ALPINISMO E NARRAZIONE
La ricerca della felicità L’alpinismo, le sue regole, la sua forza, i suoi obiettivi e il modo di raccontarli, dalla fase scientifica a quella esplorativa, da quella di ricerca a quella sportiva, fino a quella contemporanea dei social network di Vinicio Stefanello
L’
alpinismo sembra non mutare mai. Anche se attorno tutto cambia. Anche se molti, in epoche diverse, hanno affermato che se ne è perso lo spirito – naturalmente perlopiù a causa delle giovani generazioni – l’alpinismo pare essere sostanzialmente sempre lo stesso. E l’affermazione sembra confermata anche ai nostri giorni (nonostante i social network, direbbe qualcuno). Sarà perché il suo è un piccolo mondo. Un microcosmo estremo, verrebbe da aggiungere. Con le sue “regole”, per certi versi quasi iniziatiche. Oppure – anche e soprattutto – perché soddisfa un bisogno che in molti dicono sia insito nella natura umana. O magari perché le sue radici attingono a un’epica che ormai si confonde con il mito. In ogni caso, l’attività di scalare le montagne sembra ripercorrere all’infinito lo stesso percorso. Tanto che ogni suo cambiamento – e ce n’è stato più d’uno in duecento e più anni di storia – sembra non averne scalfito l’essenza profonda e per certi versi sfuggevole. La stessa che Massimo Mila definiva “la divina forza dell’alpinismo”, un’attività in cui, forse come in nessun’altra, il pensiero e la conoscenza si fondono con l’azione. L’AVVENTURA DELLA SCALATA Il campo, il playground direbbe Leslie Stephen, è sempre quello verticale e impossibile delle amatissime montagne e delle grandi pareti, dove la natura per definizione è ancora più inaccessibile e selvaggia. È lì, a quelle altezze, che da sempre volano i desideri degli alpinisti. È lì che gli scalatori indirizzano tutti i loro sforzi. Si pensa una meta, una montagna. A volte la si sogna anche, tanto che può diventare quasi un’ossessione. Poi si studia il percorso, si individua una via e ci si prepara. A quel punto inizia il viaggio, anzi l’avventura della scalata. Si tenta di salire. Si perde e si ritrova la strada (appunto, la via). 34 / Montagne360 / dicembre 2021
Si cerca con tutte le forze di realizzare il proprio progetto, che qualcuno definisce una sorta di visione. Il tutto, come insegnava Albert Frederick Mummery, cercando sempre e rigorosamente di salire by fair means, con “mezzi leali”. Poi arriva la conclusione, la fine del viaggio e, con la chiusura del cerchio, la felicità. Il ritorno alla base, per certi versi, è una sorta di discesa alla normalità. Da dove i più non vedono l’ora di fuggire di nuovo per un’altra, imperdibile salita. E così, se dipendesse solo dagli alpinisti, all’infinito. Va da sé che il gioco prevede dei rischi a volte molto seri, oltre a grandi fallimenti e a difficoltà che spesso possono richiedere il superamento dei propri limiti. E tutto ciò è tanto più vero quanto più preponderante è la sete di ricerca che si sposa con un irrinunciabile bisogno di conoscenza, di scoperta e di esplorazione dell’ignoto. Sia in senso assoluto, come in una prima salita su terreno vergine e mai attraversato da altri. Sia in senso relativo, con una ripetizione di montagne o di percorsi già saliti ma che, in ogni caso, apportano nuove esperienze e nuova conoscenza e consapevolezza di sé. Anche perché, e pure questo fa parte integrante di quell’essenza già citata, la riuscita non è mai scontata. Non basta. C’è anche altro che sembra immutabile, o quasi. Da subito, gli alpinisti hanno dovuto raccontarsi in prima persona. D’altra parte, come potevano far capire quei mondi e quelle altezze mai percorse da nessuno se non con i récit d’ascension? I racconti e le storie delle loro salite sono la necessaria testimonianza, nonché una traccia, per chi viene dopo. E, allo stesso tempo, rendono reale l’avventura. IL MITO DELL’EROE Va detto che ogni epoca dell’alpinismo ha avuto il suo stile di racconto. Dalla fase scientifica a quella
Luca Schiera affronta lo scisto finale sul Bhagirathi IV (foto Matteo Della Bordella)