanno combattuto con la tortura, la marginalizzazione e l’assedio”. Ecco cos’è successo. Ahmed Nagy ha scritto e non ha taciuto. Ha scritto ciò che succedeva e succede nelle quotidiane, nascoste relazioni tra un regime e i cittadini. In un ufficio ministeriale della censura. In una scuola. In un’azienda di Stato. La vecchia storia del “re nudo” è scandalosa, lo è oggi come lo era secoli e secoli fa.

Paola Caridi Giornalista e storica, esperta di sistemi politici del Medio Oriente e Nord Africa

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«Io ho un sogno, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue condizioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali.» (Martin Luter King – Washington – 28 agosto 1963)

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