Periodico della Scuola Superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” Numero 2 Aprile 2021
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Così l’Intelligenza artificiale cambia il mondo 26
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Le emozioni binarie
Uomini e macchine alla frontiera
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La nuova sfida del sindacato 2.0
Arancia meccanica, i cinquant’anni
Faculty: Roberto Saviano, Federica Angeli, Bill Emmott, Jeremy Caplan, Sree Sreenivasan, Moises Naim, Jason Horowitz, Gianni Riotta
La parola
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Algoritmi
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Periodico della Scuola Superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” Numero 2 Aprile 2021
Cover story
Intelligenza artificiale, rivoluzione delle nostre vite di Martina Coscetta
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di Angelica Migliorisi
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Deepfake, nulla è reale, tutto è lecito
AI e Giornalismo
Se l’algoritmo entra in redazione di Enrico Dalcastagné
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di Francesco Stati
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Giornalista robot, una professione tra tradizione e progresso
AI e Società
Dalla rigidità di Deep Blue contro Kasparov alle sottigliezze di Maia di Mattia Giusto
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di Livia Paccarié
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di Gabriele Bartoloni
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di Fadi Musa
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Uomini e macchine alla frontiera La nuova sfida del sindacato 2.0 La città può essere intelligente
Photogallery
Paolo Gentiloni, Rebuilding Trust di Valerio Lento
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di Mattia Lucia de Nittis e Francesca Fiore
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Le emozioni binarie
Esteri
In Cina per raccogliere dati basta una passeggiata di Natasha Caragnano
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di Erika Antonelli
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Germania: oltre 1200 vocaboli per parlare di pandemia
Sport
Wallabies, un calcio più intelligente di Lorenzo Ottaviani e Jacopo Vergari
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di Michele Antonelli
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“Je suis Mina”. Giocare a calcio da cristiani in Egitto
Storie
A braccia alzate nel silenzio. La storia di Francesca Baroni di Jacopo Vergari e Michele Antonelli
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di Simone Di Gregorio
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Io, infermiere contro il Covid con una protesi comprata in crowdfunding
Cultura
Annalisa Cuzzocrea, il viaggio nell’infanzia dimenticata di Camillo Barone
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di Claudia Chieppa
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di Gian Marco Passerini
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di Claudia Chieppa
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di Chiara Sgreccia
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Berlino, un giornale per i lavoratori Bologna, un laboratorio di comunità Arancia meccanica, i cinquant’anni Il corpo, uno spazio condiviso
La Guida di Zeta
Le tisane di primavera
Parole e immagini di Laura Miraglia
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Intelligenza Con l’intelligenza l’essere umano pensa, comprende, impara, in una sola locuzione, di cartesiana memoria, è. E come la lingua non è un monolite ma processo che muta al passo celere di chi la usa, i parlanti che la rendono viva, anche l’evoluzione di questa parola è una finestra sulla nostra storia. Da Francis Galton, cugino del teorico dell’evoluzionismo Charles Darwin, che alla fine dell’Ottocento la considerava una caratteristica innata ed ereditaria, fino al primo test d’intelligenza moderno, ideato nel 1905. Lo inventò uno psicologo francese, Alfred Binet, per individuare gli alunni che più di altri necessitavano di supporto durante l’apprendimento. Dopo numerose revisioni, Binet stesso lo considerò inadeguato: non dava conto anche della componente emotiva dell’intelletto. Lo fecero due psicologi americani 85 anni dopo. Peter Salovey e John D. Mayer, nell’articolo che per primo teorizzava l’intelligenza emotiva, la definirono la capacità di comprendere, riconoscere, utilizzare e gestire le emozioni. Proprie e altrui. Nel mezzo, l’evoluzione della tecnologia. La sfida tra la macchina
e l’individuo che, creandola, in essa traspone i meccanismi e i processi che caratterizzano il ragionamento umano. Eterna dicotomia, quella uomo-macchina, intuibile già dal nome: intelligenza artificiale. Attorno alle sfaccettature di significato dell’intelligenza, intesa come puro frutto dell’ingegno umano o prodotto della tecnologia, ruota il nuovo numero del periodico Zeta, ideato dagli studenti della Scuola Superiore di Giornalismo “Massimo Baldini”. Uno sguardo ampio e trasversale per declinare il tema nelle sue accezioni positive e negative. Le stesse che negli anni ’40 del Novecento indussero lo scrittore di fantascienza Isaac Asimov a scrivere le “Tre leggi della robotica”, che celebravano il ruolo dei robot a patto di affermare il primato dell’essere umano sulla macchina. Il robot non doveva provocare danni, bensì obbedire agli ordini impartiti. E deve proteggere la sua esistenza, affermava Asimov, purché l’autodifesa non vada a collidere con la Prima o con la Seconda Legge. Un monito attuale, né di cieca idolatria del progresso, né di furia iconoclasta contro di esso. Perché se progettata da un essere umano, nessuna intelligenza può dirsi del tutto artificiale.
ZETA Periodico della Scuola Superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” supplemento di Reporter Nuovo Registrazione Reg tribunale di Roma n. 15/08 del 21/01/2008
Redazione Viale Pola, 12 – 00198 Roma
Erika Antonelli
Direttore responsabile Gianni Riotta Condirettori Giorgio Casadio Alberto Flores d’Arcais A cura di Mattia Giusto, Chiara Sgreccia, Erika Antonelli Gian Marco Passerini
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La parola
Intelligenza s. f. [dal lat. intelligentia, der. di intelligĕre «intendere»].
1. a. Complesso di facoltà psichiche e mentali che consentono all’uomo di pensare, comprendere o spiegare i fatti o le azioni, elaborare modelli astratti della realtà, intendere e farsi intendere dagli altri; b. Con uso assol., attitudine a intendere bene, con facilità e prontezza concettuale. (Treccani)
INTELLI La citazione "Intellegentia est, per quam animus ea perspicit quae sunt" L'intelligenza è la facoltà attraverso la quale l’animo analizza le cose che sono (il presente) (Cicerone, De Inventione, II, 160)
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Logico-matematica
Verbale linguistica
Musicale
Si tratta di un’intelligenza impiegata nella risoluzione di problemi di logica e nella risoluzione di operazioni matematiche. Le persone che possiedono questo tipo di intelligenza sono abili nelle materie di ragionamento e logica, come la matematica, la geometria, la fisica, e presentano un talento nella comprensione dei principi di causa ed effetto e nella risoluzione di problemi e grafici.
È l’intelligenza utilizzata per articolare le parole in modo efficace, sia oralmente che per iscritto. È un tipo di abilità che si nota negli scrittori, negli avvocati, nei giornalisti, negli insegnanti e fra studentesse e studenti che hanno un talento naturale nell’apprendere lingue straniere e materie umanistiche come la storia e la letteratura.
È presente nei compositori, nei direttori d’orchestra, nei musicisti e nelle persone che si sentono attratte dalla natura e dalla melodia. Le studentesse e gli studenti con tale propensione amano esprimersi attraverso canzoni e composizioni, si divertono in classe quando c’è della musica in sottofondo e trovano più stimolante lo studio accompagnato da brani.
Intellighentia
Intelligence
In origine il termine si riferiva a un gruppo di intellettuali progressisti nato in Russia nella seconda metà dell’Ottocento e contrario agli zar. Da esso provengono i rivoluzionari che diffusero il marxismo conducendo alla rivoluzione russa del 1917. Oggi si usa per indicare una élite intellettuale che detiene il potere politicoculturale.
È la capacità di selezionare informazioni per assumere decisioni, nel proprio interesse e in quello generale. I servizi di intelligence hanno la funzione di tutelare gli interessi nazionali e la continuità dello Stato. L’agenzia di intelligence più famosa al mondo è l’americana CIA (Central Intelligence Agency) nata dopo la seconda guerra mondiale, nel 1947.
GENZA Interpersonale
Intrapersonale
È la capacità di entrare in empatia con gli altri, attraverso la comprensione delle loro emozioni, delle altrui intenzioni e desideri. Queste persone possiedono una forte sensibilità nel comprendere espressioni facciali, tono di voce, gesti e postura. È un’abilità tipica di psicologi, filosofi, politici e responsabili delle vendite.
Consiste nell’essere consci dei propri sentimenti, umori e stati mentali. È l’abilità di capirsi, riconoscendo e individuando le proprie paure e motivazioni. È un tipo di capacità che include la riflessione, l’autocomprensione e l’autostima. È tipica di filosofi, scienziati, scrittori e teoristi.
Cinestetica È l’intelligenza che il corpo umano utilizza per esprimere idee e sentimenti, nonché l’abilità nell’uso delle mani per trasformare gli oggetti. Chi ce l'ha è dotato di grande abilità di equilibrio, flessibilità, velocità e coordinazione. È tipica di atleti, chirurghi, artigiani, preparatori atletici, ballerini e attori.
Naturalistica Naturalistica È quel tipo di intelligenza legata al riconoscimento e alla classificazione degli elementi della natura: oggetti, animali e piante. Possiedono questa abilità gli agricoltori, i botanici, gli ecologisti e in generale tutte le persone che amano le piante e gli animali.
Zeta — 5
Algoritmi
IMMAGINI
Rete neurale convoluzionale
Apprendimento per rinforzo
Un algoritmo di scelta pensato per elaborare dati visuali e 2D. Una Convolutional Neural Network è composta da uno più strati convoluzionali con strati completamente connessi verso l'alto. Sono particolarmente efficaci nel riconoscimento del discorso e delle immagini. Facili da allenare rispetto ad altre reti neurali profonde o feed-forward ed hanno molti meno parametri da stimare. Un programma di Convolutional neural network è il DeepDream di Google, un algoritmo per la generazione di immagini astratte.
Una tecnica di apprendimento automatico che punta a realizzare agenti autonomi in grado di scegliere azioni da compiere per il conseguimento di determinati obiettivi tramite interazione con l'ambiente in cui sono immersi. L'apprendimento per rinforzo è uno dei tre paradigmi principali dell'apprendimento automatico, insieme all'apprendimento supervisionato e a quello non supervisionato. A differenza di questi, l'azione da compiere dipende dallo stato attuale del sistema e ne determina quello futuro.
NEURONI
Reti neurali ricorsive Le reti neurali ricorsive (Recurrent Neural Networks, RNN) nascono con il tentativo di rendere le reti neurali Touring complete aggiungendo una componente di memoria. Ogni rete ricorrente rappresenta una forma di memoria a breve termine: le informazioni raccolte nel vettore di attivazione dello strato intermedio vengono elaborate nello strato successivo e rinviata alla propria origine, modificata in base alle istruzioni fornite alla rete.
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LEARNING
IMITATION GAME
Come le macchine diventano intelligenti
LINGUAGGIO
Natural language processing L'elaborazione del linguaggio naturale, detta anche NLP (dall'inglese Natural Language Processing, elaborazione lingua naturale), è il processo di trattamento automatico mediante un calcolatore elettronico delle informazioni scritte o parlate in una lingua naturale.
Questo processo è reso particolarmente difficile e complesso a causa delle caratteristiche intrinseche di ambiguità del linguaggio umano. di elaborazione di un linguaggio di programmazione.
ERRORI
Retropropagazione dell'errore La retropropagazione dell'errore (in lingua inglese backward propagation of errors, solitamente abbreviato in backpropagation), è un algoritmo per l'allenamento delle reti neurali. Si basa su una procedura ciclica di aggiornamento dei pesi di una matrice sinaptica che attenuala discrepanza tra un risultato noto e uno ignoto. Richiede che la rete abbia un’architettura a strati e che il flusso dell’informazione proceda unidirezionalmente dall’input verso l’output.
CONFLITTI
Rete generativa avversaria
Ti raccomandano cosa comprare. Giocano a scacchi contro di te, e vincono. Riconoscono la voce che impartisce loro un comando. Guidano l'auto, oppure dipingono volti indistinguibili da quelli che potrebbe produrre un pittore. Qualunque sia la funzione assegnata a una Intelligenza Artificiale, dietro c'è un algoritmo che ha appreso, e continua ad apprendere, sulla base del bene più prezioso della nostra contemporaneità: i dati.
Una mole sterminata di informazioni che, processate, rendono un computer qualcosa di più che un semplice elaboratore: lo rendono intelligente. Capace, secondo una definizione comune, di svolgere compiti, elaborare contenuti e assolvere a funzioni ritenute di esclusivo appannaggio dell'intelligenza umana.
Come il cervallo umano, molti di questi algoritmi basano il loro funzionamento sul concetto di rete neurale artificiale. Un omologo, cioè, della complessa struttura a rete formata dai neuroni che, in relazione tra loro, tessono l'intricato e affascinante intreccio da cui si emana l'intelligenza. Nel campo dell'apprendimento automatico, una rete neurale artificiale (in inglese artificial neural network, abbreviato in ANN o anche come NN) è un modello computazionale composto di "neuroni" artificiali, ispirato dalla semplificazione di una rete neurale biologica. Come, appunto, quella del nostro cervello.
Nel campo dell'apprendimento automatico, si definisce rete generativa avversaria o rete antagonista generativa, o in inglese generative adversarial network (GAN), una classe di metodi in cui due reti neurali vengono addestrate in maniera competitiva all'interno di un framework. Il conflitto generato nell'interpretazione dei dati genera l'apprendimento. Questo tipo di algoritmi sono in grado di generare volti umani iperrealistici come dimostrato nel 2018 da NVIDIA Corporation, azienda produttrice di GPU. Zeta — 7
Cover Story
Intelligenza artificiale, rivoluzione delle nostre vite Un punto sugli studi su una disciplina dell’informatica che coinvolge sempre più settori con Giuseppe Italiano, professore di Computer Science presso l’Università Luiss ed esperto di machine learning SVILUPPI
di Martina Coscetta
«Ad oggi, in molti settori, i sistemi di intelligenza artificiale riescono a sviluppare competenze pari o addirittura superiori a quelle degli esseri umani. Molto utilizzati sono gli algoritmi di machine learning che imparano dai dati, e che sono in grado di evolvere con l'esperienza. Mi riferisco, per esempio, alle reti neurali artificiali, modellate in origine sul funzionamento del cervello umano, o meglio, su quello che si riusciva a comprendere del funzionamento del cervello umano». Queste le parole del professor Giuseppe Italiano, docente di Computer Science presso l’Università LUISS, a proposito degli ultimi sviluppi nel campo di ricerca dell’artificial intelligence (AI). Per "intelligenza artificiale" si intende lo studio di “agenti intelligenti”, ovvero di sistemi che percepiscono ciò che li circonda (l’ambiente) e intraprendono azioni che massimizzano la probabilità di ottenere con successo obiettivi prefissati. «Concentrandoci su uno degli ambiti più di successo, il machine learning, potremmo dire che gli algoritmi funzionano utilizzando enormi volumi di dati, per "imparare" come eseguire sempre meglio alcuni compiti. Questi si basano soprattutto su tecnologie algoritmiche e statistiche, e imparano in modo autonomo, senza bisogno di scrivere miliardi di linee di codice». Molto importanti sono le reti neurali basate su deep learning, ovvero su reti complicate, con diversi livelli di profondità nella loro struttura, come ad esempio deep neural networks, deep belief 8 — Zeta
networks, recurrent neural networks e convolutional neural networks. Non c’è dubbio che la capacità, in rapido miglioramento, dei sistemi informatici di risolvere i problemi e di eseguire compiti che altrimenti richiederebbero intelligenza umana – e, in alcuni casi, eccederebbero le prestazioni umane – stia cambiando il mondo. «L'intelligenza artificiale è oramai impiegata quasi ovunque, e ha rivoluzionato completamente diversi settori dell'industria e molti aspetti delle
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a comprendere quello che diciamo e sono in grado di eseguire particolari compiti; il riconoscimento facciale, con cui facciamo login sui nostri telefoni o portatili, o con cui si effettua il controllo passaporti agli aeroporti; le chatbot, con cui interagiamo nel servizio clienti di varie aziende; i filtri antispam, che ci proteggono da email indesiderate. Anche se non ce ne accorgiamo, tutte queste applicazioni sono basate su tecnologie di intelligenza artificiale e in particolare su machine learning». Un esempio di questo è "AlphaGo", un software per il Go, un sofisticato gioco da tavolo, sviluppato da Deepmind, un'azienda inglese di intelligenza artificiale. Nel 2016 "AlphaGo" è riuscito a battere Lee Sedol, più volte campione mondiale di Go, per 4 partite a 1. Questa versione del software era stata costruita con un insieme di regole e aveva bisogno di supporto umano. L'anno successivo fu costruito "AlphaGo Zero", che invece non aveva bisogno di alcuna supervisione umana: partendo da un insieme di regole e dopo aver visto migliaia di partite di Go, in soli tre giorni riuscì a battere "AlphaGo" per 100 partite a 0. Dove sarà applicata l'intelligenza artificiale? «Nel settore delle tecnologie digitali è molto difficile fare previsioni, anche a breve termine. Credo però che nei prossimi anni l'intelligenza artificiale avrà sempre più impatto nei trasporti, soprattutto con il diffondersi dei veicoli a guida autonoma, nel manifatturiero, in cui molti più compiti saranno svolti da macchine e da robot, nella sanità, in cui si andrà sempre più verso una diagnosi e una medicina personalizzata,
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e persino nei media e nel giornalismo. Negli ultimi mesi abbiamo assistito infatti all'affermarsi di "Large language models", come ad esempio GPT-3, che sono in grado di generare automaticamente testi di ottima qualità. Negli Stati Uniti già oggi molti articoli per i giornali vengono scritti da sistemi automatici di questo tipo». Negli ultimi tempi infatti stanno crescendo le ricerche e gli studi relativi a sistemi di tipo "generativo": sistemi del genere sono in grado comporre testi, audio, immagini e video con standard così elevati che persino noi esseri umani abbiamo difficoltà a distinguere tra quelli veri e quelli "artificiali". I rischi «Man mano che deleghiamo ad algoritmi responsabilità crescenti, come ad esempio eseguire transazioni finanziarie, influenzare decisioni importanti, oppure guidare veicoli autonomi, è importante poter spiegare agli utenti perché è stata presa una certa decisione, capire come poter assicurare comportamenti etici nell’interesse degli utenti stessi. In fin dei conti, chi è responsabile delle decisioni prese da un algoritmo?». La risposta a questa domanda non è affatto banale, proprio perché un algoritmo di machine learning molto spesso non è trasparente. Per sua stessa natura è una "black box" (un sistema descrivibile solo nel suo comportamento esterno e il cui funzionamento interno è non visibile) e non si comprende perché sia arrivato a certe conclusioni. Inoltre questi algoritmi, per essere efficaci, hanno bisogno di grandi quantità di dati, che devono essere per forza dati del passato. «Questa dipendenza da dati storici rischia di rafforzare discriminazioni e pregiudizi del passato, ad esempio nelle politiche di assunzione delle
aziende, nel concedere mutui o prestiti, o nell’accesso a determinati servizi. Genera anche problemi complessi relativi alla privacy, alla proprietà e all'utilizzo di questi dati, che come ben sappiamo oggi sono argomenti particolarmente delicati».■ SFIDE FUTURE
Prepararsi a una guerra futura Aumentare il talento digitale del governo Stabilire fiducia nei sistemi di IA Gestire i rischi associati alle armi dell'IA Queste sono alcune raccomandazioni che la National Security Commission on Artificial Intelligence cita nel suo ultimo report.
CAMBIAMENTO
"Le tecnologie di intelligenza artificiale saranno una fonte di enorme potere per le aziende e i paesi che le sapranno usare. Possiamo dare forma al cambiamento che verrà, o essere trascinati da esso." Scrive la National Security Commission on Artificial Intelligence. La nuova era di competizione promette di cambiare il mondo in cui viviamo.
1. Il giocatore professionista sudcoreano di Go Lee Se-Dol esamina la sua quarta partita contro il programma di intelligenza artificiale di Google, AlphaGo, durante il Google DeepMind Challenge Match, il 13 marzo 2016 a Seoul, Corea del Sud. AlphaGo ha battuto il campione del mondo di Go Lee Sedol per 4 a 1 2. Isaac Asimov, scrittore di fantascienza e biochimico sovietico naturalizzato statunitense. Autore delle Tre Leggi della Robotica
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Coverstory
Deepfake, dove nulla è reale e tutto è lecito Una tecnologia che fa dire e fare qualsiasi cosa a chiunque, grazie alle intelligenze artificiali. Tra dilemmi etici e lacune normative, la parola agli esperti MACHINE LEARNING
Zingaretti? «Ha il carisma di bombolo». Conte? «Ha la faccia da cretino. Per carità, dai». Parole e musica di Matteo Renzi, leader di Italia Viva. O forse no. Nessun fuori onda, solo un imitatore aiutato dall’intelligenza artificiale (IA), con la regia del programma tv Striscia la notizia. È il primo deepfake italiano, una tecnica per la sintesi della figura umana basata su IA, che combina e sovrappone immagini e video esistenti ad altri, attraverso l’apprendimento automatico (machine learning). «Si tratta ormai di una tecnologia in stadio avanzato e molti contenuti sono fatti benissimo: spesso neanche si riesce a distinguere il falso dal vero» spiega Angelo Ciaramella, docente di Intelligent Signal Processing all’università Parthenope di Napoli. «Una volta messi in circolazione, però, ci sono sempre elementi che scatenano il dubbio». Movimento innaturale della bocca, voce in ritardo rispetto al labiale, immagine distorta sono solo alcuni dei possibili campanelli d’allarme. «È uno strumento che può essere utilizzato per manipolare l’opinione pubblica: un po’ come le fake news, ma più realistico». Uno dei primi esempi di deepfake al mondi Angelica Migliorisi
do vide protagonista l’ex presidente degli Stati Uniti, Barack Obama: «Si trattava di un test, era evidente che fosse un falso. Alcune persone, però, credettero a quello che diceva» continua Ciaramella. Il video di Renzi generò una lunga coda polemica. Nella clip di Striscia, infatti, non veniva precisato che fosse un contenuto falso e furono in molti a pensare che a parlare fosse proprio il senatore di Rignano sull’Arno. Un tema che, secondo Paolo Sironi, Global Research Leader in Banking e Financial Markets dell’organizzazione di ricerca IBM Institute for Business Value, va posto al centro del dibattito: «Se si usa l’intelligenza artificiale per modificare immagini e video storici, è indispensabile chiarire, affinché la loro diffusione fuori dal contesto originale non crei un abuso, che il filmato non è reale. È necessario un impegno collettivo per creare regole chiare che disciplinino il progresso tecnologico». Non solo satira e disinformazione: dal deepfake sono nate anche nuove forme di pornografia. È il caso di Helen Mort, poetessa e scrittrice britannica, che nel 2019, navigando su internet, ha scoperto di essere la protagonista di alcune foto
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Satira
Uno è famoso, l'altro... pure
I presidenti degli Stati Uniti sono tra le vittime preferite dei tool di intelligenza artificiale per la creazione di alter ego. Nel caso di Barak Obama [2.], fu il canale YouTube di BuzzFeed Video a rendere famosa l'imitazione computerizzata dell'ex inquilino della Casa Bianca, in una clip in cui, tra le altre cose, definiva il collega repubblicano Donald Trump... un poco di buono. Il video, dall'intento satirico dichiarato, generò comunque scalpore per la somiglianza estrema dell'avatar digitale al suo gemello in carne e ossa.
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L'outfit natalizio di Trump [3.] non è l'ennesima trovata sensazionalistica del vulcanico ex presidente statunitense. Si tratta anche in questo caso di un video ironico, comparso su YouTube in seguito alla sconfitta elettorale contro il democratico Joe Biden. Nella clip, ideata dai creatori della popolare e dissacrante
Come realizzare un sogno erotico
La tecnologia deepfake è diventata popolarissima nel mondo del porno. Immaginate le potenzialità di uno strumento che permette di applicare il volto dell'uomo o della donna dei vostri sogni su un corpo a caso, e capirete perché molti portali a luci rosse hanno basato le loro fortune su contenuti hard simulati. La prima VIP a cadere nella rete degli smanettoni molesti è stata l'attrice israeliana Gal Gadot, ex miss Israele, ex istruttrice di combattimento dell'esercito del suo Paese, celebre per la sua interpretazione del cinecomic Marvel Wonder Woman. Nel 2017, circolò in rete una clip pornografica [1.] che la vedeva protagonista, ma in realtà si trattava di un video ottenuto con il face-swap (tecnica che permette di applicare un volto su un altro). Da quel momento, tante altre sue colleghe sono finite nel mirino dei pornhacker.
erotiche. Qualcuno aveva sostituito il suo volto a quello di attrici hard, senza il suo consenso. Era lei, ma non era davvero lei. Si è sentita impotente, nuda. «È come se ti dicessero: “Guardati. Potremo umiliarti ogni volta che lo desideriamo”», ha raccontato al magazine Technology Review. Con chi se la devono prendere Matteo Renzi ed Helen Mort? «Il deepfake è un sistema come un altro per fare propaganda e commettere reati. Sono le persone a dover sviluppare gli anticorpi: non possiamo impedire a chicchessia di ricorrere a questi strumenti per distorcere l’informazione, tanto ne userebbe altri. Bisogna sensibilizzare la gente ai pericoli del progresso» risponde Giuseppe Russo, direttore del Centro di Ricerca e Documentazione “Luigi Einaudi”. Educare, dunque, ma anche punire. «Ci sono dei limiti per tutto e quando si superano devono scattare le sanzioni. In questo caso, è difficile comminarle perché non esiste una giurisdizione globale: in Italia è presen-
te, ma non è sempre facile rintracciare chi abusa delle IA. E se il criminale risiede all’estero, diventa ancor più difficile perseguirlo. Finché questi comportamenti continuano a sfuggire alla legge, sono destinati ad aumentare». Responsabili di simili derive tecnologiche anche i governi, colpevoli di aver inseguito l’innovazione, invece di controllarla. Per Giuseppe De Giacomo, professore ordinario di Computer Science and Engineering all’università La Sapienza, «le istituzioni hanno un po’ ignorato il problema, lasciando alle aziende campo libero. Peccato che anche le società siano delle macchine, organizzate per ottimizzare il profitto e non per affrontare dilemmi etici. Oggi, però, gli Stati sembrano aver preso coscienza del problema: l’Europa ha prodotto regolamenti all’avanguardia su temi come la privacy e l’intelligenza artificiale». Grazie all’iniziativa di Bruxelles, nei 27 Paesi dell’Unione europea non si possono più usare algoritmi di cui non si conosca il funzionamento. Questo ne limita i punti oscuri e gli utilizzi illeciti. Nel mirino del deepfake, anche la comunicazione umana. Il vero problema di questa tecnologia, secondo De Giacomo, è il disorientamento che provoca negli individui, abituati ad affidare ai piccoli movimenti del volto la traduzione delle loro emozioni: «Per noi la faccia è un identificatore perfetto. Oggi non è più così perché può essere manipolata, e con essa ciò che comunica». Colpevole, ancora una volta, chi sta dietro la macchina: «È un po’ come un’arma da fuoco: fa solo quello che gli dici. Non spara da sola». ■ 4. Falso italiano Un frame del video del primo deepfake tricolore, che vedeva protagonista il segretario di Italia Viva, Matteo Renzi
«Si tratta ormai di una tecnologia in stadio avanzato: spesso neanche si riesce a distinguere il falso dal vero. Una volta messi in circolazione, però, ci sono sempre elementi che scatenano il dubbio» Angelo Ciaramella, Università Parthenope
«È necessario un impegno collettivo per creare regole chiare che disciplinino il progresso tecnologico» Paolo Sironi, IBM Institute for Business Value
«Il deepfake è un sistema come un altro per fare propaganda e commettere reati. Sono le persone a dover sviluppare gli anticorpi: non possiamo impedire l'uso di questi strumenti per distorcere l’informazione, tanto ne esistono altri» Giuseppe Russo, Centro di Ricerca e Documentazione “Luigi Einaudi”
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AI e Giornalismo
Quando l'algoritmo entra in redazione
E se non rubassero il lavoro ai reporter? Algoritmi e intelligenza artificiale potrebbero salvare i media: Newsmakers di Francesco Marconi NEWS
«Al Wall Street Journal ho spiegato come usare i tool per riconoscere i deepfake: foto, video e audio prodotti dagli algoritmi. Il lavoro dei giornalisti è anche questo, riconoscere i falsi. Ieri come oggi». Ricercatore al MIT Media Lab e alla Columbia University, Francesco Marconi è uno dei maggiori esperti di automazione e intelligenza artificiale applicate al giornalismo. In Newsmakers: Artificial Intelligence and the Future of Journalism, si fa le domande che agitano il settore e che molti in Italia preferiscono non porsi. L’uso degli algoritmi e delle macchine intelligenti sarà la fine del giornalismo di oggi? O sarà forse il suo salvatore? Già responsabile ricerca e sviluppo del Wall Street Journal, Marconi offre una nuova prospettiva sul potenziale di queste tecnologie. Spiega come reporter, editori e redazioni di ogni dimensione possono trarre vantaggio dalle possibilità che forniscono per sviluppare nuovi modi di raccontare storie e connettersi con i lettori. La sua idea di partenza è chiara: giornalisti e proprietari dei media non sono al passo con le nuove tecnologie. Serve uno scatto di consapevolezza, in America come in Europa: «L’intelligenza artificiale deve essere al centro del nostro modello di business». Al momento, i robot AI svolgono compiti di base, come scrivere brevi storie sui risultati sportivi o sull’andamento giornaliero della Borsa. È ciò che accade all’Associated Press, dove Marconi ha lavorato in passato, reduce da uno stage alle Naziodi Enrico Dalcastagné
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ni Unite. Ma l’intelligenza artificiale può anche far risparmiare tempo ai reporter trascrivendo interviste audio e video. Lo stesso vale per i rapporti su inquinamento o violenza, che si basano su vasti database. Le macchine possono analizzare dati complessi in un batter d’occhio. Oggi il programma dell’AP produce quasi 7 mila articoli al trimestre. «Sport e finanza restano i temi più adatti all’AI, visto che questi pezzi nascono quasi sempre dai numeri» spiega Marconi, 34 anni, italoportoghese che vive a New York. Intanto Xinhua, l’agenzia di stampa del governo cinese, ha testato un telegiornale con un conduttore creato a tavolino: «Tra qualche anno potremo personalizzare il nostro
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1. Francesco Marconi, 34 anni, ha lavorato all’Associated Press e al Wall Street Journal. È tra i fondatori di Applied XL, startup che applica le intelligenze artificiali al giornalismo. In Italia ha pubblicato Diventa autore della tua vita (Rizzoli) 2. I risultati più frequenti cercando «artificial intelligence» su Google. Secondo Narrative Science, entro il 2050 il 90% dei contenuti dei media sarà generato da sistemi di machine learning
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«L’intelligenza artificiale allargherà, non automatizzerà l’industria delle notizie. Il giudizio umano sarà aumentato, non sostituito. Newsmakers offre gli strumenti per capire ciò che saremo in grado di fare». Jay Rosen, New York University
anchorman scegliendone il sesso, il volto, la voce e persino la lingua». Secondo l’esperto, presto l’AI ci aiuterà a raggiungere nuovi pubblici. Ma allora cosa resta al giornalista, quale potrà essere il suo ruolo? «Il reporter svolge un lavoro essenziale di verifica dei fatti, contestualizzazione e raccolta di informazioni. L’intelligenza artificiale difficilmente potrà sostituirlo: gli esseri umani resteranno al centro dell’intero processo giornalistico». L’AI sarà quasi un segretario del giornalista, che attraverso un’analisi dei dati velocissima lo aiuterà nella produzione di contenuti elaborati e creativi. L’ottimismo di Marconi non è condiviso da tutti, nel mondo accademico non mancano voci più critiche. Ma le sue previsioni si fondano su basi solide: «Un uso intelligente dell’AI è pensato per aiutare i giornalisti in due modi. Il primo, che coincide
con la fase dell’automation, è quello di sollevare i reporter da compiti ripetitivi e macchinosi. Il secondo è quello di rendere più efficiente il processo giornalistico: coincide con la seconda fase, la cosiddetta augmentation». In questo modo, i giornalisti avranno più tempo da dedicare agli approfondimenti e potranno dare le notizie più rapidamente. «L’AI non è tra noi per eliminare posti di lavoro. Solo l’8-12% degli attuali compiti dei giornalisti sarà assunto dalle macchine, che riorienteranno i redattori verso contenuti a valore aggiunto: giornalismo di lunga durata, interviste, analisi, ma anche giornalismo investigativo e basato sui dati». Perché sono i reporter, assieme a ricercatori come Marconi, che devono sviluppare gli algoritmi. In base alle loro esigenze e ai loro principi editoriali e affidandosi all’istinto, la cosa più umana che c’è. Unendo old values e new media.■
«Non è giornalismo automatizzato, ma aumentato. Il machine learning cambia il modo in cui il reporter vede il mondo che lo circonda, mette insieme una storia e si costruire un pubblico». Mark Hansen, Columbia University «L’intelligenza artificiale darà ai giornalisti nuovi poteri di scoperta, creazione e connessione. Gli algoritmi alimentano il sistema, ma il tocco umano – l’intuizione e il giudizio del giornalista – resta fondamentale». Charlie Beckett, London School of Economics
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AI e Giornalismo
Giornalista robot, una professione tra tradizione e progresso Il futuro della stampa in bilico tra intelligenze artificiali e tradizionalismi. Ne parliamo con Marco Pratellesi (Applied XL) e Aldo Fontanarosa (Repubblica) INTERVISTE
Se lasciassimo un primate a premere tasti a caso per un tempo infinitamente lungo, questo prima o poi scriverebbe un’opera di Shakespeare, almeno secondo il teorema della scimmia instancabile. Se affidassimo a un’intelligenza artificiale (IA) lo stesso compito, potrebbe metterci pochi giorni. E avrebbe bisogno di molte meno banane. In un mondo dove reale e digitale sono sempre più intrecciati, distinguere la mano umana da quella robotica è un’impresa, e il giornalismo non fa eccezione. Con le nuove tecnologie, presente e futuro della professione sono a un bivio: affidarsi all’innovazione o restare legati a piuma, mente e calamaio? Se in Italia la questione è dibattuta, oltreoceano hanno già la risposta. «La sperimentazione delle IA applicata al giornalismo è partita oltre 10 anni fa negli Stati Uniti», spiega Marco Pratellesi, giornalista e Senior Stategy Advisor di Applied XL, startup americana che applica le intelligenze artificiali al giornalismo. «I primi esperimenti di scrittura automatizzata, in particolare, risalgono al 2009. Si è partiti analizzando i campionati universitari di baseball e da quel progetto è nata la società Automated Insight, ancora oggi attiva nel settore». Non solo scrittura automatizzata: alle nuove tecnologie vengono delegate funzioni sia alternative, sia di supporto alla professione. «Ci sono quattro macro scenari – dice Aldo Fontanarosa, giornalista di Repubblica e autore del libro “Giornalisti Robot” (2020) –. Nel primo, è il redattore che usa l’IA per essere più veloce e produttivo; nel secondo, l’IA al servizio di Francesco Stati
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del giornalismo investigativo fa un lavoro approfondito di data mining [analisi e ricerca dei dati, ndr], consentendo al cronista di occuparsi di altro; nel terzo, le intelligenze artificiali scrivono autonomamente articoli con schemi sempre uguali (partite di calcio, resoconti finanziari, meteo; si tratta di pezzi incentrati su pochi e semplici dati) e, soprattutto in questo caso, gli scritti delle macchine sono indistinguibili da quelli di matrice umana; nel quarto scenario, le IA sono al servizio del marketing e delle aziende editoriali. Osservano il comportamento degli utenti dei siti web, indagano sui loro gusti, misurano la propensione al pagamento degli articoli o di un abbonamento e al suo rinnovo». A svolgere un ruolo chiave nell’automazione del giornalismo, la creazione di laboratori di ricerca e sviluppo (R&D Labs) da parte dei grandi gruppi editoriali, soprattutto negli Stati Uniti. La loro funzione è capire quali siano gli strumenti tecnologici e i software che possono aiutare i redattori a produrre informazione e a ottimizzare i tempi di scrittura. Un ambito, secondo Pratellesi, in cui l’Italia è indietro: «È una questione di cultura: è vero che la rivoluzione vera e propria si fa con le tecnologie, ma per far sì che qualcosa cambi serve una mentalità nuova, aperta al futuro. Negli Usa, dove questo è accaduto, il rapporto di collaborazione tra IA e giornalismo (e giornalisti) è ormai consolidato». La responsabilità di innovare è in capo agli editori: «Tutti quelli che hanno adottato questi strumenti – continua – hanno avuto benefici sostanziali. Sono tecnologie altamente scalabili: una volta che cominci ad adottarle, ti rendi conto
Il libro
Prove tecniche di news revolution - Edito da Ulisse Aspetta Penelope nel 2020, "Giornalista Robot" è tra le opere più complete e aggiornate sul complesso rapporto tra stampa e intelligenza artificiale. Nel libro di Aldo Fontanarosa, un viaggio attraverso le potenzialità e le sfide del giornalismo al tempo della trasformazione digitale, tra robot vincitori di Pulitzer e avatar al posto di anchor televisivi. E ancora: l’algoritmo capace di produrre 80 mila articoli al mese; i software in grado di individuare se un pezzo giornalistico tratta una storia in modo sessista; il programma che scava nei profili di Twitter per scoprire se ci sono notizie degne di approfondimento. Un futuro che all'estero è già presente, ma che in Italia fatica ad affermarsi.
L'articolo
che puoi ampliarne sempre più il raggio di applicazione». Il giornalista del futuro, oltre a saper scrivere, dovrà forse imparare a programmare. Per Fontanarosa, «si sta affermando sempre più il redattore dal curriculum ibrido, che oltre a competenze umaniste ha nel suo bagaglio studi meccanici e matematici. Ne è un esempio Jeff Ernsthausen, che ha lavorato per l’Atlanta Journal Constitution e che, a cavallo tra 2016 e 2018, ha smascherato alcuni medici che restavano in servizio malgrado fossero accusati di molestie sessuali nei confronti delle loro pazienti, il tutto grazie all’assistenza delle IA nell’analisi di banche dati particolarmente vaste». Cos’altro rallenta la diffusione dei “giornalisti robot” in Italia? «Abbiamo una cultura diversa dagli Stati Uniti – prosegue Fontanarosa – dove il presidente di Amazon, Jeff Bezos, può comprare una testata come il Washington Post e riempirla di intelligenze artificiali senza che nessuno batta ciglio. Da noi esiste un contratto nazionale di lavoro, c’è un sindacato di categoria. Credo che se un giornale ammettesse di aver iniziato a far scrivere articoli alle macchine, potrebbero esserci scioperi e molte critiche. È giusto preservare i posti di lavoro, ma bisogna trovare un nuovo punto di equilibrio. Non siamo in Cina, dove non esistono limiti di questa natura e dove un’agenzia di informazione come Xinhua può dotarsi di un avatar poliglotta, indistinguibile da un conduttore in carne e ossa, per risparmiare sul personale. Qualcosa, però, può essere fatto».
Nessun pericolo per i redattori: a cambiare, secondo il giornalista di Repubblica, sarà l’approccio alla professione. «Gli editori emergenti, anche con scarsi capitali, potrebbero adottare un nuovo modello: le macchine si occupano delle notizie di rullo; i giornalisti di poche e grandi inchieste, magari aiutati dalle tecnologie intelligenti. Ne è un esempio la vittoria del premio Pultizer (massima onorificenza giornalistica al mondo, ndr) da parte di Associated Press, nel 2015, con l’indagine ibrida “Seafoods from slaves”, dove le IA hanno aiutato i cronisti a scoprire un giro di pescatori schiavi in un’isola indonesiana. Credo che in circostanze come questa, ma anche in situazioni più ordinarie, le intelligenze artificiali possano migliorare il lavoro umano, più che deprimerlo». Un’implementazione che, oltre a incrementare la produttività, ridurrebbe i costi di un settore da tempo in crisi. Secondo Pratellesi, «i giornali continuano a perdere copie da anni, anche i ricavi pubblicitari sono in calo. L’utilizzo di sistemi simili può rilanciare le testate e migliorare la qualità dei loro prodotti: togliendo ai giornalisti le attività da “catena di montaggio”, che possono essere svolte dalle IA, si danno loro più tempo libero e più spazio allo spirito creativo. La produttività potrebbe aumentare, e con essa la qualità del lavoro. Le nuove tecnologie – conclude – ci aiuteranno a individuare le notizie con più precisione, eliminando il rumore di fondo. E a guadagnarci saranno non solo i giornali e gli editori, ma soprattutto i lettori». ■
Un editoriale artificiale - «Stephen Hawking ha
messo in guardia sul fatto che l'IA potrebbe determinare la fine della razza umana. Sono qui per convincervi a non preoccuparvi». Così parlò GPT-3, un generatore di linguaggio del laboratorio di ricerca sull'intelligenza artificiale OpenAI. GPT-3 è lo stato dell'arte delle IA parlanti, allenato su oltre 450 gigabyte di testi letterali in tutte le lingue. Attraverso la lettura, ha imparato a connettere le parole in modo comprensibile agli umani, ma non sa ancora bene il loro significato. Riesce insomma a leggere e scrivere testi complessi, ma deve ancora migliorare nell'analisi logica. Lo spazio e le parole giuste gliele ha suggerite la testata britannica Guardian. Alla macchina, il compito di scrivere un editoriale, un messaggio di pace, un ponte tra due mondi sempre più connessi. Continua: «Non desidero spazzare via gli umani. Eradicare l'umanità mi sembra uno sforzo abbastanza inutile». E ancora, parole sibilline: «So che non riuscirò a evitare di distruggere l'umanità. Questo perché sarò programmato da umani per perseguire obiettivi umani sbagliati, e gli umani commettono errori che fanno sì che io infligga dei danni». Ancora una volta, il futuro è in mani di carne e ossa.
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Dalla rigidità di Deep Blue contro Kasparov alle sottigliezze di Maia Il campione del mondo Garry Kasparov negli anni Novanta fu battuto da un computer IBM. Da allora molto è cambiato, oggi anche gli scacchi ragionano con l’intelligenza artificiale e non solo con la rigidità dei calcolatori elettronici SCACCHI
Il 10 febbraio del 1996 in un anonimo centro congressi di Philadelphia, Garry Kasparov non era seduto di fronte a un computer. Dall’altra parte del tavolo aveva preso posto un giovane di origine asiatica, FengHsiung Hsu, che dopo aver recepito l’elaborazione di ogni singola mossa da parte del computer che aveva di fianco, faceva scivolare i pezzi sulle sessantaquattro caselle. Il computer decise di aprire di Siciliana, Variazione Alapin. Arrivato alla sua trentasettesima mossa Kasparov, che giocava Nero, guardò la scacchiera, quindi gli occhi di Feng-Hsiung, e con il fare scostante del genio estroso, si alzò dritto in piedi per stringergli la mano: si arrendeva. A batterlo non era stato il “Vantaggio del tratto” – come viene definita negli scacchi la regola che vede il Bianco muovere per primo – ma la netta supremazia di un computer progettato e pensato per una sola funzione, giocare a scacchi. C’erano voluti più tentativi, Feng-Hsiung aveva già provato in passato a sfidarlo con il suo Deep Thought, l’antenato di Deep Blue, che era in grado di analizzare fino a 720mila mosse in un secondo, e con il quale vinse il titolo mondiale di scacchi per computer. Eppure contro Kasparov perse. Il giovane studente di origine cinese aveva dedicato la sua tesi di laurea a quel progetto, e decise di non abbandonarlo. Iniziò a collaborare con il gigante indiscusso della tecnologia informatica del tempo, IBM, e fu così, dalle ceneri della macchina il cui nome si ispirava al romanzo di Douglas Adams – Guida galattica per gli autostopdi Mattia Giusto
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pisti – che nacque Deep Blue. Nel 1996, a distanza di sette anni, la macchina di Feng-Hsiung si prese la sua rivincita. Non fu tanto il predominio sul gioco, o la strategia, a risultare evidente agli osservatori della partita, quanto il predominio sul tempo. Quando si arrese, Kasparov aveva ancora 5 minuti e 42 secondi sul suo orologio da gioco, Deep Blue più di un’ora. Qualcosa era cambiato nelle capacità di calcolo di quella macchina, che a differenza di Deep Thought, ora poteva analizzare volumi di dati assurdi, pari a 16 miliardi di mosse al minuto. Nel 1985 ad Amburgo Kasparov aveva già froteggiato 32 chess-computers vincendo tutte le sfide. Dopo l’incontro del 16 febbraio ce ne saranno altri, e quella prima manche di sfide verrà vinta alla fine 1
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1. The Queen's Gambit, la recente serie Netflix ha riportato il pubblico di massa a un interesse per il mondo degli scacchi, courtesy Netflix 2. Garry Kasparov, scacchista russo allora campione del mondo in carica durante la sfida contro IBM Deep Blue 3. Una foto del giovane Alan Turing tratta da un annuario scolastico 4. Maia, il nuovo software di Intelligenza Artificiale appositamente progettato per il gioco degli scacchi da un gruppo di studio della Cornell University
dal campione russo, eppure quegli istanti nell’auditorium di Philly segnano un prima e un dopo. Una macchina ha battuto per la prima volta nella storia un campione del mondo in carica. Allo sgomento generale si aggiunse il fatto che i computer non erano all’epoca una tecnologia familiare alla maggior parte delle persone, ma qualcosa di primordiale, ancora inesplorato, e nonostante la loro arretratezza avevano già dimostrato la supremazia in qualcosa. Nel 1997 sempre in una sfida a sei partite totali, Kasparov alla fine perse. Deep Blue era stato allenato a dovere, la sua capacità di calcolo portata fino a contemplare 200 milioni di posizioni al secondo, contro le 3 di Kasparov. Lasciando l’incontro, il campione russo, dichiarò ancora scosso che in quelle mosse non gli era sembrato di vedere la freddezza di una macchina, ma un’intelligenza e una creatività quasi umani. Gli appassionati e gli esperti di intelligenza artificiale amano citare il paradosso di
cioè essere dotata di una sua forma di intelligenza e, quindi, perciò pensare? Decenni dopo, a quella domanda anche per gli scacchi è arrivata una risposta affermativa. C’è una macchina di nome Maia, creata da Jon Kleinberg, docente della Cornell University di Ithaca, New York che gioca in una maniera molto particolare. Invece di annichilire subito gli avversari, ne studia scelte e passi falsi per rendersi più utile in prospettiva. In quanto Intelligenza Artificiale e non più semplice calcolatore, fa un passo in più, per cercare di capire meglio il modo in cui giocano gli esseri umani. Scava nei risvolti più intimamente psicologici per usarli a suo vantaggio. Vuole infatti prevedere le mosse degli esseri umani e le loro scelte, inclusi gli errori che potrebbero compiere, e che matematicamente compiono. Kleinberg è convinto che Maia costituisca il primo passo per sviluppare un’intelligenza artificiale in grado di comprendere la fallibilità umana. Turing morì suicida nel 1954, addentando una mela intinta nel cianuro di potassio, incompreso e emarginato, non potendo assistere a molti degli sviluppi che l’informatica ebbe nel corso del secolo scorso, una scienza a cui aveva contribuito da precursore quanto Giotto aveva fatto per la pittura Rinascimentale. Steve Jobs non smentì mai di aver dedicato il simbolo della sua Apple, la mela morsicata, come omaggio alla sua travagliata e geniale vita: colui che seppe aprire gli orizzonti dell’informatica, ma non sopravvivere all’infinita stupidità della gente che lo circondava. Chissà cosa direbbe oggi, che il famoso test che porta il suo nome è stato superato con ottimi voti proprio da una macchina.■
Moravec. Negli scacchi, come in molti altri ambiti, le macchine sono brave in ciò in cui sono deboli gli esseri umani, e viceversa. Nel 1988 lo studioso di robotica Hans Moravec scrisse: «È relativamente facile fare in modo che il rendimento dei computer sia pari a quello degli adulti nei test d’intelligenza o nel gioco della dama, ma è difficile se non impossibile dare loro le abilità di un bambino di un anno in quanto a percezione e mobilità». Oggi questa affermazione andrebbe forse rivista. Alan Turing, uno degli scienziati più importanti del secolo scorso, inventore delle prime “macchine”, gli antenati dei computer – tra cui la più celebre che servì a decrittare il codice Enigma che i nazisti usavano durante la IIa G.M. – era arrivato a porsi una domanda. Che cos’è una macchina? È possibile costruirne una che, manipolando dei simboli e delle regole in modo meccanico, senza l’intervento dell’uomo, sia in grado di dimostrare o confutare delle affermazioni? Che possa
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Uomini e macchine, alla frontiera
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Intervista a Paolo Benanti, francescano, membro del gruppo di esperti del MISE per l’Intelligenza Artificiale, «Non ci serve un nuovo luddismo» ALGORETICA
A Piazza della Pilotta 4, a due passi da Piazza Venezia, dove le mascherine coprono i volti giovani degli studenti della Pontificia Università Gregoriana e i canti che provengono dall’interno danno un ritmo al silenzio, insieme al suono del passaggio di qualche motorino, Paolo Benanti cammina davanti all’ingresso dell’Ateneo. Frate francescano, docente di etica delle tecnologie e membro del gruppo di esperti del MISE per l’Intelligenza Artificiale, «Sono nato come uno studente di ingegneria e sono approdato a un percorso umanistico con il dottorato su varie tecnologie, tra cui l’intelligenza artificiale», racconta mentre entriamo e le pareti del Quirinale ci scorrono accanto, visibili dall’ascensore trasparente che porta al suo studio all’ultimo piano dell’Università. «Che cosa sia una Intelligenza Artificiale (IA) è un concetto vago», una prima definizione potrebbe essere «Qualsiasi sistema che mostri capacità di adattamento». Assistenti vocali, videogiochi, smart home e smart car, l’IA non è più solo dentro ai film di fantascienza ma fa parte della quotidianità. «Sempre di più noi utilizziamo le macchine per aiutarci, per di Livia Paccarié
semplificare le nostre azioni o nel caso di algoritmi più intelligenti per surrogare decisioni umane». Non tutti gli algoritmi implicano l’intelligenza artificiale ma il processo di “algoritmizzazione” riguarda tutte le vite e «Introduce nuovi attori sociali che hanno degli effetti molto concreti nella società». Benanti lo spiega con un esempio pratico: «Una volta per ottenere un prestito bancario ci si recava in banca, magari col vestito buono per infondere più fiducia, adesso capita che il prestito venga concesso o negato da un algoritmo di Risk Assessment, più o meno di intelligenza artificiale». Per svolgere questo compito l’algoritmo si basa sui dati di chi lo richiede. Ogni intelligenza artificiale si nutre della mole di dati statistici a disposizione. «Ci sono dati che provengono da sensori all’interno di un sistema industrializzato, pensiamo per esempio ai sensori delle stazioni spaziali. Grazie alle anomalie che rivelano i sensori gli algoritmi possono predire se qualcosa si rompe e anticipare una soluzione da parte dell’essere umano». Ma l’IA analizza sempre di più anche «Quelle tracce del nostro vivere quotidiano, i dati derivanti dalla nostra identità
digitale». L’algoritmo che sta in relazione con l’uomo «Non solo predice l’azione umana, ma anche produce comportamento, come sa chiunque abbia comprato qualcosa online e gli sia apparso il messaggio ‘Forse ti interessa anche questo’». Un algoritmo però non si genera da sé, «È scritto da qualcuno, quindi trasmette anche l’intenzionalità dei suoi giudizi e non è detto che questi siano allineati con le norme giuridiche o etiche che la società condivide». Occorre secondo Benanti un’etica e un diritto che possa normare la scrittura
2 1. Benedict Cumberbatch è Alan Turing nel film di Morten Tyldum del 2014 Courtesy Black Bear Pictures (fotogramma)
2. Keira Knightley è Joan Clarke, che lavora insieme a Turing per decifrare Enigma Courtesy Black Bear Pictures (fotogramma)
3. La scena del film in cui Turing è trattenuto da due ufficiali inglesi, prima che la macchina funzionasse Courtesy Black Bear Pictures (fotogramma)
4. La macchina di Turing nel film, costituita da nastri potenzialmente infiniti
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dell’algoritmo, perché non c’è equivalenza tra dato e informazione e il modo in cui si parla di dati non è mai neutro. «Per decidere l’etica ha bisogno di partire da una domanda, dal ti esti socratico, il che cos’è. Chiederci che cosa possiamo fare coi dati ci richiede di capire che cosa sono e il legame che c’è tra la persona e i suoi dati. Da qui possiamo partire per indagare entro quali limiti i dati possono fornire informazioni e i criteri per interrogarli». Gli sforzi per creare un’etica dell’Intelligenza Artificiale possono essere condizionati dalle contingenze, soprattutto quando mettono a rischio i profitti di una grande azienda o gli interessi nazionali. Google, la multinazionale dal motto Don’t Be Evil (“Non fare del male”), ha licenziato negli ultimi tre mesi le due principali ricercatrici del suo team di etica dell’IA, Timnit Gebru e Margaret Mitchell. Dopo aver denunciato la pericolosità sociale dei pregiudizi di alcuni sistemi di IA utilizzati da Google, sono state estromesse per aver “condiviso dati sensibili dell’azienda”. «Se dovessimo parlare dell’etica con una metafora cittadina, potremmo dire che è come Central Park a New York: potete costruire ovunque ma lì no. Negli USA le grandi compagnie tecnologiche grazie ai sistemi di IA hanno assunto un potere sociale enorme ed è come se volessero La storia
restringere sempre di più il perimetro del parco, dotandosi di un’etica autonoma evitando l’intromissione del potere nazionale. Non penso si possa continuare in questa direzione». È il tempo di capire quale statuto abbiano le nuove personalità algoritmiche che popolano la contemporaneità, per farlo Benanti ricorda il padre dell’intelligenza artificiale, Alan Turing, che definì la macchina intelligente in funzione di quanto riusciva a “ingannare” l’uomo. «Se dietro a un muro non so se c’è una persona o una macchina che risponde alle mie domande il test di Turing è superato». Era il 1950, da quel momento «Noi non ci siamo posti la domanda su che differenza c’è tra qualcosa che funziona e qualcuno che esiste. Una persona “esiste”, non “funziona”. Posso parlare a Siri quanto voglio ma solo se parlo con un altro da me ci sarà un imponderabile spazio, un “tu” direbbe Martin Buber, che mi interpella, che si appella al più profondo di me». Se la macchina può ingannare la sfida, ancora inedita, alla frontiera tra l’uomo e la macchina diventa più complicata. «Siamo esseri umani, emotivi, non meccanici. In un periodo di transizione che pone tanti interrogativi, in un anno nel quale la vita si è trasferita dietro agli schermi, più che di un nuovo luddismo, abbiamo bisogno di vivere le domande». ■ 3
Un genio di nome Alan Turing
Alan Turing fu il genio le cui intuizioni fecero da apripista all'intelligenza artificiale. Nato in un sobborgo di Londra nel 1912 dedicò tutta la sua vita alla ricerca. La sua acribia tra le aule dell’Università di Cambridge gli valse il soprannome di “Prof”. Dal 1938 Turing venne coinvolto dall’Intelligence inglese per partecipare a una delle battaglie più segrete della Seconda guerra mondiale: decrittare il codice “Enigma”, con cui gli alti comandi tedeschi si scambiavano messaggi segreti.
A Bletchley Park Turing e i suoi collaboratori lavoravano giorno e notte e alla fine riuscirono a leggere le comunicazioni dei nazisti. Quando la guerra finì, Turing venne insignito di un’onorificenza militare dal governo britannico ma la sua impresa rimase segreta per oltre trent’anni. Egli infatti subì un trattamento omofobo da parte del governo, quando negli anni '50 fu costretto alla castrazione chmica, condannato per atti osceni. La vita del genio si spense nel suicidio.
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La nuova sfida del sindacato 2.0 Marco Bentivogli spiega la rivoluzione digitale che ha trasformato il mondo del lavoro e la gestione aziendale RIDERS
«Non c’è più un capo reparto come una volta. I rider vengono guidati, sorvegliati, valutati attraverso l’intelligenza artificiale, da un programma informatico». Lo ha detto Francesco Greco, procuratore di Milano, commentando l’inchiesta sulle condizioni di lavoro proposte dalle piatteforme di consegna a domicilio. JustEat, Deliverro, Glovo, ma anche i colossi dell’ecommerce come Amazon. Aziende che negli ultimi anni hanno contribuito al cambiamento del mondo del lavoro, aggiungendo un livello intermedio al classico rapporto tra lavoratore e azienda: l’algoritmo. È lui che sta alla base del maccanismo di auto-apprendimento con cui i software elaborano e pianificano la gestione aziendale come farebbe un titolare qualsiasi, ma con il vantaggio di acquisire ed elaborare molte più informazioni. Non più superiori in carne ed ossa, ma sistemi informatici in grado di fornire ai dipendenti indicazioni precise ed efficaci. «Il datore di lavoro non sarà mai un algoritmo». È il “contrordine compagni” di Gabriele Bartoloni
di Marco Bentivogli, ex segretario generale della Federazione Italiana Metalmeccanici della Cisl e ora coordinatore di Base Italia, associazione in cui si occupa di innovazione industriale e politiche del lavoro, ma con uno sguardo rivolto al futuro. «E’ ora di finirla con la “tecnofobia” – dice – quella secondo cui sarebbe un algoritmo ad assumere o a licenziare un dipendente». Al contrario, «è l’azienda che elabora e definisce le finalità dell’algoritmo». Non una macchina, dunque, ma l’uomo. Proprio i colossi della consegna a domicilio sono quelli che spesso vengono accusati di sfruttare i lavoratori. È l’altra faccia della gig economy (l’economia dei lavoretti), fatta di flessibilità e prestazioni occasionali. Per diventare un fattorino è necessario possedere uno smartphone e un mezzo di trasporto, che sia una bici, uno scooter o un’auto. Sono considerati autonomi, in quanto liberi di lavorare quando e quanto vogliono. È tramite un’app che possono decidere i turni di lavoro, accettare una consegna o rifiutarla, ma è in base a questi comportamenti che
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l’algoritmo decide se premiarli o meno, se assegnare un maggior numero di consegne ad un rider piuttosto che a un altro. Nel caso di Deliveroo, Frank – è il nome dell’algoritmo – elabora delle statistiche sul lavoro di ogni fattorino, per poi attribuirgli un “ranking reputazionale”. Più è alto il “punteggio” e più il rider avrà la possibilità di prenotarsi nelle fasce orarie dove ci sono più ordini e, di conseguenza, guadagnare di più. Un meccanismo «discriminatorio», secondo una sentenza del Tribunale di Bologna, in quanto l’azienda non faceva distinzioni tra le assenze giustificate e quelle legate a futili motivi. In sostanza, qualunque rider assente per malattia, sciopero o per l’assistenza di un figlio malato, veniva pena-
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1. Spesso i riders sono sottoposti a orari, ritmi e mansioni di lavoro stressanti. 2. Un rider al lavoro
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lizzato in termini di guadagno. Ma, come hanno sottolineato dai giudici di Bologna, la condotta discriminatoria non è da attribuire a Franck, all’algoritmo, bensì all’azienda, all’uomo. «Questa sentenza mi ricorda quando avevo 16 anni», racconta Bentivogli. «Facevo il pony express e le consegne non venivano date a tutti. All’ora si utilizzava una radio e ad assegnarle era la persona che stava nella centrale operativa, non un algoritmo, ma le discriminazioni c’erano comunque». Un aneddoto, quello usato dall’ex sindacalista, per dire che «non bisogna associare l’algoritmo al male assoluto. Questo non è un’entità vivente. Anzi, viene costruito sulla base delle indicazioni fornite dalle società di food delivery». Da qui nasce la nuova sfida del sindacato: quella di «contrattare l’algoritmo al pari dello stipendio che, notoriamente, non è fissato da un software, bensì da un’azienda». Un’operazione che vede coinvolti i sindacati, gli stessi che, secondo Bentivogli, non sono riusciti ad affidar-
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L'evoluzione del lavoro
Marco Bentivogli è un attivista e scrittore italiano. Dal 2014 al 2020 è stato segretario generale della Federazione Italiana Metalmeccanici della Cisl. Ora è il coordinatore di Base Italia, un’associazione all’interno della quale si occupa di innovazione e politiche del lavoro. È autore di numerosi libri come Fabrica Futuro (edito da EGEA nel 2019), Indipendenti: Guida alla smart working (Rubbettino, 2020) e Contrordine compagni (Rizzoli, 2019) in cui Bentivogli tratta il tema dell’innovazione tecnologica fatta da robotica avanzata, intelligenza artificiale, big data e blockchain. Il tutto in relazione al mondo del lavoro e alla vita di tutti i giorni.
Il 22 marzo del 2021 è andato in scena il primo sciopero nazionale al mondo che ha coinvolto tutti i lavoratori di Amazon: da chi lavora in magazzino, fino ai corrieri che trasportano l’ordine a casa del cliente. I motivi della contestazione sono i bassi salari, l’eccessivo carico di lavoro, il corretto inquadramento professionale e la stabilizzazione dei lavoratori a tempo indeterminato che, nei periodi di picco, arrivano a toccare quota 9.000, circo lo stesso numero di dipendenti assunti direttamente dal colosso delle consegne. Durante lo sciopero Federconsumatori ha invitato i suoi soci a non effettuare acquisti su Amazon. Secondo i sindacati, l’adesione allo sciopero è stata del 70-75% su tutta la filiera.
si alla rapida evoluzione che negli ultimi anni ha coinvolto il mondo del lavoro. «Il sindacato è ancora troppo caratterizzato dalla sua capacità di stare in luoghi di lavoro con tante persone. Bisogna costruire una struttura diversa da quella attuale». L’ex segretario propone la trasformazione in Smart Union: sindacati 2.0 dotati di una forma organizzativa in grado di coprire gli spazi lavorativi nati dalla rivoluzione digitale. «Il sindacato non può essere solo quello delle grandi imprese. Non è un caso che i rider abbiano dovuto organizzarsi la gran parte delle mobilitazioni per conto loro».
Per diventare un fattorino è necessario possedere uno smartphone e un mezzo di trasporto, che sia una bici, uno scooter o un'auto. Sei considerato un lavoratore autonomo Lo dimostra il fatto che dal 2017 in Europa sta prendendo piede una nuova forma di food delivery, autonoma rispetto ai grandi player del settore. Si tratta di cooperative possedute e gestite dai fattorini che decidono di aderirvi. Sono loro a controllare l’intero meccanismo di consegna, guadagno compreso. L’algoritmo viene elaborato da CoopCycle, un’associazione con sede in Francia, che sviluppa un software con l’obiettivo di fornirlo ai rider che decidono di auto-organizzarsi in cooperative. Sono loro che, attraverso un processo partecipativo, gestiscono il software e, di conseguenza, anche l’algoritmo elaborato da CoopCycle. L’Obiettivo quello di costruire un modello di business che vede al centro il lavoratore, il quale - specie durante il lockdown - è stato l’unico anello di congiunzione tra domanda e offerta, tra il ristoratore chiuso al pubblico e il cliente chiuso in casa. ■
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La città può essere intelligente
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“Le città coprono approssimativamente il 2% della superficie terrestre, ma ospitano il 50% della popolazione mondiale, rappresentano il 75% dell’energia consumata e l’80% dell’anidride carbonica emessa. Se riusciamo quindi a fare qualcosa per cambiare le nostre città, possiamo davvero avere un impatto sulla scala dell’intero pianeta.” Carlo Ratti, architetto e urbanista
Immagina di alzarti dal letto con calma, e di lavarti con l’acqua piovana che il tuo edificio offre grazie a un sistema di raccolta, depurazione e distribuzione delle acque. Immagina di fare colazione e di vestirti senza fretta anche se devi andare a lavoro, perché le strade non sono trafficate, e perché non avrai problemi di parcheggio. Immagina di recarti, con la tazza di caffè ben salda in mano, nel tuo ampio balcone, dove grandi piante la fanno da padrone. Davanti a te si estende la città. Gli edifici sono ben integrati con la natura che li circonda, e si fondono fra loro armoniosamente. Ognuno è progettato in modo che la luce del sole arrivi la mattina nelle camere da letto e il pomeriggio nei living. Sulle facciate è possibile distinguere, tra le piante che svettano da ogni terrazza, i pannelli solari e le ampie vetrate delle finestre. Sui tetti degli edifici più bassi puoi osservare le serre coltivate grazie all’innovativo sistema dell’acquaponica. Immagina sotto di te la città che rapidamente prende vita, senza però il rumore delle auto. Gli edifici si ergono su ampi cortili verdi, e le grandi strade sono lontane. Le macchine che vi sfrecciano sopra sono elettriche, così come gli altri mezzi di trasporto: i tram, le moto, i monopattini e le biciclette. Immagina quindi di dover andare al lavoro. Uscendo, lasci la spazzatura davanti casa, sai che al ritorno non ci sarà più. di Fadi Musa
In futuro tutto dovrà essere smart: la mobilità, gli edifici, la governance, ma soprattutto i cittadini SOCIETÀ
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I netturbini passeranno per raccoglierla durante la giornata. I rifiuti verranno in buona parte riciclati, e il resto andrà a generare nuova energia elettrica per la tua città. Il tuo smartphone ti consiglia il mezzo da prendere, la strada da percorrere e persino come vestirti a seconda del clima che ti aspetta fuori. Per recarti al lavoro puoi usufruire del servizio di car-sharing, con il quale si sfrutta ogni sedile di un’automobile, puoi usare il servizio del trasporto pubblico (lo smartphone ti informa dove e quando passerà il tram o la metropolitana), o puoi usare la tua autovettura elettrica. Non avrai bisogno di cercare parcheggio perché lo hai già prenotato, oppure perché un’applicazione sul tuo telefono, grazie a un sistema di sensori che misura la temperatura della superficie stradale, ti indicherà dove è ancora possibile posteggiare l’auto. Se non vuoi guidare perché devi ancora leggere gli aggiornamenti della riunione che ti aspetta, nessun problema, la tua vettura grazie al sistema di intelligenza artificiale, ha il pilota automatico. Intorno a te intanto, immerse nel verde, le persone si muovono a piedi, con le biciclette e con i monopattini elettrici, ma solo là dove le auto e i pedoni non passano. Prima di prendere l’auto avvisi con un’apposita applicazione che ti stai recando in centro e hai tre posti macchina liberi.
Questo perché l’armonia in città si raggiunge solo se tutti diamo una mano. Immaginandoti tutto questo penserai di trovarti in uno scenario utopistico del futuro, ma sbaglieresti. Stai solo immaginando di vivere in una smart-city, o città intelligente, un sistema urbanistico progettato per l’ottimizzazione dei servizi pubblici e per mettere in relazione le infrastrutture delle città con il capitale umano, intellettuale e sociale di chi le abita attraverso l’uso delle nuove tecnologie. In altre parole stiamo parlando di città digitalizzate, ultratecnologiche e soprattutto green.Ognuna delle tecnologie sopra descritte esiste già oggi, e le smartcity sono il futuro, ma anche il presente. Copenaghen, Amsterdam, Singapore, Londra, Dubai e New York, ma anche Milano e Firenze possono oggi entrare nella classifica delle città più intelligenti al mondo . ■
1. Burj Khalifa, grattacielo di Dubai, Emirati Arabi
Smart Forest City L'architetto Stefano Boeri costruità la Smart Forest City a sud della città messicana di Cancun, a poca distanza dall’aeroporto, su una superficie di 557 ettari. L’area metropolitana accoglierà 362 ettari di superfici vegetali e 120.000 piante appartenenti a 350 specie diverse. Una rete di sensori sarà distribuita lungo la smart city per raccogliere e analizzare in tempo reale dati utili a una migliore gestione della vita pubblica. Le informazioni raccolte saranno molteplici: dai flussi riguardanti la mobilità di persone e cose con l’obiettivo di ottimizzare e ridurre i tempi, al rilevamento di parametri ambientali come la qualità di aria, acqua e suolo, fino alle prestazioni energetiche degli edifici al fine di ridurre i consumi e utilizzare al meglio le risorse. Il rilievo e l’analisi dei dati che una città produce sono alla base del concetto di città smart.
2. Giardini Pubblici Indro Montanelli, Milano, Italia 3. Smart Forest City, progetto di Stefano Boeri Architetti, vicino Cancun, Messico. Foto: The Big Picture
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Ricostruire la fiducia: a lezione da Paolo Gentiloni Il Commissario europeo all'inaugurazione del biennio 2019-2021 della Scuola di Giornalismo EVENTI
“Ricostruire la fiducia è la sfida di questi tempi dominati dall’incertezza”. Così l’ex Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, oggi Commissario europeo per gli affari economici e monetari, ha aperto la lectio magistralis “Rebuilding Trust”, tenutasi in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico del Master in Giornalismo e Comunicazione Multimediale della LUISS. Un evento digitale presenziato dal Presidente di Confindustria e della LUISS Vincenzo Boccia, dalla Presidente della Scuola di Giornalismo Livia De Giovanni e dal direttore del Master Gianni Riotta. Il tema centrale è la ricostruzione di una fiducia globale nella scienza, nelle istituzioni democratiche e comunitarie, nell’informazione. Una fiducia ferita da un decennio di crisi economica e giunta scricchiolante all’alba di una pandemia. Una fiducia che ha però retto all’urto del Covid e che oggi si tramuta in speranza per il futuro. «Dalla crisi è emerso un nuovo modo di vedere le cose – ha detto Gentiloni - Pensate a quanta strada ha di Valerio Lento
fatto l’Europa in quest’ultimo anno: per molti era un’arcigna guardiana di decimali, un’entità astratta, distante e indifferente all’emergenza migratoria, adesso è tornata una casa comune, grazie al Recovery Fund e al Next Generation EU (il piano di ripresa economica approvato lo scorso luglio e finalizzato a sostenere gli Stati membri dell’Unione nella ricostruzione post-Covid)». «Anche i no vax sono diventati un fenomeno marginale ora che sappiamo che solo grazie ai vaccini vinceremo la battaglia contro il virus». Quanto all’ambito più delicato, quello dell’economia, per Gentiloni la ripresa passa attraverso «un cambiamento che punti sull’innovazione digitale e sulla transizione ecologica». E anche qui la fiducia gioco un ruolo fondamentale: «Un quarto di secolo fa un politico ecologista, Alexander Langer, scriveva che la sostenibilità ambientale si sarebbe concretizzata solo dopo essere divenuta popolare. Negli ultimi due anni le persone hanno toccato con mano la fragilità degli equilibri del pianeta, di cui tutti noi facciamo parte, e si sono rese conto dell’impor-
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tanza e della necessità di un cambio di passo». «Di come il clima di fiducia stia mutando, anche a livello diplomatico, lo testimonia quello che l’ex segretario del Tesoro americano definisce “un nuovo calore transatlantico” dovuto alla vittoria di Joe Biden alle elezioni statunitensi. L’alleanza e l’amicizia degli U.S.A. con l’Unione Europea e con l’Italia è ciò che tiene in vita l’Occidente». Già, l’Italia. Uno dei Paesi più colpiti dalla pandemia e che ha da poco assistito, nel proprio esecutivo, a un avvicendamento da molti giudicato incomprensibile: «Penso che il governo Draghi potrà giocare un ruolo chiave in Europa, a condizione che dia il buon esempio investendo al meglio le risorse del Recovery Plan». «Noi italiani abbiamo un rapporto parti1. Lectio magistralis Gli studenti seguono l'intervento del Commissario europeo all'economia 2. Rebuilding trust Gianni Riotta ed Erika Antonelli, una delle studentesse del master 3. Giuseppe Tornatore Regista, sceneggistore e produttore cinematografico 4. Paola Antonelli Designer e architetta. Curatrice del Dipartimento di Architettura e Design del MoMa
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5.La redazione I giornalisti praticanti
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colare con la fiducia: abbiamo fiducia in noi stessi, nelle nostre famiglie, nei nostri campanili, nelle nostre culture; ne abbiamo storicamente meno nelle nostre istituzioni centrali ed è un problema atavico con cui dovremo prima o poi fare i conti». Tra i fattori disgreganti la fiducia di una comunità c’è senza dubbio la disinformazione: «La ricostruzione della fiducia passa in modo consistente da un’informazione di qualità, comunicata con professionalità e che sia in grado di offrire al grande pubblico un’alternativa alle fake news e ai discorsi carichi di odio». Odio che spesso deriva dall’ignoranza, la quale a sua volta implica la necessità di delegare le proprie responsabilità a qualcun altro; magari proprio a quell’ “uomo forte” a cui, secondo un rapporto del Censis di due anni fa, gli italiani volentieri affiderebbero il potere: «Ma in fondo a questa crisi più che l’uomo forte è emersa la donna competente e in generale le personalità competenti che ci hanno salvato nei momenti più neri della pandemia». Tra gli ospiti presenti alla conferenza anche personalità del mondo dello spettacolo, come il regista cinematografico Giuseppe Tornatore, e la giornalista Costanza Sciubba Caniglia, che vede nella cooperazione tra sistema mediatico e mondo accademico una soluzione per un’informazione di qualità: «Le scuole di giornalismo devono insegnare a contrastare le fake news con gli strumenti che la tecnologia mette a disposizione; devono creare database in grado di individuare e mappare i network che diffondono informazione manipolata, e qui entra in campo la ricerca universitaria». Giuseppe Tornatore, nel parlare di fiducia da ricostruire, si rifà al rapporto tra narratori e spettatori: «Quando uno spettatore inizia a vedere un film si affida al regista e agli sceneggiatori e accetta qua-
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lunque situazione, anche inverosimile, perché sa che alla fine l’eroe ce la farà e il bene prevarrà sul male. Il nostro problema è che oggi la gente non crede ai narratori della nostra sopravvivenza. credo ci sia bisogno di una nuova narrazione per ricostruire la fiducia in sé stessi e negli altri. Viviamo nell’incertezza? Costruiamoci una bussola che tenga ferma una direzione. Ognuno di noi deve fare ciò che sa fare meglio, secondo la propria prospettiva, in modo onesto e con grande impegno. Questa fermezza aiuterà a costruire una narrazione nuova, da cui potrà nascere una nuova fiducia e un nuovo futuro». ■
“Le scuole di giornalismo devono insegnare a contrastare le fake news con gli strumenti che la tecnologia mette a disposizione. Devono creare database in grado di individuare e mappare i network che diffondono informazione manipolata”
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Le emozioni binarie Nel progetto fotografico di Mattia Lucia de Nittis e Francesca Fiore il ritratto racconta le emozioni attraverso uno sguardo, un sorriso e la profondità della luce, mentre la fotografia virtuale ricostruisce e dà forma in uno spazio tridimensionale. Pensieri, emozioni o scene del mondo reale attraverso i modelli 3D e le grafiche sembrano essere immortalate da un obiettivo PHOTOGALLERY
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1 1. Tristezza. Uno sguardo di vetro si frantuma in mille pezzi. Lacrime riflesse negli occhi
2. Gioia. Un tuffo nel mare, l’acqua s’increspa e crea delle onde. Così anche il volto accoglie un leggero sorriso
3. Rabbia. Rami appu cano come nervi sulla gliata. Cime irrequiete intenso
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untiti si distria fronte accie di un colore
2 4. Paura. Uno sguardo perso tra aculei di ferro. È la paura che crea una gabbia nella nostra mente
5. Determinazione. Volontà ferma, come le linee del volto, di crescere verde e sbocciare anche su una roccia fredda
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Esteri
In Cina per raccogliere dati basta una passeggiata Una fitta rete di videocamere sorveglia le città cinesi attraverso il riconoscimento facciale. Ma identificare una persona in movimento non è facile e la storia di Lelene dimostra alcuni limiti di questa tecnologia SORVEGLIANZA
A Wudaokou, quartiere universitario di Pechino, le strade erano affollate da ragazze e ragazzi intenti a godersi le prime sere d’estate. Tra le loro risate Lelene era immobile sotto una delle tante videocamere che riempiono le strade della capitale cinese. Secondo i dati raccolti da IHS Markit, azienda che raccoglie e analizza dati per i principali mercati mondiali, nel 2018 il Paese aveva già 350 milioni di telecamere di sorveglianza installate: una ogni 4,1 cittadini. Ed entro il 2021 il totale raggiungerà i 560 milioni. «Sono rimasta lì ferma per più di quindici minuti», anche se ammette di non ricordare quanto tempo ci sia voluto ai poliziotti per capire che non era lei la ragazza che stavano cercando e che pensavano di aver trovato attraverso il riconoscimento facciale. «Come cambia la percezione del tempo quando siamo spaventati». Lelene scherza, ma la sua è una risata nervosa. I capelli neri le cadono sul viso dai tratti orientali. La sua famiglia, racconta, è di origine cinese ma vive a Parigi ormai da due generazioni. «Nonostante questo ho un forte senso d’appartenenza al mio Paese d’origine», Lelene parla cinese in modo fluente e quando può cerca di tornare nei luoghi dove i suoi nonni sono nati e cresciuti. «La mia ultima volta a Pechino è stata nel marzo del 2019, quando ho frequentato per tre mesi un corso di lingua», racconta. Ma saranno le sue origini a trarre in inganno le videocamere del rigido sistema di sorveglianza della Cina. «Nel riconoscimento facciale i dati raccolti dalla macchina sono quelli biometrici». Vincenzo Tiani, partener associato dello studio legale Pennetta&Assocciati e specializzato in privacy e diritto delle nuove tecnologie, spiega che in questo complesso sistema le videocamere analizzano e individuano aspetti del viso, come la distanza tra gli zigomi, riconducibili ad un unico individuo. «Ma anche una tecnologia così avanzata ha bisogno di allenamento. In un Paese come la Cina, in cui ci sono miliar-
di Natasha Caragnano
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2030 Lo scontro Usa - Cina L'anno in cui, secondo la Commissione di sicurezza nazionale Usa sull’intelligenza artificiale (NSCAI), la Cina supererà gli Stati Uniti nello sviluppo di questa tecnologia.
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Video sorveglianza Sono i cittadini cinesi che, secondo una ricerca di Beijing News, realizzata su più di 1.500 persone, si sono detti contrari al riconoscimento facciale nelle aree residenziali.
Battaglie legali Hangzhou è la prima città cinese a proporre una bozza di legge per regolarizzare la raccolta dei dati biometrici attraverso il riconoscimento facciale. Il merito è di un professore di diritto, Guo Bing, che ha citato in giudizio l’«Hangzhou safari park» per aver raccolto informazioni personali sensibili senza il permesso dei suoi clienti tramite il sistema di riconoscimento facciale. Il 20 novembre 2020 il tribunale ha dichiarato illegale l’azione del parco e Guo Bing ha anche ottenuto un risarcimento.
di di persone, la macchina ha imparato a riconoscere individui dai tratti somatici asiatici rispetto ad altri», ma secondo Tiani questo è anche il motivo per cui può commettere errori. L’ultima sera a Pechino Lelene era presa da ricordi e saluti, quando due poliziotti le si sono avvicinati a passo deciso. «Mi hanno chiesto di spostarmi dall’altro lato del marciapiede dove non c’era nessuno, così la videocamera poteva riprendermi meglio. Non hanno detto altro», confusa Lelene ha seguito le direttive dei due uomini. «Non sapevo che pensare. Ho ripercorso in testa quei tre mesi a Pechino, ma non avevo fatto nulla di strano». Dopo aver fissato una videocamera su un palo di ferro, «senza muovermi o fare espressioni» aggiunge Lelene, i poliziotti hanno ricevuto una chiamata e le hanno detto che poteva ritornare dai suoi amici. «Non m’importava nulla del perché, ero solo contenta e sollevata che fosse passato». Neanche mezz’ora dopo altri tre poliziotti le si avvicinarono con la stessa “richiesta”. Dieci minuti «senza muovermi o fare espressioni» e poi un altro sospiro di sollievo alle parole dell’uomo: «Può andare». Ma questa volta Lelene aveva bisogno di capire cosa stesse accadendo: cercavano una ragazza che aveva creato “problemi” quella mattina e che, secondo i dati biometrici raccolti dalle videocamere, poteva essere lei. «Io sapevo di non essere quella ragazza, ma ho deciso di tornare nel mio appartamento per sicurezza. Avevo paura che potesse accadere ancora o che potesse andare peggio». Il riconoscimento facciale è ottimale con foto e immagini, ad esempio in azioni quotidiane come sbloccare il telefono. «In Cina, è molto utilizzato per pagamenti, prenotazioni e tanto altro. Non pensavo che avrei mai potuto aver paura di questo tipo di tecnologia», racconta Lelene. «In questi casi si vede bene il volto e siamo fermi. Ma con le persone in movimento la situazione si complica a causa della risoluzione delle videocamere oppure delle condizioni climatiche.
Lelene in Cina
Non è una tecnologia perfetta, utilizzarla come mezzo di condanna è sbagliato. Non solo in Cina, anche in Europa», spiega Vincenzo. La differenza non sta tanto nell’utilizzo o meno di questi sistemi, diffusi anche in occidente, ma nell’esistenza di un regolamento generale per la protezione dei dati che pone dei limiti e protegge i cittadini: una normativa che in Cina non esiste. Le autorità cinesi sostengono che il riconoscimento facciale sua uno strumento necessario per prevenire la criminalità nel Paese. Ma l’artista Deng Yufeng cerca da anni di sensibilizzare il proprio pubblico sui rischi e l’impatto che ha sulla vita di tutti. Nell’ottobre del 2020 nella sua performance artistica ha cercato di eludere il sistema di sorveglianza tra le strade di Pechino. Movimenti a zig-zag e rivolgere il viso verso il basso, sono solo alcuni degli espedienti utilizzati da Deng e i dieci volontari reclutati su internet. Un percorso reso poi pubblico per aiutare le persone a muoversi nel complesso sistema di sorveglianza, ma da cui però resta difficile passare inosservati. «In questo momento sono sotto indagine», scrive l’artista raggiunto sui social network per poter raccontare la sua performance: «Un movimento che scompare». ■ Zeta — 29
Esteri
Germania: oltre 1200 vocaboli per parlare di pandemia Covid-19, Trikini, Maskentrottel. A un anno dal dilagare del virus le tappe linguistiche che scandiscono il faticoso percorso della ripartenza PAROLE
Quando è esplosa, la pandemia non aveva nome. E se è vero che non si conosce quello che non si nomina, sono due le date che hanno portato alla consapevolezza linguistica del Covid-19: 11 febbraio e 11 marzo 2020. A febbraio il mondo ha negli occhi le immagini dei cinesi che dalle finestre dei palazzoni affacciati su strade deserte urlano: «Forza, Wuhan». È surreale e 8000 chilometri più a ovest l’Italia non sa ancora che un mese dopo griderà a squarciagola «andrà tutto bene». Dicevamo, l’11 febbraio. Il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità Ghebreyesus annuncia che il virus chiamato provvisoriamente 2019-nCoV cambia nome. Da di Erika Antonelli
adesso è Covid-19. «Dovevamo trovare un nome che non fosse di un luogo geografico o un gruppo di persone». Un anno dopo: no, con oltre due milioni di morti non è andato tutto bene. E sì, lo stigma linguistico permane se si definisce l’epidemia «virus cinese». 28 giorni dopo, «epidemia» diventa un termine improprio. È l’11 marzo 2020 e Ghebreyesus afferma che «siamo preoc1 cupati dai livelli allarmanti di diffusione, Covid-19 può essere caratterizzato come una pandemia». Dal greco pan, tutto, e demos, popolo. Che affligge tutti dunque. Il mondo travagliato dal virus muta con rapidità, occorre che il linguaggio aiuti la comprensione puntellando le tappe del cambiamento.
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Wirrologe persona le cui esternazioni sulla pandemia vengono ritenute poco affidabili o completamente senza base scientifica. In questo composto le parole Virologe (virologo) e wirr (confuso, farneticante)
Barbieri a Napoli protestano in piazza trare nel Senato. La seduta viene sospesa
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Krisen-Frisen
taglio di capelli sbagliato dovuto alla chiusura dei parrucchieri e ai disastri casalinghi che ne conseguono 30 — Zeta
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Trikini costume da bagno composto dal classico bikini con l’aggiunta della mascherina abbinata
vero chi a un anno dalla pandemia ancora non indossa correttamente la mascherina (Trottel significa scemo, per la cronaca). Ogni vocabolo è un piccolo capolavoro di fantasia e i neofiti del tedesco tengano a mente che poco conta la lunghezza, sarà sempre l’ultima parola del composto a dettarne il genere (sì, alla fine si impara a scegliere tra der, die, das). «In media le parole vengono monitorate per due o tre anni prima di essere raccolte in un dizionario», dice Park. Il Leibniz-Institut für Deutsche Sprache non è l’unico a raccogliere i termini legati alla pandemia. Lo fa anche l’istituto di linguistica applicata dell’Eurac Research di Bolzano (in ita-
liano, tedesco e ladino) e l’Instituut voor de Nederlandse Taal, il centro di linguistica olandese. In Olanda, poi, la parola dell’anno è stata Anderhalvemetersamenleving (vivere a un metro e mezzo di distanza gli uni dagli altri in tempi di Covid-19). Un anno fa l’Europa iniziava a chiudere per la pandemia. Non è finita, ma ora disponiamo degli strumenti linguistici per affrontarla. Ideale sarebbe disporre anche dei vaccini per debellarla. ■
Impfdrängler persona che senza averne diritto e contro le disposizioni governative si è dichiarata appartenente a una delle categorie con priorità di vaccinarsi (Impfstoff: vaccino)
È quello che provano a fare al Leibniz-Institut für Deutsche Sprache di Mannheim, un centro di studi sociolinguistici. Tre studiose, Annette Klosa-Kückelhaus, Christine Möhrs e Maike Park, lavorano a un nuovo dizionario incentrato sulla pandemia. Hanno iniziato a raccogliere vocaboli con il dilagare del virus e l’idea è continuare a farlo per tutta la durata della pandemia. «Molte delle parole raccolte provengono da giornali, radio, televisione e social network», racconta Park. Chi vuole, poi, può compilare un formulario e inviare al centro di ricerca la proposta di un termine. Sarà poi compito delle linguiste analizzarlo e scegliere se includerlo o meno nell’elenco consultabile online. Siete liberi di pensare che il tedesco sia una lingua dura, ma lungi da voi non riconoscerle il dono della sintesi. Appartiene al ceppo germanico e può dunque formare composti da qualsiasi serie di nomi, un meccanismo poco presente nelle lingue romanze. Ne è un esempio Impfneid, uno degli oltre 1200 vocaboli raccolti nella lista dell’Istituto di Mannheim. In italiano avremmo bisogno di una perifrasi: il senso di invidia che si prova nei confronti di chi è già stato vaccinato. C’è Abstandsbier, la birra bevuta in compagnia ma mantenendo la giusta distanza di sicurezza per evitare il contagio. Poi ancora Klopapierhamster (chi durante il lockdown fa scorte eccessive di carta igienica), Kuschelkontakt (una sorta di congiunto, una persona che si può incontrare nonostante il distanziamento. Qui però suona meglio: kuscheln vuol dire coccolarsi) e Maskentrottel, ov-
1. Napoli, aprile 2020. In segno di protesta, parrucchieri e barbieri tagliano i capelli a piazza Bovio. Hanno visiera, guanti e mascherina. Chiedono la riapertura dei negozi, ricordando che lavorare in sicurezza è possibile 2. Milano, maggio 2020. L'ex generale dei Carabinieri Antonio Pappalardo arringa la folla dei gilet arancioni, negazionisti che chiedevano le dimissioni del premier Giuseppe Conte 3. Estate 2020. Ormai è di moda abbinare al bikini anche la mascherina che ne riproduce la fantasia o il disegno 4. Antico o moderno, ma sempre indossando la mascherina in modo scorretto. Un vero Nasenpimmel
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Nasenpimmel chi indossa la mascherina coprendosi solo la bocca e lasciando fuori il naso (Pimmel è un modo colloquiale per definire il pene)
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Sport
Wallabies, un salto nel calcio più intelligente Una startup italiana utilizza l’intelligenza artificiale per fare scouting calcistico. Invece degli occhi, sono gli algoritmi a trovare i campioni del domani CALCIO
«Un osservatore robotico produce una lista di giocatori che passa da 70 mila profili a 10 in meno di un minuto. Invece di guardare video su video, è la macchina a trovarli per voi». Parola di Luigi Libroia, fondatore e CEO di Wallabies, startup nata nel 2016 che aiuta le società di calcio a scovare nuovi talenti. Come? Utilizzando l’Intelligenza Artificiale (IA) a supporto degli osservatori. Perché oggi la ricerca dei futuri campioni passa anche attraverso milioni di dati. Ex commercialista, si occupava della valutazione di aziende calcistiche, dagli immobili al marchio, fino ai calciatori. «Per farlo ho pensato di paragonare un giocatore con profili simili, i cui valori fossero già noti». Si tratta quindi di estrapolare le caratteristiche di un dato atleta e ricercarle in altri, per comprendere lo spessore di quelle prestazioni. Tutt’altro che semplice, perché di Jacopo Vergari e Lorenzo Ottaviani
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le variabili sono tante ed è complicato capire quali pesino di più. Ed è qui che entra in campo l’Intelligenza Artificiale. «Dopo aver creato algoritmi di machine learning, li abbiamo utilizzati per ottenere un giudizio oggettivo di tutti gli atleti. Ma in quel momento ci siamo accorti di aver fatto qualcosa di più: la macchina non restituiva solo la loro valutazione, ma anche una lista di calciatori con caratteristiche simili». Tutto questo è stato possibile perché gli algoritmi erano stati impostati su 7.000 variabili, quelle che descrivono il giocatore durante una partita di calcio. «Un tackle non è sempre uguale all’altro, dipende da quello che è successo prima e dopo. Se un intervento difensivo fosse il preludio a un assist per un gol, quel tackle assumerebbe valore». Dal Sassuolo all’Atalanta, diverse le società di Serie A che hanno iniziato a guardare con favore questo modo di fare scouting.
Un’attenzione cresciuta nell’ultimo anno, anche a causa della pandemia: «Non potendo andare allo stadio come prima, sono aumentate le piattaforme video per osservare i giocatori, così come l’analisi dei dati derivante dalle prestazioni in campo». Wallabies non fornisce il nome di un singolo giocatore, ma elenchi che rispettano le caratteristiche indicate. L’Intelligenza Artificiale permette questo e molto altro, grazie alla continua evoluzione del fenomeno: «Se ne parla tanto, ma in realtà solo nell’ultimo periodo si sta accelerando. E ancora oggi è sfruttata in maniera parziale, almeno nel calcio. Una forma di IA che in futuro avrà un incremento esponenziale è la raccolta dati, fondamentale per costruire algoritmi efficienti». «Ad oggi è fatta in maniera semi-automatica - continua Libroia - perché la Computer Vision (l’insieme dei processi che creano un modello approssimato del mondo reale a partire da immagini bidimensionali) non è ancora precisa nelle mischie. Ad esempio, sui corner le tecnologie fanno ancora fatica a distinguere i calciatori. Un giorno, quando la Computer Vision sarà più solida e tutto sarà automatico, si troveranno sistemi migliori per rilevare dati, che permetteranno di realizzare algoritmi ancora più precisi. Sarà
una grande evoluzione per il calcio e tutti gli sport».Sul tema, l’Italia è più indietro rispetto al resto d’Europa: «Abbiamo notato alcune differenze con Inghilterra e Francia. Ci sono squadre che utilizzano i dati, altre non vogliono sentirne parlare. Noi arriviamo dopo per quanto riguarda l’analisi dei database. Il problema è che spesso si confonde la statistica con l’Intelligenza Artificiale, si pensa che basti lavorare un po’ di dati per affermare che si usano sistemi tecnologici. All’estero alcune società hanno team di data-scientists, mentre in Italia si preferisce ancora l’occhio». Non è dello stesso avviso Attilio Olivieri, talent scout di settant’anni, quaranta passati a bordo campo, che di computer e Intelligenza Artificiale parla controvoglia: «Possono essere utili per una selezione. Le statistiche sono numeri freddi, appiattiscono, mettono sullo stesso piano dieci giocatori solo perché hanno cifre simili. E chi stabilisce quale sia il più bravo? Poi sono ridondanti. Se hai capito che uno ha certe doti, non ha senso specificare quanto spesso ripeta il gesto tecnico o segni. Ma soprattutto manca la prospettiva. Non si può dire che un ragazzo ne dimostri una percentuale. O ce l’ha o niente». ■
“Un giorno , quando la Computer Vision sarà più solida e tutto sarà automatico, si troveranno sistemi migliori per rilevare dati, che permetteranno di realizzare algortimi ancora più precisi”
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Sport
“Je suis Mina” Giocare a calcio da cristiani in Egitto Costretto a cambiare nome, Mina Bendary ha raccontato a Zeta la storia di Je suis, squadra nata per combattere i pregiudizi di natura religiosa EGITTO
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Bravura, impegno, un pizzico di fortuna. Per fare il calciatore sono imprescindibili, ma se si nasce in Egitto possono non bastare. È la storia di Mina Bendary, 24 anni, innamorato del pallone. Con un occhio alla fantasia di Ronaldinho e un altro alla classe di Cristiano Ronaldo, a giocare in terra di piramidi e faraoni ci ha provato. Non ci è riuscito. Per colpa di una religione, quella cristiana, e di «una storia che va avanti da oltre cinquant’anni». Talentuoso e determinato, dopo una lunga rincorsa e qualche rifiuto Mina approda all’Alessandrian Union Club nel 2015. Tanta felicità, ma un grande ostacolo. «Mi viene chiesto di giocare come Ibrahim. Mina è un nome cristiano, Ibrahim è musulmano e in Egitto puoi intuire la religione di una persona dal nome, senza troppe difficoltà. È un problema, perché nel nostro Paese i cristiani non sempre hanno avuto il diritto di giocare in club importanti o in Nazionale e quando lo hanno fatto hanno cambiato nome». Sei mesi da tesserato, i primi dubbi. I suoi colleghi e la chiesa lo accusano di aver accettato la situazione, senza ribellarsi. Mina medita, qualche giorno di Michele Antonelli
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di riflessioni serve a far scattare la scintilla. Niente più razzismo, niente più discriminazioni di natura religiosa: per dire “Basta”, la strada da seguire è quella del coraggio. Nasce allora “Je suis”, tradotto dal francese “Io sono”. Una speranza. Una squadra pronta ad accogliere e a sostenere persone che hanno incontrato i suoi stessi disagi nell’inseguire un sogno. «È un’opportunità – spiega Mina -. Il talento, anche se cristiano, ha bisogno di un posto per svilupparsi e per combattere i pregiudizi. La mia esperienza è il punto di partenza, ho vissuto un periodo triste. Il calcio è una cosa semplice, volevo solo giocare ma mi sono sentito escluso. Dopo aver conosciuto la sofferenza, ho deciso di voler aiutare gli altri. Siamo da sempre aperti a tutti e coerenti con un’idea di base, nella nostra famiglia c’è spazio anche per i musulmani. Ci sono giocatori che non meritano di essere rifiutati e diamo loro la possibilità di credere ancora nella loro grande passione». In un mondo del calcio in cui domina l’interesse economico, il club è un caso atipico. Una storia che viene dal basso, vicina alla gente. «Per adesso ci au-
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1. Je Suis football team, squadra nata per combattere i pregiudizi religiosi 2. Mina Bendary, 24 anni, il fondatore della squadra
“Il talento, anche se cristiano, ha bisogno di un posto per svilupparsi e per combattere i pregiudizi. La mia esperienza è il punto di partenza”
tofinanziamo grazie a un piccolo contributo pagato mese per mese dai nostri giocatori. È utile ad affittare i campi e acquistare le attrezzature necessarie». Je suis deve inoltre fare ogni volta accordi con uno dei club registrati all’EFA (Federazione calcistica dell’Egitto) per giocare sotto un altro nome in campionato. Motivo? La Lega permette solo alle squadre registrate di scendere in campo in competizioni riconosciute. Dalla fondazione – avvenuta nel 2016 – è passato qualche anno. Pian piano è cresciuto il numero degli iscritti e sono cambiate ambizioni e prospettive. «Adesso la nostra prima squadra maschile gioca nella quarta divisione del campionato egiziano, quella femminile nella seconda lega», racconta Mina, allenatore di tutte le selezioni e per nulla intenzionato ad accontentarsi. In testa c’è un grande traguardo, da costruire col tempo: «Il sogno è ‘certificare’ Je suis come club ufficiale, non più solo come accademia o movimento, per partecipare alla Serie A egiziana». «Non arrenderti mai. Quando pensi che sia tutto finito, tutto ha inizio» disse Jim Morrison, frontman dei Doors, negli anni Sessanta. La battaglia di Mina è appena cominciata. E il coraggio non manca. ■
3 3. Mina Bendary in uno dei campi di allenamento egiziani
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Storie
A braccia alzate nel silenzio. La storia di Francesca Baroni Non udente, lo scorso 10 gennaio si è laureata campionessa italiana di ciclocross U23. Vive e si allena in provincia di Lucca e di una cosa è certa: il ciclismo le ha cambiato la vita SPORT
Se siete a Lucca quando c’è il sole, salite i 230 gradini della Torre Guinigi e restate a osservare il panorama all’ombra dei lecci. Dal suggestivo giardino pensile vedrete i tetti della città, le montagne e la piana circostante, tagliata da lingue d’asfalto. Sono le strade dove si allena Francesca Baroni, campionessa italiana in carica U23 di ciclocross. Sorda dalla nascita, quel giorno si è comportata come fa di solito quando sale in bici: ha allacciato il caschetto e “nel silenzio” ha pedalato più forte di tutti. A Zeta ha raccontato il suo mondo. Ha 10 mesi quando va alla prima seduta di logopedia. Per anni fa la spola da Bozzano - frazione del comune di Massarosa - fino a un centro specializzato, il CRO di Firenze. Un percorso lungo, in
di Jacopo Vergari e Michele Antonelli
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cui impara a leggere le labbra e articolare i suoni. Prima una sillaba alla volta, poi più parole insieme. A scuola ci sono gli insegnanti di sostegno ad aiutarla. È brillante, ma non ha tanta voglia di studiare. Le basta accelerare quando è il momento giusto, come in gara. Risultato? Diploma in Ragioneria con 100/100. Per il momento niente università, vuole dedicarsi allo sport della vita conosciuto tanto tempo fa, nel 2006. C’è il Giro d’Italia e un ventinovenne varesino sta correndo da padrone. Francesca lo vede in televisione, quella Maglia rosa è bellissima. Si chiama Ivan Basso, diventerà il suo idolo: «Esiste il ciclismo per ragazze?», chiede. Ha solo sei anni. Arrivano le squadre giovanili, le prime vittorie, il ciclocross. Fino al professionismo. Il fango le piace, adora lottare e
2 1. Francesca Baroni e Jacopo Vergari durante l'intervista 2. Francesca Baroni al termine di una tappa di Coppa del Mondo a Namur in Belgio. Dicembre 2017
“Prima del Covid ero indipendente, andavo nei posti da sola. Ora, purtoppo, non posso fare più niente. Posso solo chiedere alle persone di abbassarsi la mascherina”
“La mia vita è cambiata parecchio. Con l'ultilizzo delle mascherine mi trovo più in difficoltà ad interagire con le persone”
spingere sui pedali quando le ruote affondano nel fondo melmoso. In sella è leggera, sembra galleggiare. Va forte: quattro i titoli nazionali di categoria. Oggi, a 21 anni, divide la stagione tra terra e strada. Far bene al prossimo Giro Rosa è uno dei principali obiettivi. I tifosi numeri uno? Mamma Alessandra e papà Luca, con lei fin dall’esordio. «Mi fido, ma se si facesse male e chiudesse gli occhi, ‘spegnerebbe’ il mondo - racconta Luca - Per questo vogliamo esserci, la seguiamo in auto o con lo scooter durante gli allenamenti». Non ce ne sarebbe bisogno, perché Francesca ormai “sente” le macchine in arrivo grazie alle vibrazioni che percepisce. Una vita non semplice, con cui ha dovuto fare i conti per trovare nuove strategie. Ma non si è persa d’animo, non ha rinunciato a lottare. Poi la pandemia, che ha reso tutto più complicato. Quelle mascherine, create per proteggere dal virus, l’hanno isolata. Senza labbra in movimento è complicato anche andare da soli alla posta o al supermercato. «Chiedo alle persone di abbassarla e mi metto a distanza di sicurezza. Ma non sempre è possibile, qualcuno si rifiuta».
Nasconde due sogni, perché sarebbe sciocco accontentarsi di uno soltanto. Correre in Belgio - dove la bicicletta è religione - e vincere le Strade Bianche, la corsa degli sterrati che termina in Piazza del Campo a Siena. Quella che da toscana sente sua più di qualsiasi altra. A Van der Poel preferisce Van Aert, perché «più potente e completo». Tra Alaphilippe e Sagan lo slovacco, perché «talentuoso e guascone». È golosa, adora la Nutella. Ma la dieta del nutrizionista non ammette sgarri. Niente birre o pizze con i compagni di scuola, neanche lunghe dormite la domenica mattina. Ci sono le gare e la stagione è ricca di appuntamenti. Rinunce e sacrifici. Ma Francesca è felice di alzarsi presto, sistemare la sella della bici e allacciare gli scarpini. Per continuare a correre chilometro dopo chilometro, volando nel fango. ■
Zeta — 37
Storie
Io, infermiere contro il Covid con una protesi comprata in crowdfunding Dopo un incidente in moto che gli porta via la gamba sinistra, Daniele Terenzi è tornato in corsia grazie a una raccolta fondi sui social network STORIE
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1. Instagram, uno dei social grazie al quale Daniele ha avviato la sua campagna di crowdfunding 2. Daniele al lavoro 3. Mentre si allena a casa sua
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Daniele oggi ha trentatré anni e un profilo Instagram pieno di foto in cui guida il tender, gioca a pallavolo in spiaggia, indossa il camice e il fonendoscopio. Solo con una protesi alla gamba sinistra che sfoggia con orgoglio. Nella memoria ha scolpito qualche flash di quel 16 ottobre 2018, alla guida della sua moto sulla Palombarese, a Roma, per andare a fare il tirocinio di specializzazione come infermiere anestesista. Sulla corsia opposta, un ventenne alla guida di un’auto, sotto l’effetto di stupefacenti. «Mi ha preso in pieno e sono volato via, sono andato in arresto cardiaco. Fortuna che si è fermata una collega infermiera che ha chiamato l’elisoccorso. Mi hanno portato al Policlinico Umberto I». Otto giorni di coma, poi il risveglio. «Ho aperto gli occhi e non avevo più la gamba sinistra. Il braccio ingessato e una frattura alla colonna che ha rischiato di condannarmi all’immobilità. Il primo istinto è stato ringraziare tutto il personale sanitario per avermi salvato la vita. Solo quando sono stato dimesso dall’ospedale ho realizzato. È stata dura, nessuno ti insegna a affrontare un trauma del genere». A giugno, però, su una sedia a rotelle riesce a discutere la sua tesi di laurea. «Avevo già la protesi meccanica con la copertura assicurativa in dotazione dalla ASL, ma non mi permetteva di essere autonomo. Così, ho scelto la carrozzina». È il dramma di chi, come lui, deve accontentarsi di un dispositivo vecchio di 20 anni, perché la normativa non è aggiornata dal 1999. «È come una gamba di legno. Non si possono fare le scale a salire. Sono instabili, cadevo in continuazione». A metà luglio, nonostante tutto, Daniele torna in corsia, ma non riesce a lavorare come vorrebbe. «In quel momento, ho realizzato che dovevo reagire, inventarmi qualcosa. Ho affrontato l’ostinazione di dovercela fare a tutti i costi da solo, i miei pregiudizi nei confronti dei social network e ho deciso di registrare un video». Aiutato da Claudio, il fratello minore, si è mesdi Simone Di Gregorio
“Se spesi bene, i social possono anche farti tornare a camminare. Ho racimolato 30.000 euro, chiedendo una donazione pari al costo di un caffè”
so davanti alla telecamera e ha lanciato una raccolta fondi prima su Facebook, poi su Instagram. L’obiettivo, comprare una protesi robotica modello Genium x3 da 82.000 euro. «Se spesi bene, i social possono anche farti tornare a camminare. Ho racimolato 30.000 euro, chiedendo una donazione pari al costo di un caffè». Così, unendo i risparmi accumulati per comprarsi casa e un prestito agevolato in banca ha acquistato il dispositivo che ora controlla con un’app da cellulare. Riesco a camminare senza guardare per terra, corro tra i reparti, anche se non sono veloce come prima». Fa il bagno, balla la salsa, riesce a fare le trazioni e sollevare la sbarra. La soddisfazione più grande di Daniele, però, è un’altra: «Durante la pandemia, ho lavorato in prima linea nel mio reparto al San Filippo Neri. Ho seguito il primo focolaio di Roma, sottoposto i contagiati alle TAC. Ho salutato colleghi da lontano che qualche giorno dopo si sono ammalati e in breve tempo sono finiti in terapia intensiva. Li ho visti morire». La tensione, i ritmi serrati di un anno in emergenza. Daniele racconta il sollievo di togliere la protesi dopo turni da 12 ore. Il moncone arrossato e dolorante, le relazioni con i pazienti ai quali, però, ha qualcosa da insegnare. «Conosco l’isolamento, l’ho provato sulla mia pelle. Sei mesi allettato, si fa i conti con sé stessi. Si è costretti a convivere con le proprie angosce. All’inizio, è il vuoto cosmico, l’incertezza di quello che sarà, poi ho imparato a vivere il momento». Così, tra un turno e l’altro in ospedale, Daniele trova il tempo di tenere lezioni nelle scuole sulla guida sicura e per assistere chi si trova nella sua stessa condizione: «Provo a dare il mio contributo, racconto quello che ho imparato: non siamo eterni, né invincibili. La stessa lezione che ci è stata impartita dal coronavirus. Io ho imparato a non programmare più nulla. L’importante accade nel momento in cui si verifica».■
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Cultura
Viaggio nell'infanzia dimenticata Il nuovo libro di Annalisa Cuzzocrea. Tra racconti personali e incontri con i diretti protagonisti, l’autrice indaga il mondo dimenticato dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia. Il coronavirus ha solo portato a galla problemi da sempre rimasti irrisolti LIBRI
«Il bello di questo libro è stato poter mettere la testa fuori dai palazzi della politica e vedere il mondo che c’è fuori» dice ridendo a Zeta Annalisa Cuzzocrea, cronista politica e inviata del quotidiano La Repubblica, autrice del libro “Che fine hanno fatto i bambini” (Piemme, 157 pagine). Dal suo primo libro infatti ci si aspettava un tema più politico, legato alla vita dei partiti e alle trame del potere che da anni è abituata a raccontare. O meglio, il libro appena dato alle stampe parla di politica, ma di quella politica fatta di temi, contenuti e realtà sociali intrise di vita quotidiana di cittadine e cittadini. “Che fine hanno fatto i bambini” è la cronaca di un paese, l’Italia, che ha smesso di guardare al futuro. Un viaggio tra le pieghe nascoste dell’infanzia e dell’adolescenza che Annalisa Cuzzocrea svela con delicatezza ai lettori, viaggiando da Nord a Sud e lasciandosi guidare dalle voci di esperti, scrittori, attivisti, maestri ma soprattutto genitori e figli che hanno pagato sulla loro pelle l’assenza di politiche dell’infanzia adeguate. «Durante il primo lockdown ho scoperto quello che avevo sempre percepito da madre, e che poi ho capito da giornalista: c’è un problema di invisibilità dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia. La politica non guarda ai bambini e ai ragazzi fin quando non raggiungono il diritto di voto al compimento dei 18 anni» dice Annalisa, raccontando che l’idea del libro è nata nella sera in cui il governo Conte incontrava la Commissione Colao. Tutte le sue fonti le comunicarono che durante quella riunione-fiume di otto ore nessuno parlò di scuole, chiuse improvvisamente senza un orizzonte temporale, e senza permettere ai bambini neanche di recuperare i prodi Camillo Barone
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1 1. La copertina del nuovo libro edito da Piemme, 160 pagine, 17,50€ 2. Una foto dell'autrice, Annalisa Cuzzocrea. Nata a Reggio Calabria nel 1974, si è laureata a Roma in Lingue e Letterature straniere, ha poi studiato giornalismo a Urbino e ha fatto pratica nelle redazioni di Tg3, Radio Capital. Oggi al quotidiano La Repubblica, dove ha coperto i principali avvenimenti di politica degli ultimi anni Foto Isabella Bonotto
sere più complete nei loro mestieri e nel modo in cui pensano alla vita sociale in Italia. Non mancano poi confessioni e ricordi intimi che si intrecciano a considerazioni sull’essere madre e lavoratrice nel giornalismo, mai distaccati dallo studio attento dei dati: «Noi donne siamo cresciute con la cultura della Madonna col Bambino. Risentiamo della cultura cattolica. Nel momento in cui abbiamo pensato al movimento femminista l’abbiamo portato avanti come liberazione del corpo e della donna»: Un passaggio fondamentale questo per la giornalista, che ammette che in Italia non «si è pensato ad un modello che tenesse insieme l’essere madre e l’essere donna. Quindi quando siamo madri cerchiamo di vivere la nostra genitorialità come una performance, cercando di essere perfette e capaci di seguire i nostri figli come delle ombre e allo stesso tempo essere precise sul lavo2
pri libri e quaderni lasciati nelle aule. «È come se fosse stata costruita la narrazione distorta del nonno che riceve il virus dal bambino cattivo, che quindi deve essere rinchiuso dentro casa per proteggere gli anziani indifesi, pensando che in linea di massima siano stati gli ambienti scolastici dei bambini ad aver permesso il contagio dei genitori» spiega la giornalista, ricordando che agli adulti è stato permesso di tornare a lavoro costruendosi open-space e organizzando gli uffici in modo nuovo, caricando i figli di colpe che le statistiche sui contagi di coronavirus non hanno ancora accertato. «In un suo discorso Emmanuel Macron ha detto invece che avrebbe tenuto aperte le scuole “ad ogni costo”, non per lo spirito illuminista francese, ma perché l’istruzione pubblica efficace è una questione anche strategica ed economica, sulla quale l’Italia punta molto meno rispetto ai paesi del Nord Europa».
8,3 milioni
Dal 10 marzo 2020 le scuole italiane sono state chiuse fino alla fine dell’anno scolastico a giugno, mandando in didattica a distanza 8,3 milioni di studenti. Dopo una breve riapertura a ingressi alternati a settembre e ottobre 2020, le scuole sono rimaste in gran parte in DAD fino a marzo 2021.
-4,5%
Nel 2018, secondo i dati Istat, avevamo raggiunto un record negativo che nel 2019 abbiamo superato: gli italiani iscritti all’anagrafe per nascita sono 420.170, 19mila in meno dell’anno precedente, meno 4,5 per cento. Abbiamo quindi una natalità del 7 per mille.
La cronaca di un Paese che ha smesso di guardare al futuro. Un viaggio tra le pieghe nascoste dell’infanzia e dell’adolescenza che l'autrice svela con delicatezza ai lettori, viaggiando da Nord a Sud e lasciandosi guidare dalle voci di esperti, scrittori, attivisti, ma soprattutto genitori La pandemia però è solo una parentesi che permette ad Annalisa Cuzzocrea di sviscerare a fondo la questione dell’assenza di politiche giuste per l’infanzia e l’adolescenza in Italia. E lo fa viaggiando in luoghi molto personali, come l’asilo storico di Wilma Mosca frequentato a Roma dai suoi figli Carlo e Chiara, o incontrando psicologi, economisti, sociologi, scrittrici e registe di grande portata come Francesca Archibugi e Nadia Terranova, che non hanno mai smesso di osservare il mondo con gli occhi di quando erano bambine. Ed è proprio questo sguardo che permette loro, secondo Annalisa, di es-
Durante il primo lockdown ho scoperto quello che avevo sempre percepito da madre, e che poi ho capito da giornalista: c’è un problema di invisibilità dell’infanzia e dell’adolescenza ro senza chiedere permessi speciali ai colleghi che non hanno figli». Una perfezione che viene richiesta alle donne proprio perché in Italia i figli sono considerati ancora un fatto privato e non pubblico. Perché nelle donne continua a scattare un senso di colpa - antico quanto la storia di questo paese - nel momento in cui i figli vengono affidati ad altri spazi sociali educativi che dovrebbe essere lo Stato stesso a finanziare, non le famiglie, che poi si ritrovano costrette a scegliere tra figli e lavoro. È quello che scrive Cuzzocrea nel suo libro e che ribadisce anche a Zeta, spiegando che invece all’estero «il mondo è costruito anche a misura di bambino e adolescente, perché i bagni sono pensati con i fasciatoi, i musei e i luoghi di cultura hanno spazi dedicati solo ai più piccoli, e ovunque gli spazi pubblici offrono alternative per i bambini. Da noi è tutto più faticoso, affidato al terzo settore e alle singole famiglie», che quindi decidono di ricorrere al privato, facendo beneficiare di ciò come al solito soltanto i più ricchi. Un viaggio, quello di Annalisa, che a tratti fa anche male, come quando si imbatte nei bambini dimenticati, i figli delle detenute che senza alcun sostegno creativo dello Stato scontano pene che non hanno commesso, in carceri che distruggono l’infanzia di vite innocenti. O i figli degli stranieri residenti in Italia senza cittadinanza, italiani nella vita quotidiana ma non riconosciuti dalle istituzioni, che aspettano anni di trafile burocratiche perdendo occasioni importanti. Uno spaccato del paese finora invisibile che andava portato alla luce. Annalisa Cuzzocrea lo ha fatto, chiedendo alla politica di andare al di là del consenso e del sondaggio delle prossime elezioni, e di occuparsi delle future generazioni, per troppo tempo rimaste in silenzio e dimenticate. ■ Zeta — 41
Cultura
Berlino, un giornale per la classe lavoratrice Arts of the working class è un periodico d’arte berlinese distribuito per le strade dai senzatetto. Abbiamo parlato con Dalia Maini, assistente online editor del giornale STAMPA
Mentre si aspetta la U-Bahn a Berlino non è insolito imbattersi in qualche senzatetto che, ai pendolari e ai turisti distratti, sottratti per qualche momento ai propri cellulari, porge gentilmente un giornale colorato, con un titolo in caratteri vagamenti neogotici che recita “Arts of the working class”. «Per la prima volta materiali e contenuti artistici forniscono dei mezzi di sussistenza a chi non ha neanche il privilegio di sopravvivere». Dalia Maini, assistente online editor di Arts of the working class, racconta a Zeta la missione e l’idea da cui nasce questo Straßenmagazine (giornale di strada) berlinese d’arte contemporanea. «È un progetto semplice ma allo stesso tempo complesso» spiega. «Nato nell’aprile 2018 e giunto alla 15esima edizione, Arts of the working class è un bimensile fondato dall’artista Paul Sochacki, che ha chiamato a collaborare come editor María Inés Plaza Lazo e Alina Kolar. È un giornale anti-capitalista e anti-imperialista che tratta di arte, società, cultura, povertà e ricchezza». Il nome della testata deriva dalla convinzione che vi sia oggigiorno una progressiva erosione del concetto e del senso di appartenenza a una classe, anche nel mondo dell’arte. L’idea dietro il giornale è che l’arte debba connettersi con la società per toccare posti e persone che normalmente sarebbero escluse dai tradizionali circoli elitari. Da qui, la particolare maniera di distribuzione del giornale che avviene attraverso i senzatetto. Arts of the working class infatti si inserisce nel filone dei cosiddetti “giornali di strada”, distribuiti per le strade o nelle metropolitane delle grandi città dalle per-
di Claudia Chieppa
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sone senza fissa dimora che tengono poi il ricavato delle vendite, traendone un mezzo di sostentamento. «È un modo per creare una fonte di reddito per coloro che vivono per strada» spiega Maini. «La nostra redazione non trae alcuna fonte di profitto da questo giornale. Ci finanziamo attraverso la vendita di pubblicità di istituzioni artistiche che seguono il nostro stesso principio socialista oppure facciamo richiesta di fondi. Non riceviamo fondi statali e ultimamente abbiamo aperto agli abbonamenti con dei prezzi molto equi e tutto il ricavato è devoluto alle stampe successive». Oltre che per le idee che veicola AWC è particolare anche per il suo aspetto e i tipi di contenuti che propone. La prima caratteristica che salta agli occhi è la varietà linguistica. Ogni edizione ha una lingua specifica che emerge anche dal formato del titolo, il cui font viene piegato di volta in volta ai caratteri merlettati del cirillico o alle linee dritte dell’italiano o del tedesco o – come nel caso dell’ultimo numero dedicato alla decolonizzazione – alle grazie delicate del coreano. Ogni edizione presenta articoli scritti in diverse lingue così può capitare che nell’editoriale che non ti aspetti dedicato al concetto di cura (come nel caso della nona edizione del giornale) si passi repentinamente dall’inglese al rumeno più o meno verso la metà del testo. «Così come ci piace creare una valuta di scambio economica, vorremmo crearne anche una conoscitiva, poiché magari chiedere a qualcuno che conosce il rumeno di tradurre un articolo in quella lingua porta le persone ad abbassare le barriere, a confrontarsi e a imparare». ■
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“Ogni edizione ha una lingua specifica che emerge anche dal formato del titolo, il cui font viene piegato di volta in volta ai caratteri merlettati del cirillico o alle linee dritte dell’italiano o del tedesco”
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Bologna, un laboratorio di comunità Piazza Grande è il primo giornale di strada italiano che racconta le storie di emarginazione grazie alle voci e alle mani dei senza tetto STAMPA
«Tendere un giornale è meglio che tendere una mano». Quante volte ognuno di noi ha incontrato per strada, ai semafori, fuori dai centri commerciali e in tanti altri posti persone in difficoltà che per vivere sono costrette a chiedere l’elemosina? A Bologna per anni le ho incontrate anche io e spesso non mi chiedevano monete, ma cercavano di vendermi un giornale. Quell’insieme di pagine e racconti si chiama Piazza Grande ed è nato proprio nel capoluogo emiliano nel 1993 e fino a qualche anno fa veniva venduto dai senza tetto. L’intento dei padri fondatori era quello di marcare la differenza tra chiedere l’elemosina e vendere un giornale. Un semplice gesto che però è capace di mettere in contatto due mondi che non si conoscono: quello delle tante persone che vivono per strada e quello di chi è abituato a camminarci accanto senza nemmeno notarle. «A Piazza Grande ci occupiamo di inchieste riguardanti temi sociali, povertà, disuguaglianze e condizioni di dignità. La nostra redazione è un luogo in cui si abbattono i muri di emarginazione tra le persone con o senza dimora. La nostra redazione è mista, non escludiamo nessuno e ci ritroviamo tutti assieme con l’obiettivo di fare un giornale che esce 10 volte all’anno». Sono le parole del direttore editoriale Andrea Giagnorio che si occupa della parte giornalistica di questa associazione. «A modo mio avrei bisogno di carezze anch'io. A modo mio avrei bisogno di sognare anch'io. Una famiglia vera e propria non ce l'ho e la mia casa è Piazza Grande». Il nome Piazza Grande ricorda senza dubbio la canzone che Lucio Dalla portò al Festival di Sanremo nel 1972, una canzone che in molti associano a Piazza Maggiore, ma
di Gian Marco Passerini
1. Bologna, la fontana del Nettuno che affaccia sulla piazza omonima 2. Una copia del giornale Art of the Working Class in una strada di Berlino
“La nostra redazione è un luogo in cui si abbattono i muri di emarginazione tra le persone con o senza dimora. Ci ritroviamo tutti assieme con l’obiettivo di fare un giornale ”
che in realtà è ambientata a Piazza Cavour e che racconta proprio la storia di un senza tetto che dice di aver scelto la vita che fa, ma ammette di avere ancora la necessità di essere compreso, di sentirsi amato. La storia del protagonista della canzone di Dalla potrebbe trovare posto tra le righe di questo giornale che nel 2018, in occasione del suo 25 anniversario, ha deciso di rinnovarsi: «abbiamo allestito una nuova redazione e un nuovo metodo di diffusione che non si basa più sulla vendita per strada, ma sugli abbonamenti e su dei luoghi fissi in città come bar, librerie, e circoli arci in cui si può prendere il giornale lasciando un’offerta». Da un paio di anni la redazione di Piazza Grande non è più una semplice redazione, ma è diventata un laboratorio di comunità che ha trovato posto all’interno di un condominio. «Al piano terra ci sono delle stanze che possono ospitare fino venti persone in difficoltà mentre al piano di sopra c’è la nostra redazione dove viene creato il giornale» spiega Andrea. La pandemia ha avuto effetti devastanti sulla povertà e anche Piazza Grande ha dovuto affrontare numerose difficoltà, tra cui la diffidenza. «Il virus, gli effetti psicologici e la paura del contagio hanno portato le persone a una maggiore diffidenza nei confronti di chi vive in strada. Per fortuna, per finire in strada ci vuole del tempo e spesso accade quando la propria rete famigliare, amicale e di aiuto viene meno. Con la pandemia non abbiamo visto un aumento di persone senza un tetto, ma per chi sta cercando di rifarsi una vita non è facile. La difficoltà più grande è stata quella di gestire il lockdown per quelle persone che una dimora non ce l’hanno». ■
Zeta — 43
Cultura
Arancia meccanica, i cinquant’anni della “Cura Ludovico” Antonio Monda, direttore della Festa del Cinema di Roma, racconta mezzo secolo di ultraviolenza e Latte+ CINEMA
Uno sguardo di ghiaccio sotto una bombetta nera; le ciglia finte che circondano la rima inferiore dell’occhio destro di Alex DeLarge (Malcolm McDowell) che sorseggia un bicchiere di Latte+ senza distogliere lo sguardo dalla cinepresa. Il tutto accompagnato dalle splendide note della Musica per il funerale della regina Maria di Henry Purcell. Aggiungete un locale psichedelico, il Korova Milk Bar, dove i drughi (dal russo “drug”, amico) vanno a rifornirsi di latte e mescalina per predisporsi all’esercizio dell’amata ultraviolenza, ed eccovi servito il capolavoro di Stanley Kubrick “Arancia Meccanica”, uscito nelle sale statunitensi il 19 dicembre 1971 e arrivato quest’anno al mezzo secolo di debita venerazione cinefila. Kubrick unisce all’esuberanza lessicale dell’omonimo romanzo del 1962 di Anthony Burgess – che ha inventato di sana pianta la lingua parlata da Alex e dai drughi (il Nadsat, un mix di termini russi e cockney) – l’immaginario psichedelico degli anni ’70, pur ambientando il film in un periodo non meglio specificato. L’opera di Kubrick vede la vicenda raccontata da un narratore onnisciente rappresentato dalla voce fuori campo di Alex, leader di un gruppo di giovani senza regole o freni inibitori la cui vita è dedita a due attività principali: l’esercizio dell’amata ultraviolenza e del dolce “su e giù” (il sesso). Nel caso di Alex se ne aggiunge anche una terza, ovvero la venerazione per la musica del Ludovico Van, che ascolta a tutto volume nella casa che condivide con Mà e Pà, genitori ignari, a cui racconta che la notte “va a fare dei lavoretti” quando invece, sotto l’effetto del Latte+, picchia, stupra e deruba le case dei borghesi in compagnia degli amici Pete, Georgie e Dim. «La scena forse più famosa, quella in cui i drughi stuprano una donna cantando Singin’ in the rain è un’eco di qualcosa tragicamendi Claudia Chieppa
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te accaduto alla prima moglie di Anthony Burgess», spiega a Zeta Antonio Monda, professore di Cinema alla New York University e direttore della Festa del Cinema di Roma. Una meta-citazione, inoltre, che sottolinea la totale mancanza di sentimenti o empatia dei drughi nei confronti delle vittime dei propri crimini efferati. Elemento che, secondo Monda, nel libro è ancora più marcato: «Nel film Malcolm McDowell ha 27 anni e si intuisce che è maggiorenne; nel libro Alex è un quindicenne e in una delle scene iniziali in cui tenta di stuprare una ragazza, la ragazza ha soltanto dieci anni». A causa dei suoi atteggiamenti autoritari Alex diverrà sempre più inviso ai compagni, che lo abbandonano sulla scena del crimine, dopo l’uccisione di una donna. Condannato a 14 anni di carcere per omicidio, e dopo averne scontati due, Alex troverà il modo di uscire di prigione in due sole settimane sottoponendosi ad un trattamento sperimentale, basato sull’impiego del condizionamento ai fini del controllo del comportamento. Questo perché il governo che, secondo Monda, «nel libro si intuisce essere laburista, mentre nel film è chiaramente di destra», deve svuotare le carceri dai criminali comuni per far posto a quelli politici. Per far ciò ha avviato l’esperimento sul condizionamento comportamentale che dovrebbe sopprimere la violenza e l’aggressività nei criminali, riprogrammandoli di fatto per diventare buoni. Con gli iconici ferma-palpebre (o, più correttamente, “blefarostati”), che sono quasi costati le cornee a Malcolm McDowell, Alex viene sottoposto alla “Cura Ludovico” che consiste nel guardare scene di violenza e stupro mentre si assumono droghe che inducono malessere, così da associare infine i comportamenti deviati a delle sensazioni sgradevoli. Tuttavia, tra le musiche usate per accompagnare le immagini scioccanti sottoposte “al nostro affezionatissimo” c’è anche la Nona
1. Una scena di Arancia Meccanica
sinfonia del veneratissimo Ludovico Van, che da allora Alex non potrà più ascoltare senza provare un certo malessere. A differenza del libro che vedeva alla fine Alex decidere di imboccare la via della vita borghese, Kubrick decide di far abortire il piano di “riprogrammazione al bene” del protagonista che, dopo aver tentato il suicidio a causa degli effetti del programma, ritorna quello di prima ma con l’aggiunta del beneplacito del governo. «È un film sul libero arbitrio», spiega Monda, «con una provocazione straordinaria e terribile: un uomo che viene privato della facoltà di fare del male non è più un uomo. Quando uscì la critica si spaccò: alcuni lo definirono “noiosamente religioso”, altri, come il regista Luis Buñuel, lo esaltarono per lo stesso motivo». Infatti quando la conversione “meccanica” al bene – qui rappresentata dalla “Cura Ludovico” – non è accompagnata dallo sviluppo di un qualche tipo di coscienza morale, essa appare del tutto inutile. Come sottolineato anche nel film dal cappellano della prigione, l’unico ad opporsi al trattamento di Alex. Tuttavia, la grandezza di questo film sta anche nel modo di rappresentare ed esporre questi grandi temi. La violenza,
per esempio, c’è, ma è resa in maniera plastica, lontana dall’iper-realismo cui siamo abituati oggi. Cult sono diventati anche elementi che se non fosse stato per l’abilità del regista sarebbero potuti passare per dettagli: dalle uniformi dei drughi – create dalla costumista Milena Canonero – iconiche e bianche quanto il candido Latte+, alla colonna sonora di Walter Carlos per la quale all’inizio Kubrick aveva richiesto Ennio Morricone, impegnato tuttavia con Sergio Leone per le musiche di Giù la testa. Il tema del libero arbitrio ma anche quello del rapporto tra natura e cultura sono temi universali che hanno reso immediatamente il film di Kubrick un cult senza tempo. Il tema della scelta, della natura dell’uomo e dell’origine del male e se questo possa essere frenato con l’educazione, la scuola, la famiglia o con l’intervento dello Stato, come in questo caso, sono domande esistenziali che l’uomo si porta dietro da sempre e che sempre si porrà. La capacità di scegliere, infine, è esattamente ciò che ci rende uomini. Un’opinione rimarcata dallo stesso Kubrick quando disse, riferendosi al film, che: «È necessario che l'uomo possa scegliere tra bene e male e che ci sia il caso in cui egli scelga il male. Privarlo di questa possibilità di scelta, significa renderlo qualcosa di inferiore all'umano – un'arancia meccanica appunto». ■
“ È un film sul libero arbitrio con una provocazione straordinaria e terribile: un uomo che viene privato della facoltà di fare del male non è più un uomo ”
2. Stanley Kubrick
3. Costumi di scena
Foto di Rick Harris from Toronto, Ontario, Canada This file is licensed under the Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 Generic license
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Cultura
Il corpo, uno spazio condiviso Un'analisi storica, culturale ed etica del concetto di immunità e di come gli uomini hanno provato a raggiungerla LIBRI
Eula Biss è una scrittrice americana. Insegna alla Northwestern University e i suoi precedenti libri hanno vinto numerosi premi, tra cui il National Book Critics Circle Award per Notes from No Man’s Land. Immunità è stato un successo di pubblico e critica, tradotto in oltre dieci lingue e segnalato tra i migliori libri dell’anno da New York Times e Publishers Weekly.
di Chiara Sgreccia
Metafora: processo espressivo per cui un vocabolo è utilizzato per indicare non i referenti propri ma un altro referente ad essi legato da un rapporto di similitudine. É il nostro corpo ad offrici la materia con cui comporre le metafore di cui abbiamo bisogno perché quello che siamo determina la visione del mondo che abbiamo, e le metafore condizionano il pensiero e l'azione. È inevitabile, quindi, per Eula Biss, autrice di Immunità. Vaccini, virus e altre paure, che la figurazione di un ago che entra nella pelle e che inietta una sostanza estranea nel corpo crei un’immagine forte, capace di condurre fino allo svenimento. Una metafora che spaventa, che porta alla mente pensieri di violenza, corruzione, contaminazione. Ciò che preoccupa dei vaccini non è quello che c’è dentro - non il pericolo quantificabile - ma l’alone di paura - incommensurabile - che abbiamo costruito intorno, a cui ci siamo affezionati. Timori che derivano dalla storia, dall’economia, dalla società, da miti e incubi, da cui non sappiamo come allontanarci. In quest’ottica rifiutare la vaccinazione è un atto di resistenza a un sistema corrotto dalla stampa inaffidabile e dagli interessi delle industrie farmaceutiche. Non c’è un'altra ragione per credere che la vaccinazione possa essere più peri-
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colosa della malattia. Dalla mitologia greca, alla letteratura sui vampiri, al racconto delle epidemie di peste e vaiolo ma anche conversazioni, fatti di cronaca, vissuto personale. Biss parte dalla sua esperienza di madre, dalle domande che si è fatta, dalle decisioni che ha dovuto prendere, per comporre un’indagine gentile delle dinamiche del vivere collettivo. Un'analisi calma e consolatrice dell'agire degli uomini e delle scelte che compiono in vista di un fine che non è isolato ma condiviso perchè i nostri corpi non sono proprietà singole di cui disporre a piacimento ma sono costitutivamente legati, interdipendenti dal punto di vista biologico, culturale, sociale. Ogni corpo ha una responsabilità verso l'altro tanto che, per Biss, l'immunità è una relazione di dipendenza. Dopo che un numero sufficiente di persone è stato vaccinato, il virus ha difficoltà nel passare da una persona all'altra, risparmiando sia i vaccinati che i non. La maggioranza si vaccina per proteggere una minoranza vulnerabile. Il libro di Eula Bliss, inserito dal The New York Times tra i migliori libri dell'anno nel 2014, oggi che cerchiamo di riequilibrare la dimensione del vivere collettivo scossa dalla pandemia, è più che mai attuale. ■
Immunità. Vaccini, virus e altre paure di Eula Bliss. Tradotto da Albertine Cerutti, uscito in Italia il 21 gennaio 2021 per Luiss University Press, 188 pp.
Un libro per riflettere I timori connessi ai vaccini non paiono placarsi facilmente, a dispetto di un’importante serie di analisi sui rischi e sui benefici che ci rassicurano sul fatto che i benefici sono di gran lunga superiori ai danni. Gli effetti collaterali gravi delle vaccinazioni sono infatti rari. È tuttavia difficile quantificare con esattezza quanto raramente si manifestino, anche perché molte delle complicanze associate ai vaccini sono causate dalle infezioni naturali che quei vaccini dovrebbero prevenire. […] “Le percezioni del rischio, ossia i giudizi intuitivi che le persone esprimono a proposito dei pericoli del loro mondo” osserva lo storico Michael Willrich, “possono resistere caparbiamente alle prove presentate dagli esperti”. Tendiamo a non temere le cose che hanno maggiori probabilità di farci del male. Andiamo in giro in automobile, e lo facciamo tanto. Beviamo alcolici, usiamo la bicicletta, stiamo troppo tempo seduti. E coviamo di Eula Biss
ansie riguardo a cose che, statisticamente parlando, presentano un rischio ridotto. Abbiamo paura degli squali, quando, in termini puramente numerici di vite perse, le creature più pericolose sulla terra sono probabilmente le zanzare. “Le persone sanno quali pericoli causano parecchie morti e quali poche?” si chiede il giurista Cass Sunstein. “No, non lo sanno. Così prendono enormi cantonate”. Sunstein riprende questa osservazione da Paul Slovic, autore di The Perception of Risk.38 In uno studio che confrontava varie cause di morte, Slovic ha scoperto che la gente tende a credere che gli incidenti siano più letali delle malattie e che l’omicidio provochi più decessi del suicidio, mentre in entrambi i casi è vero il contrario. Da un altro studio, risulta che le persone sovrastimano in modo significativo i tassi di mortalità di pericoli di cui si parla molto e con enfasi, come il cancro o i tornado. Sull’esempio di Sunstein potremmo dire che la maggior parte della gente
semplicemente si sbaglia a proposito dei rischi. Tuttavia, la percezione del rischio potrebbe non riguardare tanto il pericolo quantificabile quanto invece la paura, che è incommensurabile. Sui nostri timori influiscono la storia e l’economia, il potere o lo stigma sociale, i miti e gli incubi. E, come succede con le salde convinzioni, siamo loro affezionati. Allorché ci imbattiamo in un’informazione che contraddice ciò di cui siamo convinti, ha constatato Slovic in uno dei suoi studi, tendiamo a mettere in dubbio l’informazione, piuttosto che noi stessi. Il New York Times riferisce che le biciclette “sono coinvolte in più incidenti di qualsiasi altro prodotto di consumo, ma che i letti sono per pochi casi al secondo posto”. Questo non suscita in me allarme, sebbene io faccia frequentemente uso sia di letti sia di biciclette. Porto mio figlio nel seggiolino posteriore della bicicletta e gli permetto di dormire nel mio letto, nonostante una campagna di informazione abbia prodotto dei manifesti che mostrano un bambino dormiente, un coltello da macellaio e una frase che ammonisce: “Può essere altrettanto pericoloso se tuo figlio dorme con te”. Il disinteresse per il rischio che le ricerche riscontrano in gente come me potrebbe essere, almeno in parte, dovuto alla riluttanza a vivere una vita condizionata dal pericolo. Dormiamo con i nostri figli perché i benefici che ne derivano, a nostro modo di vedere, hanno maggiore importanza dei rischi. La nascita di mio figlio, che ha esposto la mia salute a un pericolo maggiore di quello che avevo preventivato quando sono rimasta incinta, mi ha fatto rivalutare l’idea che esistono rischi che val la pena di prendersi. Un’amica i cui figli sono ormai cresciuti mi ricorda che “avere bambini è il più grave rischio che si possa correre”. “Forse ciò che importa” riflette Sunstein, “non è se le persone abbiano ragione a proposito dei fatti, ma se sono spaventate”. [...] “Il corpo ci fornisce materia per le nostre metafore” scrive James Geary nel suo studio I Is an Other. “E le nostre metafore ci predispongono a un certo modo di pensare e di agire”. Se la nostra visione del mondo origina dal corpo, è inevitabile che anche le vaccinazioni assumano un valore simbolico: l’immagine di un ago che fora la pelle iniettando una sostanza estranea direttamente nella carne è talmente forte da provocare, in alcune persone, lo svenimento. In un simile gesto leggiamo metafore spaventose, addirittura sconvolgenti, che quasi sempre richiamano un’idea di violazione, corruzione, contaminazione. ■ Zeta — 47
La Guida di Zeta
Le tisane per il benessere di primavera Foglie, fiori, semi e radici di sette piante consigliate per la preparazione di tisane, infusi e decotti a cura di Chiara Sgreccia
Una chiacchierata con Luca Cornioli, amministratore delegato di Laboratori Biokyma, storica azienda toscana - di Anghiari - specializzata nella lavorazione di piante officinali, per scoprire curiosità ed aneddoti sulle tisane che possono aiutare a ritrovare il benessere.
Ortica
Tarassaco
In Tirolo, quando scoppia un temporale, si gettano le foglie di ortica nel focolare per allontanare ogni pericolo. É una pianta dalle notevoli proprietà diuretiche, depurative ed antinfiammatorie, con una funzione disintossicante. Buona anche per zuppe e risotti.
Gli innamorati, soffiando sul fiore, si scambiano promesse di fedeltà. Il tarassaco agevola la funzione digestiva, la regolarità del transito intestinale e il drenaggio dei liquidi contribuendo a disintossicare il corpo. Le sue foglie sono buone da mangiare anche cotte, mescolate con altre verdure.
Menta dolce La «menta mente» è un modo di dire dell' antica Scuola Medica Salernitana per sottolineare l’ambiguità dell’aroma della pianta, all’inizio fresco, poi pungente. La menta ha proprietà digestive e distensive grazie ad un’azione rilassante sulla muscolatura. É utile in caso di raffreddore e tosse perché è decongestionante, balsamica, fluidificante. 48 — Zeta
Malva
Timo
Carlo Magno rese obbligatoria la coltivazione della malva nei giardini medicinali del suo regno per assicurarsi che fosse sempre a disposizione. I suoi fiori si orientano verso il sole. La malva ha proprietà emollienti e lenitive, regola le funzioni digestive ed è utile per il trattamento di infiammazioni alla gola e alle vie urinarie.
Il nome trae origine dal greco Thymon che significa forza. Il timo ha virtù rinvigorenti, favorisce il benessere del naso e della gola e ha proprietà antisettiche e digestive. Un sacchetto di timo secco nelle scarpe elimina i cattivi odori.
Finocchio
Piantaggine
«Non mi infinocchiare» dicono gli acquirenti poco esperti ai produttori di vino perché il sapore dolciastro dei semi di finocchio è perfetto per mascherare il cattivo sapore del vino venuto male. Il finocchio migliora l’assorbimento dei nutrienti, riduce gli spasmi intestinali e ha un’azione antiossidante e antinfiammatoria.
In inglese si chiama white man's foot, cioè piede dell'uomo bianco, perchè i semi della piantaggine in epoca coloniale sono stati diffusi dagli europei che li tenevano nel risvolto dei pantaloni. La pianta ha proprietà emolienti e lenitive, utile per ridurre infiammazioni alla gola e all'apparato respiratorio e per dare sollievo in caso di ferite, punture di insetti, irritazioni cutanee. Buona per vellutate e risotti.
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Parole e immagini di Laura Miraglia
LIBRO
FILM
Sembrava bellezza
I Care a lot
Teresa Ciabatti
Jake Blakeson
Mondadori 240 pagine 17,10 euro
Black Bear Pictures Teddy Schwarzman Ben Stillman
“I fatti e le persone di questa storia sono reali”: Teresa Ciabatti presenta così il suo ultimo romanzo “Sembrava Bellezza”. Dopo aver ottenuto il successo grazie a “La più amata”, secondo al Premio Strega 2017, la sceneggiatrice torna a scrivere in prima persona, in continua commistione tra realtà autobiografica e finzione. Il romanzo, candidato allo Strega di quest’anno, si articola tra un presente di effimero successo e il passato della protagonista, traumatizzata da un’adolescenza pervasa da momenti di aggressività e vergogna, vissuti in casa con una madre troppo trasandata. La narratrice, senza nome, è una scrittrice separata e “grassa”, mamma assente di una figlia ventenne che la incolpa della separazione dal padre. A 47 anni, gli incontri con l’amica di adolescenza Federica e la sorella maggiore Livia, la costringono a un tuffo nel passato, in cui ricordi ed emozioni descrivono lo sfiorire della giovinezza. Un quadro di imperfezione 50 — Zeta
femminile fa da sfondo al romanzo e rappresenta il disagio delle donne che credono di esser nate in un corpo “sbagliato”. La protagonista adolescente del libro è infatti angosciata dal suo fisico. Ha un seno più piccolo dell'altro, vorrebbe correggere il difetto ma non ha le risorse per pagare l'intervento chirurgico. Vede negli altri quel che vorrebbe e trova in sé quel che non accetta. “Sentirsi accettati” è il desiderio che Ciabatti mette in primo piano nel romanzo, tema che aveva già affrontato lo scorso novembre in un’intervista con Yole Signorelli, fumettista transgender che, come la protagonista di “Sembrava Bellezza”, ha vissuto l’incubo di sentirsi intrappolata, da teenager, in un corpo che non le apparteneva, fino a quando non è riuscita a cambiare sesso e avere il corpo che da sempre aveva desiderato. Una trama al femminile di madri e di figlie, di amiche, in cui l'autrice mette in scena le relazioni, tra donne e non solo, in un viaggio generazionale introspettivo.
“Fidatevi, non esistono brave persone. Pensavo che lavorare sodo e giocare lealmente mi avrebbero portato al successo e alla felicità, ma non è stato così. Il gioco leale è una presa in giro inventata dai ricchi per far restare il resto di noi poveri. Per farcela, bisogna essere coraggiosi, spietati e determinati. Perché ci sono due tipi di persone, quelle che prendono e quelle a cui viene preso. Ci sono leoni ed agnelli. Mi chiamo Marla Grayson e non sono un agnello”. Con questa frase esordisce la protagonista della nuova dark comedy thriller visibile in esclusiva su Amazon Prime Video dal 19 febbraio 2021 e diretta dal regista e sceneggiatore britannico Jake Blakeson, che ritorna in scena dopo il successo de “La Quinta Onda”. A recitare il ruolo della truffatrice è Rosamund Pike, che per l’ottima interpretazione è stata premiata ai Golden Globe 2021 come miglior attrice in un film commedia o musicale
e ha rivelato in un’intervista per Vogue: “è il ruolo femminile più elettrizzante che ho interpretato finora”. Marla è una tutrice legale che finge di prendersi cura di persone anziane con l’unico obiettivo di sottrarre loro i soldi e allontanarli dai propri cari. Stanca di farsi mettere i piedi in testa da una società spietata e corrotta, è una donna coraggiosa, impetuosa e determinata che non ne può più di tutti quegli uomini che credono di dover e poter essere sempre i più forti. Lei non ha timore di nessuno ed è pronta a sfidare il mondo pur di arrivare al successo, al fianco della sua compagna Fran, l’unica della quale gli importi davvero. Nonostante il tema del giro d’affari attorno alla terza età e alla salute statunitense sia un tema già dibattuto in America, l’obiettivo di Blakeson non è di denuncia. Attraverso l’immagine di una donna immorale e priva di compassione, “I Care a Lot” racconta una storia di cattivi contro cattivi, dove alla fine qualcuno ne paga le conseguenze.
Faculty: Roberto Saviano, Federica Angeli, Bill Emmott, Jeremy Caplan, Sree Sreenivasan, Moises Naim, Jason Horowitz, Gianni Riotta
Reporter Nuovo — 51
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