Settimanale di politica cultura economia N. 33 • anno LXVIII • 21 AGOSTO 2022 Domenica 3 euro L’Espresso + La Repubblica In Italia abbinamento obbligatorio alla domenica. Gli altri giorni solo L’Espresso 4 euro ECONOMIA Rincari e bollette pesanti Siamo alla canna del gas UCRAINA Vita nel rifugio anti-bomba Il racconto è su TikTok IDEE Alla scoperta del corpo L’Eros secondo Terranova Diritti, ambiente, scuola, lavoro, cultura. Hanno proposte e soluzioni e sono pronti a collaborare. Il Palazzo non li ascolta, la politica li snobba. Eppure il loro è già un programma di governo GenerazioneAgenda Zart.1comman.46)27/02/04legge(conv.inA.P.-D.L.353/03s.p.a.sped.inItalianePoste1-DCBRoma-Austria-Belgio-Francia-Germania-Grecia-Lussemburgo-Portogallo-PrincipatodiMonaco-Slovenia-Spagna€5,50-C.T.Sfr.6,60-SvizzeraSfr.6,80-Olanda€5,90-Inghilterra£4,70
21 agosto 2022 3 Altan
Sommario Rubriche Altan 3 Makkox 8 Riva 33 Corleone 37 Occorsio 42 Serra 98 Opinioni 30 58 72 82 COPERTINA Foto GiuliadiFrigieri Editoriale La parola 7 Taglio alto 18 Bookmarks 81 Ho visto cose 94 #musica 94 Scritti al buio 95 Noi e voi 96 Dai giovani un’idea di futuro LirioAbbate 11 Prima Pagina Il futuro a porte aperte SimoneAlliva 12 Prof precari per un pugno di punti ChiaraSgreccia 22 Neet, tempo sospeso EnzoArgante 26 Rieccoli, intramontabili e redivivi AntonioFraschilla 30 L’insegnamento di Pikachu LoredanaLipperini 34 Alla canna del gas VittorioMalagutti 38 Con i russi alle porte PietroGuastamacchia 44 La sottile linea in Nagorno-Karabakh SabatoAngieri 50 TikTok, la socialwar MargheritaAbis 54 Taiwan, la goccia cinese che logora la Ue FedericaBianchi 58 Farsi spaccare le ossa per soldi EmanueleCoen 60 Lo schianto del DC8 in antimafia EnricoBellavia 62 Idee Alla scoperta del corpo NadiaTerranova 66 In Francia va la rockstar di carta SandraPetrignani 72 Antidivo e molto altro colloquioconViggoMortensendiClaudiaCatalli 76 L’ipercosa di Lucia sul set colloquioconLuciaMascinodiFrancescaDeSanctis 78 Storie Contro gli stereotipi sull’Africa in giacca e cravatta VincenzoGiardina 82 Abusi e violenze sui bambini nella struttura modello AlanDavidScifo 86 Sul molo di Smirne. L’esodo dei greci firmato Hemingway ElenaKaniadakis 90 66 numero 33 - 21 agosto 2022 21 agosto 2022 5 Abbonati a SCOPRI L’OFFERTA ILMIOABBONAMENTO.ITSUL’Espresso fa parte in esclusiva per l’Italia del Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi Ricevi la rivista a casa tua per un anno a poco meno di €6,00 al mese (spese di spedizione incluse) Le inchieste e i dibattiti proseguono ogni giorno sul sito e sulle pagine social de L’Espresso. UNISCITI ALLA NOSTRA COMMUNITY lespresso.it @espressonline @espressonline @espressosettimanale
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Tempo di scuola, tempo di posizioni, ideologiche e no, mentre ci sarà la bagarre elettorale che cercherà di accontentare tutti, tutti scontentando. Perché è sulla scuola che si giocano le partite principali: ogni nuovo governo vuol lasciare il segno, riuscendoci purtroppo: mascherine o libertà, maturità vecchia, nuova o anzianotta, alternanza scuola-lavoro sì, no oppure un poco? Mi fermo a questi soli tre problemi, quelli che saranno i principali su cui decidere e su cui le posizioni saranno più agguerrite, almeno per ciò che riguarda i ragazzi. Che non capiscono perché ovunque hanno potuto essere liberi di girare come volevano, ma a scuola guai se si spostavano di un millimetro; che si sarebbero stufati di aspettare fino all’ultimo per sapere quale fantasiosa soluzione sarà prevista per valutarne la maturità; che non hanno ancora ben capito se stanno frequentando un istituto di formazione culturale e umana oppure un ideale periodo di gratuito apprendistato per un lavoro che quasi certamente non coinciderà con i loro sogni, le loro capacità, ciò che amano. E il peggio è che i loro docenti sono perfino più sbalestrati di loro, ma devono fingere di credere che tutto quello che san Miur (sempre che si chiami ancora così) deciderà sarà il meglio per loro, per rassicurarli e rasserenare le famiglie. Perché tutti possono avere le loro posizioni, ma il docente è l’arbitro che non decide alcunché e non deve esprimere le proprie idee apertamente per non destabilizzare. Come se davvero avesse voce in capitolo su quello che avverrà, quando, invece, potrà esprimersi solo a bassa voce e in qualche inutile sciopero. Difendendo la Pubblica istruzione qualsiasi sia il governo, qualsiasi saranno le scelte prese. Di posizione, appunto. Ma che sia fluida, fa così moderno. Istituzionale necessariamente, ma fluida, e, se possibile, sorridente.
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21 agosto 2022 7 La parola LARA CARDELLA
posizioni
8 21 agosto 2022 Cronache da fuori
21 agosto 2022 9 Makkox
Se non si mettono questi ragazzi alla guida dei processi di cambiamento, se non si aprono le porte a loro, vuol dire che si difende il vecchio mondo. In esaurimento come la politica che ha deciso di lasciare questi ragazzi fuori dalle loro porte. Nelle pagine che seguono ognuno ha scritto la sua proposta e ci ha messo non solo la firma ma anche la faccia. Ne abbiamo trovati tantissimi e siamo stati costretti a selezionarli per motivi di spazio sul giornale. Li potete vedere. Sono appassionati, disponibili a correre rischi pur di esserci. Sono un movimento politico e di opinione. E come scrive Simone Alliva: «Era da tempo che non se ne vedeva uno».
La giovane scrittrice Sabrina Efionayi, che contribuisce anche lei a questa agenda Gen Z, scrive per L’Espresso: «Troppe bocche si sono riempite delle parole “giovani” e “futuro” senza dar loro il giusto peso. Perché parlare di come noi giovani siamo il futuro, quando siamo già il presente?».
21 agosto 2022 11
Arrivano da abbiamononpubblicoconcreteloro proposteeunadisponibilitàall’impegno.Neldibattitoenellepiazze.Ipartitilievocanomaliascoltanodavvero.Noiglichiestoun’agendadigovernoperilPaesechevorremmo:daidiritti,allavoro,dallaculturaall’ambiente
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Lirio Abbate Editoriale
Dai giovani un’idea di futuro contro la politica ammuffita a generazione Z è un ciclone di studenti, attivisti, divulgatori, artisti ed elettori. Per capire chi sono e il futuro che indicano, bisogna ascoltarli, stare con loro, recepire i loro stimoli e le loro indicazioni sul clima, contro il sessismo, per i diritti degli italiani senza cittadinanza, per l’istruzione scolastica e per una migliore università. E sul lavoro. Sono ragazzi che non vivono solo virtualmente sui social, ma scendono in piazza, protestano, si impegnano praticamente per sostenere i valori e i diritti in cui credono, per aiutare gli altri, soprattutto chi sta peggio, e evitare che nessuno resti indietro. Lo fanno rincorrendo lavori precari o cercando di riparare un sistema scolastico ormai vecchio che non gli parla più: organizzano corsi di formazione, dibattiti e assemblee. Si informano e poi discutono nelle agorà che possono essere le strade o le piazze. Sono il futuro della nostra società. E le loro parole non possono volare via ed essere disperse da una folata di vento. Per questo ho deciso che ad aprire questo numero de L’Espresso fossero loro, con le loro idee, le loro parole e le loro facce. Perché questo è un giornale che guarda ai giovani e crede nei loro ideali e nei loro sogni. Ascoltandoli, ognuno per la sua parte, preparati e informati sugli argomenti che hanno approfondito, è come vivere al centro di una grande assemblea dove ti accorgi che la loro prospettiva e la loro visione migliorano la vita di tutti noi che restiamo ancorati a schemi e
L preconcetti antiquati se non retrogradi. E con questi vecchi elementi non possiamo andare avanti nella storia. Dalle loro parole è nata l’Agenda Generazione Z. Che non ha solo un valore ideale, ma è fattiva, offre idee sull’economia e lancia proposte per uno sviluppo sociale e industriale. E parla al governo che avremo. Ai politici che arriveranno dopo il voto del 25 settembre. Parla a loro.
IL FUTURO A PORTE APERTE SI DELLEDEIAGENDAAIDELCIVILISUIMPEGNANO, PARTECIPANOPIÙFRONTI:DALLELIBERTÀALLASALVAGUARDIAPIANETA,DALL’OCCUPAZIONESERVIZI.MALALORONONÈMAIQUELLAPARTITI.ECCOLEVOCIGENERAZIONEZ I giovani e il voto Manifestazione studentesca contro la legge di bilancio e per il diritto allo studio, a Roma, il 19 novembre 2021
Prima Pagina
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14 21 agosto 2022 iciamo la verità. Quando è venuta fuori, sulle colonne de L’Espresso, questa storia della generazione Z che criticava l’alleanza Pd-Azione (adesso in frantumi) la reazione standard è stata: che lagna. Che noia questi giovani che si confrontano, si aggregano, criticano e rivendicano ascolto, adesso fanno la minoranza offesa e danno manforte alla destra. E invece bisogna arrendersi e ascoltare, spesso farlo è un sollievo, rigenera. Se non si mettono questi ragazzi alla guida dei processi di cambiamento, se non si aprono le porte a loro, vuol dire che si difende il vecchio mondo. In esaurimento come questa politica. Il mondo si sgretola, brucia, si prosciuga come questa campagna elettorale, sempre meno seguita, in un Paese in cui da decenni il primo partito è quello dell’astensione. In vista delle elezioni di futuro parlano tutti. Del pericolo del futuro che verrà. Ma con chi ne discutono? Un dato: l’istituto di ricerca Swg conta sette milioni di nuovi elettori.
Il 25 settembre, infatti potranno votare al Senato, per la prima volta, anche le ragazze e i ragazzi dai 18 ai 25 anni grazie alla riforma costituzionale approvata lo scorso anno. Eppure, la campagna elettorale è disegnata su dentiere, pensioni e nomi in lista, parla solo a chi c’è adesso e ha già un posto a tavola. La politica ha deciso di lasciare questi ragazzi davanti a una gigantesca porta chiusa. Ma non ascoltare quella che viene considerata la generazione più informata e gentile degli ultimi anni, quella dei diritti e dei Fridays For Future, dei “cervelli in fuga” e degli italiani di seconda generazione è un’ipoteca sul futuro. Cosa vogliono questi giovani che hanno la capacità di riempire fisicamente le piazze, nonostante il vuoto di comunità che la politica ha generato? Eccoli. Sono molto appassionati, sono disponibili a correre rischi pur di esserci. Sono un movimento politico e di opinione. Era da tempo che non se ne vedeva uno. Manifestazione di Fridays for future a Roma il 24 settembre 2021. A destra, lo sciopero generale per il pianeta, a Torino il 15 marzo 2019
I giovani e il voto Simone Alliva Giornalista DI SIMONE ALLIVA
La politica non sta considerando la crisi climatica come una questione sociale: sentiamo parlare di finte soluzioni che non fanno altro che favorire le grandi aziende e inasprire le disuguaglianze, penalizzando le famiglie già in difficoltà e sottraendo diritti alle future generazioni.
Q *Portavoce
Fridays For Future © RIPRODUZIONE RISERVATA DI MATHIAS MANCIN* Mathias Mancin 22 anni Ambiente
È importante che queste elezioni riportino al centro la necessità di una gestione pubblica o comunitaria di quelle risorse che dovrebbero essere considerate beni comuni.
Per queste elezioni vorremmo sentir parlare di quanto i ritmi di produzione attuali stiano divorando i territori e consumando chi lavora. Nonostante viviamo in un mondo dalle risorse limitate, continuiamo a produrre senza sosta rincorrendo nuovi bisogni indotti. Per ridimensionare la produzione dobbiamo ridurre l’orario lavorativo, assicurando a tutti dei salari adeguati al costo della vita. Non sarebbe una misura solo necessaria, ma anche utile e giusta, ed è importante parlarne specialmente in questo periodo di elezioni: darebbe alle persone più tempo libero, condizione indispensabile per garantire il diritto alla partecipazione alla vita politica, che non può limitarsi a una giornata di voto, ma deve essere continuativa.Conl’avanzare della crisi climatica aumenta anche il rischio che risorse primarie come l’acqua diventino una merce rara, sempre più costosa e inaccessibile per chi non ha la disponibilità economica di acquistarla. In Italia l’acqua è gestita principalmente da 4 multiutilities che fanno profitti su una risorsa gratuita, senza investire nella manutenzione di una rete idrica al collasso (in media quasi il 40 per cento dell’acqua si perde lungo il trasporto).
21 agosto 2022 15 D’OttavioMicheleContrasto,/Tania14-15:pagineFotoSabatini,A.12-13:Pagine Prima Pagina LE SCELTE SUL RIGUARDANO L’EQUITÀ CLIMA
S
Tra queste c’è anche l’energia. Serve un piano mai visto prima per favorire le comunità energetiche rinnovabili - gruppi di cittadini che si autoproducono l’elettricità utilizzando i pannelli fotovoltaici - e dimi nuire la quota di energia che ricaviamo da fonti fossili, tra cui anche il gas. Ogni comune potrebbe ospitare almeno una comunità energetica in grado di produrre mediamente 10 MW, e in questo modo si arriverebbe a coprire il 50 per cento del fabbisogno energetico nazionale, abbassando al contempo i prezzi dell’energia e la dipendenza dall’estero I temi sono tanti, e in questi mesi ne parleremo molto e più nel dettaglio sui nostri canali. Ma la richiesta principale ai partiti in corsa - e poi al nuovo Parlamento - è che la parola d’ordine epicentro di ogni processo decisionale non sia più “profitto” ma “benessere della collettività”: non può esistere giustizia climatica senza giustizia sociale. di
ono le prime elezioni parlamentari da quando esiste Fridays For Future, e la nuova legislatura coinciderà esattamente con il lasso di tempo che abbiamo a disposizione per evitare di raggiungere il punto di non ritorno. Il carbon budget, ossia la quota di emissioni di CO2 che ci separa dall’aumento di +1.5°C, si esaurirà in meno di 7 anni.
Per risolvere il problema dell’edilizia scolastica servirebbe un piano nazionale di investimenti non solo di natura
Così,emergenziale.mentreilteatrino
Ecco perché non abbiamo alcuna speranza sul prossimo governo. Gli interessi delle forze politiche in campo non sono i nostri ma quelli di chi passa il tempo a lagnarsi di quanto i giovani non abbiano voglia di lavorare o a cercare chi sia il colpevole se non trovano schiavi da spremere, invece di garantire uno stipendio dignitoso a milioni di giovani lavoratori. Siamo anche consapevoli che in questa battaglia non siamo soli ma parte di un ingranaggio composto da tutti quei settori di lavoratori con cui ci siamo trovati già a condividere le piazze. Auspichiamo e lavoreremo a un autunno di lotta senza scendere a compromessi, per la realizzazione di uno Sciopero Generale che cambi i rapporti di forza nel Paese in modo da imporre la nostra agenda. Ci vediamo a settembre.n *Presidente della Consulta provinciale degli studenti di Torino **Rappresentante d’Istituto del liceo Galvani di Milano ***Rappresentante di Consulta del liceo Charles Darwin di Roma
16 21 agosto 2022 SPAZI, OPPORTUNITÀLA SCUOLA È DI TUTTI
Siamo gli studenti che si sono mobilitati quest’inverno, quando Lorenzo e Giuseppe, di 18 e 16 anni, sono morti durante l’alternanza scuola-lavoro. In più di 200mila eravamo in piazza, contro gli stage non retribuiti, contro la mancanza di sicurezza. Per evitare che gli studenti vengano mandati a lavorare obbligatoriamente negli stessi contesti in cui muoiono quattro persone al giorno. Ci siamo mobilitati con un programma chiaro. La risposta che abbiamo ricevuto, però, ha dell’incredibile: non solo il governo Draghi non si è espresso sulle nostre richieste, ma le “concessioni” che ci sono state fatte sono state le manganellate.
della campagna elettorale si consuma, non possiamo fare a meno di notare le contraddizioni: da un centrodestra che all’acuirsi della crisi risponde con l’introduzione di ulteriori strumenti repressivi, a un centrosinistra che si erge a paladino della democrazia, dimenticandosi di essere stato parte di una delle peggiori spirali repressive degli ultimi anni. Dov’era chi in campagna elettorale si pronuncia sulla “minaccia alla democrazia” mentre il movimento studentesco veniva brutalmente represso? Dov’era chi oggi parla di lavoro e di tutele mentre dei sindacalisti venivano arrestati per aver difeso i diritti dei lavoratori?
© RIPRODUZIONE RISERVATA DI FEDERICO BERNARDINI*, SIHEM BOUTOBBA**, MATTIA MAURIZI*** Mattia Maurizi 17 anni Sihem Boutobba 17 anni Istruzione Federico Bernardini 18 anni I giovani e il voto
Per le elezioni del 25 settembre non riponiamo speranze nelle promesse dei partiti ma siamo determinati nel far sentire le nostre voci. Consapevoli che quello che potremo conquistare dipende da quanto ci faremo sentire. Perché la nostra generazione non si rassegna al futuro imposto. Durante la pandemia sono emersi tutti i problemi del sistema scolastico. Non solo quelli che si vedono da fuori, l’abbandono degli studi, le strutture fatiscenti, la mancanza di spazi, le difficoltà del trasporto pubblico. Ma anche il precariato dei docenti, le classi sovraffollate, lo sfruttamento del personale Ata, la scuola delle competenze che chiude la formazione didattica dentro mura sterili, i Pcto di fatto obbligatori, la figura del preside-manager. Il rientro in classe avverrà in una situazione socioeconomica tragica, che metterà sempre più a repentaglio le possibilità per gli studenti degli strati popolari. Noi, invece, vorremmo un altro tipo di istruzione: gratuita, accessibile a tutti e di qualità.
Quella di oggi nel nostro Paese è un’università incentrata interamente sul merito, dove regna la competizione e la conquista dei pochi servizi a disposizione. Dove i numeri chiusi ne rendono difficile l’accesso, l’assenza di alloggi ostacola i fuorisede, le poche borse di studio filtrano chi può frequentarla. A tutto questo si somma il costo della vita in continuo aumento e la nostra precaria condizione psicologica. Insomma, l’università di oggi non è per tutt* ma solo per chi può permettersela, per chi già proviene da condizioni familiari privilegiate.
Studenti
© RIPRODUZIONE RISERVATA DI EMMA RUZZON* Emma Ruzzon 22 anni Prima Pagina
contro l'alternanza scuola-lavoro, a Roma il 4 febbraio 2022
21 agosto 2022 17 SabatiniA.Foto: SENZA CASE NÉ SERVIZI UNIVERSITÀ ELITARIA L’
Per quanto riguarda il rapporto tra mondo dell’istruzione e del lavoro, la Rete degli studenti medi ha una posizione chiara sul Pcto dopo le mobilitazioni di quest’anno: appurata la sua inefficacia, il fulcro deve tornare nell’istruzione stessa, non concentrandosi nell’ingresso nel mondo del lavoro ma nella conoscenza effettiva di cosa questo mondo sia e di quali sono i nostri diritti. del Consiglio degli studenti dell’università di Padova
La campagna “Chiedimi Come Sto” promossa da Udu, Rete degli studenti medi e Spi Cgil, ha tradotto in dati questa condizione, ponendo alcune soluzioni concrete: potenziare i servizi psicologici all’interno di scuole e università e istituire la figura dello psicologo di base.
Pubblica in teoria ma elitaria nella pratica. Vivere da fuorisede è difficile: i prezzi degli appartamenti stanno aumentando mentre i posti letto nelle residenze pubbliche diminuiscono, portando studentesse e studenti ad abbandonare gli studi perché non possono permettersi di vivere fuori casa. Serve una vera politica della casa che faciliti l’indipendenza delle nuove generazioni. La casa deve essere un diritto e non un ostacolo. Servono più strutture studentesche, a prezzi fissi e calmierati che non oscillino seguendo le regole di mercato, possibilmente ricavate riqualificando edifici già esistenti.
Q *Presidente
In teoria lo strumento principe per permettere a chi non ha mezzi di studiare rimangono le borse di studio, ma spesso i fondi non sono abbastanza per garantirle a chi ne ha diritto. Inoltre, le borse vengono erogate tramite il criterio del merito. La borsa viene tolta a chi non soddisfa un certo numero di crediti, creando spesso un circolo vizioso; per cui chi è in difficoltà è costretto a lavorare, a faticare di più per studiare, quindi a rischiare di perdere la borsa: e così fino alla fine del percorso, per chi ci arriva, per quello che dovrebbe essere un diritto ma diventa una gara a ostacoli, con ricadute psicologiche a volte devastanti. Vorremmo che l’intero sistema “meritocratico” dell’Università venisse ripensato, vorremmo che le condizioni di partenza e le differenze dei singoli venissero prese in considerazione. Vorremmo che la salute psicologica venisse considerata quale ciò che è: un reale problema, da affrontare come tale e come diretta conseguenza, tra le altre, del mondo iper competitivo e individualistico che è l’università, così come la scuola, oggi.
istruzione rimane la grande assente nel dibattito elettorale di oggi, nonostante si parli, più o meno strumentalmente, di futuro e di giovani. Questo perché glissare e meglio che affrontare il problema: l’Italia è al penultimo posto per laureat* in Europa, un fatto esemplificativo.
18 21 agosto 2022 INCENTIVI A PIOGGIA FABBRICA DI PRECARI
DI FERDINANDO PEZZOPANE* Ferdinando Pezzopane 20 anni I giovani e il voto Lavoro TAGLIO ALTO MAURO BIANI
ziare come questa sia basata sul lavoro povero e precario: 3 milioni 170 mila i dipendenti con contratto a termine, il valore più alto dal 1977. Nel primo trimestre 2022, il 33 per cento dei contratti a tempo determinato è risultato essere inferiore a 30 giorni, con addirittura un 10 per cento della durata di un solo giorno. I contratti a tempo determinato sono diventati un elemento strutturale della nostra economia. Una trappola in cui rischiano di cadere migliaia di giovani. Così non è difficile comprendere la frustrazione di tanti il cui orizzonte di pianificazione di vita si riduce a essere scandito da contratti a tempo determinato, chiudendo la porta a ogni progetto più lungo di 6 mesi. Quando va bene. Una situazione tragica sul piano sociale e umano, che dovrebbe spingere i partiti a prendere impegni seri. Una possibile soluzione viene dalla Spagna, dove l’ultima riforma del lavoro, ha ridotto le tipologie contrattuali, aumentato il costo del lavoro sui contratti a tempo determinato inferiori ai 30 giorni e imposto alle aziende di assumere i lavoratori con 18 mesi di contratto a tempo determinato cumulato, pena il pagamento di multe salate. Altre misure necessarie sarebbero: il salario minimo legale - non come proposto da Lega e Pd, che ipotizzano un salario minimo contrattuale tarato sui contratti collettivi, in quanto una misura così pensata legittimerebbe i contratti con salari bassi sottoscritti dai sindacati - ma universale, come in Germania. E un piano straordinario di assunzioni all’interno della Pubblica amministrazione, la cui età media è di 50 anni e la cui percentuale di under 30 è inferiore al 3 per cento. È ora di iniziare a parlare seriamente di lavoro e mettere in soffitta, definitivamente, la stagione della precarizzazione . Q per la giustizia sociale e per il clima RISERVATA
S
embra che quasi tutti i partiti stiano rispolverando il solito leitmotiv in materia di lavoro e giovani. Una retorica che si materializza in proposte di decontribuzione per il lavoro degli under35 e premialità varie. Ma già oggi le imprese godono di un vasto sistema di incentivi per l’assunzione dei giovani, tradottosi nel solo 2020 in 20 miliardi di euro erogati dal governo per 22 incentivi. Giusto per citarne alcuni: esonero giovani, decontribuzione Sud, incentivo studenti under30. Il proliferare di un’intera galassia di formule che però non ha portato alcun miglioramento del tasso di disoccupazione giovanile, che a giugno era del 21 per cento. Un dato solo apparentemente in discesa perché sono aumentati gli inattivi. I partiti dovrebbero quindi spiegare secondo quale stravagante teorema aumentando ulteriormente le decontribuzioni e gli sgravi fiscali alle imprese aumenterebbero le assunzioni. A maggio, l’Istat ha certificato segnali di ripresa in relazione al numero di occupati. È però importante eviden-
*Attivista
© RIPRODUZIONE
Q *Attivista
21 agosto 2022 19 Contrasto/TaniaFoto: SU VITE E DIRITTI NON SI NEGOZIA
a campagna elettorale è già iniziata e ho il presentimento che la pelle mia e della comunità Lgbtqi+ alla quale appartengo sarà di nuovo messa sul piatto della politica populista e da talk show. Presto si ricomincerà a parlare della teoria del gender, dell’utero in affitto, della lobby gay, di quanto siamo pericolosi per la società. E attraverso questi discorsi, attraverso la violenza di queste parole, si spianerà la strada a chi ci prende a calci per strada, anche solo perché siamo “troppo vistosi”.
© RIPRODUZIONE RISERVATA DI LEONARDO MORAGLIA* LeonardoMoraglia 23 anni Manifestazione di Fridays for future a Roma il 24 settembre 2021 Prima Pagina Diritti
Oggi vorrei chiedere alla politica un difficile cambio di passo: siamo cittadin* che meritano di essere riconosciut* e trattat* come tali. Pretendiamo da voi il rispetto e riconoscimento delle nostre esistenze, troppe volte messe in pericolo e in difficoltà da una politica menefreghista. Il mio auspicio è che nella prossima legislatura ci sia uno sforzo per approvare una legge seria contro omobitransfobia, misoginia e abilismo, un atto purtroppo necessario in un Paese dove solo nel 2022 abbiamo già il bilancio di 66 aggressioni (tra cui un omicidio e quattro aggressioni plurime) nei confronti della nostra comunità. Fortunatamente il mio coming-out in famiglia e con gli amici non mi ha mai provocato nessun episodio di odio ma non sono tutti fortunati come me. La maggior parte degli episodi di violenza nei nostri confronti non è nemmeno segnalata alle forze dell’ordine e resta rinchiusa nel privato, in contesti familiari dove il pregiudizio verso i figli supera perfino l’amore. È ovvio che l’approvazione di una legge non cambierà da un giorno all’altro il triste clima di omobitransfobia presente in questo Paese ma è necessario che venga dato un segnale e soprattutto un deterrente per tutti coloro che ancora oggi pensano di far restare impunite le proprie violenze. Voglio poi lanciare un appello personale, caro all’intera comunità giovanile Lgbtqi+. Noi tutti ci siamo vergognati per la gogna mediatica che ha subito il ricordo di Cloe Bianco, pertanto, vi preghiamo di evitare di riferirvi alle persone transgender con il loro nome di nascita ma con il nome da loro scelto. E più in generale vi chiediamo di rispettare l’esplorazione dell’identità che tante persone della mia età attraversano, di ascoltarle e accogliere e sostenere la loro autodeterminazione. A voi classe politica e a voi tutti giornalisti. Raccontando le nostre storie, troppe volte di morte e violenze, date almeno alle persone trans* la dignità di essere ricordate con il proprio nome. Questo sarebbe un grande, importantissimo, passo in avanti. La nostra dignità di esistere è importante, fondamentale: oltre a tutte le leggi necessarie che da sinistra a destra avete rinviato e svenduto per strette di mano, pretendiamo di veder riconosciuta la nostra dignità, quella che nel 2022 abbiamo vista calpestata in Senato dai festeggiamenti per l’affossamento di una legge che parlava di noi. Quante volte ci avete preso di mira e venduto per la vostra propaganda per poi far finta di stare dalla nostra parte durante le elezioni. Noi giovani Lgbtqi+ siamo persone orgogliose, cresciute nello spirito del Pride. Le nostre vite non sono oggetto di trattativa: sui diritti e sulle vite delle perso ne non esiste mediazione. È una questione di dignità. Arcigay del Movimento imperiese arcobaleno
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© RIPRODUZIONE RISERVATA DI SABRINA EFIONAYI* EfionayiSabrina 23 annni Sciopero globale per il clima del 29 novembre 2019 a Roma Cultura
20 21 agosto 2022 Prima Pagina I giovani e il voto ALL’ENERGIA NUOVA OCCORRONO SPAZI
roppe bocche si sono riempite delle parole “giovani” e “futuro” senza dar loro il giusto peso. Perché parlare di come noi giovani siamo il futuro, quando siamo già il presente? Troppe certezze negli ultimi anni sono crollate, siamo una generazione che forse nelle grandi promesse non ci ha mai creduto e che ha voglia di riempire gli spazi che le spettano. Soprattutto abbattendo quel muro ipocrita che ci ha sempre tenuto lontani dalla cultura come se non fosse anche nostra, come se non ci fosse mai interessata abbastanza. Basta pensare che le giovani generazioni non leggano, non vadano a teatro, studino di meno o non siano interessate agli eventi culturali. Molti di noi, me compresa, sull’ideale di cultura ci sta costruendo il proprio presente e il futuro di questo Paese a piccoli passi. Al prossimo governo chiediamo concretamente di credere nel mondo della cultura dei giovani, in tutte le sue manifestazioni e contaminazioni e, soprattutto, nella sua evoluzione. Meno barriere tra noi e il mondo della cultura. Necessitiamo di un ponte che ci permetta di accedere a nuovi supporti dove divulgare le diverse forme di espressione artistica, con maggiore concretezza nell’investire il nostro futuro nella cultura. È importante poter coinvolgere gli artisti in iniziative, eventi, mostre e progetti. Non dovremmo mai essere slegati dal futuro del Paese, soprattutto quando parliamo di un Paese che deve parte della sua fama alla cultura che lo impregna. Perché non permettere anche ai giovani di poter contribuire con le loro idee? Abbiamo diritto ad un ponte sicuro, che ci permetta di collocare le nostre arti nel Incoraggiarefuturo.nuove opportunità culturali. Offrire una molteplicità di occasioni, credere in maniera reale nelle capacità della mia generazione, che grazie ai mezzi di diffusione che possiede ha l’ingegnosità di attivarsi e farsi conoscere a gran voce. Fidarsi dei nuovi orizzonti della conoscenza: negli ultimi anni abbiamo avuto modo di farci avanti, ad esempio, nell’ambito letterario con un nuovo approccio, utilizzando i media non solo come metodo promozionale ma anche per creare rete, incentivare i nostri contemporanei alla lettura e, ancor di più, alla scrittura. Fare in modo che presentare idee e spunti diventi accessibile a tutte le nuove menti creative. Centri di aggregazione culturale. Puntare su nuovi spazi e ridimensionare quelli vecchi, anche mediante finanziamenti per incarichi e strutture proposte e realizzate per i giovani. Non abbiamo bisogno che qualcuno ci avvicini al mondo del teatro, abbiamo bisogno di un teatro. Un teatro che crei occupazione e conoscenza, che ci aiuti a superare la povertà educativa che può aggirarsi tra noi. Tutte le carte in regola per farlo le abbiamo, quello di cui abbiamo necessità sono gli spazi e la voglia del Paese di credere che la cultura italiana possa avere anche nuovi nomi e nuove forme. Non sono richieste impossibili, ma lecite. Ci crediamo fino in fondo e siamo scrittori, artisti, attori, esponenti del la nuova e vecchia cultura italiana pronti a metterci in gioco se ci saranno dati i giusti strumenti e le giuste opportunità in maniera equa. Vogliamo continuare a creare cultura, ottenendo il rispetto di chi sa di essere un pezzo fondamentale per il motore di questo Paese. Q
*Scrittrice, autrice del libro "Addio, a domani" (Einaudi, 2022)
22 21 agosto 2022 Il miraggio della cattedra LAVORANO GRATIS E IN CAMBIO GUADAGNANO POSIZIONI IN GRADUATORIA. È LA SCUOLA IN NERO TRA ISTITUTI PARITARI E DIPLOMIFICI PER UN PUGNO DI PUNTI PROF PRECARI DI CHIARA SGRECCIA
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21 agosto 2022 23 ritardi nella pubblicazione delle graduatorie. Come aveva già segnalato L’Espresso il 31 luglio 2022 e come testimoniato dai racconti dei docenti pubblicati su lespresso. it. Così, a settembre molte cattedre resteranno vuote. E ci sono insegnati che sebbene abbiano superato le prove del concorso rimarranno precari un altro anno. Tra questi anche molti giovani che aspettano una possibilità per accedere all’insegnamento da quando si sono laureati. Visto che, data la poca esperienza in aula, nelle graduatorie per le supplenze hanno punteggi bassi che raramente permettono loro di essere chiamati dalle scuole e quindi di lavorare. Succede soprattutto per le classi di insegnamento più numerose, nel sud Italia dove c’è un consistente squilibrio tra gli iscritti in graduatoria e l’effettiva necessità di docenti che coprano supplenze a lungo termine.Inquesto modo l’ultima speranza che rimane a chi vuole entrare nella scuola è la Mad. Cioè la messa a disposizione, una candidatura spontanea con cui ogni insegnante può presentare il curriculum e offrire la disponibilità per assunzioni temporanee negli istituti che individua. E se le scuole pubbliche rispondono con difficoltà perché devono attendere l’esaurimento delle graduatorie ordinarie, le paritarie sono più propense a contattare direttamente i docenti che in questo modo bypassano i limiti e le tempistiche delle liste dei precari e accumulano punteggio valido anche per accedere agli istituti statali. «Avevo mandato circa un centinaio di Mad ma l’unica scuola che mi ha richiamato è quella per cui ho lavorato gratis fino allo scorso giugno», racconta Marco, nome di fantasia per un docente precario di trent’anni, laureato in filosofia, per proteggerlo da eventuali ritorsioni. Si riferisce a un istituto paritario in provincia di Napoli che presentandosi come «scuola giovane e con poche risorse», chiede al personale docente di lavorare senza percepire lo stipendio. Marco ha firmato un contratto per una retribuzione di 16 euro l’ora che non ha mai ricevuto. Stesse condizioni anche per gli altri insegnati della scuola. «Una ventina circa. Infatti, c’è un ricamavorano gratis pur di prendere punti. Sono i docenti precari italiani costretti a sopportare condizioni umilianti a causa di un sistema di reclutamento che non funziona da anni. Perché, per insegnare nelle scuole statali o si accumula punteggio per scalare le graduatorie dei precari oppure si vince un concorso. Ma quello ordinario per la scuola secondaria, bandito nel 2020, iniziato a marzo 2022, è il primo dal 2012 per i docenti non abilitati. E per alcune classi di insegnamento è ancora in corso a causa delle difficoltà nel comporre le commissioni, errori nelle prove scritte, L Primo giorno di lezioni in presenza, dopo la lunga parentesi del lockdown, Alessandroliceo scientificoalVolta di Milano Chiara Sgreccia Giornalista Agf/MarfisiN.Foto:
molto basso: c’è chi racconta di aver lavorato per 50 euro al mese a fronte di 6 ore di insegnamento alla settimana. Chi dice di aver dovuto restituire perfino quelli. Perché sono serviti «per far figurare il pagamento» e affinché ci fosse una somma minima sui cui gli istituti potessero versare i contributi. Vanessa racconta di essersi sentita dire: «Hai visto? Ti abbiamo fatto avere anche un premio», a proposito dell’indennità Covid-19 che ha percepito in seguito al decreto legge Cura Italia, a sostegno dei lavoratori. Stessa storia per chi segue gli studenti durante l’esame di Stato, «è fortunato perché può beneficiare dei fondi erogati dal ministero dell’Istruzione, come se fossero un regalo». Dopo un anno di lavoro gratis. Che i docenti possono permettersi o perché chiedono alle famiglie di essere sostentati anche dopo la fine degli studi, o perché nelle ore libere dall’insegnamento svolgono altri lavori, in nero, oppure facendo attenzione a non su-
Un’insegnante alla cattedra al liceo artistico Ripetta di Roma. A destra, studenti al ritorno in classe al liceo Visconti di Roma
24 21 agosto 2022 Il miraggio della cattedra bio incredibile. A volte per la stessa materia si susseguono due o tre insegnanti nello stesso anno. Senza nessuna cura per la formazione degli studenti. Tanti giovani ma non solo, anche professionisti più avanti con l’età che decidono di dedicarsi all’insegnamento». Che accettano di lavorare gratis qualche anno nelle scuole paritarie, perché accumulare punteggio è l’unico modo per arrivare alle statali. Realizzare il sogno di diventare un insegnante. Percepire uno stipendio regolare tutti i mesi. «Ferie pagate, malattia e i benefit di cui godono i docenti della scuola pubblica in quanto dipendenti statali», dice Luca, un altro docente precario di poco più di trent’anni che ha accettato di insegnare gratis in un istituto paritario di Palermo.«Èstata un’esperienza terrificante. Dopo aver mandato la Mad mi hanno chiamato per un colloquio. Mi sono trovato in uno stanzone con altri docenti che come me speravano di essere selezionati per l’insegnamento. Ci hanno subito detto che non ci avrebbero pagato: “Non ci sono fondi”, aveva dichiarato, con tono che pretendeva di essere cupo, il preside. Alcuni sono andati via, pochi. Tra quelli rimasti sono stato scelto per insegnare italiano e storia. Non ho notato particolare interesse per le mie competenze, solo la necessità, nello sguardo e nei comportamenti del preside, che accettassi l’incarico.
Perché se avessi declinato avrebbe dovuto contattare un altro al mio posto». A Luca è stata affidata una quinta classe, un ruolo di responsabilità per un docente che invece era alle prime esperienze, appena arrivato in una scuola nuova: «Ho terminato l’anno con un livello di stress altissimo. Sia perché lavorare senza percepire lo stipendio comporta delle dinamiche che, seppur inconsciamente, ti rendono meno disponibile nei confronti degli studenti, sia per la consapevolezza che mi stavo piegando a un sistema illegale. Ma non avevo alternative». Luca, dopo due anni di lavoro non pagato negli istituti paritari, è riuscito a scalare abbastanza la graduatoria da aver accesso alla scuola pubblica. A quanto spiega, e da quanto emerge dalle testimonianze dei docenti arrivate a lespresso.it, «è come se fosse una gavetta. Che chi sceglie di voler fare l’insegnante deve accettare in silenzio». Per i primi anni «si deve» lavorare gratis o ricevere uno stipendio
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Latella oltre ad aver raccolto le testimonianze di tanti docenti che pur di accumulare punteggio sono costretti ad accettare condizioni di lavoro penose in un dossier che ha consegnato agli ex ministri dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza e Stefania Giannini, aveva mappato le segnalazioni degli insegnanti e creato una cartina che evidenzia quali sono le scuole paritarie note per non pagare o sottopagare i lavoratori. Eppure, nonostante le numerose segnalazioniche aveva raccolto tra il 2011 e il 2014, non è successo nulla. Le scuole paritarie, secondo gli ultimi dati del ministero dell’Istruzione, sono più di 12 mila, con oltre 800 mila studenti frequentanti, tra scuole per l’infanzia, primarie, medie e superiori. E ricevono ogni anno fondi dallo Stato per circa 500 milioni di euro. La maggior parte di queste paga correttamente il proprio personale ma resistono anche quelle che si arricchiscono sulle spalle dei precari. Che in pochi casi denunciano. In molti subiscono. Perché temono che se venisse rivelata l’illegalità su cui gli istituti basano la propria sopravvivenza anche i punti, 12 al massimo ogni anno, per cui hanno faticosamente lavorato, fondamentali per scalare le graduatorie, verrebbero annullati. Ma non tutti si piegano. Per alcuni docenti la differenza tra gavetta e sfruttamento è netta e chiara. Come per Rosa che vorrebbe insegnare inglese e spagnolo alle scuole medie o superiori. Ha preferito cambiare regione invece di accettare condizioni di lavoro umilianti. Si è trasferita in Abruzzo e lo scorso anno ha lavorato come assistente di laboratorio in un istituto alberghiero. «Non ho ancora raggiunto il mio obiettivo ma con l’impegno ci arriverò». Quando la preside di un istituto paritario in Campania con cui era a colloquio le ha detto: «Noi però non diamo alcun tipo di retribuzione, solo punteggio», lei ha risposto: «Io ho pagato per laurearmi. Ho fatto sacrifici per studiare. Non vengo a lavorare gratis per la bella faccia che avete». E se n’è andata. Fiera di aver dato il suo contributo per opporsi a un sistema marcio. Che dovrebbero essere le istituzioni a demolire, mentre da anni sopravvive indisturbato.
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perare il limite orario massimo consentito dallaComelegge.spiega Paolo Latella, insegnante da quarant’anni, ex sindacalista, che si è dedicato a lungo a raccogliere le testimonianze dei docenti sfruttati dagli istituti paritari: «Quello che emerge è inquietante. Moltissime scuole del sud, alcune del nord, alcune scuole religiose non pagano gli insegnanti. Il problema parte da una legge del 2000 che ha equiparato le scuole paritarie alle pubbliche. Che così ricevono finanziamenti e sussidi dallo Stato. Avrebbe dovuto avere conseguenze positive, riordinare il sistema scolastico nazionale mettendo dei paletti nella definizione di “scuola paritaria”. Ma di fatto ha aperto all’illegalità anche perché mancano gli ispettori che certifichino la regolarità degli istituti». Così, visto che a differenza delle scuole pubbliche, quelle paritarie non assumono gli insegnanti prendendo in considerazione le graduatorie ma attraverso contatti diretti con il docente con cui contrattano compenso e condizioni lavorative, per tanti giovani alle prime armi diventano l’unica via di accesso all’insegnamento.
Q © RIPRODUZIONE RISERVATA L’ALTERNATIVA È VINCERE SUBITO UN CONCORSO CHE ASSEGNA UN POSTO FISSO, MA LA PRIMA SELEZIONE ATTESA DAL 2012 È ANCORA IN CORSO
Agf/A.SerranòContrasto,/L.SantiniFoto:
Le incognite NON STUDIANO E NON LAVORANO, UN QUARTO DI GIOVANI SPERIMENTA L’ASSENZA DI PROSPETTIVE. IGNORATI DAI GOVERNI, FUORI DAL CIRCUITO TEMPO SOSPESO NEET DI ENZO ARGANTE 26 21 agosto 2022
Contrasto-VenturiR.Foto: iovani che non studiano e non lavorano, senza un progetto, senza una strada da seguire, un obiettivo da puntare. Oltre 3 milioni tra i 15 e i 34 anni fuori dall’asse produttivo economico e sociale proprio nell’arco di tempo in cui si costruisce il proprio futuro. L’inglese li definisce Neet (not in employment, education or training) e sono la spina dorsale del Paese che verrà, la classe dirigente e forza propulsiva del Paese. Che è in stallo. Gli ultimi dati Istat (2021) confermano che il fenomeno riguarda il 24 per cento dei giovani. Uno su quattro.Unnumero in crescita rispetto al 2020: poco meno di 100 mila ragazzi sono usciti guaglianzeistituzioni.scuolasocietàcreta.nostricentorazionigravaprogettogiovanileeneunpuntogrammadovrebbezionidelpestosopuntatecatimodapercorsilavorativiodistudiosolonell’ul-anno.IldatopeggioreinEuropa.Èunerroredisistema,unapesanteipo-sulfuturodell’Italia.Ineetsonoladiunicebergchegalleggianeltem-maredell’istruzione,dellavoroemercato.Congrandiincognite,istitu-indecise,pocheideeeconfuse.Nonesserciproclamaelettoraleopro-digovernochenonmettaalprimoall’ordinedelgiornolanecessitàdiinterventoorganico.Einvecenessunoparla,senonsporadici,generici,gratuitistrumentaliriferimentiall’occupazionecheèsoloavalledelproblema.«Ilfenomenofaemergerel’assenzadiundivitaediopportunitàchesiag-nellamancanzadiattritofralegene-chenonsiincontranopiù.Il24perdineetvuoldirecheunquartodeigiovaninonhaunaprospettivacon-C’èunaenormeresponsabilitàdellachelihaunpo’abbandonati:lamaanchelafamiglia,lapolitica,leComplicelapandemialedise-siaccentuanosemprepiù:ivin-citorivinconotutto,iper-dentiperdonotutto.Lascuolaèpuntochiave,ilsoggettoingradodiimpri-mereunaaccelerazioneeunasvolta:bisognaaiutarelascuolaadaiutareiragaz-zimasidevonocrearelecondizionipoliticheed
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Una neolaureatagiovanein attesa di una chiamata per uno stage all’estero G Enzo Argante Giornalista 21 agosto 2022 27
Campaniaparteallarmante 66Invirtuosi:siaquanto(27,6).MacedoniaPercapirelasituazionecompromessaeccoinumerideiPaesipiùNorvegia9percento,SvizzeraePaesiBassiaddiritturaal7.Italia èneetil45percentodeiragazzitrai15edi19anni;unpercentodeigiovanitrai30edi34anni.LamaggiorrisiedealSud.TristeprimatoperlaSicilia,30,3percento;aseguireCalabriacon28,4 econ27,3 (fonteIstat): 1,7milionisonodisessofemminile,l’ItaliahaunterzodelledonnedisoccupatedituttaEuropa.SecondounaricercaOcse (2021),legiovanidonnehannomenoprobabilitàditrovareunimpiegorispettoailorocoetaneiuomini.NelnostroPaesesoloil30percentodelledonnetrai25ei34anniconundiplomadiistruzionesecondariadiprimogradohatrovatounimpiegonel2020,rispettoal64 degliuomini.Nel2020haregistratoilcalopiùelevatoneltassodiattivitàfemminile:persiquasi2puntiafrontediunasostanzialestabilitànellamediaUe. SOPRATTUTO DONNE E DEL SUD 28 21 agosto 2022
«Occorre affrontare il tema dei giovani con realismo, per cercare risposte concrete, senza esimerci dall’interrogarci su quello che sta succedendo: perché la mancanza di dialogo tra le generazioni e il disagio giovanile sempre in aumento? Perché il reale è diventato brutto, pericoloso o inutile, fino a preferire la fuga dalla realtà? Dobbiamo chiedercelo, nel momento in cui vogliamo pianificare il futuro. C’è bisogno, infatti, di speranza e di visione, altrimenti si resta chiusi solo nel presente. Il Covid-19 ha accentuato tante fragilità, in particolare nel mondo giovanile, come un liquido di contrasto. Dalla nostra indagine sul rapporto tra giovani e Covid-19 e tra giovani e lockdown (realizzata tra gli studenti delle scuole dell’arcidiocesi di Bologna, ndr) emerge che il 76 per cento degli studenti vede gli insegnanti “distaccati e ostili” e che “non si preoccupano” di loro. Sono situazioni che ci devono interrogare e che ci chiedono di cambiare e di riuscire a trovare risposte credibili e vere: siamo chiamati ad offrire reali occasioni di crescita umana e proporre situazioni e contesti dove siano la loro positività e forza ad essere protagonisti», dice il cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana. Le istituzioni, e quindi la scuola, le università, mancano di progettualità (visione) e di strutture per agevolare l’orientamento allo studio e al lavoro. Non ci sono canali di gestione delle informazioni che aiutino a prendere le decisioni migliori. «I giovani che hanno deciso di non studiare né lavorare devono essere in primo luogo ascoltati con attenzione e disponibilità perché si possano proporre iniziative efficaci che partano dalla conoscenza
delle motivazioni e del loro stato d’animo», è il parere di Cristina Messa, ministro dell’Università e della Ricerca: «Il grande lavoro, poi, credo debba essere fatto sull’orientamento. Orientare non vuol dire solo elencare le possibilità di studio esistenti o le figure professionali richieste dal mondo del lavoro. Orientare vuol dire consentire ai ragazzi di conoscere il valore della formazione superiore in una società della conoscenza, di fare esperienza di didattica attiva, partecipativa e laboratoriale in linea con il loro modo di apprendere, significa essere accompagnati nell’autovalutazione e nella verifica della coincidenza tra le conoscenze e competenze che si possiedono e quelle richieste per il percorso di studio o per il lavoro di interesse».
Strutture formative più attive nei processi di orientamento, certo, ma soprattutto nei collegamenti con le imprese senza le quali il cerchio della progettazione sociale non si può chiudere. Ed è qui che si capisce la differenza fra occupazione e occupabilità. «Ilsaldo negativo tra giovani italiani che scelgono di costruire il loro percorso professionale all’estero e giovani stranieri che scelgono l’Italia per lavorare, è sempre più ampio», commenta Alberto Pirelli, presidente della Fondazione Sodalitas, l’i-
Le incognite economiche per raggiungere questo obiettivo: e invece in Italia abbiamo chiesto sempre di più alla scuola fornendo sempre di meno risorse su cui contare», commenta il filosofo più citato al mondo, Luciano Floridi, da Oxford University. Non a caso a registrare gli indici neet più bassi sono proprio quei Paesi che investono molto sulle strutture educative, che hanno piena consapevolezza del fatto che i giovani di oggi, gli elettori di oggi, sono il futuro prossimo di un Paese e che spendere di più in questo momento vuol dire spendere di meno domani.
L’Italia con il 24 per cento è il Paese in Europa dove sono più numerosi. Segue la Grecia con il 21 per cento e la Bulgaria con il 19 per cento. Magra consolazione, c’è chi sta peggio appena fuori dalla Ue: Turchia (33,6 per cento), Montenegro (28,6),
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Illuminante l’esempio della Federico II di Napoli. «Siamo in un Paese dove la Scuola segue modelli educativi obsoleti e totalmente disconnessi dalle esigenze formative attuali sia in termini culturali e di competenze acquisite sia di capacità relazionali», dice Giorgio Ventre, fra l’altro Direttore scientifico della Apple developer academy, una iniziativa di formazione nell’area della Digital transformation unica in Europa: «L’Università è in una situazione migliore ma comunque non è in grado di offrire formazione al di là dei corsi di laurea e le manca una modalità più flessibile e più vicina al mondo del lavoro e delle professioni. L’esperienza che abbiamo fatto a Napoli con le Academy è stata proprio quella di affiancare alla solida formazione accademica una preparazione modulare in collaborazione con le aziende, dove gli studenti sono protagonisti ed apprendono in primo luogo con l’esperienza pratica. In questo modo crediamo di essere riusciti ad offrire ai ragazzi il meglio dei due approcci: sei edizioni, 2.200 ragazzi formati, 30 per cento provenienti dall’estero, 30 per cento donne».
ContrastoVenturi-R.Contrasto,-MacccottaL.Foto:
niversità-imprese, quindi aggregare e gestire dati per favorire incontro domanda-offerta di lavoro. Chi: è un problema politico e istituzionale da affrontare in stretta collaborazione con le imprese.
IN ATTESA Cecilia, laureata in Filosofia, in attesa di lavoro. dopomedesimaritrovatasigraphic designer,Maria,nellacondizioneglistudi agosto
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Un segnale importante da Napoli. Combinato con Il Pnrr figlio del Covid-19 e finanziato alla grande a livello europeo, potrebbe incidere su questa tragica tendenza? Processo lento e farraginoso, e adesso anche controverso, il Piano rimane una strada maestra percorribile. Elezioni ed eletti permettendo. E attenzione. La mancanza di orientamento si traduce in fuga dalla realtà (o se va bene all’estero), ma anche in deviazioni e fragilità: secondo un recente studio pubblicato sul British journal of psychiatry, il disagio degli adolescenti con diagnosi da disturbi psichiatrici, soprattutto psicosi e autismo, sarebbe collegato in numerosi casi proprio a situazioni di lunga assenza da percorsi scolastici, lavorativi o di formazione.Ancheper questo contrastare il fenomeno dei neet deve essere la priorità assoluta per qualsiasi Governo.
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niziativa di Assolombarda che aggrega le imprese impegnate nei processi di responsabilità sociale: «Nondimeno 400mila posti di lavoro rimangono scoperti per mancanza delle competenze necessarie, anche se in Italia c’è una delle dinamiche più positive nella creazione e crescita delle startup. Il tema dunque è che il mondo del lavoro, che attraversa un momento altamente evolutivo, e il mondo dell’istruzione sono ancora troppo distanti. Realizzare una piena integrazione è fondamentale: noi per esempio, siamo presenti nelle scuole di 16 Regioni italiane con un programma di formazione e accompagnamento che coinvolge migliaia di studenti, sviluppiamo ogni anno in Italia un progetto europeo che sensibilizza i giovani sul valore degli studi Stem anche per superare il pregiudizio di genere purtroppo ancora radicato, alleniamo nei giovani le competenze e l’attitudine all’imprenditorialità, coinvolgiamo imprese e scuole in laboratori per la co-progettazione di partnership innovative».Comeagire, dunque, in quale ambito e soprattutto: chi sono gli attori principali a cui chiedere conto e ragione di una situazione che si sta radicalizzando? Come: innovazione nella progettazione sociale. Ambito: allineamento dei piani scuola-u-
NESSUN RINNOVAMENTO
ella campagna elettorale del nostro scontento stanno ritornando tutti i volti del passato berlusconiano che sembravano ormai andati via. Molti in verità non erano mai usciti di scena veramente, soprattutto dal Parlamento e dalla politica, ma come un deja vù che dura da trent’anni in questa tornata elettorale ambiscono a ruoli di primo piano e non più solo da macchiette e urlatori in fondo innocui perché fuori dai governi. Invece nell’Italia a nascite zero, e classe dirigente immobile, il centrodestra trainato da Lega e Fratelli d’Italia con il vento in poppa nei sondaggi non è stato capace di avviare un vero rinnovamento. Il risultato è che siamo E QUALCHE RITORNO. E MOLTO DEL
nel 2022 ma sembra di vivere una campagna elettorale degli anni Novanta o dei primi anni Duemila: Silvio Berlusconi con la sua scrivania; Giulio Tremonti e le sue ricette economiche; il nome di Umberto Bossi, anche se senza canottiera in mostra; gli urlatori seriali Maurizio Gasparri e Ignazio La Russa; in Sicilia rispunta fuori perfino Renato Schifani come governatore, mentre i dem ricandidano gli eterni presenti del Parlamento Pier Ferdinando Casini e Emma Bonino, anche loro stampelle del berlusconismo negli anni dorati e vincenti. Agli italiani lo spettacolo che offre la politica è lo stesso o quasi del 1994, solo che invece di essere bombardati dalle tv del Biscione adesso vengono impallinati anche dalle pillole quotidiane sui social con tanto di gag sul «non votare i comunisti», che ormai fa N
Antonio Fraschilla Giornalista
STESSE FACCE
DI ANTONIO FRASCHILLA
30 21 agosto 2022 Verso il voto
VINTAGE. LA CAMPAGNA ELETTORALE SEMBRA QUELLA
1994. A PARTIRE DAI PROTAGONISTI EINTRAMONTABILIREDIVIVI RIECCOLI
solo Berlusconi ma questo serve forse a ricreare fino in fondo quel clima. Tutti stanno tornando alle tolde di comando, almeno ci sperano, e con loro tanti vecchi arnesi che abbiamo conosciuto in questi trent’anni.
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ImagesGetty/MasielloA,(2),AgfFoto:
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L’ultimo colpo di teatro che riporta davvero le lancette indietro di decenni è la possibile ricandidatura di Umberto Bossi a Milano. Il figlio detto il Trota (anche per lui un ritorno sotto la luce dei riflettori) ha già richiesto al Comune i documenti necessari per la candidatura del fondatore della Lega Nord: un volto che adesso Matteo Salvini, che proprio di quella Lega ha distrutto tutto, simboli e contenuti, vuole ricandidare per ingraziarsi una fetta di elettorato che rischiava di perdere. Bossi ha messo piede per la prima volta in Parlamento nel 1987, 35 anni fa, e a parte una parentesi all’Europarlamento, non se n’è mai andato da Montecitorio. Di sicuro ritroverà tra gli scranni il suo ex fedelissimo Roberto Calderoli, eletto per la prima volta a Montecitorio nel 1992, e che da allora non ha mai più abbandonato salvo una parentesi a Palazzo Madama. Per dire, entrambi sono lì nei palazzi della politica romana da prima di Tangentopoli. In casa Lega lo definiscono “il genio dei collegi” perché da trent’anni è lo stratega delle candidature e delle campagne elettorali. Chissà che ce lo ritroviamo di nuovo ministro, magari con la mitologica delega delle Riforme e della devoluzione, vecchio termine in disuso che potrebbe tornare in auge e che per i lumbard significava solo “autonomia delFratelliNord". d’Italia, che mai come oggi ha sondaggi favorevoli, ricandiderà Daniela Santanchè, dal 2001 presenza fissa a Montecitorio, ma anche Giulio Tremonti, il ministro dell’Economia dei governi Berlusconi, uscito di scena solo dopo il caos del 2011 con il Paese sull’orlo del baratro economico e lo spread alle stelle. La Meloni rilancia anche l’immarcescibile Ignazio La Russa: 75 anni ed eletto per la prima volta nel 1992 con il Movimento sociale italiano. Tornato a dare la carte, come si suol dire, in qualità di fedelissimo della Meloni in Sicilia ha espresso tutto il suo buon animo: pur di non far candidare il suo compagno di partito Raffaele Stancanelli (gli odi nella destra sono feroci), ha rimesso in pista come candidato governatore Renato Schifani. Sì, in questa estate del A sinistra, Umberto Bossi, in Parlamento dal 1987, cheDanieladeldiventarePalazzopuntaBerlusconi,e SilviochearitornareaMadamaepresidenteSenato.Inalto,Santanché,saràricandidata in Fdi assieme a Ignazio La Russa, eletto per la prima volta in Parlamento nel Msi
Verso il votoPagina ritorno al futuro, anche l’ex presidente del Senato dei tempi d’oro berlusconiani, costretto a difendere varie serate romantiche del capo e con un passato a Palermo tra Dc e poi Forza Italia, è in campo e anzi dato favorito come prossimo governatore. Lui ha accettato mettendo a disposizione la sua esperienza. Gli altri, a cominciare da Gianfranco Micciché, hanno dovuto subire in silenzio la scelta di La Russa perché anche Silvio Berlusconi comunque gradiva il nome di Schifani. D’altronde, già per il voto delle comunali a Palermo in casa azzurra era tornato in campo Marcello Dell’Utri, il fondatore di Forza Italia e mediatore del patto con la mafia per non creare problemi al rampante imprenditore milanese: Dell’Utri è stato il primo a benedire la candidatura a sindaco di Roberto Lagalla.
Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA I VOLTI ETERNI
edell’Economia,Tremonti,dellaMasidalCasini,Pier FerdinandoDall’alto,inParlamento1983,MaurogiàdirettoreRai,Giulioex ministroPaolaBinetti
32 21 agosto 2022 (2)Agf(2),AFotoFoto:
Nel centrodestra puntano ad essere rieletti anche gli eterni Gianfranco Rotondi e Paolo Romani, alla settima legislatura, e Maurizio Lupi, altro volto noto del berlusconismo dei tempi che furono e sono tornati. Gli eterni democristiani da sempre foglia di fico della finta destra moderata impersonata da Berlusconi prima e adesso da Salvini e Meloni: non a caso non sono andati nel Terzo Polo, come forse sperava il governatore della Liguria Giovanni Toti, ma eccoli lì a fare la parte dei cespugli moderati in una coalizione nella quale la fanno da padrone i sovranisti e i temi cari ai populisti: meno tasse per tutti, attenti all’immigrato, difendiamo i confini dalle multinazionali straniere.
scale nove anni fa che gli costò il seggio al Senato. E proprio da Palazzo Montecitorio vuole ripartire il Caimano che dopo il fallimento della sua elezione al Quirinale, ha subito azzannato Mario Draghi puntando a diventare adesso presidente del Senato e gran regista del governo dei più giovani Salvini e GiovaniMeloni.che stanno riportano in pista davvero gli immortali del potere: si parla anche di una candidatura di Mauro Masi, l’ex direttore della Rai che nel 2010 voleva licenziare Michele Santoro: per lui è pronto un posto da capolista con Fratelli d’Italia.
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Il clima pre governo Monti va ricreato in toto. E in pole per un gran ritorno c’è anche Clemente Mimun, tra i fondatori del Tg5 e poi direttore di tg Rai dal 1994 al 2006, e dal 2007 ritornato alla casa madre.
In Parlamento vogliono restare ancora cinque anni anche Lorenzo Cesa, eletto per la prima volta eurodeputato nel 2004, venti anni fa, e Paola Binetti, 79 anni, dal 2006 sempre presente in Parlamento. Ma in verità a ricreare le scene del passato contribuisce comunque anche il Partito democratico di Enrico Letta: a Bologna i dem ricandideranno Pier Ferdinando Casini. La sua storia è nota: giovane democristiano e poi stampella della Casa e del Polo della libertà per molti anni, a difesa dei peggiori esecutivi berlusconiani, poi redento sulla via di Damasco qualche anno prima della caduta del berlusconismo nel 2011. Casini ha messo piede per la prima volta in Parlamento nel 1983, a 28 anni. E non ne è più uscito. Adesso ci tornerà per la sua undicesima legislatura, essendo stato candidato con i dem nell’uninominale a BolognRestando in tema di eterni democristiani, Bruno Tabacci con l’allievo Luigi Di Maio punta a tornare in Parlamento, dove ha messo piede per la prima volta nel 1992 e poi con l’Udc ha sostenuto i governi Berlusconi ed è stato consigliere in enti come Eni e Snam, salvo poi anche lui mollare il berlusconismo e nel 2011 entrare nella giunta di Giuliano Pisapia a Milano. Se oggi un ragazzo elettore nel 1994 come nella saga Ritorno al futuro potesse arrivare nel 2022, vedrebbe le stesse facce e perfino gli stessi argomenti in campo. E penserebbe che la macchina del tempo è guasta davvero in questo Paese.
Ma davvero in trent’anni Forza Italia non è riuscita a esprimere altro, se non sempre e solo gli stessi arnesi? Evidentemente no se non a caso scalpita ed è tornato in palla anche Maurizio Gasparri, origine missine e parlamentari come La Russa, eletto nel ’92, diventato poi alfiere azzurro e adesso pronto all’ennesimo mandato elettorale per la sua nona legislatura. Gasparri, esponente della destra romana da sempre, potrebbe ricevere incarichi di prestigio: per lui si parla anche di un ministero o di un incarico a Palazzo Chigi. Stanno tornando e vogliono riprendersi tutto, d’altronde.
Comunque in questo film eterno offerto agli italiani, il grande ritorno in Parlamento in fondo è proprio quello di Berlusconi: eletto dal 1994 ininterrottamente salvo poi la decadenza per la condanna per frode fi-
Statalisti, no autonomisti Marmellata centrodestra
21 agosto 2022 33 FotogrammaFoto: Prima PaginaL’opinione di GIGI RIVA
Ma Giorgia Meloni ha anche altro e di persino più serio, da spiegare. Ha firmato un documento congiunto dove al primo punto si legge di una «piena adesione al processo di integrazione europea». Che pare incompatibile con un disegno di legge da lei vergato nel 2018 e mai ritirato che è in pratica la rivendicazione del primato delle leggi nazionali su quelle comunitarie. Una bomba capace di far implodere l’Unione europea al pari di un’analoga iniziativa polacca. E del resto i sovranisti del Continente sembrano godere della sua stima vista la simbiosi con l’ungherese Orban o i neo-franchisti spagnoli di Vox e del suo comizio accalorato («Ancora con il comizio di Vox?», come si spazientisce Guido Crosetto. Sì, Crosetto, almeno fino a quando certe amicizie non saranno ripudiate). E i Tajani, e i cosiddetti moderati del centrodestra hanno nulla da eccepire su quell’infausto disegno di legge? Se si passa all’economia la candidata favorita premier avrà i suoi dolori a smontare la favola del paese dei Balocchi in un’Italia afflitta da un gigantesco debito pubblico, tra flat tax al 15 per cento (Salvini), o al 23 (Berlusconi), taglio del cuneo fiscale, aumento delle pensioni, aumento dell’assegno unico, innalzamento dei limiti dell’uso del contante (grazie sentito dagli evasori fiscali), abolizione dei micro-tributi, sostegno alla natalità, riduzione delle aliquote Iva. E, chi offre di più, anche il ponte sullo Stretto.
a sinistra ha proverbialmente problemi a tenere insieme tutte le sue anime tanto variegate. Certo. Ma la destra... La destra vuole dare l’impressione di marciare unita come una falange fino alla presa di un potere che i sondaggi le assegnano senz’altro, vara un programma in quindici punti sufficientemente vago e ambiguo per nascondere sotto un tappeto di presunta armonia le differenze macroscopiche generate dal dna delle formazioni che la compongono. Lo slogan sembra essere: vinciamo insieme e poi si vedrà. Ed è facile pronosticare una corrispondenza d’amorosi sensi di breve durata. A meno che qualcuno non rinneghi se stesso, il proprio passato. E governi insomma con le idee altrui, considerando il peso che i diversi partiti avranno dopo lo spoglio delle urne. Non sono d’accordo, anzitutto, sui principi basilari, sulle regole del gioco, le riforme istituzionali. Fratelli d’Italia, forte della sua tradizione statalista, punta a rafforzare Roma con un presidenzialismo di stampo francese. La Lega, dopo l’ubriacatura da partito nazionale non sufficientemente smaltita nel Centro-Sud, ripropone con forza l’autonomia differenziata a tutto vantaggio delle regioni del Nord. Due modelli in teoria compatibili, assai meno nella pratica e basta guardare ai modelli stranieri che hanno assunto il presidenzialismo sfociando in una robusta centralizzazione dei poteri.
L’ingegneria costituzionale sarebbe tanto più ostica nell’Italia delle marcate differenze tra settentrione e meridione. C’è da capire come Giorgia Meloni potrebbe spiegare a un suo tradizionale bacino di consenso, il Sud, la scelta di appoggiare quello che risulterebbe, a opera compiuta, un federalismo dei ricchi.
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Pubblicita' elettorale di Giorgia Meloni a Milano
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LOREDANA
Il concetto di merito si chiarisce meglio nella seconda evoluzione, quando Pikachu si trasforma in Raichu e il pensiero sulla scuola negli Appunti per un programma conservatore che citano esplicitamente il pensiero di Paola Mastrocola e Luca Ricolfi e contrastano l’idea «umiliante e perversa di democratizzazione e inclusione». Proposte: passare dalle bocciature ai livelli, ovvero «non ti boccio mai ma alla fine della scuola secondaria superiore non ti rilascio un diploma ma una scheda che dettaglia, materia per materia, il livello che sei stato in grado di raggiungere». Infine, il
L’efficientamento è parola d’ordine del colpodelsull’istruzioneprogrammadiFdI.Innomemeritoedellalibertàdiscelta,allascuolapubblica C
DI LIPPERINI
34 21 agosto 2022 diritto di scegliere fra le scuole «in cui le priorità sono la socializzazione, l’intrattenimento, e la tutela (malintesa!) delle minoranze in difficoltà, e scuole in cui le priorità sono lo studio e l’acquisizione di conoscenze». Di più: «famiglie e insegnanti che non apprezzano la deriva dell’abbassamento dovrebbero avere il diritto di fondare scuole di tipo nuovo, cui si accede con appositi voucher». Un bel muro ideologico, insomma, come quello che separa Urras e Anarres ne I reietti dell’altro pianeta di Ursula Le Guin. Cosa resta nella terza evoluzione (Raichu diventa Pietrafuoco, i 15 punti di Fratelli d’Italia diventano i 15 punti del centrodestra)? Cambiano i termini. «Rivedere in senso meritocratico e professionalizzante il percorso scolastico» e «Maggiore sostegno agli studenti meritevoli» e «Valorizzazione e promozione delle scuole tecniche professionali volte all’inserimento dei giovani nel hi vive deve essere preparato ai cambiamenti», scrive Wolfgang Goethe ne Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister. Lo stesso concetto può essere espresso da una delle frasi più citate di Friedrich Nietzche, «quel che non ti uccide ti rafforza», che alla fine degli anni Novanta viene usata come slogan di lancio dei Pokémon, videogioco e altro di Satoshi Taijri. Una delle chiavi di Wilhelm Meister e dei Pokémon è infatti l’evoluzione: nel caso dei secondi, l’evoluzione medesima si svolge in tre tappe. Tre sono le evoluzioni del programma sulla scuola del centrodestra, prima diffuso, poi ritirato e infine ridiffuso, ed è interessante seguirle. Prima evoluzione, che corrisponde a Pikachu dei Pokémon. Nei 15 punti di Fratelli d’Italia le proposte erano fra le altre «efficientamento del percorso formativo per rendere competitivi i giovani italiani rispetto ai loro coetanei europei; abolizione della “Buona Scuola” e superamento dell’alternanza scuola lavoro (che non esiste più da tre anni, ma tant’è, ndr); concreto sistema di orientamento universitario e lavorativo». Per l’università, «ciclo di studi di 4 anni; abolizione della lotteria del test d’ingresso e introduzione di un sistema di accesso per reale merito al termine del primo anno di corso comune a più facoltà» (il che significa spostare il test di un anno, non abolirlo, ndr).
Verso il voto
LipperiniLoredana Giornalista L’INSEGNAMEN
Il Pokémon Pikachu. A destra, Giorgia Meloni
TO DI PIKACHU mondo del lavoro» e «Riconoscere la libertà di scelta educativa delle famiglie attraverso il buono», fra le altre cose. Partiamo dell’efficientamento (si plachino i puristi: il termine esiste, ed è usato anche per il Ponte sullo Stretto). Girolamo De Michele, lo scrittore, insegnante e autore di un libro importantissimo come La scuola è di tutti, mi segnala che l’idea che i giovani non trovino lavoro perché privi delle necessarie competenze nasce con il rapporto Studio ergo lavoro del 2014 dell’agenzia McKinsey, del quale si servì Renzi per la Buona Scuola: «Dietro questa pretesa che le competenze servano a distinguere i meritevoli di successo nel mondo del lavoro, si cela l’ideologia della meritocrazia, il culto dell’eccellenza, la naturalizzazione della divisione della società in vincenti e perdenti». E aggiunge che quel frame è smentito dal 55° Rapporto Censis 2021, che descrive «un’occupazione povera di capitale umano, una disoccupazione che annovera tra i suoi componenti un numero elevato di laureati e una domanda di lavoro non del tutto orientata a inserire persone con livelli di istruzione elevati» e parla esplicitamente di «sottoutilizzo del capitale umano» e «dissipazione delle competenze».
Questo è il punto centrale: la scuola serve a formare cittadini consapevoli e attrezzati per la società complessa nella quale dovranno vivere, o lavoratori docili? L’istruzione è quella cosa di cui parlavano Tullio De Mauro, ma anche Franco Fortini, ma anche Antonio Gramsci o quella che desidera Confindustria? Il merito cresce nel vuoto pneumatico o è gravato da genere, classe, appartenenza? Altre domande: perché ridurre l’università di un anno, quando la vita media si è allungata e semmai bisognerebbe estendere il periodo di formazione? (La risposta soffia nel vento: per entrare prima nel mondo del lavoro). Eliminare il precariato dei docenti? Bello, ma come si risolve se non con il ripristino di cattedre, orari e discipline pre-riforma Gelmini? Mentre le risposte continuano a vorticare nella bufera, ho chiesto a Girolamo De Michele di cosa non si parla. Di tante cose: per esempio del liceo di 4 anni, che in questa legislatura dovrà essere istituzionalizzato o meno dopo la sperimentazione. Dei contenuti: «Di quelli che attualmente ci sono, di quelli aboliti dalla riforma Gelmini (tre per tutti, nelle superiori: musica, e nella maggior parte degli indirizzi diritto e informatica); di quelli dell’Agenda 2030, che al momento non hanno uno spazio reale (sono dentro i contenuti di Educazione Civica, che però non ha né un’ora né un docente né fondi specifici dedicati)». Delle classi pollaio, dei criteri di attribuzione delle risorse che penalizzano le scuole più bisognose. Del fatto che questa è una scuola «classista, che non attua un reale ascensore sociale». E che infine, dando la possibilità alle famiglie di scegliere le scuole, i piani di studio, le modalità didattiche si perpetra un attacco frontale alla scuola pubblica, e alla scuola costituzionale Con un preoccupante punto preso dai pregressi (quelli livello Pikachu). Dove si parla (si immagina riferendosi alla scuola) della «promozione dei corretti stili di vita; lotta all’alcolismo, alla droga e ai trafficanti di sostanze stupefacenti». Si chiama Stato Etico, che orienta le coscienze dei cittadini, invece di creare le condizioni per decidere autonomamente i propri valori e stili di vita.
In un famoso libro del 2004, L’epoca delle passioni tristi, Miguel Benasayag e Gérard Schmit dicevano: «L’educazione dei nostri figli non è più un invito a desiderare il mondo: si educa in funzione di una minaccia, si insegna a temere il mondo, a uscire indenni dai pericoli incombenti». Così è anche peggio: si insegna a desiderare un mondo di efficientamento, e non è un bel mondo RISERVATA
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L’ipocrisia sui suicidi in cella per non occuparsi di carcere C’
L’interno di un penitenziario
I cinquantuno suicidi di quest’anno sono davvero tanti, troppi. Ovviamente ogni suicidio ha un contenuto di mistero insondabile e una sua unicità; una scelta che richiede rispetto e non la ricerca di cause o responsabilità banali, buone per mettersi a posto la coscienza.
21 agosto 2022 37 Prima PaginaL’opinione di FRANCO CORLEONE
è voluto il suicidio di una detenuta di 27 anni nel carcere di Verona (un mese fa nella stessa galera un’altra giovane si era ammazzata) per costringere giornali e media a occuparsi della tragedia della detenzione e delle condizioni di vita delle persone private della libertà. È davvero il segno della crudeltà e della insensibilità del Paese di Cesare Beccaria che si rifiuta di immaginare una riforma umana e civile. Molte voci si sono levate per manifestare dolore sincero, tra queste anche quella del magistrato di sorveglianza che si occupava da tempo del caso della giovane che si è arresa di fronte al difficile mestiere di vivere. Confesso di percepire in tanti commenti un alone di ipocrisia, soprattutto di paternalismo per evitare di affrontare i reali nodi.
Un numero davvero impressionante è quello dei tentati suicidi, ben 1.078; possiamo valutare a parte gli atti puvalide,struirepreventivafondediffusa.maibiliramentedimostrativioquelliattribu-allaricercadelcosiddettosballo,rimaneunquadrodisofferenzaPercapirneleragionipro-esoprattuttoagireinfunzionesarebbenecessarioco-uncarceredirelazioniumaneconl’aiutodipsicologicapacie
sensibili: questo sarebbe un compito del Servizio sanitario pubblico. Evocare la tossicodipendenza o la fragilità rischia di nascondere le responsabilità di scelte politiche che hanno determinato l’incontenibile bulimia della detenzione sociale. Vale la pena ribadire i dati: dei 54.000 detenuti presenti, il 35 per cento è responsabile di violazioni della legge antidroga (detenzione e spaccio) e il 28 per cento è classificato come “tossicodipendente”: oltre 15.000 persone che per tutti, a parole, non dovrebbero stare in carcere. Un fenomeno sociale, culturale, di stile di vita è stato criminalizzato, devolvendo la sua risoluzione a una istituzione totale che proprio per questo soffre il peso di un insostenibile sovraffollamento. Il carcere come extrema ratio, riservato ai soggetti che hanno compiuto gravi delitti e con lunghe pene, già ora si potrebbe fare. Vi sono tanti detenuti, ben ventimila, che hanno un residuo pena breve (6.996 fino a un anno, 7.073 fino a due anni, 6.009 fino a tre anni): una condizione che consente l’applicazione di misure alternative. Dopo il tempo della pandemia, delle quarantene e di restrizioni insopportabili, in assenza di qualsiasi misura di compensazione, almeno va realizzato un piano straordinario di uscita dal carcere che dia speranza. Anche con sperimentazioni coraggiose, come aveva immaginato Sandro Margara che nel 2005 suggeriva la creazione di Case territoriali di reinserimento sociale, con la direzione affidata al sindaco. Una soluzione per dare corpo all’art. 27 della Costituzione, che vieta pene contrarie al senso di umanità e le finalizza al reinserimento in seno alla società. Un articolo che costituisce uno spartiacque fra barbarie e ragione. Proprio quello che Giorgia Meloni un anno fa ha picconato.
VITTORIO
ra falsi allarmi, sparate propagandistiche e ottimismo di facciata, in Italia impazza il toto gas. Ridotto all’osso, il quesito è il seguente. Riusciremo a superare la stagione fredda senza che la penuria di metano costringa il governo a razionare i consumi? Sul tema si esercita da mesi la politica e ai primi d’agosto è arrivata la professione di fede di Roberto Cingolani. Secondo il ministro della Transizione ecologica, le riserve accumulate nei depositi di stoccaggio e le nuove forniture in arrivo da qui alla fine dell’anno saranno sufficienti a garantire la sicurezza energetica del Paese anche se la Russia dovesse chiudere del DI MALAGUTTI T
38 21 agosto 2022 Energia & politica
Vittorio Malagutti Giornalista
tutto i rubinetti del gas. Con l’ennesimo I
ALLA CANNA DEL
GAS
Paesièdell’annosuperanotimanetagliodecisodaMoscaafineluglio,daset-ormaiiflussiversol’Europanonil20percentodellamediascorso,ma«lanostraposizionedecisamentemigliorerispettoaglialtrieuropei»,sièsbilanciatoancheMa-rioDraghiil4agosto,inunadelleultimeconfe-renzestampadapresi-dentedelConsiglio.Insomma,tuttosottocontrollo,sostienePalaz-zoChigi,maisegnalichearrivanodalmercatovan-nonelladirezioneoppo-starispettoaimessaggi PREZZI ALLE STELLE. AZIENDE E FAMIGLIE IN DIFFICOLTÀ. IN VISTA DELL’INVERNO IL GOVERNO RASSICURA: “NO RAZIONAMENTI”. MA
NUMERI RACCONTANO UNA STORIA DIVERSA
21 agosto 2022 39 Prima Pagina
Ipa/PhotoStockAlamy-JordanP.Foto:
certamenteuntaminacciabilepennatenonlitànitorivigionarsisconomoltiplicanognalanoall’annoaumentatiguareletariffedivenditaaiprezzicorrenti,anchedidiecivolterispettoscorso.Nelfrattempo,comese-diversioperatoridelsettore,siicasidiaziendechenonrie-arinnovaregliaccordiperapprov-digasedelettricitàperchéifor-sostengonodinonaveredisponibi-dimateriaprimaoppurepreferisconovenderlaperchétemononuoveim-delprezzooaddiritturaunpossi-razionamento.L’eventualetaglioforzosodeiconsumiinnanzituttol’industria,costret-arallentarelaproduzioneprovocandocalodellacrescitaeconomicaequasiunarecessione.Èquestolo
Arzew Lng, impianto di gas naturale in Algeria rassicuranti di Roma. Il timore che nei mesi invernali la situazione possa precipitare, imponendo tagli pesanti ai consumi anche di grandi impianti industriali, sta spingendo verso nuovi record al rialzo le quotazioni di gas ed elettricità. Poi c’è il caos contratti. Il governo ha infatti varato una norma che di fatto prolunga fino ad aprile 2023 gli accordi di fornitura di energia a prezzo fisso anche quando le modifiche sarebbero contrattualmente possibili. Il provvedimento punta a proteggere i consumatori che rischiano di veder crescere le bollette a livelli insostenibili. D’altra parte, però, molti grossisti e trader finiranno per trovarsi in gravi difficoltà finanziarie, visto che non potranno ade-
Le speranze alimentate dal ministro ormai a fine mandato non sono però accompagnate da numeri e calcoli giudicati at-
40 21 agosto 2022 Energia & politica scenario, uno scenario da incubo, con cui potrebbe essere chiamato a fare i conti il governo che uscirà dalle elezioni del prossimo 25 settembre. Nel frattempo, entro la fine di ottobre, Roma dovrà presentare all’Unione Europea un piano dettagliato sulle misure che verranno adottate se la situazione dovesse precipitare. Al momento, secondo indiscrezioni mai smentite da Cingolani, le misure allo studio dall’esecutivo uscente prevedono, tra l’altro, la riduzione di un grado nel riscaldamento degli edifici pubblici e privati e la diminuzione programmata dell’illuminazione pubblica delle strade. Interventi soft, tutto sommato, che dovrebbero consentire di tagliare del 7 per cento i consumi di gas entro il prossimo marzo, l’obietIL TAGLIO FORZOSO DEI CONSUMI MINACCIA
L’INCUBOLACOSTRETTAL’INDUSTRIA,ARALLENTAREPRODUZIONEINNESCANDORECESSIONE tivo minimo fissato dalla Ue in base a un accordo siglato a fine luglio dai ministri dei Paesi membri. Se però la Russia, che da mesi sta usando il gas come un’arma non convenzionale, dovesse dare un altro giro di vite alle forniture destinate all’Europa, c’è il rischio concreto che anche l’Italia sia costretta a provvedimenti ben più drastici. Quali? Il piano di emergenza può attendere, a quanto pare. E così, mentre si avvicina un autunno quanto mai carico di incognite, Cingolani prova a esorcizzare lo spettro di una crisi energetica aggrappandosi al salvagente delle riserve accumulate negli stoccaggi «che entro ottobre saranno pieni al 90 per cento». Oppure evocando l’arrivo della cavalleria, che nel caso specifico sarebbero forniture per miliardi di metri cubi di gas che andrebbero a sostituire quelle russe, ormai ridotte al lumicino oppure sparite del tutto.
tendibili da molti esperti. Partiamo dagli stoccaggi, che, di norma, vengono riempiti da maggio a ottobre per poi attingervi nei mesi più freddi. Nei mesi scorsi le aste per il gas da destinare a riserva sono state quasi del tutto disertate dagli operatori, cioè grandi aziende come Eni, Enel, Engie, Shell. Nessuno voleva prendersi il rischio di destinare ai depositi il metano comprato a prezzi altissimi, che potrebbero calare di molto in inverno, quando quel gas verrà poi messo sul mercato. Il problema è stato risolto con l’intervento di due società pubbliche, prima Snam e poi Gse (Gestore dei servizi energetici), che si sono fatte carico degli acquisti su incarico del governo, che coprirà anche i relativi oneri supplementari. L’obiettivo dichiarato Cingolani sembra quindi a portata di mano. Problema risolto, allora? Pare proprio di no, a detta di molti esperti, perché anche gli stoccaggi pieni al 90 per cento non ci mettono al riparo dai rischi legati alla penuria di combustibile. Decisiva, piuttosto è la capacità di erogazione. In breve: nei giorni invernali, quando i consumi aumentano, i depositi devono essere in grado di immettere in rete il quantitativo di gas necessario per far fronte alla domanda non coperta da import (la gran parte) e produzione nazionale (una frazione minima). In altre parole, se in giornate particolarmente fredde il flusso proveniente dagli stoccaggi dovesse rivelarsi insufficiente a soddisfare alle richieste degli utenti industriali e da quelli domestici, il razio-
Stefano Venier. Sopra, Roberto Cingolani. In alto, l’area tunisinalavorasinistra, unaNordTorrevaldaligaacentralecondensazionedidellatermoelettricacarbonedidiEnelSpACivitavecchia. AdipendentepressolasocietàSergaz
è già grande cliente da anni, mentre gli accordi annunciati nei mesi scorsi dal governo con Paesi come Congo, Angola, Mozambico, Egitto, potranno dare frutti concreti non prima del 2024, quando saranno realizzate le infrastrutture necessarie a importare il gas fin sulle nostre coste. Algeri invece potrebbe aumentare in tempi relativamente rapidi i flussi in transito nel gasdotto Transmed, che attraversa la Tunisia e lo stretto di Sicilia per approdare a Mazara del Vallo. E in effetti, dopo le intese raggiunte con l’Eni nei mesi scorsi, con doppia visita di Draghi (ad aprile e a luglio) nella capitale algerina, già dalla scorsa primavera lo Stato nordafricano è diventato di gran lunga il primo fornitore dell’Italia.Lapartita decisiva però si giocherà il prossimo inverno, quando la domanda di combustibile arriva anche a triplicare rispetto a luglio-agosto. E qui è davvero difficile azzardare previsioni. Mancano dati certi sugli accordi appena siglati, di cui non sono stati resi noti prezzi, quantitativi e tempistica esatta delle nuove forniture destinate alla Penisola. È impensabile che Algeri non abbia approfittato della sua posizione di forza nei confronti di un cliente alla disperata ricerca di gas. E viste le quotazioni correnti sui mercati internazionali, la bolletta energetica dell’Italia è destinata ad aumentare di molto. La partita vale decine di miliardi di euro. La quota della Russia sul totale dell’import italiano l’anno scorso è stata pari al 40 per cento, cioè circa 29 miliardi di metri cubi su un flusso complessivo di 73 miliardi. L’Algeria è arrivata a 22 miliardi, il 30 per cento. Se nei mesi tra ottobre e marzo le forniture di Mosca dovessero azzerarsi (lo scenario peggiore) potrebbero venire a mancare fino a 18-19 miliardi di metri cubi.
21 agosto 2022 41 Agf-MeoDiGarciaD.Images,GettyviaBloombergImages,GettyviaAFP/BelaidF.Ansa,Foto: Prima Pagina
Vuol dire che anche ipotizzando una riduzione dei consumi (calati già del 2 per cento nei primi sei mesi del 2022) e maggiori contributi da stoccaggi e altri fornitori (Nord Europa, Azerbaijan, Qatar), dal nodo di Mazara del Vallo nei mesi invernali dovrebbero transitare almeno una decina di miliardi di metri cubi in più. Le uniche indiscrezioni fin qui filtrate da Algeri si fermavano a sei miliardi di metri cubi supplementari. Difficile stare tranquilli. RIPRODUZIONE RISERVATA
namento diventerebbe inevitabile. A questo proposito l’ultima analisi trimestrale dell’Enea, istituto di ricerca pubblico in materia di energia, segnala che «in caso di disponibilità giornaliera di gas russo ridotta anche solo a un terzo di quella massima» diventerebbe «decisamente sfidante» il rispetto della regola N-1, uno degli indicatori principali utilizzato da molti anni dalla Commissione Europea per valutare il livello di sicurezza dei sistemi del gas degli Stati membri. Anzi, a fine inverno, la regola N-1 non sarebbe rispettata neppure «con massima erogazione dagli stoccaggi pari a 191 milioni di metri cubi al giorno. Il problema, si legge nell’analisi dell’Enea, potrebbe essere risolto grazie a nuove disponibilità di GNL, il gas naturale liquefatto trasportato via nave. Pare molto difficile, però, per non dire impossibile che almeno uno dei due rigassificatori galleggianti acquistati da Snam possa entrare in funzione entro il prossimo inverno. Secondo i piani fin qui annunciati, i due impianti, ciascuno con una capacità di 5 miliardi di metri cubi di gas all’anno, dovrebbero essere ormeggiati al largo di Piombino e di Ravenna. Niente GNL supplementare, quindi. Ancora per molti mesi l’Italia potrà fare affidamento solo sui tre rigassificatori già in funzione a La Spezia, al largo di Livorno e di fronte a Rovigo. E allora, in vista dell’inverno, l’unica strada percorribile resta la ricerca di fornitori alternativi alla Russia. Il primo della lista è l’Algeria, di cui l’Italia
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Meglio l’inquinamento che i cannoni di Putin, a costo di accantonare gli accordi presi a Glasgow in novembre: zero emissioni entro il 2050 e riduzione del fossile del 45 per cento entro il 2030. Invece, nei mesi della guerra il contributo del carbone al fabbisogno nazionale è passato dal 4 al 6 per cento, e dal 20 al 30 per cento in Germania. Seguendo le indicazioni del governo, l’Enel - pur mantenendo formalmente la scadenza del 2025 per l’uscita dal carbone - è pronta a raddoppiare la produzione nelle sue quattro centrali (Brindisi, Civitavecchia, Marghera, Sulcis), e potrebbe riaccendere quella di La Spezia - dismessa a fine 2021 - anche se avverte che il riavvio non è cosa di un giorno (c’è pure da riqualificare il personale che è stato prepensionato).
Le miniere di carbone dell’Iglesiente in Sardegna sono state chiuse ufficialmente il 31 dicembre 2018, e da allora sono diventate un monumento di archeologia industriale, visitato dai bambini come il Colosseo, vestigia di un lontano passato. Una tonnellata del minerale più esecrato del pianeta (ma anche il più diffuso) per il suo alto coefficiente di inquinamento, valeva allora 70 dollari sulle borse merci internazionali. Oggi il prezzo sfiora i 500 dollari, spinto dalla domanda dei Paesi europei, Italia e Germania in testa. La scarsa lungimiranza dimostrata nel legarsi oltre ogni ragionevolezza alle forniture russe di gas (38 per cento del fabbisogno energetico italiano nel 2021) si traduce in una corsa affannosa alla ricerca di altri fornitori ognuno con il suo carico di incognite – Algeria, Qatar, Mozambico, Azerbaijan – nonché in un’affrettata diversificazione delle fonti. Le rinnovabili restano al palo della burocrazia, il nucleare appartiene a una futuribile idea di sicurezza, l’idroelettrico è prosciugato dalla siccità: non resta che il carbone. Sarà al top della dannosità ambientale, ma realisticamente è l’unica fonte “pronto uso” disponibile, come ha esplicitato Mario Draghi alla Camera all’indomani dell’attacco russo, il 25 febbraio.
42 21 agosto 2022 Prima Pagina Il commento di EUGENIO OCCORSIO
Con acquisti in Sudafrica, Indonesia e Colombia, la compagnia elettrica dispone già di 8 milioni di tonnellate di carbone e per tutto il 2023 continuerà ad aumentare la dotazione. Ci sono poi due centrali di gruppi privati (Fiume Santo in Sardegna dell’Eph e Monfalcone di A2a) che sono stati a loro volta sensibilizzati e hanno anch’essi sospeso la riconversione per un futuro “tutto gas” che oggi appare lunare. Il carbone “vale” 5-6 miliardi di metri cubi di gas su 70 di fabbisogno.
Retromarcia sul carbone per l’ambiente c’è tempo
Può scagas,e31mailallailedèCanada,turetonnellata)piùra,spicisugliprattuttoesserelaquotachefaladifferenza,so-seusatoperdirottareilgasstoccaggistrategici.Icattiviau-sono,oltrecheperilpianetaTer-perlenostrebollette.Ilcarboneèeconomicodelgas(550dollariaepiùsicuronelleforni-(vienedaPaesicomeAustralia,Usa,oltreaquellicitati)macomunquecostoso.Ilpiùpregiatoeconomicosarebbe,guardacaso,carbonerussomaèmegliostarnelargaepoiil10agostoèscattatobloccooccidentaleall’export,pri-fonteenergeticasottoembargo:ildicembresaràlavoltadelpetrolio,vedremocomeandrà,mentreperilalcontrario,sisperachesiaMo-anonchiudereirubinetti. Il sito minerario di Serbariu a Carbonia, in Sardegna
Un razzo ha colpito un palazzo dall'artiglieriamiraDonbassaLasenzafortunatamenteKonstantinovka,acrearevittime.cittadinavicinoKramatorsknelèpresadisemprepiùspessorussa GuastamacchiaPietro Giornalista
IN DONBASS, SUL FRONTE, TRA CHI FUGGE
SOTTO I COLPI DELL’ARTIGLIERIA E CHI DECIDE DI TORNARE “MEGLIO MORIRE A CASA MIA" artiglieria russa martella senza sosta da giorni e non c’è condominio la cui facciata non presenti almeno una scia di schegge. Mentre fuori le esplosioni si fanno sempre più serrate i furgoncini intenti nell’evacuazione dei civili sfrecciano tra i prefabbricati sovietici: andare sotto ai 100 chilometri orari è troppo pericoloso, «si rischia di essere tracciati», spiegano i volontari dell’Ong Refugease, due americani e un ragazzo del posto. Nonostante le buche, quindi, bisogna tenere il piede sull’acceleratore e quando le esplosioni si fanno troppo vicine il tunnel sotto ai binari della ferrovia offre l’unico riparo. Qualche autista ha portato delle sedie e accampati lì sotto si aspettano le pause tra una raffica e l’altra per correre verso i palazzi da cui arrivano le richieste di assistenza. I primi a chiedere di essere portati via sono Olga e Volodya, una coppia di pensionati il cui condominio è finito troppo vicino alla linea del fronte. Le esplosioni hanno distrutto i muri della cucina e i due vivono da giorni tappando i buchi con L’
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DI PIETRO GUASTAMACCHIA DA BAKHMUT FOTO DI ALFREDO BOSCO delle coperte. L’uomo si prende cura della moglie, afflitta da long-covid da mesi e l’assiste da giorni chino su un materasso piazzato sul pavimento dell’ingresso, unica stanza senza finestre e quindi lontana dalle schegge. Mentre la coppia sale sul mezzo, una vicina si affaccia e guarda in cagnesco, «lei rimane e aspetta i russi» spiegano i due senza particolare tono di giudizio: «Noi invece abbiamo una figlia a Berlino, ci sta aspettando a Kiev e ci porterà lei in Germania. Per noi è tempo di dire addio al Donbass, vogliamo vivere in pace e lontano da Putin». Secondo l’amministrazione locale, a Bakhmut degli oltre 70 mila abitanti sono rimasti, trincerati in casa, circa cinquemila, un mix tra chi aspetta i russi e chi invece ha deciso di abbandonarsi al destino, qualsiasi esso sia. Secondo i volontari, questi infatti sono gli ultimi giorni in cui i pulmini riusciranno ad entrare in città, «chi non se ne va questa settimana non se ne va più», spiegano.
LuzFoto: Guerra in Ucraina CON I RUSSI ALLE PORTE
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L’ingresso delle truppe russe in città è imminente, il loro avamposto è piantato a due chilometri dal centro su viale Patrice Lumumba che dai tempi dell’Urss ancora porta ancora il nome del leader congolese. Stando al comando ucraino, i russi hanno già tentato un’incursione notturna dal viale periferico e le mostrine rinvenute sui cadaveri hanno svelato che per tentare lo sfondamento finale sono arrivati i temuti mercenari della Wagner. Il secondo punto Gps della giornata segna l’appartamento di “Zia Lidia”, 92 anni, tutti spesi a Bakhmut. Ad aspettarli sotto casa il nipote in lacrime, «questa donna ha visto anche i nazisti sotto casa, è sopravvissuta a qualsiasi cosa, ma ora è troppo vecchia non può farcela in queste condizioni, portatela via», spiega l’uomo che però non ha nessuna intenzione di andarsene: «Andare dove? A Leopoli dove quelli come me li odiano? No, io rimango a casa mia, nel Donbass», racconta mentre incastra un vecchio telefono cellulare tra le mani incrociate della signora: «Quando sarà in salvo, vi prego, qualcuno mi chiami, il mio numero è l’unico in rubrica, non potete sbagliare». Mentre l’anziana viene trasportata giù dai quattro piani di scale su una barella di tela qualcuno apre la porta del proprio appartamento e fissa le operazioni con sguardo torvo, dietro alle porte si intravedono appartamenti adibiti a bunker, cosparsi di sacchi di sabbia, scorte d’acqua e altre bottiglie di diverso genere. Nelle camere buie uomini, donne e bambini che per convinzione o per disperazione hanno deciso di restare. In Donbass c’è chi parte, chi non se ne vuole andare e poi c’è addirittura chi torna. Nonostante Kiev abbia ordinato l’evacuazione generale di civili dalla regione di Donetsk, i treni, che dovrebbero portare in salvo gli abitanti delle cittadine finite sotto il fuoco dell’artiglieria incrociata, partono carichi di profughi diretti ovest ma tornano con qualche carrozza piena di passeggeri. Tra questi c’è Marina, 72 anni di cui 16 spesi a lavorare come inserviente al comune di Konstantinovka. Lo scorso marzo, quando la donna è fuggita con la sorella disabile verso ovest, le truppe di Mosca erano molto più lontane dalla sua città di quanto lo siano ora ma, contrariamente alla richiesta di evacuazione generale, Marina ha deciso di tornare a casa e di riportare la sorella a prendersi cura del suo roseto, attività che l’istituto di salute mentale di Konstantinovka ha prescritto come terapia contro il suo male degenerativo. «Perchè torno? non di certo perchè amo i russi, anzi...», mettere in chiaro la donna: «Ho dormito due mesi in un centro d’accoglienza su un materasso poggiato a
I VAN DELLE ONG SFRECCIANO A 100 ALL’ORA PER SFUGGIRE AI GPS. EVACUAZIONE A TAPPE FORZATE. LE AUTORITÀ: CARCERE AI COLLABORAZIONISTI Guerra in Ucraina 46 21 agosto 2022
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dei territori temporaneamente occupati dell’Ucraina dopo aver presentato i dati: 3.908 persone evacuate di cui 767 bambini tra il 3 e l’11 agosto, ne rimangono, stando alle stime 200 mila, di cui 50 mila minori. A termine della conferenza stampa arriva però anche un altro annuncio: «Il Parlamento ucraino è già al lavoro su due nuove bozze di legge, una contro i reati di collaborazione con il nemico nei territori occupati, l’altro per arginare il fenomeno della passaportizzazione», spiega Vereshchuk: «Qualsiasi attività economica volontaria svolta in accordo con le autorità occupanti potrà essere punita con 5 anni di reclusione. Chiunque occupi un incarico pubblico e decida di prendere la cittadinanza russa sarà punibile con 15 anni di reclusione ed il sequestro dei beni». Il ministero ha prodotto anche locandine esplicative affisse davanti a tutti i
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terra, in condizioni misere. Ho 68 anni e mia sorella è disabile mentale, non voglio finire la mia vita da senzatetto, piuttosto meglio morire a casa mia». Per chi resta, però, la coabitazione con i soldati però diventa sempre più difficile, dopo che il governo ha espressamente chiesto ai civili di andarsene, infatti, chiunque rimanga è guardato con sospetto: «Che cosa ci facciano ancora qua io non lo so, anzi non ci voglio pensare se no mi vengono brutti pensieri», spiega uno dei volontari del battaglione ucraino acquartierato dentro Bakhmut, un ragazzo di Moukatchevo, città della Transcarpazia che il linea d’aria è più vicina a Milano che a Donetsk. «Mi rivolgo direttamente a voi abitanti della regione di Donetsk, andate via per la vostra incolumità», sottolinea durante la sua conferenza settimanale Iryna Vereshchuk, ministro per la Reintegrazione
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Persone evacuate da Bakhmut e da altre città del Donbass, più esposte al fuoco dell’artiglieria russa. Oltre fornituregradoucrainealtemononemica,all’avanzatairesidentidirimanerefreddo:leautoritànonsonoindigarantireledigas agosto
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UN’ANZIANA CHE HA CONOSCIUTO L’OCCUPAZIONE NAZISTA MESSA IN SALVO DAL NIPOTE. CHE INVECE RESTA: “NON VADO A LEOPOLI, LÌ CI ODIANO”
In alto, civili alla stazione ferroviaria di Pokrovsk lasciano l'area del Donbass.
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palazzi comunali della regione in cui si illustra chiaramente che «l’evacuazione è obbligatoria ma non forzata» e che «chiunque decida di non partire dovrà prendersi la responsabilità della sua scelta». Tra le conseguenze indicate nel messaggio alla popolazione ce n’è una però su cui è difficile girare intorno: Kiev non garantisce l’approvvigionamento energetico poiché i russi hanno fatto saltare le linee, bisognerà quindi affrontare l’inverno senza riscaldamento. «Il freddo mi spaventa più dei russi», spiega Olga: «I russi già nel 2014 li abbiamo visti arrivare e poi scappare, i nostri ragazzi li cacceranno anche questa volta, ma alla mia età col freddo non si scherza», racconta mentre i volontari cercano spazio per le sue borse in quella che è l’ultima tappa della giornata. L’infermiera 59enne fino a due mesi fa viveva a Popasna ma le autorità locali le consigliarono di spostarsi a Bakhmut «per stare più al sicuro» e invece ora Olga è di nuovo in fuga, di fretta, e sotto le bombe. Il rendez vous per tutti i furgoni dell’evacuazione è alla stazione di Pokrovsk al confine tra la regione di Donetsk e quella di Dnipro ed al riparo dall’artiglieria russa. Lì decine di autobus, furgoni e minibus scaricano gli sfollati raccolti da Bakhmut, Chasiv Yar, Soledar, Torestsk e dall’isolata Siversk: le città dilaniate dalla linea del fronte. Una funzionaria del ministero smista la folla sui vagoni, «diventa sempre più difficile», confessa: «Chi aveva amici a ovest li ha raggiunti da mesi, chi aveva una macchina o disponibilità economica, un mestiere o un educazione, è partito, ora sono giorni che arrivano solo emarginati, anziani, bambini soli o disabili, gente a cui non è rimasto nulla». Un uomo cammina lungo i binari, ha portato una gabbia con dentro i suoi due pappagalli: «Gli ho sempre promesso che un giorno li avrei portati a fare un viaggio», ironizza ma senza sorriso, mentre procede di fianco a una gruppo di giovanissimi ebrei ortodossi. Loro hanno creato una piccola catena umana per caricare tre dozzine di pacchi in cui hanno arrotolato tutta la loro vita. Mentre sulla banchina continua a sfilare la processione degli ultimi del Donbass, al bar della stazione i soldati ascoltano il bollettino della giornata letto dal presidente. Le preoccupazioni sulla centrale nucleare di Zaporizhzhya dominano il discorso, il recente attacco su una base russa in Crimea invece «ha galvanizzato il fronte sud» e presto «potrebbe esserci una controffensiva». Sul Donbass poche parole: «Laggiù i russi martellano le nostre posizioni, la situazione è molto difficile». RISERVATA
50 21 agosto 2022 Caucaso senza pace LA SOTTILE LINEA DI SABATO ANGIERI FOTO DI MATTIA VACCA IN NAGORNO-KARABAKH
NELLA REGIONE INDIPENDENTISTA SI TEME UN IMMINENTE ATTACCO DA PARTE AZERA. L’ARMENIA NON È PRONTA ALLA DIFESA. PER MOSCA POTREBBE APRIRSI UN PERICOLOSO SECONDO FRONTE n Armenia il terzo brindisi è per chi non c’è più, per coloro che ci hanno preceduto e ci hanno permesso di essere qui a raccontare. Ogni famiglia ha i suoi, morti durante il genocidio perpetrato dai turchi a inizio Novecento, in terra straniera in seguito alla diaspora o nei conflitti degli ultimi trent’anni. Nei primi giorni della guerra dell’autunno 2020 tra le montagne del Nagorno-Karabakh i soldati armeni brindavano agli eroi del ’92, quelli che avevano combattuto contro l’Azerbaigian e avevano vinto. Oggi si toccano i bicchieri sommessamente, non ci sono vittorie da festeggiare e i civili temono lo scoppio di un nuovo conflitto.
Lo temono perché sanno che l’esercito armeno non è pronto, così come non lo era due anni fa quando Baku decise di riprendersi il territorio separatista filo-armeno e seminò il panico con i droni turchi Bayraktar tb2. Gli stessi droni che oggi Ankara vende all’Ucraina, elogiati in ogni occasione dallo Stato maggiore di Kiev, erano il terrore di ogni soldato di fanteria armeno. «Non sono come gli aerei», raccontava Artem in un bar di Erevan, «non senti il rombo dei motori e quindi non ti accorgi che arrivano; poi d’improvviso senti un sibilo e allora hai pochi secondi per saltare da qualche parte prima che l’ordigno colpisca». Artem insieme ad altri tre commilitoni dalla scorsa guerra festeggia quello che chiama il «secondo compleanno”. «Eravamo nella nostra postazione di mattina presto, mi erano stati assegnati tre soldati per il turno di guardia e perciò ci stavamo allontanando dal campo-base», poi il missile è arrivato e ha sorpreso la maggior parte dell’unità nel sonno. «È stata una strage, ci siamo salvati solo noi».
È una terra senza pace, il Nagorno-Karabakh. Una storia di assegnazioni arbitrarie e ripensamenti che risale agli anni Venti dello scorso secolo ma che esplode nel 1991, quando la regione si dichiara indipendente dall’Azerbaigian e assume l’antico nome armeno di “Repubblica dell’Artsakh”.
A collegare l’ex capitale indipendentista al territorio armeno oggi rimane solo il cosiddetto “Corridoio di Laçin”: una lingua di terra di cinque chilometri che prende il nome della città di confine da cui parte l’unica strada rimasta agli armeni in Artsakh. A presidiarla ci sono i soldati del contingente di pace russo inviati a garantire il “cessate il fuoco”. Duemila per cinque anni, stando agli accordi ufficiali post bellici, di più secondo fontiMaufficiose.orairussi sono impegnati in Ucraina e a Baku devono aver deciso che è il momento propizio per completare l’opera di riconquista del Nagorno-Karabakh lanciando l’“operazione castigo”. Il ministero della difesa azero ha chiesto il completo disarmo dell’esercito di difesa della Repubblica dell’Artsakh e il ritiro delle unità armene dalla regione. Erevan, dal canto suo, accusa i vicini di cercare solo un casus belli. L’obiettivo sembra essere la conquista di nuove alture strategiche e l’occupazione del “corridoio di Laçin” I dellaCadettiscuola militare di duranteStepanakertilrancio
Fino all’autunno del 2020, quando una poderosa offensiva delle truppe azere con il supporto logistico e pratico turco riconquista due terzi della regione lasciando solo Stepanakert (che ne era anche la capitale) e pochi territori limitrofi sotto il controllo stabile del governo filo-armeno.
L’Azerbaigian non riconosce il nuovo stato e l’Armenia interviene in sua difesa, ne scaturisce una guerra sanguinosa che dura fino al 1994 e si conclude con la vittoria armena e l’autonomia di fatto dell’Artsakh.
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AngieriSabato Giornalista
LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE ASSISTE INDIFFERENTE. E LA TURCHIA, CHE IN PASSATO HA ARMATO L’AZERBAIGIAN, SI OFFRE COME MEDIATORE
A oggi la tensione si è placata con un nuovo accordo che impone all’Armenia di abbandonare il corridoio di Laçin e di costruire una strada alternativa a 3 km di distanza entro la fine del mese, l’Azerbaigian ha fatto sapere di aver già costruito la sua. Ma quanto durerà questa nuova tregua? L’unica speranza per gli armeni dell’Artsakh è che gli interessi comuni di Russia e Turchia, mai così vicine negli ultimi anni, fermino Aliyev. L’Armenia è al centro di una complessa rimodulazione del potere nella zona caucasica e in Medio Oriente e non può essere un caso se proprio quest’anno, con la guerra in Ucraina al suo culmine, Ankara abbia avviato un tavolo per aprire i confini con Yerevan e normalizzare i rapporti diplomatici. Alcuni analisti teorizzano che dietro questa apertura ci sia la necessità di creare una nuova rotta commer-
52 21 agosto 2022 Caucaso senza pace in modo da tagliare fuori Stepanakert. Ma lì ci sono i russi. Se da un lato il grande sforzo bellico che il Cremlino sta sostenendo dall’inizio dell’anno in Ucraina mina le possibilità di risposta immediata russa, dall’altro Putin non può permettere che il fragile equilibrio del Caucaso sia compromesso. Sarebbe un precedente troppo pericoloso per le tensioni crescenti in altre zone dell’Asia continentale, come l’Uzbekistan. Per questo da subito fonti vicine al ministero della difesa russo hanno definito il Nagorno-Karabakh un “secondo fronte” dichiarando che mobiliteranno le forze di pace dispiegate nell’area e si hanno già notizie di schermaglie tra russi e azeri. È significativo notare i toni usati dal Cremlino nei comunicati ufficiali: «Esortiamo a dare prova di moderazione, a rispettare il regime di cessate il fuoco, a risolvere le contraddizioni esclusivamente con mezzi politici e diplomatici, in stretta conformità degli accordi tripartiti del novembre 2020».
Queste frasi vengono dall’ufficio del ministro degli Esteri Sergej Lavrov, lo stesso che minaccia l’allargamento del conflitto ad libitum in Ucraina. Per far fronte alla minaccia, l’Artsakh ha indetto la mobilitazione parziale dei propri effettivi, tuttavia, il governo filo-armeno sa che finché i cieli saranno sotto il pieno controllo dei droni azeri è impossibile riuscire a resistere a lungo. L’esercito russo ha dislocato alcuni elicotteri d’assalto Ka-52 nella propria base di Erebuni, in territorio armano, ma al momento non sono giunte notizie sul loro effettivo impiego. Anche l’Iran guarda con preoccupazione all’aggravarsi della situazione e ha dislocato nuove truppe al confine con l’Azerbaigian. Il presidente americano, Joe Biden, nonostante le simpatie dimostrate in passato per gli armeni e il riconoscimento ufficiale del genocidio del 1915, stavolta si è rivolto al suo omologo azero, annunciando la disponibilità di Washington a promuovere la cooperazione diplomatica tra Baku e Erevan. Jeyhun Bayramov, ministro degli Affari Esteri azero ha fatto sapere al vice segretario di Stato americano per gli Affari europei ed eurasiatici, Karen Donfried, che, contrariamente agli obblighi derivanti dalla dichiarazione tripartita del 10 novembre 2020, «le forze armate armene non sono state completamente ritirate dal territorio dell’Azerbaigian».
ciale via terra che dal Mediterraneo entri in Russia attraverso il Caucaso e data l’ostilità della Georgia verso Mosca, l’Armenia diventerebbe un punto di passaggio obbligato. È strano come cambia la prospettiva a seconda del punto di osservazione scelto: nel 2020 in Armenia si attendeva l’intervento russo come una salvezza, lo si invocava a gran voce come unica possibile svolta di un conflitto già segnato in partenza. La Turchia era il deus ex machina dei nemici mentre al momento si pone come unico interlocutore di un possibile tavolo di pace. Nessuno in Occidente si sognava di schierarsi apertamente a favore di una delle due parti; il rischio era quello di perdere le forniture di gas azero. Mentre l’Azerbaigian del discusso presidente Ilham Aliyev, in carica ininterrottamente dal 2003 e succeduto al padre, Heydar Aliyev, che aveva governato per i dieci anni precedenti, modernizzava l’esercito e stringeva accordi con Ankara, Erevan scendeva in piazza chiedendo le dimissioni del primo ministro armeno Serž Sargsyan, nominato per la terza volta. Per settimane decine di migliaia di persone avevano occupato le strade di Erevan chiedendo le dimissioni di Sargsyan. Ne emerse la figura di Nikol Pashinyan, ex giornalista che si vantava della propria estraneità al mondo dei “palazzi del potere”, alla corruzione degli oligarchi filo-russi e invocava riforme che avrebbero portato l’Armenia verso l’Unione Europea e l’Occidente. I quali promettevano promettevano e chiedevano di adeguarsi ai “valori” democratici. Breve sogno, interrotto da scelte poco oculate e da speranze disattese. Poco dopo l’Azerbaigian ha attaccato e l’esercito armeno si è trovato a dover rispondere al fuoco di armi ultra-moderne con lanciarazzi di epoca sovietica. La solidarietà è arrivata solo dalle famiglie di emigrati e persino i pochi aiuti che Mosca inviava erano rallentati dalla chiusura dei cieli decisa dalla Georgia che obbligava i voli russi a deviare nel Mar Caspio e a risalire dall’Iran. Impossibile non vedere le numerose analogie con la storia recente dell’Ucraina. Eppure in questo caso, come nel 2020, la comunità internazionale resta immobile derubricando ancora una volta il Nagorno-Karabakh a conflitto regionale. Poco importa se anche qui i civili continueranno a morire e i brindisi alla memoria si aggraveranno di nuovi caduti da piangere. RISERVATA
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Un carro armato distrutto al etra Nagorno-Karabakh montagnealrepubblicaunKarabakh. Sopra:delsettentrionaleconfineNagorno-soldatodellaseparatista fronte.Asinistra:alconfineArmenia
compreso il suo utilizzo dei social, che sono diventati per lei uno strumento di denuncia, attivismo, e di sensibilizzazione. «Sono nata praticamente con un telefono in mano. Per me è normale condividere sui social: che sia postare foto di cieli stellati o scrivere che la Russia è un Paese aggressore», racconta Valerisssh a L’Espresso. Ora ha deciso di trasferire tutto questo nel suo libro: “24 febbraio…
E il cielo non era più blu” uscirà in Italia il 13 settembre, edito da Sperling & Kupfer. È una sorta di diario molto personale e al contempo universale, corredato da fotografie e racconti da Chernihiv, sua città natale. Nel libro, come sui social, descrive a modo suo la tragedia della guerra in Ucraina che si è trovata a vivere. «Quando la Russia ha invaso il mio Paese, i miei genitori, il mio cane e io siamo fuggiti in un rifugio antiaereo. E poiché lì c’era il wi-fi e le giornate erano dannatamente lunghe e noiose, ho pubblicato video che avrebbero dovuto presentare la mia nuova casa, alcuni di questi hanno persino fatto il giro del mondo. Ma la mia storia è in realtà in Ucraina lcune cose hanno un senso, altre no. E poi ci sono cose che hanno senso solo in un rifugio antiaereo. Provate a ripeterlo a mo’ di trend di TikTok, sulle note scanzonate e popolari di “Che la luna”, gesticolando nello stereotipato modo italiano e indicando i più disparati oggetti della vostra casa. Anzi, del vostro bunker. Oggetti di uso comune che si uniscono alle bombe e alle evacuazioni, la vita quotidiana che si intreccia con la morte. È questo il modo in cui, sui social, Valerisssh cerca di spiegare la guerra. Tiktoker ormai da oltre un milione di follower e fotografa di professione, al secolo è Valeria Shashenok, classe 2001. È una giovane ucraina che dallo scoppio della guerra ha deciso di raccontare quanto sta avvenendo nel suo Paese. Lo fa in un modo vivido e realistico, aggiungendo sempre un pizzico di satira e di humor nero, suo tratto distintivo, e utilizzando il canale più immediato di tutti. Da buona rappresentante della Gen Z è da sempre appassionata di Internet, social e tecnologie. Aveva già un certo seguito su TikTok, come fotografa freelance, ma dallo scoppio della guerra si è trasformato tutto, TIKTOK
Guerra
PROVOCATORIA E SCANZONATA LA FOTOREPORTER VALERIA SHASHENOK SPOPOLA SUL WEB RACCONTANDO LA VITA QUOTIDIANA IN UN RIFUGIO ANTIAEREO Margherita Abis Giornalista DI MARGHERITA ABIS
A LA SOCIALWAR
di ValeriadaiAdistruttavillaggioresidenzialeinChernihiv attraversanodibiciclettaun’areadeldiNovoselivka,dallebombe.sinistra,fototratteprofilisocialShashenok
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Quando aveva 16 anni, a scuola le hanno chiesto di scrivere una lettera al suo “io futuro”, per raccontare come immaginasse la sua vita e quali fossero le sue speranze. Ciò che ha scritto in quella lettera alla futura se stessa, si è avverato: viaggiare, scattare foto e pubblicarle sui social. Da allora, ha iniziato a vivere in questo modo, creando una mappa dei sogni e facendoci costantemente i conti, per trovare la forza di andare avanti, visualizzare i suoi desideri, per vederli concretizzarsi. agosto
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la forza dei social: uno strumento che l’ha aiutata a diffondere, informare, descrivere quanto accade, aiutare. È stato anche lo strumento che le ha permesso di fuggire e di trovare riparo a Milano. Nel libro racconta del bunker in cui si è dovuta trasferire con la sua famiglia, un vecchio ufficio sotterraneo del padre. Qui poteva forse ritenersi al sicuro dalle bombe ma l’unico momento di evasione era rappresentato dai video che guardava sui social. In quel periodo imperversava un trend di TikTok, «Cose a caso di casa mia che hanno senso solo…», in cui gli utenti mostravano estemporaneamente i diversi oggetti che avevano in casa. Da qui a Valerisssh (o Lera, come la chiamano familiari e amici) è venuta l’idea di cominciare a filmare la sua “casa”, il suo rifugio antiaereo. È nato così quello che è divenuto il suo video più famoso, con oltre 50 milioni di visualizzazioni. È il primo girato all’interno del suo bunker: «La mia giornata tipica in un rifugio antiaereo». La devastazione, i terreni rasi al suolo e la cruda normalità della vita vissuta dentro un bunker. La madre che cucina, il padre seduto sulla poltrona da ufficio, il cagnolino di famiglia, Torry, spaesato da quella nuova situazione. A fare da contraltare, trend di TikTok e le note in sottofondo di “Che la luna”, tarantella popolare italo-americana. «In “24 febbraio… E il cielo non era più blu” tratto argomenti molto importanti per me. Come il primo giorno di guerra o “la mappa dei sogni”. Il mio libro è una piccola parte di me. Ma molto importante», spiega. Alla mappa dei sogni infatti è dedicato uno dei capitoli centrali del libro di Shashenok.
molto diversa: è quella di una ragazza piena di grandi sogni che voleva scoprire il mondo e pensava che la guerra fosse un brutto scherzo. Fino al giorno in cui ho capito che ero nel bel mezzo del più terribile incubo della mia Shashenokesistenza».sottolinea
Prima Pagina Guerra in Ucraina
Q © RIPRODUZIONE RISERVATA LETTERA APERTA “24 febbraio… E il cielo non era più blu” di alias ValerissshKupfer.editoItaliaShashenok usciràValeriainil13settembre,daSperling&Inalto,Valeria, ATTRAVERSO LA RETE È RIUSCITA A TROVARE IL MODO DI TRASFERIRSI DA CHERNIHIV A MILANO. LA SUA ESPERIENZA IN UN LIBRO 56 21 agosto 2022
Poi c’è il racconto della fuga dall’Ucraina: il viaggio da Chernihiv a Kiev durato sette ore anziché due, a causa della colonna di macchine che bloccava la strada, tutte in cerca della salvezza. Qualcuno aveva scritto sul lunotto posteriore “Bambini a bordo”: «Ma i russi non risparmiano nessuno», sentenzia Shashenok. Da Kiev il treno per Leopoli; trovando in stazione quel «tanfo di umanità e disgrazia». Scene inimmaginabili, tantomeno nel Ventunesimo secolo e nel cuore dell’Europa. La corsa su un treno verso Przemyśl, in Polonia. Il tragitto in piedi, stipata insieme ad altri profughi. La tappa a Varsavia e infine il viaggio verso l’Italia: venticinque ore di autobus per arrivare a Milano. Tutto questo Valerisssh l’ha documentato sui social, con fotografie e consigli affidati a Instagram su come sopravvivere e riuscire a lasciare l’Ucraina (spoiler: con un pizzico di strafottenza in più). Ma nemmeno quando è arrivata in Italia ha potuto tirare il fiato. La preoccupazione per i parenti rimasti in Ucraina è stata costante e ha continuato a vivere un dramma dopo l’altro. Tra i peggiori, la morte del cugino Maksim, rimasto ucciso da una bomba. Valerisssh ha subito pubblicato una storia su Instagram, raccontando di Maksim e ricevendo migliaia di visualizzazioni e condivisioni. «Ma ciò non cambia che mio cugino sia morto e che sia rimasto ucciso da una bomba», dice Valeria che sottolinea però come questo libro non voglia essere una dedica a suo cugino né ai suoi familiari. La sua dedica va al popolo russo; affinché comprenda la verità. Barcamenarsi nel mondo dei social tuttavia non è sempre semplice. Alcuni soldati ucraini, dopo averla vista filmare, le hanno chiesto di cancellare i video poiché non volevano essere ripresi. Anche suo padre (che è «testardo come un mulo», ripete Valeria) ha diversi timori rispetto al suo lavoro su TikTok e Instagram. Ma lei lo rassicura, si è ripromessa di essere molto cauta. «Ho diverse foto e video sul mio telefono che posterò soltanto quando la guerra sarà finita, perché non voglio che i russi sappiano dove vivono i miei genitori», spiega. In Italia, Valeria Shashenok sognava di andarci da tempo. Certo, nemmeno negli incubi più spaventosi avrebbe immaginato di trasferirsi per sfuggire a una guerra, e che la sua esistenza fatta di studio, fotografie, amicizie, amori e normalità venisse totalmente stravolta. Ma per l’Italia nutriva da sempre un grande amore, tanto che aveva da pochi mesi visitato Roma. «Sai, quando ami una persona non riesci a descrivere le ragioni specifiche per cui ami lui o lei. Lo stesso, per me, vale per l’Italia: la amo e basta», confessa Shashenok. Tuttavia, ora apprezzarla come prima sarà più difficile. Il futuro però, non sa ancora cosa le riserverà e dove deciderà di trasferirsi. «Onestamente non so dove andrò dopo, mi piacerebbe volare nello Spazio. Scegliere un Paese per la vita è complicato, non è come andare al supermercato e prendere il pane». È proprio l’ironia, quel misto di black humor e sarcasmo, a condire ogni affermazione di Valerisssh, ogni post, ogni pagina del suo libro, la sua narrazione è rafforzata da uno sguardo critico, mordace e un po’ beffardo ma proprio per questo capace di entrarti dentro e commuovere. «Non faccio apposta a utilizzare questi toni ironici, non l’ho scelto: è la mia personalità. Il black humor per me è un meccanismo di difesa. Non riuscivo ad accettare di uscire per la strada e vedere attorno a me bombe e aerei militari. Il mio cervello si rifiutava di accettarlo». E chi è fatto della pasta di Valeria Shashenok, se qualcosa non riesce ad accettarlo, cerca di cambiarlo. Col lavoro, l’informazione, e una punta di ironia. Cercando di arrivare a tutti e di lanciare un messaggio. «Per questo nel libro mi sono soffermata tanto sulla mappa dei sogni: così le persone potranno capire che, anche nei momenti più bui, abbiamo bisogno di crederci e sperare per il meglio, di continuare a vivere, andare avanti. Credo che tutti dovrebbero avere una mappa dei sogni. Io mi svegliavo ogni giorno nel mio appartamento di Kiev, fissavo i miei obiettivi. E ho provato a vivere immaginando di averli già raggiunti».
nello stretto di Taiwan, le acque che la Cina è tentata di reclamare come nazionali: limiterebbe il commercio crescente dell'isola, danneggiandone l'economia e obbligandola ad un atteggiamento più docile. Xi potrebbe approfittarne per testa re la reazione del resto del mondo, che potrebbe non rispondere, oppure cercare un accordo per cui fare uscire solo i beni essenziali, parlando al lato pragmatico, e non idealista, dei capi di governo occidentali e dei loro alleati in Asia. In ogni caso, i primi passi di una guerra cinese non possono che partire dalle relazioni commerciali. Già adesso Pechino ha imposto sanzioni su oltre cento prodotti per lo più agricoli e sulla sabbia finissima, la materia prima essenziale nella costruzione dei microprocessori, indispensabili elementi della tecnologia contemporanea, di cui Taipei rifornisce le maggiori economie mondiali. E che la Ue ancora non produce in quantità minimamente significative, a differenza di Usa e Corea del Sud. Un conflitto crescente tra Pechino e Taipei, difesa da Washington, da una Tokyo sempre meno pacifista e insofferente dell'espansionismo cinese, e dai loro alleati, avrebbe conseguenze serie anche per l'Unione europea su diversi piani. Dal punto di vista economico, Bruxelles è dipendente dai e non fosse stata la visita della terza carica del governo americano Nancy Pelosi, Xi Jinping avrebbe trovato un altro gancio per mostrare la sua intenzione di conquistare Taiwan in un modo o in un altro. «Cercare limitazioni agli scambi bilaterali tra attori globali e Taipei, che per i parlamentari fino ad oggi non erano una linea rossa, era già nelle intenzioni cinesi», nota Francesca Ghiretti, analista di Merics: «Il caso Pelosi è stata l’occasione perfetta». Anche se una guerra non sembra questione di settimane e forse nemmeno di mesi, oltre sessant'anni di pace precaria stanno volgendo al termine. Lo status quo (esiste una sola Cina, Taiwan non è riconosciuta dall'Onu ma è de facto indipendente) non si concilia più con la volontà cinese di affermarsi come superpotenza globale, a partire dall'Indopacifico.
58 21 agosto 2022 La crisi nell’Indopacifico
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DI FEDERICA BIANCHI L’ESCALATION DELLA TENSIONE PRIMA ANCORA DI SFOCIARE IN OSTILITÀ DICHIARATE HA CONTRACCOLPI DURISSIMI SULLA TENUTA EUROPEA LA GOCCIA CINESE CHE LOGORA LA UE
Ad agosto il più grande show di forza militare organizzato al largo delle coste taiwanesi è stato il modo ideale per fare sapere al mondo che l'ordine globale sta cambiando. Ma un vero conflitto, e i taiwanesi lo sanno bene, può aspettare. Almeno il volgere dell'anno, dopo che Xi avrà consolidato nel Congresso del partito il suo potere e dato vita a un nuovo Politburo. Fino ad allora la parola d'ordine, come sempre, è stabilità. Poi il governo potrà pensare a come trasformare le dimostrazioni di forza in qualcosa di più concreto. Magari un blocco navale Federica Bianchi Giornalista TAIWAN
21 agosto 2022 59 ImagesGettyviaNewsKyodoFoto: Prima Pagina chip e dai semiconduttori di Taipei. La Commissione europea ha recentemente varato lo "European chips act", in cui aggiunge 13 miliardi ai 30 già previsti, tra soldi pubblici e privati, da investire entro il 2030 nelle tecnologie di nuova generazione, con un focus sulla microelettronica. Il piano non solo richiede qualche anno ma prevede anche una stretta collaborazione con Taipei da cui potremmo svincolarci solo legandoci agli Usa, almeno fino a quando i nuovi investimenti olandesi e tedeschi nel settore non raggiungeranno una massa critica. Dunque è nell'interesse strategico di medio termine dell'Europa aiutare Taipei a difendersi da un'aggressione cinese. Poli ticamente, però, non tutti gli Stati membri sono d'accordo.
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«L'Europa rischia sulla Cina e Taiwan una spaccatura profonda che non abbiamo visto con l'invasione russa dell’Ucraina», dice Ghiretti. Gli Stati dell'Europa orientale e, soprattutto, i Paesi baltici sono già coraggiosi sostenitori di Taipei, per chiari motivi ideologici e idealistici, e ancora di più dopo l'invasio ne russa dell'Ucraina, al punto di essere disposti a subirne le ripercussioni politiche e economiche, queste ultime non drammatiche per la verità, in termini di sanzioni ai propri esponenti governativi e interessi economici. Schierata dalla loro parte c'è anche la Francia, che ha già inviato diverse delegazioni a Taiwan, reduce da un passato di potenza coloniale nel Pacifico e determinata a non perdere la propria influenza. Poco prima di Ferragosto ha partecipato alla più grande esercitazione militare mai tenuta insieme a Usa, Australia e Indo nesia intorno all'isola di Sumatra, con Gran Bretagna, Canada, India, Malesia, Corea del Sud, Nuova Zelanda, Papua Nuova Guinea e Timor Est come osservatori, tutti sotto il generale americano John Aquilino, che guida le forze Usa nell'Indopacifico. L'equivalente di una Nato asiatica, a stare alla stampa cinese. Certo una risposta decisa alle esercitazioni cinesi nello Stretto. E un deterrente al rischio che la Cina strumentalizzi i recenti avvenimenti per creare confini più ampi all'interno di quelli che Taiwan considera suoi spazi marittimi e aerei. Il pre cedente sono alcuni isolotti del Pacifico contesi tra più Stati dove negli ultimi anni ha costruito avamposti militari. Ma poi ci sono la Germania e gli Stati del Sud Europa, che non hanno mai avuto un ruolo di potere in Asia e che, soprattutto nel caso della Germania, hanno tanto da perdere nel caso di un allentamento delle relazioni commerciali con Pechino. Berlino ha fondato la sua politica economica degli ultimi trent'anni sull'acquisto di gas a basso costo dalla Russia e la vendita a Pechino di macchinari industriali, elettrodomestici, automobili e infrastrutture per i trasporti. Secondo un recente studio dell'Istituto tedesco Ifo, una separazione dell'economia europea e tedesca da quella cinese costerebbe alla Germania sei volte il prezzo della Brexit, tanto da spingere la coautrice dello studio Lisandra Flach a dire che «la de-globalizzazione ci rende poveri. Piuttosto che tagliare di netto con partner im portanti sarebbe meglio diversificare per ridurre le dipenden ze in certi mercati e da certi regimi autoritari». Ma l'operazione, nientemeno che il cambio del suo sistema economico, richiederà anni. Lo scenario più probabile nei prossimi mesi, se ci fosse un’escalation del conflitto, sarebbe invece l’imposizione di nuove sanzioni alla Cina da parte della Commissione europea. Salvo l’Ungheria e - forse - l'Italia post 25 settembre, sarebbero disponibili tutti gli Stati membri, con l’unica incognita della Germania. Che però sta facendo passi in avanti verso una "nuova economia", anche sotto la spinta della guerra russa, grazie all’attivismo del partito dei Verdi, oggi secondo nei sondaggi dopo la Cdu. Il ministero degli Esteri, guidato da Annalena Baerbock, sta definendo la futura strategia tedesca nei confronti della Cina, che dovrebbe essere resa nota all’inizio dell’anno prossimo ma al cui riguardo Baerbock ha già annunciato: «Un obiettivo è quello di allinearci ulteriormente alle posizioni atlantiche sulle sfide che la Cina pone al nostro ordine mondiale fondato sulle regole». Per capire quanto le ambizioni si coniughino ai fatti sarà interessante osservare se le visite a Taiwan di due delegazioni tedesche previste a inizio e fine ottobre (in concomitanza con l'"incoronazione" di Xi) non saranno cancellate, così come quella della commissione Commercio dell’Europarlamento a dicembre. E quali saranno le contromosse tedesche, ed europee, all'attesa reazione cinese. Un disaccordo commerciale alla volta. n
L’esercitazione cinese vicino Taiwan su un grande schermo
Emanuele Coen Giornalista
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60 21 agosto 2022 Cinema e realtà utto comincia con la strana morte di Yakoub Hadri, un cittadino tunisino di 23 anni, in una strada del quartiere Brancaccio, a Palermo, dominato da uno dei clan più potenti di Cosa Nostra. A insospettire gli inquirenti, più di cinque anni fa, è la perizia compiuta sull’incidente stradale, da cui emerge che le lesioni riportate dalla vittima non sono compatibili con la dinamica tracciata in un primo momento. Parte da qui l’inchiesta che porterà a scoprire che Hadri in realtà non è deceduto per l’impatto, ma perché non è sopravvissuto alle terribili ferite inflittegli dagli “spaccaossa” allo scopo di mettere in scena il finto sinistro e truffare la compagnia assicurativa per ottenere il risarcimento del danno. Lo pseudo incidente è solo uno dei tanti messi in scena, anche in Lombardia e Piemonte, da una organizzazione criminale siciliana che sfrutta lo stato di necessità, la miseria della gente, per mettere in piedi un business milionario. Nasce così l’inchiesta – la prima, con altri cinque filoni aperti successivamente, uno dei quali ha evidenziato connessioni tra alcuni spaccaossa e i boss di Brancaccio – che ha portato a scoprire decine e decine di truffe, con incassi stratosferici. Malgrado le decine di condanne e i processi in corso, oggi il fenomeno è tutt’altro che debellato, anzi trova terreno fertile DISPERATI CHE FINISCONO IN MANO ALLE COSCHE. PER TRUFFARE LE ASSICURAZIONI. UN FILM RACCONTA LE LORO STORIE FARSI SPACCARE LE OSSA PER SOLDI
DI EMANUELE COEN in territori governati da altre organizzazioni criminali, ad esempio nella provincia di Avellino, dove esiste chi è disposto a farsi rompere anche i denti. Il meccanismo è semplice e brutale: da un lato si trova chi decide di farsi fratturare una gamba o un braccio per comprare il pane ai figli ma anche lo smartphone ultimo modello o per pagare le spese per la festa della prima comunione della figlia. Vittime per necessità o per scelta, pronte a farsi mutilare per poche migliaia di euro, le briciole dei lauti incassi della banda. Dall’altro lato i carnefici, chi spacca gli arti di donne e uomini di ogni età per ottenere i risarcimenti dalle compagnie assicurative. Con la complicità di medici, infermieri, assicuratori. Una sorta di welfare illegale in un territorio dove lo Stato è assente o considerato ostile. Prende spunto dalla cronaca il film “Spaccaossa” di Vincenzo Pirrotta, 51 anni, regista e drammaturgo palermitano, al suo primo lungometraggio dopo una lunga esperienza nel teatro civile, selezionato alle Giornate degli Autori nella sezione Notti Veneziane, all’interno della 79esima Mostra Internazionale D’arte Cinematografica di Venezia. Una pellicola cruda, dai toni cupi, in dialetto sici-
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Deghati/ContrastoM.Foto: liano con i sottotitoli, con un cast quasi tutto siciliano (anzi palermitano), che L’Espresso ha visionato in anteprima. «La vicenda degli spaccaossa mi accompagna da quella mattina in cui una notizia del giornale radio mi colpì come un cancro da espellere», dice Pirrotta: «Ho sentito la forte necessità di raccontare questa vicenda, intanto perché avveniva nel ventre molle di Palermo, la mia città, con tutto il suo feroce incanto». Dopo qualche tempo Pirrotta ne parlò con Salvo Ficarra durante una partita di calcetto. «Mi disse: “Questa storia deve diventare un film, te lo produciamo noi”», aggiunge Pirrotta, che ha firmato la sceneggiatura insieme a Salvo Ficarra, Valentino Picone e Ignazio Rosato, mentre il film è prodotto da Attilio De Razza e Nicola Picone per Tramp Limited con Rai Cinema. «Man mano che mi addentravo nella storia di cronaca ho avvertito la sensazione di compiere una discesa agli inferi», aggiunge il regista. Una discesa che Pirrotta ha voluto intraprendere anche come attore protagonista: è lui Vincenzo, 45 anni, un uomo dall’aspetto bruto che tradisce uno sguardo ingenuo. Vive con l’anziana madre Giovanna (interpretata in modo magistrale da Rori Quattrocchi), che nasconde un’anima nera, lo domina e lo porta a tradire sé stesso. L’uomo recluta vittime consenzienti per gli spaccaossa in cambio di una piccola percentuale, vive la sua condizione come un destino ineluttabile. È lui in prima linea, l’anello di congiunzione tra l’organizzazione criminale e le vittime, trovate in strada come Luisa, esile e bella ragazza (Selene Caramazza) tossicodipendente di cui si innamora, che fugge dalla comunità e si rifugia da lui. Un personaggio chiave Vincenzo, che affonda le radici nella cronaca. «Ti ricordi Azzusa, quello del ferro vecchio? C’è suo fratello che vorrebbe affittare piano terra e primo piano, si può?», chiede l’uomo al suo interlocutore al telefono, il capo della banda, alludendo alla volontà della vittima di farsi spaccare una gamba e un braccio per fare più soldi. «Più case affitti, più guadagni».
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L’attrice Selene Caramazza interpreta Luisa. Sopra: il regista e interprete di “Spaccaossa” Vincenzo Pirrotta. A sinistra: una strada di Palermo
Quello che emerge dalle inchieste, infatti, è che il più delle volte sono le vittime a chiedere di farsi spaccare le ossa per motivi spesso futili o disperati. Come Machinetta, interpretato da Luigi Lo Cascio, incallito giocatore di video-poker che decide di farsi fratturare una gamba per mantenere il suo vizio patologico, la dipendenza dal gioco d’azzardo. È lui che ricatta Vincenzo, per firmare la pratica dell’indennizzo vuole più denaro. La trama attinge a piene mani alla realtà. Anche il vecchio magazzino alla periferia di Palermo, all’inizio del film, una sorta di cella semibuia dove un gruppo di persone frantuma con un trolley pieno di pesi da palestra il braccio di un uomo, gettandolo dall’alto, “l’antro del dolore” come lo chiama il regista, sembra il frutto delle testimonianze di chi si è pentito o ha confessato durante il processo. «Mi ha impressionato il mondo dei tormentati e afflitti che vengono coinvolti e adescati», aggiunge il regista-protagonista di “Spaccaossa”: «Voglio raccontare questa meschinità d’animo, la sub-cultura che ammanta le nostre periferie come le altre periferie del mondo, le banlieue parigine e i sobborghi delle metropoli americane, con la stessa dolenza con cui si recitano le stazioni della via crucis». Ha una vocazione universale la storia degli spaccaossa. La spia di una relazione malata con il potere, l’autorità, le istituzioni. In un mondo in cui ogni mezzo risulta legittimo per ottenere il proprio tornaconto, anche il sacrificio dell’incolumità fisica si giustifica. «È come si sentissero autorizzati a truffare le compagnie assicurative, colpevoli di chiedere il premio per la polizza. Quasi una rivincita contro chi utilizza il proprio potere, anche economico, per fottere la povera gente». Un atteggiamento diffuso: durante le riprese del lungometraggio, più di una volta il regista si è sentito dire: «Perché racconti questa storia? C’è gente che è stata arrestata, questi poveretti che dovevano fare?». E un’altra volta un uomo, presumibilmente un agente assicurativo, ha fatto irruzione sul set per contestare il lavoro del regista, responsabile di screditare l’intera categoria. «Ho sempre creduto nel teatro civile, perché non dovrei raccontare queste storie?», conclude Pirrotta: «È un cancro che affligge la mia terra, ho il dovere di raccontare». RISERVATA
62 21 agosto 2022 Misteri italiani LO SCHIANTO DEL DC
anche lui brevettato, Gioacchino Di Fiore, attribuendogli, nell’impossibilità di difendersi, uno sbaglio indimostrato ma sufficiente a macchiarne la reputazione. E questo nonostante a poche ore dal disastro l’agenzia di stampa Reuters rilanciasse proprio l’ipotesi di attentato e numerosi testimoni giurassero che l’aereo volasse avvolto dalle fiamme prima dell’impatto. E che alcuni passeggeri non avessero le scarpe, che altri corpi fossero integri, che alcuni oggetti sembrassero divelti, che solo alcuni monconi dei relitto fossero incendiati e che sull’area non sembrava essersi riversato tutto il carburante che l’aereo avrebbe dovuto contenere. Stranezze, che perfino il generale Francesco Lino a capo della commissione ministeriale non aveva potuto nascondersi, ipotizzando «una situazione particolare determinatasi all’interno della cabina di pilotaggio per l’intervento di persone estranee oppure di una avaria». E infine che l’Anpac, l’associazione dei piloti, avesse categoricamente escluso colpe dell’equipaggio. Nondierrore si è trattato per molti dei parenti delle vittime, 98 orfani e 50 vedove che non si rassegnano. Perché di cose che non quadrano in questa sciagura che non sembra esserlo ce ne sono quante ne contiene una stanza di scartoffie. Quelle su cui adesso la comIL SOSPETTO DI UNA STRAGE NERA ALLA DELLE POLITICHE. SUL DOSSIER MONTAGNA LONGA A SAN MACUTO LAVORA ANCHE IL GIUDICE GUIDO SALVINI inquant’anni e un unico rovello. Che la verità ufficiale fosse solo un frettoloso colpo di spugna per cancellare la memoria di una strage. Come spesso accade nel Paese che lascia infiniti conti aperti con la memoria, sono i dettagli a fare la differenza. Crepe nel muro che si vorrebbe granitico a difesa del non detto. E che con la caparbia tenacia di pochi e isolati resistenti, al contrario, si sbreccia, si incrina e potrebbe anche crollare, se solo si avesse la forza di fare i conti con il passato. Cinque maggio 1971, Montagna Longa, il più grave disastro dell’aviazione civile italiana prima di Linate. Centoquindici vittime, 108 passeggeri e 7 donne e uomini di equipaggio, nello schianto del Dc 8 Alitalia, I Diwb, volo Az 112, sulla cresta di una montagna di 935 metri a cinque miglia tra Carini e l’aeroporto di Punta Raisi, oggi Falcone e Borsellino, Palermo.
Per le carte ufficiali - la sbrigativa relazione della commissione ministeriale (nominata dall’allora ministro dei Trasporti Oscar Luigi Scalfaro il 12 giugno ’72, il 27 aveva già concluso), la sentenza di Catania del 1984 di un processo senza colpevoliMontagna Longa è un incidente, per un «verosimile» errore umano, di cui è però ignota la causa, la dinamica e, naturalmente, le responsabilità. Uccidendo così due volte il comandante Roberto Bartoli, il vice Bruno Dini e il tecnico motorista, DI ENRICO BELLAVIA C
VIGILIA
Enrico Bellavia Giornalista
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21 agosto 2022 63 Prima Pagina 8 IN ANTIMAFIA Il moncone di coda del Dc 8 precipitato
Circostanza questa che fa ritenere che il carburante sia fuoriuscito dal serbatoio accanto al quale era stata collocata una piccola carica esplosiva e si sia incendiato nella fase di atterraggio. La carica poteva essere comandata a distanza o con un meccanismo che si attiva automaticamente quando l'aereo scende di quota. In sostanza un sabotaggio molto simile a quello che colpì l'aereo di Enrico Mattei nel 1962 a Bescapè», spiega Salvini. Una bomba a bordo, un piccolo ordigno per un attentato dimostrativo, da realizzarsi ad aereo atterrato e che un contrattempo, un ritardo, fece esplodere in volo, come sosteneva il vicequestore Peri. L’aereo ingovernabile avrebbe perso carburante, altro avrebbe provato a scaricarlo Bartoli, da qui l’incendio in volo, per finire sulla montagna. Aggiunge Salvini: «La commissione Antimafia aveva già acquisito la perizia Marretta ma la chiusura anticipata della legislatura ha impedito ulteriori approfondimenti. Spero che nella prossima legislatura la nuova Commissione riprenda a occuparsi di Montagna Longa che sarebbe la strage più grave avvenuta in Italia nel Dopoguer-
64 21 agosto 2022 Misteri italiani missione nazionale antimafia, sul finire della legislatura ha rimesso mano, provando a far ordine tra le piste ignorate dalla magistratura.
che la scatola nera era stata manomessa e documenta l'assenza di una zona di bruciatura sul terreno ove è avvenuto l'impatto.
Il magistrato di Milano montagnaInparlamentaredellaSalvini,GuidoconsulenteCommissioneantimafia.alto,lacrestadella
A contribuire agli approfondimenti è il magistrato milanese, esperto di trame, Guido Salvini, consulente dell’Antimafia di Nicola Morra. Anche sulla scorta del rapporto del vicequestore Giuseppe Peri, datato 1977, Montagna Longa va a collocarsi nel quadro della strategia della tensione di marca neofascista: i sequestri di persona per finanziare un piano di stabilizzazione, bombe per bloccare ogni possibile cambiamento. La paura come arma di conservazione. «La ricostruzione secondo cui Montagna Longa sarebbe stata causata da un attentato si integra molto bene con il contesto degli eventi politico-eversivi della Sicilia di quegli anni. Penso alla partecipazione della mafia al golpe Borghese, agli attentati contro il quotidiano L'Ora di Palermo e ai campi paramilitari organizzati da Pierluigi Concutelli, ai sequestri di persona in Sicilia degli anni successivi riconducibili, come si convincenteta.conseguentevolosibiletetonazione,durantequellaclusotatocorpi,valutatodell’aereo,2017 haidicentel’ingegnerereoditagliatissimogiacecontato ilbileedPeri,leggenelrapportodel1977delvicequestoreadunacomunestrategiatramafiosiestremistididestra»,spiegaSalvini. Perchéc’èancheunaltronontrascura-elemento,comeL’Espressohagiàrac-6febbraioscorso.Dadueanninellimbounrapportotecnicodet-chespiegaconl’esplosioneunabombaabordoloschiantodell’ae-sullamontagna.AutoredeldossierèRosarioArditoMarretta,do-diAerodinamicaedinamicadeiflu-dell’universitàdiPalermochenelricalcolatoiparametridivoloconfrontatoglielementicerti,leconseguenzedell’impattosuianalizzatolefotodeireperti,rivisi-leconclusionidelleinchiesteecon-chelaveritànonpuòcheesserediunastrage.«AbordodelvelivoloilvoloAZ112sièattuataunade-esplodenteprimaedeflagran-dopo,chehacausatoun’avariairrever-all’impiantisticadigovernodelveli-causandoneilcollassooperativoeildisastro»,hascrittoMarret-«Holettolaperiziaemisembramoltoinparticolarequandorileva
Tanto il rapporto Peri, rintracciato nel 1997, quanto le conclusioni di Marretta, già note dal 2017, costituiscono l’ossatura del romanzo verità Settanta, Round Robin edizioni, pubblicato quest’anno, opera del lavoro su documenti autentici del giornalista Fabrizio Berruti. L’uscita di Settanta e la pubblicazione in inglese del rapporto di Marretta con il titolo “Unconventional aeronautical investigatory methods. The Case of Alitalia Flight AZ 112” per Cambridge Scholars Publishing hanno di nuovo acceso i riflettori su una delle pagine più trascurate della storia dei lutti nazionali. Traendo spunto dalle pubblicazioni dei due volumi, l’iniziativa dell’Antimafia interviene a colmare il vuoto lasciato dalla decisione della magistratura di Catania che ha liquidato con un decreto di cestinazione l’istanza dei familiari delle vittime per la riapertura del caso ,sulla base delle risultanze di Marretta. Dal momento che non è possibile risalire a chi è stato, è la tesi, non vale darsi da fare per capire il come. Eppure di cose da indagare ce ne sarebbero. Sulla scorta di una perizia del medico legale Livio Milone, i parenti, per molto tempo guidati da Maria Eleonora Fais che nella tragedia perse la sorella Angela, giornalista de L’Ora e Paese Sera, si erano anche detti disponibili alla riesumazione dei corpi. Tutto per arrivare almeno a escludere qualcosa, se non a dimostrare il resto. Tentativi su tentativi di ottenere dalla magistratura risposte ai mille interrogativi della strage. Che non è tale se non per le tessere che un quadro accomodante, l’errore umano, non riesce a collocare. Come quel nastro della scatola nera misteriosamente strappato nel punto in cui avrebbe dovuto registrare qualcosa sull’impatto. Marretta lo spiega come una manomissione preventiva dell’apparato che non doveva segnalare anomalie in cabina. La premessa del delitto perfetto. RIPRODUZIONE RISERVATA
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Altri resti del velivolo sul crinale di Montagna Longa
SULLA SCIAGURA DI 50 ANNI FA PROPOSTA L’AUDIZIONE DEL PERITO CHE IPOTIZZA LO SCOPPIO DI UNA BOMBA A BORDO DELL'AEREO ra». L’audizione di Marretta potrebbe essere il primo passo. Il 5 maggio del 1972 era vigilia di voto per le Politiche e si era a un anno dall’omicidio del procuratore capo di Palermo Pietro Scaglione sulla cui fine si allunga l’ombra di un patto tra mafia e neofascisti di solide basi in Sicilia: Stefano Delle Chiaie, Pierluigi Concutelli, in rapporti con Alberto Stefano Volo, controverso neofascista che confidò di aver saputo per tempo dell’attentato e di aver salvato la vita a un hostess. Lo stesso “preside nero”, tornato come fonte per la pista nera nell’assassinio del presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella, il 6 gennaio del 1980. Si era a un anno e mezzo dal golpe Borghese (notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1970). E su quell’aereo tornavano per votare molti siciliani che vivevano fuori per lavoro. C’era il medico del bandito Giuliano, Letterio Maggiore, il regista Franco Indovina che con Francesco Rosi lavorava sulla fine di Mattei, il comandante della Guardia di finanza di Palermo Antonio Fontanelli. E c’era Ignazio Alcamo, il magistrato che aveva inflitto il soggiorno obbligato a Ninetta Bagarella, moglie del boss Totò Riina.
godere. Nell’estate in
godere
Alla scopertadelcorpo L’Eros in un racconto
Una donna che si scopre capace di amare per una sera soltanto. Amare, e far cui ha deciso che la meta è il suo corpo Pronostico
di Nadia Terranova illustrazione di Antonio
21 agosto 2022 67 Idee
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E L’Eros in un racconto
E insomma dove andiamo, chiede. Ora sta pensando a che macchina sia quella su cui è salita, non sa nulla di macchine, non ne sa riconoscere una. Già una volta, con un altro amante, ha fatto una pessima figura: quello era venuto a prenderla con un’auto rossa, erano andati a cena, dopo cena si erano baciati, si erano baciati ancora, infine si erano staccati per continuare in auto, solo che lei si era fermata davanti a un’altra auto, dello stesso colore.
Che però, a giudicare dalla faccia che aveva fatto quell’amante lì, era molto meno costosa della sua. L’imbarazzo era venuto giù come una scure. Sì, poi avevano fatto l’amore lo stesso, ma come si fa sopra i cristalli rotti. Ecco, con lui non vuole ripetere lo stesso errore, non vuole gaffe, non vuole morire d’imbarazzo. Che ogni cosa sia perfetta, si è detta inaugurando il mascara nuovo davanti allo specchio. Così, prima di salire ha guardato bene la macchina che la aspettava davanti al portone: il colore, la marca, la Non aveva mai fatto caso al suo corpo, a come desiderasse essere baciata o toccata, e non aveva mai fatto caso a quanto poco fosse importante da chi
targa. Memorizza i dettagli e se li ripete prima di sedergli accanto e anche dopo, perché lui le piace più di quell’altro, più di tutti gli amanti di un’estate che sembrava la più noiosa di tutte, e invece. Invece è andata così, come un’interruzione netta. Niente viaggi. Niente biglietti per fuggire dall’altra parte del mondo, niente mete scontate o pazze o esotiche o banali, niente foto di sabbie bianche in infinite distese da piazzare sui social network, niente capitali estere da girare sudando fino alle dita dei piedi. Niente di niente. L’estate sta passando nella città che è sempre la stessa anche se si traveste da agosto e vuole farsi ostile dalle saracinesche semichiuse, anche se c’è solo una pizzeria svogliata che invece non ha chiuso saracinesca, anche se la vera protagonista non è lei ma sono gli scarafaggi la notte vicino ai cassonetti. Li conosce tutti, uno per uno, sono lunghi e gialli con delle striscette nere, li conosce perché torna spesso tardi e quando la lasciano vicino al portone fa il giro largo per non sembrare una donnina timida che ha paura della notte. Passa accanto ai cassonetti, guarda gli insomma dove andiamo, chiede lei appena prende posto sul sedile anteriore. Lo chiede sempre, tutte le volte che va in macchina con uno con cui passerà la serata, uno che è passato a prenderla sotto casa e che ha fatto aspettare un po’, ma non troppo, e senza studio di quell’attesa, lo ha fatto aspettare perché doveva davvero finire di prepararsi, guardarsi un’ultima volta allo specchio, sistemare il rossetto che sbava sempre agli angoli, cambiarsi all’ultimo momento le scarpe, quelle colorate fanno scena ma alla fine sembrano sempre un po’ sbagliate. E anche se le userà pochissimo, giusto per camminare dal portone alla portiera, dalla portiera alla porta del ristorante e viceversa, anche se di quelle scarpe ricorderà soprattutto che se le è sfilate per abbandonarle ai piedi di un letto, bisogna che pure per quei pochi minuti siano le scarpe giuste. È impossibile saperlo prima. Prima dell’ultimo minuto.
Con Nadia Terranova, 44 anni, scrittrice messinese di nascita e romana d’adozione (“Trema la notte”, Einaudi, è il suo ultimo romanzo) prosegue la serie di racconti dedicati all’eros, che L’Espresso ha inaugurato il 31 luglio. In apertura, Viola Ardone ha raccontato un amore giovanile nella notte dei Mondiali dell’82. Matteo Nucci ha proseguito con “L’abisso del desiderio”, poi Anilda Ibrahimi ha scritto “La sposa americana” tari di non essere mai appartenuto a loro. E ricorda a noi quanto non esista il controllo su nulla, tantomeno su ciò che ci illudiamo di Inpossedere.queitrentasette anni in cui ha vissuto, lei ha amato, baciato, abbracciato, stretto corpi, accarezzato la pelle degli altri e a volte la sua, si è masturbata e ha masturbato, si è impegnata a piacere a tutti e infine a sé stessa, ha scelto modelli femminili mitici, inarrivabili, da copertine patinate, e poi li ha distrutti quando le hanno detto che doveva accettarsi com’era, ha sognato di essere più slanciata, magra, liscia di quella che era, di avere i capelli meno crespi, all’improvviso più lunghi o irrimediabilmente corti, ha finto di avere coraggio, di essere disinibita, dopo essere stata pudica. E sempre senza sapere perché. Quello era il rapporto con il corpo che aveva ereditato dal mondo, o almeno che le era sembrato di ereditare. Con un corpo astratto, magari lucente ma intangibile, un corpo che non la riguardava e finiva per essere così ingombrante da nascondere il suo. E insomma dove andiamo, sta chiedendo all’uomo che quella sera sarà il suo amante. Muove le mani per fare tintinnare i braccialetti, e anche per diffondere nell’abitacolo il profumo nuovo che si è comprata. Lo ha spruzzato sui polsi, sulle caviglie e dietro le ginocchia, per far sì che si muova quando lei si muove. È un’eredità che la affascina dalle donne del secolo scorso, che sapevano camminare, ancheggiare, e sapevano esattamente quanti millilitri fossero la quantità giusta per essere forti e indimenticabili. Lei non lo sa, va a senso, agita la boccetta e spruzza. Nell’incertezza, aumenta.
Nei suoi trentasette anni di vita, prima di quell’estate, non ci ha mai fatto davvero caso. Sì, ha studiato fin dalle elementari quei disegni buffi e tetri sui sussidiari per spiegare ai bambini le ossa e gli organi interni. Li guardava con la solita ansia vorace di memorizzare i nomi più difficili per fare bella figura, ed è per questo che sa da sempre cosa sia una tibia e non ha mai chiesto perché i genitali non avessero freccette né spiegazioni e sembrassero disegnati con tratti più veloci, come a voler far presto per sbarazzarsi del pudore. Quella è la visione del corpo che le è stata consegnata, e ci ha messo trentasette anni per liberarsene, o meglio: ha lasciato che a un certo punto cadesse per terra facendo il rumore di un quadro che si spezza, e che ricorda ai proprie-
PAROLE
E insomma dove andiamo, chiede. Nell’estate in cui ha deciso che la meta è il suo corpo – quel corpo che all’improvviso ha scoperto capace di amare per una sera soltanto, di amare, godere, far godere – non le interessa veramente la destinazione. Non le interessano i ristoranti, del resto sono tutti chiusi. Quasi tutti: gli uomini che la invitano a uscire, o che lei invita a uscire, riescono sempre a trovarne qualcuno aperto, magari spostandosi di qualche chilometro verso il mare, o inerpicandosi per stradine buie in collina. Lei non aveva mai fatto caso a quanti locali inaspettati potesse nascondere la città in estate, anche perché in estate non c’era mai, sempre impegnata in D’AMORE
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21 agosto 2022 69 scarafaggi che camminano in tutte le direzioni e si vanno incontro l’un l’altro, e mentre li guarda si ripassa i dettagli della serata, e della scopata: ce n’è una diversa ogni sera, nell’estate in cui ha deciso che la meta delle sue vacanze è il suo corpo. In fondo è quello il luogo più sconosciuto del mondo intero. Il suo corpo, e tutti gli altri dopo.
L’Eros
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Non ci ho pensato e non ho prenotato da nessuna parte, rincara, e ride. Ecco, finalmente qualcuno che non ha bisogno di prenotare un inutile preludio alla scopata che verrà, pensa lei, mezza spaventata e mezza sollevata. Non ci ho pensato ma sai che facciamo, andiamo dove ci porta la macchina – concludeCosalui.vuoi dire, chiede lei.
Ecco, finalmente qualcuno che non ha bisogno di prenotare un inutile preludio alla scopata che verrà, pensa lei, mezza spaventata e mezza sollevata PolatEzgiFoto: in un racconto
Idee
Era un modo di dire di mio nonno, dice lui. Quando uscivamo insieme mi metteva sul sedile davanti senza cintura, e guidava, non potrei dire senza meta, in fondo una meta ce l’abbiamo tutti in testa, no? Non ho mai capito se non la dichiarava o la capiva strada facendo. Comunque andavamo dove ci portava la macchina, girovagavamo a volte mezz’ora, a volte un pomeriggio intero, ma non avevamo mai la sensazione di non aver concluso niente. Scusa, mi sa che ho già parlato troppo, conclude.
Lei pensa che non aveva ancora notato che bella voce ha lui. Una voce sicura e non spavalda, quieta e non soporifera. È il tono a piacerle. Poi tira su lo schienale. Tua moglie non si accorge che tiri giù i sedili, chiede ridendo. Sa perché l’ha detto, per interrompere un’intimità che rischia di diventare ingombrante, e tutto per colpa di quel ricordo, e di quella frase così esatta per raccontare, insieme, l’infanzia di un altro e la sua estate di adesso. E anche per precisare subito che a lei la fedeltà non interessa, men che mai nelle sue infedeltà. A volte sono io a tirarli su i sedili dopo che lei prende la macchina, risponde lui, e sta già girando le chiavi. Anche lui vuole precisare qualcosa, che il suo matrimonio è suo e non riguarda lei, né quella serata. Andiamo dove ci porta la macchina, ripete lei nella notte mentre si allontanano da casa, dagli scarafaggi, dall’unica pizzeria aperta e abbassano tutti e due i finestrini per far uscire il profumo in eccesso. RISERVATA
E insomma dove andiamo, chiede con poco interesse, mentre si ripete i dettagli della macchina rossa su cui è salita, ossessionata dalla brutta figura che l’aspetta dietro l’angolo, quando sarà un po’ brilla finita la cena e avrà dimenticato tutto e, per la fretta di baciarsi e finire a letto, scambierà una macchina per un’altra.
70 21 agosto 2022 vacanze prenotate mesi prima e di rado all’altezza delle foto che le avevano ispirate, e ancor meno all’altezza dei suggerimenti, della sua stessa voglia di andarci. Non aveva mai fatto caso a quanti angoli carini potessero nascondersi spostandosi dai soliti tracciati, né a quanti orribili scarafaggi si impadronissero dei marciapiedi lasciati liberi dagli umani. Del resto non aveva mai fatto caso al suo corpo, a ciò che le piaceva davvero, a come desiderasse essere baciata o toccata, e non aveva mai fatto caso a quanto poco fosse importante da chi.
E insomma dove andiamo, un posto vale l’altro, pensa mentre si inebria del suo stesso profumo e mette una mano dentro la borsa per essere sicura di avere preso il telefono.Nonciho pensato, risponde lui.
72 21 agosto 2022 Letteratura uando nel 1987 l’editore Theoria pubblicò in Italia “Baffi”, l’autore, Emmanuel Carrère, aveva trent’anni, era al suo terzo libro e riceveva in patria un buon riconoscimento di stima. Era un uomo introverso e timidissimo, niente faceva immaginare l’evoluzione nel protagonista di successo di oggi, scrittore fra i più tradotti e apprezzati in Europa, che da sempre interessato da biografia e autobiografia, ha fatto della commistione fra generi diversi la sua cifra originalissima e molto attuale. In Italia, in particolare, è al centro di una quasi indiscussa idolatria e il quotidiano la Repubblica, per Carrère e Houellebecq, scrittori idolatrati e controversi, concentrati sul proprio ego. In un gioco di specchi in cui si osservano a vicenda. E poi c’è la ferocia di Reza
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Da sinistra: gli scrittori francesi Emmanuel Carrère, 64 anni; Yasmina Reza, 63; Michel Houellebecq, 66
estrema e spesso imbarazzante di autorappresentarsi in una luce livida e desolante, fragile, vergognosamente nevrotica. Anche se ho il sospetto che tante delle sue molte lettrici siano affascinate dall’eros che si sprigiona nelle sue pagine, eros che unisce una dose di perversione e allegria a una rassicurante tendenza all’affettività e alla coppia. Anche quando sembra prendere le distanze da se stesso, per esempio nel recente film “Tra due mondi”, di cui è regista, protagonista una meravigliosa Juliette Binoche, Carrère affronta qualcosa di personale. È la storia di una scrittrice che, per descrivere un ambiente molto lontano dalla propria vita, decide di lavorare come domestica accettando gli imcui Carrère ha pubblicato un lungo reportage a puntate sul processo del Bataclan (13 novembre 2015, 130 vittime), offre adesso ogni venerdì ai suoi lettori, fino al 2 settembre, un suo libro a prezzo scontato grazie all’accordo con l’editore italiano, Adelphi. Sono sette titoli fra i più interessanti, da “Un romanzo russo” a “L’avversario” a “Limonov” al recente “Yoga” in cui fra l’altro Carrère dice di sé: «Vorrei essere un uomo buono, vorrei essere un uomo attento ai suoi simili, vorrei essere un uomo affidabile. Sono narcisista, instabile e ossessionato dall’idea di essere un grandeForsescrittore».èanchequesta sincerità a intrigare i suoi tanti lettori, la capacità di Sandra Petrignani
In Francia va la rockstar di carta
pieghi più umili. Ed entra così bene nel ruolo da diventare amica di altre donne, sfruttate e abbrutite dalle pesanti condizioni di lavoro. Ma l’umiliazione più grossa quelle giovani donne la subiranno proprio da lei, libera di allontanarsi dal loro mondo degradato, tradendo la loro amicizia per scrivere il suo libro e averne affermazione e successo. È la domanda che un autore come Carrère si pone continuamente: quanto si è responsabili, come artisti che s’ispirano alla propria vita e a quella degli altri, verso le persone coinvolte? È lecito utilizzare “vite che non sono la nostra” - parafrasando un altro suo titolo - per scrivere fiction? Amici, conoscenti, ma soprattutto amanti, fidanzate, ex mogli dello scrittore - raccontano le cronache - si sono spesso risentite. E quest’aura di scandalo non è stata ininfluente sulla fama della sua opera.
Bridgeman/Matsas/Bridgeman,P.VictorContrasto./PressCameraFoto:
Quasi fosse lo scandalo una componente ineliminabile dell’attualità letteraria francese, l’altro campione della narrativa d’Oltralpe, Michel Houellebecq, nato nel 1956 e di un solo anno più vecchio del collega, sembra divertirsi a scatenare polemiche fin da “Le particelle elementari” (Bompiani 1998), salutato come «il grande romanzo di fine millennio» che lo rese famoso anche in America offuscando persino la notorietà di Bret Easton Ellis. Aveva scritto fin lì poesie, libri critici e un altro interessante romanzo, “Estensione del dominio della lotta” (1994) dove c’era già tutto l’Houellebecq misogino, irritante, irriducibile, erotomane e disperato che avremmo conosciuto meglio nel tempo. Nuovo e scioccante il suo attacco alla società e ai suoi riti, il suo sarcasmo contro Dio e gli uomini. Un pessimismo radicale gli fa descrivere già allora l’umanità (con straordinaria preveggenza) come «infelice e travagliata», in un mondo dove sono scomparsi quasi completamente «i sentimenti d’amore, di tenerezza e di umana fratellanza» sostituiti da «indifferenza e crudeltà». Incandescenti polemiche s’accendono a ogni intervista per il lancio di un nuovo libro in un crescendo che arriva, dopo “Piattaforma” (2001), romanzo sul turismo sessuale come grande consolazione del maschio occidentale tartassato da revanchismi femministi, in cui un attentato di matrice islamica distrugge con la protagonista, dea del sesso e grande amore del protagonista, ogni sua voglia di vivere. E Houellebecq, commentando il proprio libro, arriva a dire con l’imprudenza che lo caratterizza: «La religione più stupida è l’Islam, la lettura del Corano lascia prostrati». Ma è con “Sottomissione” del 2015 che si caccia davvero nei guai e preferisce lasciare Parigi e isolarsi in un posto segreto per sfuggire possibili vendette (proprio nel giorno dell’uscita del libro c’era stato l’attentato al giornale satirico Charlie Hebdo, il 7 gennaio, che causò venti morti). Anche se quel romanzo, parlando di una tranquilla affermazione della politica e religione musulmana in Francia, è un’accusa, ancora una volta, alla società occidentale sbrindellata e arresa, piuttosto che all’Islam. A partire dal libro successivo, “Serotonina” (2019, pubblicato da La nave di Te-
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Lei è forse la più brava. E senza bisogno di fare sempre scandalo, di esibirsi dentro nuvole polemiche o imbarazzanti pubbliche confessioni
manzo di Reza, “Serge” (2021), in cui centrale è la visita ad Auschwitz che fa un gruppo familiare di origini ebraiche. Un viaggio che diventa dolorosa metafora dell’insignificanza e superficialità dei nostri giorni in cui anche la più grande delle colpe umane si trasforma in spettacolo, in affollato giro turistico. «Stanotte vedo chiaramente il nostro scarso peso, il nostro essere un nulla», dice a un certo punto un personaggio. Ma Reza andrebbe citata dall’inizio alla fine per il suo sguardo senza sconti su uomini e donne, per il senso della letteratura che scorre nelle sue pagine come nelle vene il sangue («…uno scrittore, vale a dire qualcuno che cerca di salvarsi con le sue sole forze» dice in “Adam Haberberg”, romanzo del 2003), per la capacità di rinnovarsi e cercare nuove vie espressive. Come quando ha seguito la campagna elettorale di Nicolas Sarkozy ricavandone l’indimenticabile ritratto di “L’alba la sera o la notte” (2007) con sconfortanti riflessioni sul fare politica, o quando nei bellissimi racconti “Felici i felici” (2013) conclude: «Perfino la vita, a lungo andare, è un valore insulso».Èunaconvinta lettrice di Houellebecq, Reza, al quale riconosce di «aver visto arrivare la disumanità del mondo». Che sia lei, alla fine, la più brava? E senza bisogno di esibirsi dentro nuvole polemiche o imbarazzanti pubbliche confessioni. Solo descrivendo l’umano: «Anche tu avanzi negli anni, esattamente come tutti quelli che conosci, e in qualche modo mi sono sentita parte di questa folla in viaggio, mano nella mano, che avanza negli anni verso qualcosa di ignoto» (“Babilonia”, 2016).
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74 21 agosto 2022 LetteraturaIdee (2)WebphotoFoto: seo, suo nuovo editore italiano) la poetica dello scrittore si ripiega intorno a una crescente depressione individuale, aggravata dalle sorti preoccupanti di un Occidente in irreversibile declino. Anche l’amore e il sesso sembrano non essere più le grandi risorse del maschio invecchiato. Fino al recente “Annientare” dove Houellebecq sembra perdere la bussola e passa dal raccontare uomini d’affari, con le loro «zoccole» e «puttane», a complicatissimi sabotaggi politici in rete, alla decadenza della vecchiaia e altri orrori, come suicidi e malattie atroci, in ottocento pagine al limite del sopportabile e dell’incoerenza che però riescono miracolosamente a non perdere la capacità di tenere avvinti i lettori, coccolarli, inorridirli, accarezzarli, straziarli.Non sappiamo quali vicissitudini stiano accompagnando la sua vita, mentre Carrère di se stesso sembra raccontarci tutto spudoratamente, ma quel che incuriosisce di più, forse, è il rapporto che hanno fra loro questi due campioni delle lettere francesi, così diversi e diversamente rappresentativi dell’oggi. «Mi proteggo da Houellebecq», ha scritto Carrère, pur proclamandosene lettore e ammiratore - nonché invidioso della sua popolarità planetaria - nel libro collettivo dedicato al collega, “Cahier” (Nave di Teseo 2019). Prende le distanze, Carrère, soprattutto dalla visione nera del collega. «I libri di Houellebecq, in fondo, non mi fanno bene. Mi ispirano cattivi sentimenti - nei riguardi di me stesso, nei riguardi della vita…» E poi, dice ancora, Houellebecq ha la presunzione di «dire la verità», e per questo scrive in terza persona, mentre a lui è preclusa, lui non può che vedere le cose in soggettiva ed esprimersi in prima persona. E Houellebecq per parte sua ricambia la cortesia in un analogo volume dedicato a Emmanuel Carrère, “Faire effraction dans le réel” (Pol), in cui lo separa nettamente dalla «schiera abbastanza penosa di mediocri» degli altri scrittori francesi contemporanei (di cui fa pure i nomi) e confessa di essersi profondamente commosso per come affronta il problema del dolore e del male.
Ma questi due re non sono soli a occupare la scena. C’è una regina, appena più giovane di loro (è del 1959), rappresentata come autrice teatrale dai più grandi interpreti in tutto il mondo, abbondantemente tradotta per la sua narrativa anche da noi (Bompiani e, ora, Adelphi). È Yasmina Reza, che il cinema ha avvicinato a un pubblico più popolare con il film di Roman Polanski tratto da una sua appuntita pièce, “Il dio del massacro”. E particolarmente appuntito, vicino a una visione catastrofica della nostra storia che potrebbe rimandare a Houellebecq, ma con più contenuta e spietata consapevolezza, è anche l’ultimo ro-
Una scena dal film “Le particelle elementari”, dal romanzo di Houellebecq. Sopra: “Tra due mondi” di Carrère
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76 21 agosto 2022 Protagonisti ntidivo, idealista e poliglotta, Viggo Mortensen non è affatto “solo” un attore. Certo, ha interpretato personaggi memorabili, dal famoso Aragorn di “Il signore degli anelli” a Sigmund Freud di “A dangerous method”; dal padre di una famiglia anticonvenzionale di “Captain Fantastic” o di un bambino alla fine del mondo di “The Road”, fino all’autista italoamericano di “Green Book” e al chierateCinenbergtoriale,unzionidadiaSeydoux):conmetàmacabrounaMortensendichirurgiaSiamoloruolosala,Festivalnenberg.nuovomer(sugrottasquadrareduescestemriguarda,sessioneirsimentoallere,verominutosassino”.gansgterrussodi“Lapromessadell’as-Mabastaparlarciqualchepercapirlo:Mortensenèunartista,fotografo,scrittore,pitto-poeta,registaeinterpreteallergicoetichette,deditoall’approfondi-ecapacecomepochidicostru-unacarrieradituttorispetto.L’os-dapremiecopertinenonlolebizzarriedellostar-sy-nonlosfioranoneanche,preferi-osaredirettamentesulset.Cosìa63anniscegliedicalarsiinruoliagliantipodi.Unsoccorrito-coraggiosointentoasalvareunadicalciointrappolatanelladiThamLuangin“Tredicivite”AmazonPrimeVideo)eunperfor-mutantein“Crimesofthefuture”,lavorofirmatodaDavidCro-PresentatoinanteprimaaldiCannesedal24agostoinlovedecimentarsinell’ennesimoborderlineeparadossalecheso-luièingradodirenderecredibile.inuntempofunereoincuilasiattestacomenuovaformaamoreedispettacolo,vediamocontorcersisenzasostasusediafattadiossa.C’èdibaseunesperimentosulsuocorpoatrascienzaearte(checondividelapartnerinterpretatadaLeaunospettacolod’avanguar-incuiproliferanotumorieorganifarsiestrarreinspettacolariopera-liveperstomaciforti.«Oltrechegenioconunnotevolespessoreau-brillanteeprovocatorio,Cro-èunodeimieipiùcariamici.facciamoinsiemelunghechiac-dipolitica,musica,letteratu- ra, storia e abbiamo un’ottima intesa», racconta. «Sul set non oso mai mettere nulla in discussione, mi lascio andare alle sue visioni e all’avventura del nostro viaggio insieme». Lavorare con Seydoux non gli è affatto dispiaciuto: «Ho scoperto una collega generosa e con un grande umorismo, sempre pronta a sperimentare i visionari scenari di Cronenberg che gli diceva: “Ok Lea, in questa scena devi giusto spogliarti e fingere di sanguinare dai tagli che ti vengono fatti”, come fosse semplice, e non lo era. È stata brava a rendere facile la creazione di una forte alchimia tra di noi». Sul film, che ha già suscitato scalpore, aggiunge: «È la Attore, fotografo, poeta. Ha interpretato personaggi memorabili, da Aragorn a Freud, senza narcisismi. Adesso è nel nuovo film di Cronenberg: “Mi abbandono alle sue visioni”
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Antidivo
Una foto di scena del film “Il Signore degli Anelli: il ritorno del re”. A destra: Viggo Mortensen, 63 anni riflessione di un grande autore sull’arte e la mortalità che, per chi tiene aperta la mente, consente di pensare al corpo, alle conseguenze del suo decadimento e dell’invecchiamento. Ma anche alle nostre manipolazioni su fisici e sentimenti, ai danni sull’ambiente e a come impattino fisicamente e mentalmente sui nostri corpi, a quali forme devono assumere questi ultimi per sopravvivere in un clima ostile. Il cinema di Cronenberg è sempre stato un passo avanti, i suoi film puntano alla pancia e alla testa, provocando sia reazioni viscerali che riflessioni intellettuali». Una cosa, su tutte, gli invidia: «Il suo saper scherzare di tutto e ridere delle difficoltà della vita. David è un ottimista cronico, capace di sorridere anche quando tutto va per il peggio».Perché i momenti bui, anche se sei uno degli attori più stimati da critica e pubblico di tutto il mondo come Mortensen, arrivano: «Ogni volta che passo un periodo negativo penso al fatto che c’è sempre chi sta vivendo qualcosa di più grave. Divento amico dei miei problemi accettandoli e pensando a tutti coloro che avrebbero ottimi motivi per lamentarsi di continuo e non colloquio con Viggo Mortensen di Claudia Catalli e molto altro
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lo fanno. Penso a quelli che ogni giorno si rimboccano le maniche sapendo che la vita va presa così com’è, con i suoi alti e bassi, senza mai rinunciare a sogni e ideali». Il suo ideale era costruire una carriera lontana dai riflettori e vicina all’arte: «Il mio criterio per scegliere un film è sempre stato pormi una domanda semplicissima: questo personaggio mi piace tanto da poterne tirare fuori qualcosa di buono? Se la risposta è positiva accetto, se è negativa devo per forza rifiutare. Non ci sono soldi, prestigio o numero di spettatori che tengano. Il momento della scelta per me è sacro, dal primo giorno in cui ho fatto questo mestiere ho deciso che sarei stato devoto solo al “lavoro”, non a tutto ciò che lo circonda: so di ottenere 101 per cento in più di attenzione per quello che faccio, non per come mi espongo. Le sirene di budget, fama, premi, feste e ovazioni da grande pubblico non mi hanno mai incantato». Da che cosa si fa sedurre, allora, Mortensen? «Dal cinema e dalla sua magia, che ha ancora un forte potere su di me. Lo ha da sempre, da quando da bambino mia madre mi teneva in braccio a guardare i suoi film preferiti. Da padre ho fatto lo stesso con mio figlio (Henry, 34 anni, ndr)». Condividere è una delle sue parole preferite, la usa spesso, non
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solo a proposito delle sue passioni: «Abbiamo perso, non solo nel mondo dello spettacolo, il senso del “sentire con”. Sentire con gli altri, in primis. Provare a trovare qualcosa in comune con lo sconosciuto che ti siede accanto. Eppure abbiamo così bisogno di empatia». Lontano dal narcisismo di molti suoi colleghi, Mortensen riguarda volentieri i film che ha fatto: «Non capisco chi ha un rifiuto e non riesce a rivedersi sullo schermo, sarà che io sono contento di tutto quello che ho scelto. Anzi da certi autori con cui ho lavorato imparo non solo sul set, ma anche riguardandone i film più volte, scoprendone lati sempre diversi». È il suo carattere, del resto: «Anche nella vita di tutti i giorni non sono il tipo pieno di certezze che presume di sapere, sono piuttosto quello che tende a chiedere scusa, a voler imparare, consapevole che posso sempre dare di più e fare meglio». Meglio di “Il Signore degli Anelli”? «Quella fu una grande avventura, ricordo ancora quegli incredibili paesaggi della Nuova Zelanda e il grande affiatamento che avevamo con il cast. Peter Jackson, a cui tuttora devo molto, ci teneva uniti in un clima molto simile a quello dei piccoli film indipendenti». Invece è stato un successo mondiale: «Ancora oggi mi fermano per ricordare Aragorn, come detto non rinnego nulla, anche se avrei preferito che altri miei film avessero la stessa visibilità, non tanto per me, quanto per gli autori e registi di talento che vi hanno lavorato. “Il signore degli anelli” mi ha dato tanto a livello personale, a livello professionale mi ha garantito di poter scegliere dove indirizzare la carriera. Sento di essere stato fortunato. E dire che accettai all’ultimo, solo perché mio figlio era un fan di Tolkien: fu lui a “spiegarmi” il background di Aragorn. Nessuno di noi aveva la più pallida idea che sarebbe diventato il film che poi è stato, visto e applaudito in tutto il mondo. Guarderò adesso la serie con curiosità». Si riferisce a “Il Signore degli Anelli: Gli anelli del potere”, dal 2 settembre su Amazon Prime Video. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA
personaggio che mi piace molto, è anche cambiato col tempo, ora risulta meno compresso. Ha cambiato look, Vittoria si è trasformata in una donna più sicura di sé. E interpretarla per tanti anni ha reso più forte anche me». Sul set è in compagnia di un attore con il quale ha lavorato tanto anche in teatro: Filippo Timi. Come vi siete conosciuti? «Ci siamo conosciuti al centro sociale Link di Bologna, credo nel 1998. di sulLuciaset
78 21 agosto 2022 ausa pranzo. «Almeno stacco un attimo», dice lei. In quell’oretta però, più che riempire lo stomaco con un po’ di cibo riempie la stanza di parole. Prende una sedia, si mette comoda e inizia a raccontare. «Non mi fermo mai, a volte mi sorprendo anch’io. Riesco a fare cose incredibili...». Per esempio? Cenare sul lago di Como e presentarsi il mattino dopo, sul presto, nell’isola d’Elba, tanto per citare alcuni dei luoghi più recenti in cui Lucia Mascino (ricordate “Una mamma imperfetta”?) ha trascorso le sue giornate, passando da un set cinematografico all’altro. Pur di rispettare gli impegni di lavoro fa di tutto e agisce col buio. «Io uso la notte per viaggiare, è proprio in quelle ore che andrebbe girato il vero film! Altro che 007», scherza l’attrice: «Ho anche affrontato delle traversate notturne in gommone pur di arrivare in orario sul set. Il vantaggio di oggi, rispetto a tanti anni fa, è che adesso gli spostamenti sono più organizzati. Una volta non lo erano. Mi capitò, un giorno, di non riuscire a raggiungere il posto in cui dovevo tenere un laboratorio. Fu un disastro». Partiamo proprio dal cinema allora. Per la prima volta la vedremo recitaP
L’ipercosa colloquio con Lucia Mascino di Francesca De Sanctis re in un film con con Aldo, Giovanni e Giacomo, “Il più bel giorno della nostra vita”, in uscita a Natale. Un’esperienza molto diversa rispetto al percorso intrapreso finora, come è andata? «Sì, è vero, un’esperienza diversa ma di cui sono molto contenta. Un giorno è venuto a vedermi recitare in teatro il regista Massimo Venier. Dopo aver assistito al monologo mi ha raccontato del film a cui stava lavorando e mi ha chiesto se volevo farne parte. E così eccomi nel ruolo della madre che lascia tutto, figlia compresa, per trasferirsi in Norvegia. Poi però la figlia si sposa, lei arriva al matrimonio e spariglia tutte le carte. Mi piace questo personaggio perché è libero e indipendente. E completamente disinteressato a ciò che pensano gli altri. Io vengo dalla provincia, da Ancona. E lì si dice “come fai sbagli”. Ecco una delle cose belle di una grande città come Roma, per esempio, è che nessuno ti giudica, sei libero di lasciarti andare. Ed è questo che mi piace del personaggio, per il resto siamo due donne molto diverse». Ha appena finito di girare anche il nuovo episodio della miniserie Sky “I delitti del Barlume”. Si sarà affezionata al commissario Fusco... «Il commissario Vittoria Fusco è un
La vita di provincia, la dellalibertàgrande città.
Tra cinema e teatro
Gli con“VorreihaOraimportanti.incontril’attriceunsogno:lavorareAlmodóvar”
atro, al cinema, fino alla bellissima serie tv di Marco Bellocchio». Ci sono anche incontri mancati, incontri mai avvenuti ma sognati... «Si, tanti. Mi limito a citare alcuni registi stranieri con i quali mi piacerebbe lavorare: Baz Luhrmann, Fatih Akin e Pedro Almodóvar». Prima del cinema e del teatro c’era la matematica, giusto? «Sì, la matematica è stato il mio primo amore, tant’è vero che mi ero anche iscritta alla Facoltà. Ma già durante il periodo delle scuole medie avevo una certa predilezione per le materie più creative. Per esempio amavo dipingere. Scrivevo anche dei raccontini. Al compleanno della mia amica Valentina le regalai un cd in cui io cantavo “Auschwitz” di Francesco Guccini. Insomma, mi piaceva regalare emozioni. Poi un giorno mi sono iscritta a un corso di teatro sperimentale e mi sono detta: “Oddio, è questo che voglio fare!”». E i racconti di famiglia su Virna Lisi che effetto avevano su di lei? «Dunque, Virna Lisi era la cugina di mio padre. E in casa si parlava di lei, che però viveva a Jesi. In effetti io l’ho incontrata una sola volta all’aeroporto di Parigi, stava andando a Cannes. Abbiamo parlato poco e questo un po’ mi dispiace. Poi nel 2014 feci un provino proprio per interpretare sua figlia, ma lei morì poco dopo e così non abbiamo mai lavorato insieme. Però nel corso degli anni ho incontrato la sua truccatrice, la sua parrucchiera che mi hanno parlato molto di lei». In questi ultimi due-tre anni ha riflettuto su sé stessa, sul suo lavoro?
Contrasto/LovinoF.Foto:
Lui faceva già parte della compagnia di Giorgio Barberio Corsetti e in quei giorni teneva un laboratorio. Lui faceva la ruota senza mani e io correvo in cerchio dicendo “Non mi basta, non mi basta” per un provino. Ci siamo riconosciuti, avevamo tutti e due quella “ipercosa”, quell’essere continuamente attivi, sì è la “ipercosa” che ci unisce. Poi ci siano rivisti sul set di un film. Un giorno Giulietta De Bernardi mi disse: “Sto girando un film
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Un altro incontro importante è stato quello con Lucia Calamaro, autrice di “Smarrimento”, un monologo cucito addosso a lei. Come ci si sente ad essere per la prima volta in scena da sola? «Senti che stai facendo un azzardo... Ci sei solo tu e basta. Non hai appigli. E Lucia Calamaro è contraria ad ogni forma di istrionismo. Questo significa, per esempio, che se c’è un uomo da interpretare, quell’uomo avrà la mia voce e basta. Situazione difficile, che però può essere anche di sblocco, desiderio di entrare in conflitto con il pubblico, cosa che al cinema non succede. Questo monologo ha debuttato nel 2019, ma poi è rimasto fermo a causa della pandemia, finché fra gennaio e febbraio è stato a Roma, Napoli e Milano. L’incontro con Lucia, come quello con Filippo, sono incontri speciali. Lo è anche quello con Giuseppe Piccioni, per esempio. Ecco, ci sono incontri che lo sento, hanno un potenziale. Mi piacerebbe sviluppare fino in fondo certi potenziali, anziché intraprendere nuove strade. E magari approfondire certi personaggi. Penso, per esempio a Fabrizio Gifuni e al lavoro portato avanti con il personaggio di Aldo Moro, in teLucia Mascino, 45 anni
«Ho capito che avevo fatto tante cose che non avevo voglia di fare. A me interessa far accadere qualcosa. Scrive Nureyev: “Non avrei mai fatto il ballerino, non potevo permettermi questo sogno, ma ero lì, con il mio corpo che si apriva alla musica, con il respiro che mi rendeva sopra le nuvole. È la legge dell’amore: si ama perché si sente il bisogno di farlo, non per ottenere qualcosa o essere ricambiati, altrimenti si è destinati all’infelicità”».
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con papà (il regista Tonino De Bernardi), c’è anche Filippo Timi, vuoi venire?”. E così sono andata. Giulietta ha cominciato a dirmi “buttati in scena, buttati in scena”. Alla fine mi sono ritrovata dietro un bancone mentre baciavo Filippo. Quella scena è finita nel film “Fare la vita”. Poi io e Filippo abbiamo lavorato molti anni insieme in teatro, prima nella compagnia di Giorgio Barberio Corsetti (“Graal”, “Il processo”, “Metafisco cabaret”, eccetera), fino ai suoi spettacoli, da “Il popolo non ha il pane? Diamogli le brioches” fino a “Preghiera della sera”, nato durante il periodo di pandemia e che tornerà in scena dopo l’estate. Siamo diventati amici, diversi ma simili. Una sera venne a vederci anche Mariangela Melato. Andava in scena “Favola”. Dopo lo spettacolo venne in camerino e disse: “Non lasciatevi mai”. Fu una gran bella soddisfazione, io l’adoravo».
La storia di Gino Strada, nonl’Europa.efuggireorfanoafghano,ragazzinol’incontroattraversoconuntredicenneYanis,decisoadalsuoPaesearaggiungereFinchéincontrailgrande medico che costruisce ospedali e che dà al mondo un esempio unico di generosità e di umanità. Ne ascolterà le storie, ne seguirà le orme, sperimenterà il suo magnetismo e la straordinaria forza. Tratteggiando un emozionante ritratto del fondatore di Emergency, esaltato dalle illustrazioni di Ernesto Anderle.
21 agosto 2022 81 Bookmarks/i libri GIOCO DI OMBRE
“IL RAGAZZO CONTRO LA GUERRA” di Giuseppe Catozzella Mondadori, pp. 192, € 16 “VOCI E
Come un “pellegrino della bellezza”, sospeso tra il bene e male, il sublime e l’orrore che avanza. (traduzione di Guglielmo Alberti).
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I diari italiani, nel tempo difficile della guerra, del grande storico dell’arte, tra inviti alla bellezza e l’aria funesta, le lotte e la paura per l’avanzata del fascismo. americanoBerenson,natoinLituania, è a Firenze, immerso nelle suggestioni di Giotto e di Ambrogio Lorenzetti. Studia Mantegna, rilegge Benedetto Croce, assapora i versi di Shelley.
Finché, in questo spietato denudarsi di quelle che sono, tutte, spoglie funebri, anche l’Altrove hollywoodiano assume il sapore di un alibi, di risposta mancata alla domanda “Che ci faccio qui?” Mentre l’identikit di Carla Longhi si consuma, e l’ultima bambolina rimasta in mano si rivela trafitta da spilloni, come in un rito voodoo, con le sembianze di ognuno di noi. RIPRODUZIONE RISERVATA
“QUCHI. QUELLO CHE HO INGOIATO” di Caterina Venturini E/O, pp. 265, € 17
LaBernardRIFLESSIONI”Berenson1941-1944navediTeseo,pp.635,€26 “TRA RUSSIA E CINA” di Colin Thubron Ponte alle Grazie, pp. 336, € 18,50 A cura di Sabina Minardi LAURA PUGNO
Il grande viaggiatore inglese si rimette in cammino a 80 anni compiuti, deciso a bordeggiare un all’Oceanosorgentidell’Asia,l’Amur.semisconosciuto,fiumeÈilcuoredallemongolefinoPacifico.E una frontiera tra le due potenze, di suggestivo valore per comprendere le relazioni tra i due Paesi. Tra steppa e foresta, a cavallo, in barca, in treno, il viaggio diventa in breve una lezione di storia, di geopolitica. Un’avvincente prospettiva per comprendere meglio i due grandi Paesi.
Nel dialogo con un alter ego, la ricostruzione di un’identità in frantumi Ogni genere di successo, lo sappiamo, tende a produrre le proprie parodie, come accade per il mockumentary – e in qualche caso il falso documentario – per il documentario. E dato che l’autofiction, che al documentario strizza un po’ l’occhio, è il genere letterario più di successo degli ultimi tempi, proviamo a leggere “Quchi – Quello che ho ingoiato” (E/O) di Caterina Venturini come un tentativo, esplicito e dichiaratamente corrosivo, di mettere in crisi la potente forma dilagante che Loredana Lipperini in un recente articolo su L’Espresso chiamava selfie lit, attraverso un gioco di maschere, un complesso congegno di matrioske, una mise en abîme. Chi riflette lo specchio, chi contiene la forma di bambola sempre più piccola, chi dice io? Apparentemente, la Carla Longhi destrutturato alter ego dell’autrice, che continuamente mette in crisi la sovrapposizione io/non io che pure postula. Una scrittrice emigrata a Los Angeles con un groppo non masticato di infelicità rimaste in gola, conficcate nel luogo del linguaggio; e un nome, Carla Longhi, che gioca in modo parlante con Carla Lonzi, la teorica femminista di “Sputiamo su Hegel”, citata en passant come facciamo con le verità più vere, con ciò che confessiamo e allo stesso tempo cerchiamo di nascondere. Di Carla Lonzi, genealogia imponente, il personaggio dialogico Carla Longhi è l’Ombra junghiana o solo l’ombra. Madre per caso, expat per caso o per amore, studiosa in crisi con più carriere alle spalle, tutte inceppate, dall’insegnamento scolastico al percorso universitario, nei quotidiani meccanismi dell’autopromozione letteraria, della lotta di classe sotto mentite spoglie, degli ascensori sociali bloccati al piano ai tempi dei social media.
L’altra Africa Stilose, sorprendenti e determinate. Animano la nuova associazione femminile del Congo sfidando il monopolio maschile. E si concedono all’obiettivo di una reporter che ha l’ambizione di raccontare il Paese oltre i cliché CONGO La rivoluzione elegante Contro gli stereotipi sull’Africa ma in giacca e cravatta di Vincenzo Giardina foto di Victoire Douniama Alcuni dei ritratti di Victoire Douniama 82 21 agosto 2022
Storie
C’è Blandine Nkouka, in completo blu, papillon e gilet, che con un cenno della mano invita a vincere lo stupore e ad avvicinarsi. Il suo nome d’arte è Le Messie, “il messia”. Con lei nella foto c’è Nicole Ayelassila, giacca e pantaloni a righe color malva. In tanti la chiamano La parisienne, “la parigina”. È in posa come Tsiba Bifouma, che prova un passo di danza. Occhiali scuri, foulard e fazzoletto da taschino, ha i capelli tinti di giallo, verde e rosso, come la bandiera tricolore del suo Paese, la Repubblica del Congo. Queste tre donne, tra i 43 e i 53 anni, non sfilano su una passerella a Parigi o a Milano ma sono agghindate a Brazzaville. Si fanno ritrarre sullo sfondo di un muro dipinto di rosa un po’ scalcinato, dalle parti del bar Bif, nel quartiere di Bouéta Mbongo. Sono “sapeuses”: stilose, sorprendenti e rivoluzionarie in abiti firmati, animano la nuova Association des femmes féminines du Congo sfidando il monopolio maschile dello storico movimento anti-coloniale della Sape, una parola nata dalla storpiatura del verbo francese “s’habiller” e allo stesso tempo acronimo di Société des ambianceurs et des personnes élégants, l’organizzazione dei festaioli e dei signori alla moda. A ritrarle è una fotoreporter di 25 anni, Victoire Douniama, che come loro non ama gli stereotipi. «Sono nata in Congo ma i miei genitori hanno voluto che ancora bambina mi trasferissi in Sudafrica con mia sorella per studiare», racconta. «Quando ho deciso di tornare a Brazzaville non sapevo cosa aspettarmi, eccetto le uniche cose che riferiscono i media internazionali, con la classica descrizione del “Paese tra i più poveri al mondo” e “dilaniato dalla guerra”». In riva al fiume Congo, Victoire ha continuato a guardare con i propri occhi, come aveva imparato a fare viaggiando da piccola. E a scattare. Momenti di vita quotidiana soprattutto, in strada o al mercato. Dove le acquirenti indossano il pagne, il tessuto tradizionale stampato a colori vivaci, ma capita di incontrare anche La parisienne, che lavora come venditrice ambulante senza rinunciare all’eleganza.
«Quella della Sape è solo una delle storie affascinanti e inaspettate nella Repubblica del Congo», spiega Victoire. «Il movimento era nato come forma di protesta anti-coloniale, come parodia della moda europea, ma è cresciuto anche dopo l’indipendenza dalla Francia del 1960; negli ultimi anni sono arrivate le donne, con un nuovo spirito rivoluzionario, decise a sfidare la società patriarcale e a lottare per la libertà di espressione». L’inizio della storia viene fatto risalire al 1922, quando un carismatico ribelle, André Grenard Matsoua, oppositore congolese a Parigi con simpatie comuniste, tornò 21 agosto 2022 83
L’altra Africa 84 21 agosto 2022 l’ha girato anche con le sue esposizioni in Svizzera e a New York. «Il punto è raccontare le altre storie, non solo quelle dei governi corrotti, dei conflitti senza fine o dei diritti umani calpestati sempre e comunque». Il prossimo lavoro di Victoire sarà dedicato alle comunità di pigmei Aka, cacciatori-raccoglitori nelle foreste al confine con la Repubblica centrafricana, custodi di tradizioni orali e musiche polifoniche celebrate dall’Unesco come «capolavori del patrimonio immateriale dell’umanità». L’impegno della fotografa resta proporre sguardi nuovi sul Congo, superando le descrizioni in stile “Cuore di tenebra” ancora in voga nonostante siano trascorsi più di 130 anni dal viaggio di Joseph Konrad sul vaporetto Roi des Belges in quello che allora era lo “Stato libero” di re Leopoldo. «I notiziari internazionali sembrano capaci di raccontare solo nuovi orrori», denuncia Victoire: «Come se in patria vestito da vero monsieur. Fuori dagli schemi, proprio come le “sapeuses” ritratte da Victoire: per un completo pagano anche l’equivalente di 800 euro, in Congo cinque mesi di stipendio medio. È una ribellione o una follia? Un atto di fede nei capi di Dior, Armani o Gucci oppure una loro caricatura, un originale stravolgimento che rende l’eleganza un diritto sociale, riscoprendo magari il senso di una lotta di classe? Una delle risposte possibili è che il Congo non è solo la Repubblica di Denis Sassou Nguesso, presidente-padrone al potere dal 1979 grazie ai giacimenti di petrolio, prima marxista-leninista e poi alleato dei francesi e pure dei cinesi. E non ci si può neanche fermare alle statistiche della Banca mondiale, secondo le quali una persona su due vive in condizioni di povertà estrema. «Capiamoci, non sono contro i media internazionali», riprende Victoire, che il mondo in questo Paese non ci fosse null’altro di interessante, degno di esser visto e conosciuto da un viaggiatore o magari da un turista». Enon si tratta solo del Congo, quello di Brazzaville o quello sull’altra sponda del fiume, l’ex Zaire con capitale Kinshasa ribattezzato Repubblica democratica. A mettere in discussione luoghi comuni sull’Africa è però un numero crescente di autori. Prendete Moky Makura, 47 anni, ex attrice, conduttrice tv e manager originaria della Nigeria. Nata a Lagos da una famiglia di tradizione regale, si è laureata in Inghilterra e trasferita in Sudafrica, dove è divenuta famosa come conduttrice del talk show Carte Blanche e per aver recitato in Jacob’s Cross, una serie tv descritta spesso come “panafricana” perché l’attualità politica della “nazione arcobaleno” si intreccia a una
Iservizi di Africa no filter sono distribuiti gratuitamente a 50 media subsahariani e hanno titoli non scontati, come “Mogadiscio di notte”, “Macché diaspora, i giovani di Mauritius vogliono restare” oppure “In Zimbabwe un avvocato combatte il Covid-19 con le sculture”. L’idea è affrontare una debolezza, legata alla carenza di risorse economiche e dunque di indipendenza delle redazioni locali. «Secondo uno studio che abbiamo condotto su 60 testate dal Kenya alla Nigeria, in almeno quattro casi su cinque le notizie diffuse dai media africani su altri Paesi del continente sono hard news tutte al negativo, dedicate a conflitti, violenze elettorali o disastri umanitari», sottolinea Moky. Come e più che altrove domina il principio «if it bleeds, it leads», secondo il quale omicidi e disastri fanno copie e click.
Storie 21 agosto 2022 85 Il servizio realizzato da Victoire Douniama con l’obiettivo di raccontare attiviste e attivisti dei movimenti della Repubblica del Congo riflessione sulle mille identità del continente. Moky ha lavorato nella comunicazione per la Bill & Melinda Gates Foundation e pubblicato Africa’s greatest entrepreneurs, bestseller sugli imprenditori subsahariani di maggior successo con prefazione del miliardario britannico Richard Branson. Le narrazioni sono al centro anche di un suo nuovo progetto, nato in tempi di pandemia di Covid-19, smart working e redazioni diffuse. Si chiama Africa no filter, come dire l’Africa raccontata senza filtri o paraocchi, ed è alimentato ogni giorno dai contributi multimediali di autrici e giornaliste connesse a Johannesburg, Kampala, Lagos o Harare. Dimenticate gli alberi di acacia nella savana al tramonto, immagine stereotipata finita sulle copertine di mille libri, come ha denunciato con amara ironia Africa is not a country, un blog nato per contrastare l’idea che il continente sia un monolite indistinto e non invece un caleidoscopio di Paesi e culture differenti tra loro. L’impegno è affrontare il «vero problema», cioè chi racconta la storia, ci spiega Moky: «Almeno un terzo delle notizie pubblicate dai media del continente sono prodotte da testate che hanno base in Europa, Cina o Nord America, e questo finisce per condizionare i contenuti rilanciando stereotipi o soddisfacendo aspettative che non sono le nostre». Bisogna allora rimuovere il filtro, raccontando le storie non viste o bypassate da emittenti globali come Bbc, Xinhua o France24.
Africa no filter prova a cambiare le regole e ad approfondire le vicende «di interesse umano» senza rinunciare a qualche provocazione. Ad esempio proponendo «le buone notizie per legge», con un’avvertenza: puntare sulle altre storie non vuol dire fare propaganda in favore di questo o quel governo. Lo confermano i record di like su Facebook per un articolo su un insegnante keniano vincitore del Global teacher prize grazie al suo lavoro in una scuola di campagna oppure la tiktoker Marie Mbullu, che sul canale Habari Njema (“buone notizie” in lingua swahili) surclassa i media tradizionali sfiorando cinque milioni di visualizzazioni per post. Che sia ora di cambiare prospettiva Moky lo sottolinea anche in un commento per l’emittente americana Cnn, ricordando ad esempio come sei Paesi subsahariani, Namibia, Capo Verde, Ghana, Sudafrica, Burkina Faso e Botswana, stiano sopra agli Stati Uniti nella classifica della libertà di stampa World press index. Il punto a ogni modo non sono le contrapposizioni ma i mondi che si incontrano di continuo. Moky lo evidenzia parlando della prossima sfida. «Così com’è oggi, con i criteri del mercato Africa no filter non sarebbe sostenibile», ammette: «E fa riflettere il fatto che a supportare il progetto sia per ora solo una realtà con base nel continente, la fondazione del magnate nigeriano Tony Elumelu, mentre i nove donor sono tutti americani o britannici».
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il nastro della sua travagliata vita. Lui faceva parte di quei sedici “cani” che non venivano mostrati alle telecamere: «Mentre gli altri avevano dei genitori che una o due volte al mese venivano a prenderli per portarli a casa e che li avevano lasciati lì per mancanza di soldi, noi eravamo pure abbandonati da Dio: i nostri genitori ci hanno abbandonati lì senza mai venirci a trovare, io sono stato l’errore di una notte di sesso e con mio fratello ci siamo ritrovati dentro questa struttura dove ci trattavano male, ma le barbarie non sono le bastonate o le notti dentro la “carbonaia”, neanche le notti al gelo con i piedi nella neve solo per educarci. C’era di peggio». E quel peggio va oltre i controversi metodi educativi utilizzati dalle “signorine”: era l’incubo di ogni weekend, quando ai 16 “cani” veniva offerta l’occasione di essere “liberi”, di uscire da quel muro infinito dove oggi viene raffigurata una bambina che squarcia il velo di quell’oscuro mondo e riesce a scappare. Loro non sono riusciti a scappare, anche se ci hanno provato più di una volta, finendo sempre per essere ripresi poi dai carabinieri e bastonati da chi pretendeva di educarli col sangue. Scappavano da quei fine settimana, che avrebbero dovuto essere la bella occasione per uscire da e violenze sui bambini nella struttura modello
quell’inferno fatto di pianti e punizioni: cosa li aspettava fuori era però l’abisso del male. I 16 bambini che erano stati abbandonati per sempre dai genitori venivano ceduti, probabilmente in cambio di un compenso al direttore, a persone facoltose per una giornata di vacanza al cinema, a mangiare un gelato o semplicemente a passeggiare: con la scusa di portare uno di quei bambini, tutti dai 9 ai 14 anni, in giro, questi venivano portati
Il centro clinico di Bivona avrebbe dovuto accogliere piccoli malati agli occhi. In realtà era un luogo infernale, tra pedofilia e bastonate C ome dei cani, rinchiusi dentro un magazzino, quando le telecamere della Rai il 24 maggio del 1961 entrarono dentro quella struttura d’eccellenza che era il tracomatosario di Bivona, nei pressi di Agrigento. Nato per curare il tracoma, una malattia infettiva degli occhi che può portare alla cecità poi debellata, la struttura gestita dai cavalieri dell’ordine di Malta, era una eccellenza italiana che faceva parlare di sé in tutta la penisola, tanto che quel giorno le telecamere di “Sorella radio” andarono in Sicilia, in provincia di Agrigento, per raccontare quel «magnifico» posto. Nessuno dei bambini aveva però il tracoma, almeno in quegli anni quando già la malattia era sta debellata. Ma le “signorine”, come venivano chiamate le operatrici del luogo, passavano comunque, ogni giorno, la pomata oftalmica sugli occhi. «Ci passavano la pomata ogni giorno ma noi non avevamo nulla, era la scusa per tenerci chiusi dentro». Luca, nome di fantasia, in quella struttura c’è stato fino al 1965 quando quell’imponente complesso chiuse i battenti, adesso ha superato i 65 anni e vive in un piccolo paese delle Marche con la figlia. Quei giorni li ricorda con rabbia e ripercorrendo quei piccoli passi indietro riavvolge di Alan David Scifo foto di Alfredo D’Amato
Sicilia
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L’ex tracomatosario di Bivona com’è oggi
ORRORE NEGLI ANNI SESSANTA Abusi
a entrare nei particolari Luca, nel suo racconto fatto di pianti e sospiri: «Parlando mi sto sfogando, ma è come riaprire di nuovo una vecchia ferita, ci abusavano, ci portavano con sé, ci spogliavano e il resto te lo faccio immaginare». Maschi e femmine, senza distinzione venivano “venduti” a persone che arrivavano da fuori: «Questa era la sorte che toccava a noi che non avevamo più genitori, o meglio noi che eravamo stati
Foto di gruppo di bambini ed educatrici negli anni Sessanta in un tugurio fatto di violenze e abusi: «All’inizio, noi che non ricevevamo neanche una visita eravamo contenti - racconta con tante difficoltà Luca - non pensavamo questo: venivamo portati in case di campagna da persone che arrivavano con auto di grande valore, io mi ricordo uno che è venuto a prendermi con una Giulietta, poi ci portavano anche a mangiare un gelato ma prima dovevamo soddisfare i loro bisogni». Non riesce
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Sicilia prelevati da casa con un furgone e siamo stati portati in quel lager». Chi non andava veniva riempito di botte, notti di bastonate in cui i pianti si alternavano all’insonnia: «Io ci sono andato 4-5 volte - racconta ancora mestamente Luca - poi ho preferito le bastonate all’altra tortura. Ci sono persone che sono riuscite ad andare soltanto una volta e poi prendevano tantissime percosse perché si rifiutavano. Il direttore (lo chiamavamo “sci-sci” per la sua cadenza bolognese) voleva che noi andassimo con questi sconosciuti e sicuramente dietro c’era un giro di soldi, altrimenti non avrebbe avuto senso».
Mucchi di garze e cotone sui pavimenti di una delle stanze abbandonate agosto
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C ome nel più angosciante dei film la storia di questi bambini era peggio di una prigione. Dietro un muro invalicabile, per almeno 5-6 anni, a subire violenze in un periodo in cui gli orfanotrofi proliferavano in tutta la Sicilia, più come business per il problema del momento, l’emigrazione degli italiani all’estero, che come centri per l’educazione: «Mezzo milione di siciliani in quegli anni andava all’estero a cercare migliore fortuna - racconta l’ex giornalista de L’Ora di Palermo Carmelo Miduri, che sul tracomatosario ha scritto un libro, “I bambini della Croce bianca”, divenuto anche uno spettacolo teatrale - possiamo paragonarlo oggi ai migranti che arrivano sulle nostre coste. Ora come allora ci chiediamo perché rischiare la vita per arrivare fino alle coste siciliane oggi, o agli orfanotrofi allora, e la risposta è che in entrambi i modi si rischiava la vita. Allora infatti le famiglie non riuscivano a sfamare tutti e se il padre andava all’estero i bambini venivano affidati agli orfanotrofi che diventarono un vero e proprio business, come oggi i centri di accoglienza. Nel caso del tracomatosario, infatti, nessuno aveva il tracoma, ma così veniva fatto credere loro: erano tutti classificati come T1 anche se ci vedevano benissimo, e ogni giorno veniva passata sugli occhi la pomata». Come racconta sempre Miduri, nelle guide sull’Italia dei soldati americani c’era scritto che in quei luoghi bisognava fare attenzione alle donne e ai bambini, le prime per la sifilide, i secondi proprio per il tracoma. La farsa del tracoma andò avanti per parecchi anni, fino al 1965 quando il centro chiuse i battenti, con tanto di interrogazioni parlamentari che ne volevano bloccare la chiusura. I cavalieri dell’ordine di Malta non avevano intenzione di continuare l’investimento in quel luogo e abbandonarono la sede che non ha avuto nessun futuro, se non per una parte che è stata recuperata dall’azienda sanitaria provinciale di Agrigento, oggi ancora funzionante. Se il parco, un tempo utilizzato dagli sposi bivonesi per le foto del matrimonio, verrà recuperato grazie a un
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finanziamento, dentro la sezione vandalizzata sono rimaste le grida soffocate dei bambini che piangevano e venivano rinchiusi anche per interi giorni nei locali dove veniva bruciato il carbone, al buio e senza cibo. Le notti con il nero del buio e del carbone erano alternate ad altre giornate in cui alcuni bambini erano costretti ad altri abusi, questi da parte del prete che stava all’interno della struttura: «Ci chiamava a turno, uno per uno, in biblioteca per prendere un libro - racconta ancora Luca - e poi ci toccava le parti intime». Il racconto è confermato da un’altra persona G.R., adesso 64 anni, che descrive il sacerdote della struttura come un «gran pedofilo che mi ha portato a odiare tutti gli altri preti che ho conosciuto». C’era chi faceva la pipì a letto per i traumi che subiva durante il giorno, venendo poi punito anche per questo motivo dalle persone che invece avrebbero dovuto prendersi cura di questi bambini. La salvezza era lontana, fuori da quelle mura e da quel bosco che di notte faceva paura. A lcuni di questi bambini la fuga l’hanno provata nel 1964 ma dopo un giorno passato all’addiaccio sono stati ritrovati dai carabinieri di Bivona che avevano perlustrato tutta la zona. «Qualche mese dopo però, senza dare spiegazioni - racconta Luca - la struttura chiuse i battenti e noi fummo rimandati a casa». L’anno successivo a casa del giovane, ormai ultrasessantenne, arrivarono i carabinieri, facendo domande sugli anni passati in quel luogo. I ricordi però sono ormai sbiaditi dal tempo anche se le ferite fanno ancora male e per altri sono state letali: «Uno dei ragazzi con cui ero rinchiuso in quel posto si è suicidato in carcere dopo che era stato arrestato per aver violentato la figlia, un altro è stato rinchiuso in un centro psichiatrico, io sono dovuto scappare dalla Sicilia, dove ho lavorato sin da piccolo dopo aver odiato i miei genitori per avermi portato in quel posto». L’ex bambino è convinto che raccontare la storia possa aiutare altri ancora in difficoltà oggi: «Quanto è successo a Licata qualche tempo fa ad esempio (dove i bambini venivano legati al letto con le catene, ndr) fa capire quanto lavoro ci sia ancora da fare.
Vecchie scaffalature arrugginite in una stanza dell’ex tracomatosario Bottiglie di medicine e pillole sparse sui pavimenti di una stanza vandalizzata 21 agosto 2022 89
A quel tempo per noi era impossibile denunciare anche le violenze, perché ci dicevano che ci avrebbero punito e nessuno parlava, quindi spero ci siano maggiori controlli oggi e che chi può si ribelli perché i bambini da soli non ce la fanno». Intanto, le porte del luogo dell’orrore di Bivona si sono chiuse dopo la fuga e il ritrovamento di quei ragazzi che ancora oggi non riescono a farsi una ragione sul perché fossero finiti in quel posto.
90 21 agosto 2022 L’anniversario La città di Smirne vista dall’alto
TURCHIA
Cent’anni fa l’incendio della città segnò la fine dell’espansionismo ellenico. E il grande scrittore fu testimone di quei giorni di Elena Kaniadakis foto di Michele Borzoni deva l’ingresso dell’esercito guidato da Mustafa Kemal Atatürk, e le comunità non-turche temevano di cadere vittima dell’«orgia patriottica» perpetrata lungo la costa dell’Anatolia dalle truppe nazionaliste. Nelle settimane precedenti, infatti, era iniziata quella che ancora oggi i Greci ricordano come «la grande catastrofe», ovvero la cacciata degli abitanti greci dall’Asia Minore, l’attuale Turchia, di cui quest’anno ricorre il centenario.
Prendete la tensione che si prova quando il lanciatore entra nel box davanti agli spalti gremiti della prima partita delle World Series, moltiplicatela per la tensione che si prova quando la barriera si alza, il gong suona e si parte per il King’s Plate al Woodbine, aggiungete la tensione che si prova quando si cammina al piano di sotto, e si aspetta spaventati e infreddoliti qualcuno che si ama, mentre un medico e un’infermiera stanno facendo qualcosa in una stanza di sopra e non si può prestare aiuto in alcun modo, e avrete qualcosa di paragonabile alla sensazione che si prova ora a Costantinopoli»: con queste parole un giornalista di nome Ernest Hemingway descriveva sulle pagine del Toronto Star l’atmosfera respirata, nel settembre del 1922, nella capitale dell’Impero ottomano ormai in procinto di dissolversi.
L’esercito guidato da Atatürk, padre del futuro Stato moderno turco, aveva invece provocato la disfatta delle truppe e la fine del sanguinoso progetto utopistico: il 13 settembre 1922 la città costiera di Smirne, crocevia millenario delle culture del Mediterraneo, venne data alle fiamme e gli abitanti greci, armeni e ebrei si ammassarono sui moli del porto nel tentativo di sfuggire alle rappresaglie dell’esercito. I drammatici eventi ispirarono ancora Hemingway, anni
Incaricato di raccontare la guerra greco-turca ai lettori del quotidiano canadese, lo scrittore, ai tempi ventenne, aveva evocato l’immagine familiare di scene di vita sportiva come quelle di una partita di baseball o l’inizio della gara nell’ippodromo di Toronto, il Woodbine, per descrivere la tensione che aveva stretto in una morsa gli abitanti della città ottomana. «Gli inglesi possono salvare Istanbul», titolava il primo dei suoi articoli inviati dalla regione, mentre nella capitale si atten-
Nel 1919 la «grande idea» aveva motivato l’avanzata dell’esercito del Regno di Grecia in Asia minore: un progetto politico ideato dal primo ministro Eleftherios Venizelos, che ambiva a riunire i territori abitati dalle comunità greche in Asia minore con Atene, e includere nel nuovo Stato la città di Costantinopoli, ancora oggi evocata in greco semplicemente come “i poli”, “la città” per eccellenza dell’ellenismo.
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Contrasto/TerraProjectFoto: Sul molo di Smirne L’esodo dei firmato Hemingwaygreci
In occasione dell’anniversario dell’incendio, assurto a simbolo della «grande catastrofe», centinaia di iniziative culturali sono fiorite in Grecia, ma i cittadini non hanno bisogno di una ricorrenza per togliere dagli album di famiglia la polvere del tempo: oggi in quasi ogni casa si può incontrare un discendente dei profughi dell’Asia minore. Nel 1922 un milione e mezzo di persone cercò riparo in Grecia, Paese popolato allora da appena 5 milioni di cittadini; i raffinati e cosmopoliti abitanti dell’Anatolia vi misero piede privati di tutto tranne che della loro cultura, destinata a lasciare un’impronta indelebile nella carta di identità del moderno Stato. Anche le donne fuggite dall’Asia minore contribuirono all’evoluzione del ruolo femminile nella società, basti pensare che nel periodo in cui nello Stato greco l’analfabetismo femminile toccava punte molto alte, a Smirne si contavano già due istituti dedicati all’educazione delle donne. Dal lungomare della città divorato dalle fiamme fuggì il sedicenne Aristotele Onassis, destinato a divenire il più famoso armatore greco; le scene di devastazione a cui scampò assieme a migliaia di profughi si impressero nell’immaginario di un altro greco originario della città, Giorgos Seferis, poeta insignito anni dopo del premio Nobel per la letteratura, impegnato in quel tempo a studiare legge a Parigi.
L’eredità della «grande catastrofe» è rintracciabile anche nel mondo dello sport: nel giugno scorso, durante una partita di calcio tra le squadre del Panionios e Apollon Smyrnis, rifondate entrambe nella capitale greca dai profughi, i tifosi hanno srotolato uno striscione con scritto «Madre Smirne, oggi vedi giocare i tuoi ragazzi». Un saluto tra ultras, vicini ai movimenti antifascisti di Atene, orgogliosi delle proprie origini ma ostili alla retorica nazionalista.L’anniversario si inserisce infatti nella cornice delle annose tensioni tra Atene e Ankara per la contesa delle acque territoriali nell’Egeo. Nel giugno scorso, anche il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha menzionato Alsancak, quartiere storico vicino al porto di Smirne. A destra, tiro a bersaglio sul lungomare
92 21 agosto 2022 L’anniversario dopo, per il racconto “Sul quai di Smirne” confluito ne “I quarantanove racconti”.Piùdiun milione di profughi riuscì a mettersi in salvo su imbarcazioni di fortuna e approdò a Lesbo, Chios, Samos: le stesse isole designate a ospitare oggi gli hotspot per i migranti in arrivo dalle coste turche. Si trattò del primo scambio di popolazioni riconosciuto dalla comunità internazionale: i Greci non furono le uniche vittime della migrazione forzata, mezzo milione di persone appartenenti alla comunità turca che risiedeva nel territorio greco venne costretto a abbandonare la propria casa per insediarsi nella neonata Turchia. Ancora oggi, se si cammina tra le stradine acciottolate della città di Ayvalik, non lontano da Smirne, si possono ascoltare conversazioni in cretese tra i discendenti dei turchi costretti a lasciare l’isola greca, uniti ancora oggi nel ricordo della “patria perduta”.
Una foto storica dell’esodo dei profughi dalla città in fiamme di Smirne
Christos Boskopoulos, sindaco del sobborgo e presidente del Centro per la cultura dei Greci dell’Asia minore, è convinto di come sia sbagliato, oggi, parlare soltanto di “catastrofe”: «L’esodo dall’Asia minore è scaturito da vicende drammatiche, ma ha determinato la rinascita dello Stato moderno greco: la presenza secolare degli abitanti greci, inoltre, ci ricorda di come la convivenza tra i due popoli è stata a lungo pacifica, prima del tragico epilogo». Uno dei maggiori sostenitori di questa amicizia è stato il compositore greco Mikis Theodorakis, la cui madre era a sua volta fuggita dall’Asia minore. Promotore negli anni Ottanta del Comitato di amicizia greco-turca, Theodorakis aveva riempito i teatri di Istanbul esibendosi insieme agli artisti anatolici. Forse non è un caso che pasquelleloeni,seggiandooggitralestradediKaisaria-dietroallefinestreornatedaigeranineicortiliinternicostruitisecondostileorientale,lesuecanzonisianocherisuonanopiùditutte. RISERVATA Piazza di Saat Kulesi a Izmir, l’odiena Smirne. A destra, il lungomare sulla sponda turca dell’Egeo
Aagitare le acque nell’Egeo contribuisce, inoltre, il proposito di Atene di accreditarsi come l’alleato più affidabile della Nato nella regione: il Paese sostomostatuafontaneestivoSmirne”,nelriesetoallosituataillanell’isolaglimediterraneometteadisposizionede-StatiUnitilebasimilitaridiSouda,diCreta,ediAlexandroupoli,cittàdellaTracia,dovearrivaanchegasliquefattoimportatodagliUsa,inposizionestrategicarispettoStrettodeiDardanelli,dacuicen-annifapartironomoltiprofughi.Letraccediquegliesulisonoimpres-neinomienegliedificidelleperife-cheabbraccianoilcentrodiAtene:sobborgodiNeaSmyrni,“Nuovaibambinisfuggonoalcaldorincorrendosinell’acquadellechezampillanodifrontealladelmetropolitaortodossoCri-diSmirne,linciatodurante l’incendio e poi santificato. Più a Nord, nel sobborgo di Kaisariani, il cui nome evoca Kayseri, città della Cappadocia, sono ancora visibili le case in calce dal tetto basso costruite dai profughi.
21 agosto 2022 93 Storie
Contrasto/TerraProjectImages,Getty/BettmannFoto: in un discorso ufficiale l’anniversario della grande catastrofe: «Invitiamo la Grecia a smettere di militarizzare le isole e a rispettare gli accordi internazionali. Lasciate perdere sogni e iniziative di cui vi pentirete, proprio come accaduto un secolo fa». Ankara, infatti, chiede la demilitarizzazione di alcune isole greche prospicienti la Turchia, come Lesbo e Chios, nel rispetto dell’accordo di Losanna firmato tra i due Stati alla fine del conflitto di cento anni fa. Una richiesta irricevibile per il governo greco, minacciato dalla dottrina della cosiddetta «Patria blu», strategia di politica estera che punta a ridisegnare le aree di giurisdizione marittima della Turchia per farne di nuovo una potenza navale. Nel luglio scorso l’alleato nazionalista del presidente Erdogan, Devlet Bahceli, si è fatto fotografare accanto a una mappa che raffigura come turche molte delle isole greche dell’Egeo e Creta. Ma il reale motivo di attrito riguarda la definizione delle acque territoriali: la Convenzione Onu sul diritto del mare (Unclos), ratificata da Atene ma non da Ankara, ha riconosciuto agli Stati il diritto di estendere unilateralmente i propri confini marittimi fino a 12 miglia. Una prerogativa, rivendicata dalla Grecia, dalle conseguenze potenzialmente distruttive: come stabilito infatti nel 1995 dal Parlamento turco, se lo Stato membro dell’Unione europea estendesse la linea di demarcazione oltre le attuali 6 miglia l’azione verrebbe interpretata come una dichiarazione di guerra.
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Alla lunga i complimenti a Marianna Aprile sono stucchevoli Siamo in campagna elettorale, il talk show è d’obbligo, le coppie si alternano e gli studi si affollano e la noia generalmente la fa da padrona. Così, si immagina, per eccitare gli animi e dare quella scossetta necessaria a far tenere aperti gli occhi sulle diatribe legate alle liste del Pd, o alle intemperanze di Gianluigi Paragone, a La 7 hanno avuto non una ma ben due idee. La prima quella di mettere al timone di “In Onda” in versione agostana l’inedita coppia formata da Marianna Aprile e Luca Telese (in ordine alfabetico, anche se nei titoli i nomi risultano bizzarramente invertiti). La seconda quella di lasciare a Telese l’aulico compito di presentare la sua collega come un galante corteggiatore che vuol fare lo spiritoso. La prima sera è stato così, un fulmine a ciel sereno: ecco a voi “l’affascinante” Marianna Aprile. Poi è diventata «Leggiadra». «Sontuosa». «Bellissima». Ma anche «Scultorea». «Brunita». «Dolce». «Garbata». «Palestrosa». «Ungulata».
Con il passare delle puntate l’introduzione di rito ha cominciato ad arricchirsi di subordinate, figure retoriche, rimandi forbiti. Praticamente un abbecedario da Dolce stil novo in formato Wikipedia. «Il mio amico Shakespeare mi suggerisce: le donne parlano due lingue una delle quali è verbale», dice Luca Telese con lo sguardo morbido.
94 21 agosto 2022 Ho visto cose/tv IL NEO DI “IN ONDA” SI CHIAMA TELESE
E lei, Aprile, si schernisce giusto un filo, accettando di buon grado il siparietto, nella speranza che rimanga appunto, un siparietto dalla breve durata. Tanto poi se dio vuole si passa al tema di puntata, ci sono interviste da fare, domande pungenti da porre, contraddittori da sostenere, senza fatica alcuna. Perché in quello studio, senza dubbio, ci si trova benissimo, e dall’alto della sua competenza, non ha certo bisogno di difese ardite. Però alla lunga, il giochino stucca, e quello che era nato come una trovata (forse) frutto di una tempesta di cervelli, rischia di trasfor marsi in un rito stanco a cui in qualche modo bisognerà dire basta. Così mentre fioriscono citazioni alte, da Emily Dickinson («Anche quando sarà arrivato il freddo inverno nel mio ricordo tu sarai sempre estate») a Rushdie («Quando un uomo bacia una donna per la prima volta, persino i libri persino il pane perdono qualsiasi interesse») e sorvolando sul neo, («Orgogliosa testimonianza di rifiuto di ogni opera chirurgica, segno di interpunzione, bandiera di identità») viene da chiedersi quando la pianterà Telese di giocare come se fosse nella casa di Barbie. Non ne ha bisogno lui, non ne ha certo bisogno Marianna Aprile. A meno che dietro non si nasconda un pensiero ecologico, quello di andare avanti a forza di brividi sottopelle per risparmiare in aria condizionata.
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GINO CASTALDO#musica
Mai avrei pensato di poter dubitare della integrità del Boss, della sua rigorosa dirittura morale, del suo essere un giusto. E non vorrei farlo neanche adesso, ma la polemica scoppiata in America sui prezzi dei suoi biglietti è a dir poco imbarazzante, e il silenzio di Springsteen non aiuta. La questione è semplice, grazie a un sistema di totale libertà di mercato, alcuni biglietti dei concerti sono stati messi in vendita a prezzi astronomici, addirittura 4 o 5000 dollari. I fan sono inviperiti, fioccano post struggenti e amareggiati con citazioni di versi in cui il “working class hero” del popolo rock difende i poveri, gli emarginati, i derelitti e poi accetta che qualcuno possa pagare migliaia di dollari. Il manager del Boss, John Landau, se l’è cavata con un comunicato che spiega come il fenomeno sia dovuto al cosiddetto “dinamic pricing”, ovverosia che i biglietti, più che avere una quotazione oggettiva, sono fluttuanti, laddove la richiesta diventa alta, salgono, in modo assolutamente legale, così da sconfiggere il bagarinaggio, che in tempi di rete significa “vendita secondaria”, anche quella perfettamente legale. Ovverosia io mi compro il biglietto al prezzo ufficiale poi posso rivenderlo al prezzo che desidero, a patto ovviamente che ci sia qualcuno disposto a ricomprarlo. Brutta, bruttissima storia, vuol dire autorizzare la logica, sbagliata, del bagarinaggio ma facendo in modo che i soldi invece di disperdersi, rimangano in casa. Ticketmaster, l’agenzia responsabile di questa
BEATRICE DONDI
Quer pasticciaccio dei biglietti del Boss
Il romanzo di Malerba in un film pieno di bravi attori che meritavano di più Una parabola politica che scopre le carte poco alla volta. Un ritorno a quel Medioevo immaginario che il cinema italiano ha cucinato in tutte le salse. Un omaggio a “L’Armata Brancaleone” di Monicelli e al suo fantasioso proto-volgare che però si rivela ben presto una falsa pista (sotto il comico qui spunta il tragico e anche un pizzico d’assurdo). In breve un film che scarta e cambia pelle di continuo, spiazzando (fin troppo) lo spettatore con i suoi salti di tono. Liberamente ispirato al romanzo omonimo di Luigi Malerba (1978, ora ripubblicato da Quodlibet), “Il pataffio” di Francesco Lagi è un po’ tutto questo insieme. Si parte con uno scalcinato corteo nuziale in marcia verso il castello di Tripalle, che lo sposo (Lino Musella) ha ricevuto in dote dal padre della sposa, l’ingenua e rotonda Bernarda (Viviana Cangiani). Si prosegue scoprendo che il nuovo feudatario, già umile stalliere, non avrà vita facile perché Tripalle e le sue terre sono flagellate dalla più nera miseria mentre a Castellazzo, il feudo prospiciente, regna una “vecchia” a lungo invisibile e non proprio amichevole (Daria Deflorian versione megera, una delle migliori sorprese del film).
Quindi si vira apertamente in politica quando il neo-feudatario capisce che per piegare quei villici denutriti e omertosi deve allearsi al “pecoraio desoccupato” Migone da Scaracchio (Valerio Mastandrea), un curioso protosocialista doppiogiochista che predica il voto a maggioranza e l’esenzione dai tributi per i poveracci.
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Q © RIPRODUZIONE RISERVATA “IL PATAFFIO” di Francesco Italia-Belgio,Lagi118’ aabcc pratica, si è giustificata dicendo che di base il prezzo medio per i concerti di Springsteen è rimasto intorno ai 262 dollari (come se fossero pochi) e solo l’1 % ha superato i mille dollari. Quella dei biglietti è una vecchia penosa storia di sofferenza e polemica. È opinione diffusa che i concerti siano diventati in generale piuttosto dispendiosi, considerando soprattutto quelli in spazi enormi, che non hanno il comfort del teatro e garantiscono profitti molto alti. Questa estate il problema è stato sollevato poco, nessuno ha avuto il coraggio di infierire né di andare a fare i conti in tasca a imprese, diciamo meglio un intero settore, che è stato ferito a morte dalla pandemia. Come dire, non è il momento adatto per andare a discutere del livello dei prezzi. Bene, ma le notizie che arrivano dall’America sono allarmanti, vista la nostra tendenza a imitare il peggio che ci arriva dall’estero. Insomma da noi il “dinamic pricing” non è ancora praticabile, i prezzi possono essere considerati mediamente alti o bassi, se ne può discutere, ma al momento rimangono fissi (bagarinaggio a parte).
21 agosto 2022 95 ImagesGettyFoto: Scritti al buio/cinema TROPPI CUOCHI GUASTANO IL PATAFFIO
Bruce Springsteen in concerto
Ma la minaccia è concreta, soprattutto quando da uno come Springsteen non arriva una sola parola per giustificare come possa accettare che un biglietto per un suo concerto possa costare migliaia di dollari, avallando i lati peggiori del libero mercato.
Ma al primo incontro finisce in una gabbia identica a quella di “Süss l’ebreo”, il film di propaganda nazista di Veit Harlan. Il tutto zigzagando fra le torbide manovre di frate Cappuccio (un Alessandro Gassmann troppo grottesco), gli opportunismi del curiale Belcapo (il sempre impeccabile Giorgio Tirabassi), gli appetiti gastrici e pelvici dei soldatacci Ulfredo e Manfredo (Vincenzo Nemolato e Giovanni Ludeno), in un susseguirsi di cambi di registro che il film non sempre governa a dovere malgrado il cast e la sofisticata colonna sonora di Stefano Bollani. Non mancano i bei momenti (su tutti la scoperta dell’amore di Bernarda, e subito dopo di qualcos’altro). Manca un tessuto connettivo più robusto, ovvero più collaudato. Reinventare quasi ex novo un genere in disuso non era impresa da poco.
FABIO FERZETTI
E la guerra? Saremo sempre sotto l’ombrello protettivo della Nato che ci impedisce di avere una politica autonoma rispetto agli Usa? L’atlantismo nel suo lato guerrafondaio sarà sempre lui a guidarci nelle nostre scelte fatte anche a scapito esclusivo dell’Europa? Quando si emanciperà l’Europa con un proprio esercito e una propria politica estera? Dovremo alimentare la guerra in Ucraina fino alle estreme conseguenze o dovremo prodigarci con tutte le nostre energie di europei per una pace immediata e duratura? Altre domande che richiederebbero una risposta seria e l’impegno di risolvere le problematiche conseguenti. Oppure dovremo concludere come sempre con la rassegnazione di quell’espressione latina ”Quaesivi et non inveni” che può essere presa ad emblema del rapporto stato-cittadini e del nostro sistema politico? Alessandro Stramondo Nel Cantico dei Cantici si alludeva soprattutto all’amore: Cercherò colui che il mio cuore ama, “ho cercato e non ho trovato”. Il signor Stramondo usa invece questa invocazione che per intensità fa il paio soltanto con “odi et amo” di Catullo, per parlare di politica e lanciare diversi atti d’accusa. Ma contro quale politica? Non soltanto contro quella che vede partecipare l’Unione europea alle scelte atlantiche sul conflitto in Ucraina e sulle quali è importante discutere, ma contro quella che ha affrontato una pandemia che ci ha cambiato la vita e che ancora incombe su tutti noi. È un astio molto diffuso che non tiene conto dell’emergenza inaspettata, del fatto che l’Italia è stato il primo Paese a subire i contagi facendo da apripista al mondo, per non parlare della dedizione e del sacrificio di tanti medici e infermieri. Ovviamente ci sono stati errori e ritardi, ma in un sistema sanitario che grazie alla sua natura universalistica non ha lasciato indietro nessuno, come è avvenuto in altri Paesi. È giusto criticare le mancanze della nostra sanità e chiamare la classe politica a farne un argomento da campagna elettorale, ma senza dimenticare che viene considerata, a tutt’oggi, una delle migliori del mondo. Biondani Coen (vicecaposervizio), Vittorio Malagutti (inviato), Munafò (caposervizio (inviato), (inviato), Cipolla (caporedattore) Cozzi (caposervizio), Emiliano Rapiti (collaboratore) Faraoni (vicecaporedattrice) RICERCA FOTOGRAFICA: Giorgia Coccia, Mauro Pelella, Elena Turrini DI REDAZIONE: Valeria Esposito (coordinamento), Sante Calvaresi, Rosangela D’Onofrio CONTROLLO DI QUALITÀ: Fausto Raso OPINIONI: Altan, Mauro Biani, Massimo Cacciari, Lucio Caracciolo, Franco Corleone, Donatella Di Cesare, Roberto Esposito, Luciano Floridi, Bernard Guetta, Sandro Magister, Marco Dambrosio Makkox, Bruno Manfellotto, Ignazio Marino, Ezio Mauro, Michela Murgia, Denise Pardo, Massimo Riva, Pier Aldo Rovatti, Giorgio Ruffolo, Michele Serra, Raffaele Simone, Bernardo Valli, Gianni Vattimo, Sofia Ventura, Luigi Vicinanza, Luigi Zoja COLLABORATORI: Simone Alliva, Erika Antonelli, Viola Ardone, Silvia Barbagallo, Giuliano Battiston, Marta Bellingreri, Marco Belpoliti, Caterina Bonvicini, Ivan Canu, Gino Castaldo, Giuseppe Catozzella, Manuela Cavalieri, Rita Cirio, Stefano Del Re, Alberto Dentice, Francesca De Sanctis, Cesare de Seta, Roberto Di Caro, Paolo Di Paolo, Fabio Ferzetti, Alberto Flores d’Arcais, Marcello Fois, Antonio Funiciello, Giuseppe Genna, Wlodek Goldkorn, Marco Grieco, Luciana Grosso, Helena Janeczek, Stefano Liberti, Claudio Lindner, Francesca Mannocchi, Gaia Manzini, Piero Melati, Luca Molinari, Donatella Mulvoni, Matteo Nucci, Eugenio Occorsio, Marco Pacini, Massimiliano Panarari, Gianni Perrelli, Simone Pieranni, Paola Pilati, Sabrina Pisu, Laura Pugno, Marisa Ranieri Panetta, Mario Ricciardi, Gigi Riva, Gloria Riva, Stefania Rossini, Evelina Santangelo, Elvira Seminara, Caterina Serra, Chiara Sgreccia, Francesca Sironi, Leo Sisti, Elena Testi, Chiara Valentini, Chiara Valerio, Stefano Vastano Stefano Cipolla Daniele Zendroni
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Antonio Fraschilla,
Cara Rossini, due sono state le calamità che più ci hanno colpito in questi ultimi anni, la pandemia e più recentemente la guerra, ma questi argomenti che dovrebbero per primi essere affrontati dalle forze politiche nella campagna elettorale, non interessano i nostri politici. Pandemia e guerra sono gli argomenti tabù. Ma andiamo per ordine. Il Covid-19 ha rivelato una gestione politica dell’epidemia e uno stato della nostra sanità disastrosi. L’epidemia, seppure in forme più blande (ma sempre con decessi giornalieri non inferiori alle tre cifre) persiste e non è stata affatto debellata. Però nessuno parla di come migliorare la nostra sanità e di come sopperire alla carenza del personale medico. Se in autunno ci sarà una recrudescenza del male, ci troveremo impreparati con i problemi di sempre. Si punterà ancora esclusivamente sui vaccini? Saremo più edotti sulle conseguenze collaterali? Sarà facilitato l’accesso agli antivirali? Ricorreremmo ancora all’obbligo vaccinale e ai green pass? Tutte domande a cui manca una risposta e una strategia di intervento.
Gianfrancesco Turano
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In Usa, l’usanza in voga a Kabul non ha preso piede: le pallottole sono indirizzate al bersaglio umano. Sdegno per la scelta dell’attentatore di Rushdie
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Michele Serra Satira Preventiva
L’economia A Kabul aumentano i costi (la disinfestazione delle barbe dei governanti, effettuabile solo in tintorie specializzate in tappeti e trapunte, è uno dei costi aggiuntivi più gravosi) e l’abolizione delle scuole femminili, trasformate in
Altre buone notizie Ma è l’intero pianeta a manifestare, come un pittoresco caleidoscopio, la vitalità e l’ingegno degli esseri umani. I missili russi colpiscono obiettivi civili senza la deplorevole genericità dei primi mesi di guerra. In un condominio di Kherkezskoszh un missile ha distrutto solo la cucina nella quale la signora Minuska cucinava ogni giorno il borsh all’ucraina e non alla russa (la differenza è nel modo di affettare le barbabietole). Scuole, ospedali e fermate d’autobus vengono colpiti con sempre maggior precisione, evitando la pericolosa dispersione di materiale infocato e schegge incandescenti in luoghi diversi da quello stabilito. A Gheswz, sobborgo di Bertwenistzka, il sindaco, ostile ai russi benché russo, è stato ucciso con una capsula di polonio sparata direttamente da Mosca con una cerbottana potentissima, lunga centoventi metri e con un diametro di appena sette millimetri. Armi sempre più micidiali e raffinate, come la mazza da golf con la quale Trump riesce a distruggere, in una sola partita, la vegetazione di un intero circolo sportivo.
CanuIvanIllustrazione:
98 21 agosto 2022 I talebani hanno festeggiato il primo anniversario della presa del potere sparando in aria. Causa le ristrettezze economiche, per la prima volta migliaia di volontari, correndo per le vie di Kabul con cestini e sacchetti, hanno cercato di recuperare le pallottole mentre ricadevano a terra, per poterle riutilizzare. La tradizione Si calcola che ogni anno, nel mondo, soldati e miliziani sparino in aria, con intenzioni festose, quasi cento milioni di pallottole, con un esborso di centinaia di milioni di euro. Solo le feste patronali nel Mezzogiorno d’Italia possono competere, per numero di colpi esplosi, con il giubilo degli eserciti in ogni parte del mondo. Il budget delle feste patronali è però assai superiore al bilancio statale di Paesi poveri come l’Afghanistan.
delle110hanientestrodelladal’economia,servecorrottoDistruggeresignificativo,numentipresemeconcominciatobolizzatoperperchéèremoltissimo.chérisparmioricoveriperovini,haconsentitouninferiorealleattese,per-lepecoreelecapremangianoAnchel’ideadinutri-lecapreconilibriscolasticisirivelatadiutilitàsolotransitoria,ilibrisonofinitiinfrettaegiuntalecapre,avendometa-fiordisillabari,hannoaparlareechiedonodecisionecibipiùgraditi,co-l’erbafresca.Quantoalleim-edili,lademolizionedeimo-sacrileghièuncompartomanonsufficiente.unBudda,ounbardagliusioccidentalicheancheledonne,muovepocoaparteilcomparto,semprefiorenteinAfghanistan,rimozionemacerie.Ilmini-dell’EdiliziaPubblica,prove-dallemontagneorientali,messoincampounbonusdelpercentoperl’ampliamentocaverne.Iburqua,chehanno l’imponenza di un monolocale senza finestre, saranno soggetti a Imu. In progetto piste ciclabili in tutto il Paese, non a fianco dei percorsi stradali, ma invece.
In America Rimane comunque insuperabile, per volume del traffico ed efficienza economica, il rendiconto delle armi da fuoco in America: l’usanza primitiva di sparare colpi in aria non ha mai preso piede, le pallottole sono sempre indirizzate al bersaglio umano, con enorme riduzione degli sprechi. Ha destato sdegno, nell’opinione pubblica americana più affezionata alle armi da fuoco, che l’attentatore di Rushdie abbia usato un coltello e non una Colt, o un pratico revolver. «Sono barbari –ha dichiarato la senatrice Boopsie McKenzie, fedelissima di Trump – e lo dimostra il fatto che più li bombardiamo, meno imparano le buone maniere».