Storie di Arrivo

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10 Quaderni del volontariato 2022 sociale Centro Servizi per il Volontariato PerugiaTerni CESVOL UMBRIA ETS EDITORE
Arrivo a cura di Nicola Castellini
Storie di
Edizione 2022 Quaderni del volontariato 10

Cesvol

Centro Servizi Volontariato Umbria

Sede legale: Via Campo di Marte n. 9 06124 Perugia

tel 075 5271976

www.cesvolumbria.org

editoriasocialepg@cesvolumbria.org

Edizione ottobre 2022

Coordinamento editoriale di StefaniaIacono in copertina disegno di MassimoBoccardini

Stampa Digital Editor - Umbertide

Per le riproduzioni fotografiche, grafiche e citazioni giornalistiche appartenenti alla proprietà di terzi, l’editore è a disposizione degli aventi diritto non potuti reperire. È vietata la riproduzione, anche parziale e ad uso interno didattico, con qualsiasi mezzo, non autorizzato.

ISBN 9788831491389

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I QUADERNI DEL VOLONTARIATO UN VIAGGIO NEL MONDO DEL SOCIALE PER COMUNICARE IL BENE

I valori positivi, le buone notizie, il bene che opera nel mondo hanno bisogno di chi abbia il coraggio di aprire gli occhi per vederli, le orecchie e il cuore per imparare a sentirli e aiutare gli altri a riconoscerli. Il bene va diffuso ed è necessario che i comportamenti ispirati a quei valori siano raccontati.

Ci sono tanti modi per raccontare l’impegno e la cittadinanza attiva. Anche chi opera nel volontariato e nell’associazionismo è ormai pienamente consapevole della potenza e della varietà dei mezzi di comunicazione che il nuovo sistema dei media propone. Il Cesvol ha in un certo senso aderito ai nuovi linguaggi del web ma non ha mai dimenticato quelle modalità di trasmissione della conoscenza e dell’informazione che sembrano comunque aver retto all’urto dei nuovi media. Tra queste la scrittura e, per riflesso, la lettura dei libri di carta. Scrivere un libro per un autore è come un atto di generosa donazione di contenuti. Leggerlo è una risposta al proprio bisogno di vivere il mondo attraverso l’anima, le parole, i segni di un altro. Intraprendendo la lettura di un libro, il lettore comincia una nuova avventura con se stesso, il libro viene ospitato nel proprio vissuto quotidiano, viene accolto in spazi privati, sul comodino accanto al letto, per diventare un amico prezioso che, lontano dal fracasso abituale, sussurra all’orecchio parole cariche di significati e di valore.

Ad un libro ci si affeziona. Con il tempo diventa come un maglione che indossavamo in stagioni passate e del quale cerchiamo di privarcene più tardi possibile. Diventa come altri grandi segni che provengono dal passato recente

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o più antico, per consegnarci insegnamenti e visioni. Quelle visioni che i cari autori di questa collana hanno voluto donare al lettore affinché sapesse di loro, delle vite che hanno incrociato, dei sorrisi cui non hanno saputo rinunciare. Gli autori di questi testi, e di tutti quelli che dal 2006 hanno contribuito ad arricchire la Biblioteca del Cesvol, hanno fatto una scelta coraggiosa perché hanno pensato di testimoniare la propria esperienza, al di là di qualsiasi tipo di conformismo e disillusione. Il Cesvol propone la Collana dei Quaderni del Volontariato per contribuire alla diffusione e valorizzazione della cittadinanza attiva e dei suoi protagonisti attraverso la pubblicazione di storie, racconti e quant’altro consenta a quel mondo di emergere e di rappresentarsi, con consapevolezza, al popolo dei lettori e degli appassionati. Un modo di trasmettere saperi e conoscenza così antico e consolidato nel passato dall’apparire, oggi, estremamente innovativo.

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Storie di Arrivo

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Arrivo è il sostantivo utilizzato per l’associazione culturale che abbiamo fondato nel 2001 io, Daniele e Gustavo. Di Daniele abbiamo in parte parlato, di Gustavo meno: era colui che mi prestò casa quando conobbi Milena. Grazie a Milena riuscii a costituire l’associazione, mi prestò i soldi necessari a fare le pratiche burocratiche e registrare lo statuto. Lo fece di cuore, poi no. Pretese la restituzione del denaro da mio padre, in quanto io ero a Milano. Papà fu costretto a restituirle tutto, una situazione penosa e di disagio, veramente. Ma vediamo al come e perché sentimmo la necessità di costituire un’associazione culturale e abbracciare il mondo del volontariato.

Io volevo dare una sterzata alla mia vita, con Daniele condividevo tante serate in cui cercavamo di trovare un motivo per uscire e dare un senso alle bevute. Ci ritrovavamo spesso a disagio, come dire, in mezzo alla gente. Io volevo aiutarlo, come sempre. A volte però ero infognato pure io. Ci sentivamo come battuti dalle circostanze. Da qui l’esigenza di creare una piccola organizzazione che si fondasse sulla solidarietà. Scegliemmo Gustavo per diversi motivi. Il primo motivo era semplice: ci serviva una terza persona per scrivere lo statuto e l’atto costitutivo. Il secondo in quanto era una persona sensibile e un poeta. Lo conobbi in un locale sudamericano gestito da Carlos. Ci riunimmo quindi a casa di Gustavo, che viveva da solo, e deliberammo. Ognuno fece la sua proposta per il nome più adatto all’associazione. Daniele propose Jungle, Gustavo propose Kadmo, io proposi Punk. Poi arrivò una telefonata della mamma di Daniele che cercava suo figlio, e Daniele esclamò:

-Arrivo

Colsi l’attimo e dissi che quello era il nome giusto per noi, Arrivo. Gustavo non era molto convinto, a Daniele piaceva un sacco. E Arrivo fu. Gustavo conservò la copia originale di ogni documento, come Vicepresidente; Daniele, che faceva il

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grafico di professione, curava la carta stampata e fu nominato segretario; e io ero il Presidente e rappresentavo, appunto, l’associazione, promuovendola. Anno di costituzione 2001. 30 ottobre 2001. Le cariche erano triennali, ma dopo il primo anno Gustavo emigrò in Colombia. Rimanemmo io e Daniele a mandare avanti la baracca. Io ero molto entusiasta ma inesperto. Daniele consigliava e gestiva, più navigato. Creò il logo, il timbro e la carta intestata. Stampammo tessere. Il primo anno realizzai tre spettacoli di teatro. Uno di questi era Scarpe mistiche. Gli altri due si chiamavano Magnum e Laila I e II. Non erano perfetti, piuttosto amatoriali, ma ci mettevo tutta l’energia di cui ero capace. Tutta. La storia della nostra associazione è stata da me scritta per i primi dieci anni di attività ed è liberamente consultabile sul web. Una forte componente motivazionale per il prosieguo delle nostre attività culturali è stato ed è dato dal Centro Servizi del Volontariato di Perugia, il Cesvol, abbreviato. Il primo vero libro lo pubblicai grazie a loro e a un progetto che feci per Arrivo, si intitolava Psik.

Ma andiamo in ordine cronologico. Saltiamo il primo decennio e, ora che siamo alla vigilia dei venti anni, ritengo opportuno fare il punto della situazione. Dopo anni di solitudine, in cui Gustavo non c’era e Daniele purtroppo sta in cielo, quest’anno c’è stato un sobbalzo, un evento organizzato alle Officine Fratti di Perugia che ha riportato splendore ed entusiasmo. Ci sono state nuove adesioni, nuova forza, nuova linfa vitale. Ora siamo di nuovo un gruppo, non così compatto ma abbastanza di sostanza. Non posso, non voglio ringraziare ogni persona, perché mancherei di rispetto a chi non nomino. Diciamo però che Giacomo e Benedetta hanno permesso, negli ultimi tempi, la diffusione del verbo. Un verbo spontaneo, forse troppo, che loro hanno contribuito a canalizzare, a dargli una forma, un verso. Persone che hanno saputo accompagnarmi, prendermi per mano quando mi sentivo per-

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duto e fallito, che hanno fornito un contributo reale e solido ai progetti. Si sa che nei gruppi si alternano momenti di esaltazione ad altri che seguono verso il basso. Persone che vanno, si fermano, propongono, poi scompaiono. Lasciano una scia, una traccia, un’energia. Il Macho, per esempio, contribuì nel primo periodo e poi sparì, ripresentandosi dopo quindici anni. Per recuperare il tempo perso faceva una proposta al giorno, risultando invasivo. Quando glielo facemmo notare si offese, e ci lasciò. L’aspetto galvanizzante fu colto da me, con il senno del poi, per smuovere le acque di Arrivo. I progetti ci sono, anche se la gestione è per il novanta per cento in mano mia. Va da sé che non creiamo reddito, non siamo un’impresa culturale. “Noi non siamo; uno spettacolo che potrete perdervi con noi” era una frase coniata col Macho i primi tempi, quando cercavamo di costruire un sito insieme. In realtà il sito ci fu per un breve lasso di tempo, poi soppiantato da un blog che ancora prosegue nella piattaforma di Wordpress.

Io mi sentivo abbandonato da Misty, forse era questa la ragione che mi portò a fondare Arrivo, volevo circondarmi di persone fedeli. Per questo ho sempre fatto il Presidente, dal 2001. Il “master”, come mi prende in giro Giacomo. Spostai la sede da casa di Gustavo, impraticabile nella sua assenza definitiva, a casa mia. Naturalmente chiesi aiuto al comune della mia città per una sede pubblica. Non fu mai possibile. Mi appoggiai allora al Circolo Island, che divenne sede operativa.

Lì si costruivano e si espletavano i progetti culturali. Tesserai un sacco di gente, perché il posto rispondeva agli stimoli e ai miei desideri, mi sentivo come a casa. Il circoletto infatti nacque nel 2001, o meglio, quello fu l’anno della nuova gestione. Di fatto prima era qualcos’altro. Fatto sta che io proponevo e avevo il feedback necessario per spingere la carriola in avanti.

L’autogestione era la parola da noi più utilizzata, la solidarietà finalmente trovava spazio. Per qualche mese feci il barista al circolo. Mi divertivo un sacco, conoscevo persone, mi sentivo

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parte di un organismo collettivo. Era eccitante. Lì conobbi il Macho, Giacomo, Fab, Meri. Loro mi ispirarono il mio primo racconto pubblicato, che ebbe una menzione speciale a un concorso intitolato Bugie ad arte. Il racconto lo chiamai Le sette esse, il mio debutto letterario. Trasmutavo la realtà del circoletto inventando storie con protagonisti i miei amici del periodo. Il bello era che ognuno aveva sviluppato gusto e interessi artistici. Di conseguenza, il mio mondo, la mia riserva indiana, era ed è la cultura, le arti. Mi ha salvato dall’oblio, dal baratro. Anche se non sarò mai conosciuto come artista, posso testimoniare di aver fatto qualcosa, aver contribuito a diffondere l’arte. Sono un autore, piccolo, ma lo sono. I primi tempi ricordo che volevo organizzare un grande festival letterario. Sette erano i temi. Avevo fatto uno schema e un piano per gli invitati. Volevo proporlo a un imprenditore illuminato di un comune limitrofo alla mia città. La location era perfetta. L’obiettivo era di far scrivere, durante il festival, gli autori invitati. Un evento live di produzione letteraria a tema, quindi. Non sono mai riuscito ad arrivare a parlare con questo imprenditore illuminato, che nel frattempo ha costruito un teatro simile a un tempio. Mio cugino ci lavora. Ma ora riproporlo non avrebbe senso. Il progetto prevedeva la videoscrittura live proiettata a un pubblico. Poteva avere un valore nel 2006, anno di concepimento dell’operazione. Ora no, siamo invasi dagli schermi e andremo sempre più verso l’immagine, l’ologramma. I viaggi nel tempo. Il teletrasporto. Ma questa non è scienza. Sono proiezioni e basta. Un film che non nasce, che nessuno scrive. Uno spettacolo non finito, infinito. Il teatro totale. Così si chiamava l’unico corso di teatro che ho tenuto in vita mia. Laboratorio di teatro totale, che gestii al centro sociale occupato autogestito Ex-Mattatoio. Pochi e definitivi incontri, intensi. Il progetto era a nome di Arrivo, come quasi tutto ciò che ho concepito e fatto, non era solo a mio nome. Il Cesvol ci stampava tutto quello di

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cui avevamo bisogno. In fondo era nato solo due anni prima di noi. Ci lavorava una persona che poi aprirà una casa editrice, ben attiva al momento in cui scrivo. Ci faceva il grafico. Era accogliente e accomodante. L’addetta stampa, colei che ci permise di avere degli articoli su giornali di settore, era un’altra persona speciale, capace di spronarti e incoraggiarti. Il direttore, infine, era una persona capace e piena di umorismo e umanità. Queste mie poche righe di omaggio al Cesvol vogliono essere un augurio a proseguire a braccetto nelle rispettive attività. In fondo ci ho pubblicato tre libri con loro, che nel frattempo sono diventati casa editrice. Pure noi di Arrivo lo siamo. C’è una versione ufficiale, Edizioni Arrivo, e una non ufficiale, Staceppa editore. Non abbiamo pubblicato quasi nulla. Non abbiamo le forze, siamo un gruppo creativo e dovremmo fossilizzarci su aspetti amministrativi che ci prenderebbero troppo tempo per fare altro. Certo, mangiamo i fichi, come si dice, ma almeno siamo liberi come gli alberi. Una volta abbiamo organizzato una mostra di 23 artisti contemporanei. Tre mesi di lavoro, diciamo. Libera opzione, il cielo è di tutti: il titolo della mostra realizzata in centro dentro l’ex-ospedale S.M. Misericordia. Non ho nulla di quella mostra. Nulla, se non gli inviti. Esiste un DVD, una sorta di catalogo multimediale, che abbiamo fatto. Io non lo ho. Ma lo avrò. Da qualche parte c’è. Basta riprendere i contatti. Tutto partì ovviamente dal circoletto, era lì che facevamo le riunioni organizzative. All’inizio dell’esperienza di Arrivo ci si riuniva in casa. Si stava insieme, si mangiava qualcosa, si beveva e si discuteva. Io mi ero fissato con quel festival di letteratura I ma era troppo complesso da realizzare. Lo capii in una riunione. Naturalmente non avevamo mai i verbali delle riunioni, nessuno li faceva. A quel tempo stavo con una ragazza che studiava Scienze delle Comunicazioni. Aveva una videocamera con la quale sperimentavamo le riprese, inoltre era appassionata di teatro, come spettatrice. Mi stimolava nella

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ricerca, mi aiutava a trovare un senso quando questo era invisibile. Quando ci lasciammo mi dispiacque, e per un periodo non proseguii col teatro di Arrivo. Nel frattempo eravamo diventati una compagnia teatrale riconosciuta dal Ministero. Trovammo la lettera, che attestava la nostra qualifica, sopra il tavolo della cucina al ritorno da Glacoma Sicu, il quarto spettacolo di Arrivo. In quell’occasione conobbi Stine, amica di Paola, la mia migliore attrice. Stine mi si appiccicò addosso, era estate e avevamo fatto questo spettacolo all’aperto, per una rassegna del quartiere. Ci offrirono la cena dopo lo spettacolo, Stine era con noi, non mangiava niente ma ascoltava tutto, attentissima. Aveva fatto teatro in Norvegia e con noi ritrovava quello spirito lì. Fu grazie a lei che realizzammo la mostra.

La Sicilia mi ha sempre ispirato molto, ogni volta che ci sono andato ho scritto qualcosa. Glacoma Sicu era il racconto di un’esperienza personale vissuta e narrata che vedeva Milena protagonista. Non una ricostruzione fedele dei fatti, tutto era in chiave criptata. Il materiale cartaceo è conservato da qualche parte, dovrei spulciare gli archivi. Io dovevo impersonare James Joyce con la macchina da scrivere che denunciava il comportamento di una pazza attraverso la scrittura. In quell’occasione ci venne a vedere anche una ragazza amica di mio fratello, che si chiamava Elena. Fu molto cordiale e riconoscente per la performance che avevamo proposto e mi parlò del Centro Universitario Teatrale della mia città, il CUT. In precedenza avevo frequentato laboratori teatrali, uno su tutti il laboratorio teatrale interculturale Human Beings, organizzato dall’associazione culturale Smascherati. Fu proprio la scintilla iniziale che mi provocò la voglia di costituirne una. Vedevo che Smascherati funzionava, aveva un senso, un perché. Così presi lo statuto generico da un modello dell’Arci, lo adattai e lo semplificai, e definimmo l’articolo 4 come principale: evitare situazioni di emarginazione, disagio, intolleran-

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za e solitudine attraverso le attività culturali condivise. Da qui partì tutto, e non si è ancora fermato, per fortuna. Abbiamo persino un vicepresidente, il signor Mohamed. Abbiamo una segretaria, Moira. Dei consiglieri, Laura e Carlo. Ci si aiuta. I carteggi sono da me, nella mia stanza, accanto a dove scrivo adesso, in questo momento. Progetti, alcuni andati a buon fine, altri no, locandine degli eventi, registri. Siamo un gruppo, nonostante le difficoltà. Abbiamo visto nascere altri collettivi che col tempo si sono estinti, abbiamo visto passare assessori alla cultura del nostro Comune, sindaci, addetti alla cultura. Noi resistiamo all’usura del tempo. Ogni anno ci ripuliamo dalla ruggine e oliamo i meccanismi. Siamo fuori da ogni meccanismo. Per convenzione non dobbiamo dimostrare alcunché, in effetti. Produciamo cultura a prescindere, soprattutto attraverso la scrittura. Per un periodo infatti adottammo la dicitura di Associazione Culturale e Letteraria Arrivo. Facemmo un corso di non scrittura, come ovvio al circoletto, inventando il TLO, il trattamento letterario obbligatorio, scanzonato. Ci prendevamo in giro, con ironia. Non ci prendevamo sul serio, altro principio cardine del nostro apparato. Per noi voleva dire svago intelligente, divertimento e spensieratezza. Io mi sono sempre occupato del reperimento dei materiali e poi di assemblarli alla meno peggio. Questa è stata la fase amatoriale. Oggi siamo un po’ più organizzati. Non dobbiamo per forza fare il salto di qualità. Diciamo che siamo un po’ più precisi a trovare confusione. Del TLO, per esempio, abbiamo realizzato un racconto collettivo a otto mani. Gli abbiamo dato un titolo, I miti. Lo abbiamo pubblicato sul nostro blog.

https://arrivo.wordpress.com/2011/11/30/raccontocollettivo/

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Questo è il nostro logo. La prima versione non aveva lo smile sopra la lettera i, la quale lettera di primo acchito mi diede l’idea di una casa, mentre ora sembra più una freccia verso l’alto. Non c’è mai il rosso, da nessuna parte. Lo smile, infine, è stato fatto in 3D. La locandina, invece, del corso di scrittura che ho nominato prima, è codesta:

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generando in me, quando studiavo sceneggiatura a Milano, lo scritto Corso diverso di scrittura, che anni più tardi allegai all’altro scritto per i nostri primi dieci anni di associazionismo e volontariato. Cosa si intende per volontariato? Lo spiegherò nel 2019, all’interno dello scritto breve Essere ed esistere, storytelling del volontariato, edito dal Cesvol Umbria. Il Cesvol, inoltre, ci chiese di organizzare le celebrazioni per il suo decennale, nel 2009. Facemmo una serie di performances, io e Elena, a tema. Non le ricordo. Le avevamo strutturate.

Va beh, andiamo avanti. Andiamo indietro. Riavvolgiamo il nastro. Questo breve excursus storico non completa la narrazione, ma ne è una traccia, seppure poco incisiva e flebile. Oggi siamo concentrati su di noi, come non mai. Ci siamo resi conto che scriviamo, e tanto, e siamo un po’ dispersi. Ragion per cui dovremmo fare gruppo e ragionare sulla creazione di uno strumento di lettura elettronica, l’ebook. Dovremmo partire dall’editoria elettronica sociale ed etica, e riversare i nostri scritti, fare delle collane. La collana Blocchi, dedicata ai romanzi d’introspezione. Vedremo. A volte è meglio non fare nulla. Lasciare scorrere le nuvole. Che tutto si compia, come dice qualcuno. Che abbia inizio. Ascolto a scrivo. Lascio comparire le immagini interiori. Un ragazzino coi capelli fino alle spalle che corre in un campo coi fili d’erba mossi dal vento. Il vento è mosso perché Eolo ci soffia. In realtà fuma ed espira nebbia. Il ragazzino non ci vede bene e si sfrega gli occhi. Si ferma, si stacca gli occhi dalle orbite. Un rapace lo cattura e lo porta a toccare le nuvole. Le lacrime scendono sul campo. Il campo non ci vede bene. Il campo ci vede meglio. Il ragazzino torna nel campo a chiedere i suoi occhi. Il campo non vuole ridarglieli. Il ragazzino ha un terzo occhio. È un faro per vederci in mezzo alla nebbia. Eolo accende un’altra sigaretta. Dobbiamo aspettare che finisca di fumare. Poi ne accende un’altra, poi un’altra ancora.

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Gli viene la tosse. Gli gira la testa. Si mette supino. Suda. Fa caldo, ora. Un caldo infernale.

Ma veniamo a noi. Con questi sbalzi di temperatura e del tempo, non si sa mai. Voglio dire, tornando all’ebook, non è che sia così facile realizzarlo, occorrono programmi adatti e riuscire a comprenderli da soli non è facile. La maggior parte degli editori di ebook chiede un contributo all’autore. Sono degli emeriti EAP, editori a pagamento. Imprenditori che misurano il tempo con il denaro. Chi scrive invece scrive e basta, passa il tempo a fare ricerche, ad aggiornarsi e a documentarsi, infine a comporre. Perché, mi chiedo, dovrebbe pure pagare per pubblicare? Dove sta il guadagno dell’operazione?

Il mercato ha le sue leggi, il libro è un prodotto come la carta igienica, va fatta la pubblicità, la pubblicità va pagata, incide sul prezzo di vendita e tutte queste cose qui. Il problema è la piccola editoria. Quella grande e media è inarrivabile, occorre scrivere con una qualità medio/alta. Il punto è sempre quello. Scrivere. Scrivere è imbrattare un foglio bianco. Scrivere non è imbrattare un foglio bianco. Cosa è scrivere? Come, quando, dove, cosa, perché? Da cosa dipende la qualità della scrittura? Secondo me dal tema trattato, dal suo sviluppo, dai punti di rottura che determinano l’interesse a proseguire. A me, per esempio, piace leggere ed essere spiazzato dall’autore. Adoro quando non ti aspetti un evento, essere sorpreso. Mi stuzzica. Mi titilla. Mi fa staccare la mente da tutto il resto, mi avvolge e mi disorienta. Non posso farne a meno. È un incedere continuo, martellante, come quando fai l’amore. Ecco, forse scrivere è godere e far godere. Quando ti avvicini all’orgasmo lo senti da dentro e non puoi farne a meno. C’è un senso di appartenenza totale all’attimo. Un’esplosione di sensi. Allora si potrebbe ipotizzare che chi scrive compia un atto onanistico, mentre chi legge entri in relazione con l’autore stesso. Ne consegue che chi deve valutare l’opera si mette in gioco: accetta o no.

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Un progetto che voglio menzionare ora è il Collettivo Un Titolo, composto da me, Massi ai disegni dal vivo, Fab letture dal vivo, Valeria letture dal vivo. Tutta roba autoprodotta. Ci siamo esibiti un paio di volte in un paio di locali del centro storico, divertendoci come matti. Quando performi ti sale l’ansia poco prima, poi ti rilassi e comincia l’adrenalina, che consumi con elevate dosi di cocktails. Alla fine eravamo abbastanza ubriachi da rifiutare i soldi che i gestori volevano offrirci per forza. Il progetto è morto per alcune incomprensioni tra i membri, con unghiate e spintoni finali.

Il Mister Great Book Show è un altro progetto degno di essere ripreso. Ma non voglio dilungarmi sui progetti passati e il loro riciclo e riuso, hanno fatto il loro tempo, c’è voglia di qualcosa di nuovo, di molto nuovo. Ovunque.

Blocchi di solito, il mio primo romanzo, partiva da un fatto e lo trascendeva. Rientra tra i progetti dell’associazione, in quanto le sue pagine sono state lette in pubblico durante i meriggi saturnini in vineria, e ha avuto un tentativo di autopubblicazione miseramente fallito. Ha un destino infame, era nato bene, presentandolo a editori rinomati, ma poi si è ribellato. È un aborto vivente, un elemento disturbante, che contiene calore, calore umano di una relazione complicata tra due persone che si ritrovano a Londra e si scoprono giorno dopo giorno, nel quotidiano di una realtà metropolitana dove sopravvivi al sistema che tende a incasellarti, a metterti con le spalle al muro.

Noi siamo fuori da ogni meccanismo, sognatori di un mondo libero e senza confini, favorevoli allo scambio delle conoscenze, e ci deresponsabilizziamo da ogni ruolo, preferendo scherzarci sopra, con disimpegno. I bambini, tuttavia, quando scherzano sono molto seri. Molto.

Il progetto più longevo portato avanti da Arrivo è costitui-

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to da un freepress aperiodico chiamato Le Periferie, giunto al tredicesimo numero e in uscita dopo due anni di lavoro. Si tratta di reperire materiali scritti e immagini e poi montarli adeguatamente. La prima pagina contiene sempre un editoriale e, in fondo, i loghi degli sponsor. Seguono due rubriche fisse, Poesia in periferia e Art Brut Gallery, che ospitano testi, disegni, foto e immagini di autori e autrici che cambiano di numero in numero. Il freepress (da noi chiamato impropriamente rivista) è appunto gratuito e liberamente consultabile online, oltre alla copia cartacea. Dedichiamo molta passione alla cura dei materiali e alla loro composizione, alla veste grafica, alla ricerca di nuove voci nel mondo della letteratura marginale. La testata stessa, Le Periferie, indica un modo di vedere l’arte (letteraria e grafica) non centralizzata, piuttosto dal basso. Una visione altra, per l’appunto, non contaminata da logiche ruffiane e di circostanza. Il tentativo è di ampliare gli orizzonti percettivi. C’è anche un altro aspetto, che costituisce l’ossatura dell’associazione tutta. Il fatto di essere apolitica, apartitica e aconfessionale, ovvero di essere slegata dai poteri in favore di un’autonomia decisionale smarcata dal consenso. Di recente siamo comunque riusciti a ottenere un micro-finanziamento per il prossimo anno per le nostre attività culturali, elargito dal Comune della nostra città. Lo abbiamo chiesto perché permesso dall’amministrazione comunale per chi ne fa domanda. Siamo dovuti andare a parlare con l’assessorato alla cultura e ci siamo presentati come operatori culturali freelance. Forti dei quasi venti anni di esperienza, abbiamo un buon curriculum e, nel corso della nostra esistenza, non ci siamo mai legati ad altre organizzazioni strutturate e con le mani in pasta dappertutto. Questo possiamo affermarlo con fermezza e un certo orgoglio. Anche durante la riforma del terzo settore abbiamo scelto di rimanere ai margini, con la terza opzione che non prevedeva un adeguamento ad associazione di promozione culturale o altre de-

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finizioni. Semplicemente non ci interessava entrare in nessun registro, al fine di mantenere una nostra identità dignitosa. Ove per identità intendo, e intendiamo, la possibilità di condividere un’idea espansa di cultura partendo da noi e partendo dai nostri desideri. La visione che abbiamo è in parte un mutuo-aiuto tra noi tesserati che si fonda su interessi artistici veri e propri, che possono prevedere anche, all’interno, i propri sogni come i propri traumi e paure resi in modo tale da avere una forma tangibile e fruibile da un pubblico prima privato e poi anonimo. Il nostro pubblico, i nostri affezionati, ci stimano e ci spronano a proseguire soprattutto nei momenti di crisi, in quei momenti in cui non riesci ad andare avanti, in cui c’è il blocco. Lo sblocco, allora, è tutto in questo breve scritto che sto realizzando, dove siam giunti al terzo capitolo, e l’argomento è vasto e indefinibile, perché l’associazione culturale Arrivo è ampiamente maggiorenne e, pertanto, un’entità concreta. È diventata un albero dal fusto robusto, che tuttavia non si auto-alimenta, ma necessita di essere annaffiata dal cielo. I frutti cadono e noi li raccogliamo. Un altro buon progetto che ci ha visto impegnati si chiama Moesia, con la produzione di un paio di CD con delle tracce poetiche e musicali. Il primo è costituito da tre tracce, rispettivamente chiamate La canzone della mosca, di Francesco Zuccherini; Non sense, di Valeria Boria; Prendiamo il tè in giardino, testo e voce miei e musica di Paolo Tripotesi. Non sto qui a spiegare l’esegesi delle canzoni, in quanto solo la prima può essere chiamata in questo modo. Le altre due sono più degli esercizi di composizione piuttosto deliranti, ennesimo tentativo di andare oltre il canone. Anche la scelta di uscire solo con il CD e di non mettere online questo progetto, e renderlo fruibile agli ascoltatori del web, è indicativa. L’unica possibilità di ascolto è all’interno della puntata numero zero che porta lo stesso nome, Moesia, effettuata dal collettivo lautoradio.net dentro la neonata libreria indipendente Mannaggia. La regi-

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strazione è disponibile nel sito del collettivo e contiene le voci mie, di Giacomo e del Fab. Alla puntata numero zero ne sono seguite altre due, poi il progetto si è fermato in quanto non avevamo più nulla da dire. In realtà, dopo qualche anno, uscì il mio libricino di poesie intitolato 50 Poesie, da cui ne trassi 16 che, con l’aiuto di Carlos e del suo studio di registrazione, lessi al microfono e lo stesso Carlos arrangiò le musiche. Monica diede la sua voce per 6 brani su 16. Un lavoro di pazienza in quanto, durante la sessione di registrazione, se sbagliavi una parola o un’intonazione dovevi ricominciare daccapo. La concentrazione era tanta, il risultato è stato soddisfacente e pure stavolta la produzione prevedeva un CD, persino con una copertina. Il problema è la sua diffusione, in quanto ho i master di tutto ma ci vogliono soldi e idee per stamparli e distribuirli. Spesso è così, si costruiscono e realizzano dei lavori artistici e rimangono nel cassetto. Ci sarà un senso in questo, almeno credo: per il gusto di farlo, e farlo bene.

Un progetto che invece abbiamo messo in rete è una ripresa teatrale dello spettacolo da me ideato in occasione della dipartita di Daniele. Il titolo è Sono andato via prima. Tre attori, A, B e C. Un testo, mio. Un luogo, una ex carbonaia. Tutto esaurito, unica data. È stato uno dei punti più alti toccati dall’associazione, perché lavorare con gli attori Giorgio Straccivarius e Francesco Rossini è stato un piacere reciproco. Lo scrivo ora per rendere omaggio a Giorgio, scomparso pure lui purtroppo. Lui aveva un’esperienza lunghissima nel teatro, lo ha pure insegnato al CUT, ed è stato in grado di recepire le mie stranezze e darle un verso, una forma. Lo considero un grande artista, una persona generosa e umile fino in fondo, la sua opera totale dovrebbe essere oggetto di studio ma, purtroppo, non può essere divulgata per cavilli burocratici e diritti d’autore. Giorgio, poeta, declamatore, regista, autore, attore, performer e pedagogo. L’ultimo dei sognatori della mia città. Faceva coppia con Paolo Vinti, l’im-

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menso compagno Paolo, compagno nel senso di comunista. Fu lui che mi ispirò, Paolo, a realizzare il numero zero de Le Periferie, perché produceva dei fogli letterari stupendi, uno su tutti Astratto Rosso. Li scriveva, li stampava, li distribuiva e li declamava nei locali in centro. Tutte e tutti conoscevano questo uomo alto che girava con due cravatte non allacciate, occhiali da intellettuale qual era, sempre pronto al sorriso e al non prendersi troppo sul serio, sebbene la sua cultura era immensa e internazionale. Il trittico di uomini di cultura che omaggio, in quanto passati a miglior vita, si completa con Walter Corelli. Autore notevole, viveva qualche piano di sotto al palazzo che abito, lo incontravo spesso in ascensore ed era capace di sdrammatizzare ogni occasione con quel suo modo di fare stropicciato, come se volesse sempre scusarsi di esistere. È grazie a lui se sono riuscito a seguire il seminario di Danio Manfredini al teatro Brecht della mia città, dove ho incrociato seminaristi che poi hanno fatto strada. Io in realtà l’ho seguito fino a un certo punto, poi sopraggiunse l’apatia e preferivo guardare, osservare. Troppi gli stimoli, le circostanze. Avevo paura di me, di lui, di qualcos’altro, glie lo dissi, a Danio, e mi accolse. Dovevo prendere delle decisioni profonde per la mia vita. Ero nudo e al buio. Per concludere con le personalità, è doveroso parlare di Clara Sereni. La incontrai molti anni fa e mi concesse un incontro pubblico in un caffè dove le portai il testo di Prendiamo il tè in giardino in quanto volevo lo leggesse e lo proponesse al suo ex-marito, Stefano Rulli. Il testo in questione lo avevo smontato e trasformato in una sceneggiatura sperimentale di videoarte. Mi chiese se potesse tenere il testo, dopo averlo sfogliato e averlo giudicato fuori dalla sua portata. Assentii. Per me era già un onore questa sua richiesta e mi sentii appagato.

Parlando di vivi, invece, non posso non nominare il signor Giampiero Frondini, il grande vecchio. Con lui partecipai a un suo spettacolo in veste di Nicola Castellini, però, e non di

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Arrivo. Il problema, infatti, era quello di distinguere le due cose. Ero talmente preso e collegato all’associazione che, a un certo punto, qualsiasi progetto culturale facessi ci mettevo il nome di entrambi. Io ero Arrivo. Il problema derivava dal fatto che per molti anni non c’erano collaboratori, tutti spariti. I tempi d’oro del circoletto erano lontani, il web 2.0 sembrava darci una parvenza di socialità ma in realtà ci allontanava. Io tenevo duro, in attesa di tempi migliori. Credo che per un anno o due non feci nulla se non aspettare. D’altronde, Arrivo è nata nel 2001, e questo inizio di millennio non è stato molto favorevole al genere umano, per cui è necessario non mollare, non mollare mai. Si può solo risalire, una volta toccato il fondo. In fondo, appunto, siamo un’organizzazione giovane, l’indirizzo specifico non lo abbiamo e non lo vogliamo neanche, come precisato poco sopra.

Nel 2020 siamo stati chiamati a organizzare un evento, l’estate scorsa, legato al circoletto. Aveva luogo in un parco pubblico e abbiamo presentato La favola del fuoco, un mio testo per giovani con musiche in grecanico antico a cura di Francesca e interpretate da Benedetta. In quell’occasione ci è stato proposto di curare un progetto di laboratorio teatrale chiamato PadLab, in quanto legato a degli scritti anonimi sviluppati durante la prima ondata di pandemia, quando non si poteva uscire di casa. Il Pad era il nome del portale in cui riversare gli scritti. Un giorno saranno stampati e rilegati a mano, presentati insieme allo spettacolo che faremo, desunto dallo stesso. Purtroppo non sappiamo quando e come sarà possibile realizzare questo bel progetto, condotto da me e soprattutto da Benedetta, che in campo pedagogico ha molta più energia ed esperienza del sottoscritto. Ci sarebbe, nel frattempo, da fare tutto un lavoro alla ricerca delle parole chiave del testo, di entrare nel Pad vero e proprio e venire cosa ne esca fuori. È così su tutto, il recupero dei materiali, la volontà di lavorarli, di impastarli, di strutturarli con metodo e disciplina. La pre-

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senza, soprattutto. La presenza di spirito e di materia, la presenza intellettuale e fisica. L’ignoto spaventa e attrae. Lo si può attraversare da soli, e ha una valenza, o insieme e si cercano soluzioni in comune. È molto semplice. L’atto della scrittura, invece, è un atto solitario. Lo affermo senza dispiacere. È un atto creativo e generoso. È un diritto d’artista. Ecco, allora, che subentra l’associazione culturale Arrivo a garantirlo, a legittimarlo. Offre una possibilità, una piccola vetrina alchemica, dove si crea qualcosa dal nulla. Ma dal nulla non si crea, piuttosto si mettono insieme degli elementi. Il nulla, e l’ovunque, sono concetti da relativizzare. Compare allora la via di mezzo. In questo sottile equilibrio si maneggia il messaggio da veicolare, qualunque esso sia. È un continuo dire e non dire, rivelare e nascondere. Ma siamo ancora nel dualismo e, traslando, nel capitalismo imperante. Trarre profitto, approfittare, guadagnare, avere visibilità, followers, seguaci. Potere. Io, per esempio, sono il presidente. Presiedo l’associazione, ovvero la rappresento con la mia presenza. Posso delegare il vicepresidente a rappresentare l’associazione, se lo decido. Nel corso di questi 20 anni ho accumulato esperienza e saperi e so muovermi tra i meandri dell’offerta e produzione culturale della mia città. Faccio un report e lo discuto con gli altri membri, per prendere decisioni da attuare. Non è sempre così lineare il processo, altrimenti saremmo un’azienda. Noi non produciamo reddito. Produciamo sogni individuali da collettivizzare. Forse siamo snob e riserviamo le nostre opere a una nicchia di persone. Ci prendiamo la libertà di non essere commerciali e di non ricavare guadagno alcuno. Questo determina pochi fedeli. La nostra è una traccia in parte avanguardistica, fuori dai circuiti ufficiali, da sempre. Non siamo regolari, piuttosto umorali. Ci alziamo la mattina e vediamo che succede, senza programmare niente. A seconda degli stimoli interiori o esteriori ci dirigiamo in pensieri e azioni da sviluppare, integrare e confrontare. Questo è il no-

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stro modus operandi. Cerchiamo, insomma, di fare come ci pare. Nessuna imposizione dall’alto, nessuna scadenza granitica. La ricetta è semplice: hai una base di riferimento, qualche vaga indicazione, prendi gli ingredienti e li curi. Poi li congeli e li tiri fuori al momento opportuno, riscaldandoli. Se te ne dimentichi, loro in qualche modo te lo ricordano, perché hanno un’anima propria che a volte fa capolino. Ecco, Arrivo è in parte animista e in parte matriarcale. Ti accoglie e ti nutre. Si prende cura di te, a patto che ti lasci andare al suo abbraccio protettivo. L’organismo totale si compone di parti interscambiabili, suscettibili a variazioni sul tema. Si dirà, ma qual è il tema? È quello proposto dal nostro statuto, ratificato dall’atto costitutivo, consultabili liberamente all’interno del nostro blog. Il blog, infatti, è lo strumento che utilizziamo per rendere pubblici i nostri lavori, per pubblicizzarli. Il blog è www.arrivo.wordpress.com ed esiste da diversi anni. Ha toccato punte di visualizzazioni seguite da momenti di stasi totale, di inconsistenza. A livello grafico non rispecchia le varie tendenze del web, è molto elementare e rudimentale. Per quanto possibile, inoltre, fino ad ora abbiamo sfruttato solo siti con dominio non a pagamento, senza accedere a pacchetti premium. Tuttavia è dura, la concorrenza è alta, noi non siamo competitivi, vogliamo una fetta di una torta che non c’è, se non quella che fabbrichiamo noi stessi. Un’utopia? Una forma organizzata di anarchia? Semplicemente Arrivo. La meta non esiste, ci si arriva solamente. È un tentativo di riappropriarsi dei propri spazi temporali. Arrivo sei tu in quanto esisti. Non hai altri bisogni. Ci sei. E qui torniamo alla concezione dell’indaco, come colore, scoperto da un secolo e mezzo in India. Indaco come colore dell’intuito, della percezione, del qui e ora. Indaco come colore tra il blu e il viola, che identifica il sesto chakra, quello del terzo occhio. Glacoma Sicu doveva raffigurare il dolore fisico del momento in cui si apre questo occhio. Purtroppo ho perduto il testo. Non ri-

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mangono che le ceneri del ricordo, l’essenza scomparsa dell’evento, ancora una volta il nulla assoluto. Invece non è vero, è ricomparso dalla memoria elettronica. Non sto qui a riscriverlo o copiarlo e incollarlo in quanto non mi sembra una buona idea. Era un esperimento puro e duro, il quarto spettacolo dell’associazione, univa suoni, corpi e immagini. Univa invece che dividere. Dopo questo quarto spettacolo ci sciogliemmo. Ci vollero dieci anni per ripresentare un lavoro teatrale, Sono andato via prima, cui segue l’ultimo in ordine temporale, La favola del fuoco. Ma la favola costituiva pure il quadro finale del quarto spettacolo. È stata ripresa e rielaborata, staccata dal precedente, arricchita con musiche e canti grecanici di tradizione orale e assemblata in forma di libretto autoprodotto, stavolta sì, con all’interno sei illustrazioni coloratissime di Schramm. Lo proponiamo, insieme all’altro materiale, quando facciamo un evento. Abbiamo un banchetto coi nostri libri, CD, riviste e schede di adesione muscolari. Nel senso che sono piene di fibre. Ci passano le nostre idee, il nostro cuore, i nostri nervi. Li vendiamo. Non abbiamo mai una lira per nessun progetto, ma non è importante. Importante è rimanere saldi. Noi non facciamo sconti, quando ci diamo lo facciamo per bene. Per esempio, Latte alla portoghese è un testo di Pietro Zanchi per una canzone del suo ex gruppo FC Nerolatino che abbiamo pubblicato su Le Periferie #11, dal quale abbiamo desunto una performance con me e Benedetta dove abbiamo sperimentato, ancora una volta, i nostri istinti attoriali partendo da tutto quello che non era recitazione, improvvisando su un canovaccio. Ci hanno chiesto due volte il bis, e ci siamo sfogati, ci abbiamo dato dentro di brutto. Rimane un video a testimoniare l’accaduto, che è stato montato e titolato da Beste. Un altro video, ancora da montare, è previsto per l’ultimo evento costruito, chiamato Cambia programma, a cura di EnEm96, produzioni Arrivo. Ma di questo parlerò più avanti, troppo fresco ancora. Meglio

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chiudere la finestra. Il fatto è che, dentro questa performance, ho declamato dei miei testi nuovi che costituiscono una composizione intitolata Antipsik e che non è finita, quindi è prematuro parlarne perché incompiuta. Sono dei pezzi indipendenti l’uno con l’altro, che non seguono nessun nesso tra di loro e sorgono spontanei tra i miei pollici, in quanto li digito sullo smartphone come note. Non sono appunti, però, ma sensazioni. A volte situazioni. Quando sono sovraccarico di stimoli, infatti, ci metto mano. Ho bisogno di fermare, di fotografare con le lettere, di crearci una cornice per poi distruggerla. È un processo forte, che non puoi farne a meno. Una necessità. Qualcosa che ti dice di venire alla luce. Psik è invece un testo che produssi nella prima metà degli anni zero, e, grazie al Cesvol, lo editammo e ci ricamammo una rassegna sulla follia chiamata Crepe. Al circoletto, of course. Vi partecipò Giampiero Frondini, che venne a intrattenerci raccontandoci la sua esperienza nell’ambito del teatro applicato alla psichiatria. Si era nel periodo storico in cui Indymedia ((I)) aveva perduto forza, gli hackmeeting lo stesso, l’hacklab del circolo era in crisi e tra di noi circolava paranoia quanto basta a convogliarla in una rassegna. L’idea piacque e creammo una locandina e un volantino che terminava con la scritta: “Oh, ‘n fa ‘l matto, vieni!”. Durante la serata di raccolta fondi con una buona cena io mi accompagnai con Laura M., che forniva assistenza psicologica alla mia performance. Facevamo poi vedere un video del TGR settimanale in cui un giornalista mi intervistava davanti al CUT di Perugia per il progetto Verso una compagnia teatrale atipica. Anche in questo caso ho traslato esperienze artistiche personali verso una collettivizzazione fruibile tramite l’associazionismo. Il progetto dell’Atipica fondeva il teatro con la psichiatria e la video-intervista era una ghiotta occasione per aprire la rassegna. Il nome Crepe fu suggerito dal Fab, con rimandi al produci-consuma-crepa di ferrettiana memoria. Il Fab è stato una colonna portante

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del circolo e di Arrivo, coi suoi contributi letterari e fotografici, le sue letture in pubblico, la sua presenza. Non ha mai ancora avuto il privilegio di vedere pubblicato un suo libro a cui lavora da tanto. Con lui ho passato serate indimenticabili ad ascoltare musica e delirare a voce, aspettando l’alba. È un poeta unico nel suo genere, dolcemente egocentrico ma senza esagerare. Il suo tremolio nelle mani che reggono il foglio da leggere in pubblico è emozionante a prescindere. Si sente la sua mancanza, in parte ovviata durante l’evento estivo, già citato, al parco Chico Mendez, in compagnia del suo piccolo figlioletto. Ha performato e letto come al solito, meglio del solito, in compagnia di Flusso, Rete Informale Cervelli Precari, fondata da David Laurenzi, che produce l’omonimo foglio d’arte. Di Flusso siam debitori, in quanto ci si sostiene a vicenda. Ci si scambia opinioni letterarie, materiali e ossessioni visionarie. Una solidarietà ostentata anche nella ricerca di editori etici, per l’appunto. Perché tutte e tutti noi scriviamo, e non abbiamo molti sbocchi. Occorre fare gruppo e scambiarci info utili per navigare in quest’oceano di squali che ti vogliono far pagare anche l’aria che respiri. Noi gli rispondiamo con la tosse. Un buon virus nel loro sistema perfettino e macchinoso non guasta mai. Questi editori bizzosi, burocrati, inarrivabili. Questo collasso del sistema, che non sistema nulla. Ma come difendere la nostra posizione off e allo stesso tempo avere un seguito? È questo il dilemma. Il nodo da sciogliere. La soluzione sta nel gruppo, come sempre, pensante. Pensare criticamente, trovare qualche falla, qualche crepa e inserirsi. Perché di bug di sistema è pieno il mondo, questo imperfetto. Questo nostro infetto. Noi siamo degli insetti parassiti che catturano idee nell’etere e le portano in terra, come Prometeo col fuoco. A questo punto ci sta bene una bella immagine della locandina per la festa dei dieci anni dell’associazione:

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Dove troviamo in foto, da sinistra, il Fab, Stine, me e Danielone intenti a presiedere in vineria l’evento Letture nel meriggio saturnino. Dell’evento al Cva non ricordo nulla. Piuttosto quello per i primi tre anni, sì. La locandina l’aveva fatta Daniele, a differenza di quest’ultima che l’ha fatta Giacomo. Nella festa dei tre anni, che facemmo in un Centro Sociale Occupato Autogestito della nostra città, venne un sacco di gente perché offrivamo da bere. C’era un buon sound, pure. La sangria autoprodotta e modificata. Ecco, ai nostri eventi era importante andare in orbita, come si suol dire, ballando, bevendo, facendo festa. La festa è una parola importante. Per festa intendo quella pagana, non connessa a religioni alcune. Chissà quando ci daranno il permesso di farne un’altra. Inoltre, come si può vedere, se la presente stampa è a colori, i caratteri sono stati scritti per la maggior parte col colore indaco. Mi riferisco alla locandina sopra, ovviamente. Quella dei tre anni la chiamammo 3 party, nel senso di free party. Forse è tempo di guardarsi indietro, chissà. Fatto sta che ci fu un altro spettacolo in programma a cura di Arrivo: Come viene, viene. Lo rappresentammo in due spazi teatrali veri e propri. La prima volta venne bene, eravamo soddisfatti io e Floriana. La seconda volta un disastro, non ci prendemmo mai in scena, il pubblico pensava fosse voluto, ma in realtà eravamo sconnessi e scoordinati. Poi andammo a mangiare al ristorante e io ero in forte imbarazzo. Conservo comunque il foglio di sala a colori cartonato, con le rispettive presentazioni. Mi misurai con la bravura scenica di Floriana, che tendeva a far valere la maggior esperienza. Le misi addosso una parrucca bionda e l’alzai in un piedistallo. Il mio compito era di farla scendere. Solo che la performance era stata concepita per un certo spazio, e l’adattamento ad un altro spazio non funzionò. Era come una poesia rovinata.

Un altro apparato organizzativo di Arrivo fu allestito per un minifestival chiamato Guahguahguah. Doveva svolgersi

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all’interno del nuovo anfiteatro di Ponte San Giovanni. Avevo interessato gruppi musicali alternativi, uno su tutti le Tette biscottate. Avevo interessato Daniele Timpano, per il suo spettacolo teatrale Ecce Robot. C’era un fondo regionale, misero, cui attingere. All’ultimo non se ne fece nulla in quanto non avevamo l’agibilità per l’impatto sonoro la cui rilevazione ci sarebbe costata una cifra che non avevamo. E dire che la tre giorni che avevo pensato fu illuminata da una luna piena enorme e sognante. Dirottai comunque il progetto cambiando tutto e sintetizzandolo nella performance personale L’organo di mia madre, dove elencavo tutte le frasi che la mia famiglia usava nei miei confronti per riprendermi quando facevo qualcosa che non andava secondo i loro canoni.

Questo era il viso scelto per il minifestival. Un ghigno, appunto, a indicare una risata sguaiata: Guahguahguah! In effetti questo losco personaggio si prese gioco di me. Fino all’ultimo ero deciso a farlo, poi mi arresi all’evidenza: la burocrazia aveva vinto ancora una volta, ma il mio progetto fu approvato e L’organo di mia madre ottenne consensi e un contributo. Tra il pubblico c’era Carlos, che apprezzò i

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miei sforzi attoriali e mi propose qualcosa. Da lì nacque una collaborazione con la sua associazione culturale, Amerinka Alma Latina. Iniziammo a lavorare sui testi, e sulle musiche. Mi insegnò quello che sapeva a livello performativo, a stare sul palco e a esprimermi con passione, il mio orientamento era la lettura in pubblico, seguita da suoi accompagnamenti musicali con la chitarra e con un gruppo che aveva messo su batteria e percussioni. Replicammo la cosa a distanza di anni durante la presentazione del mio libro 50 poesie presso un teatro. Da lì venne fuori l’idea di farne un CD. Le cose sono spesso conseguenziali, arrivano da sé, come dire, pronte a essere raccolte. Il prossimo step non si conosce, basta aspettarlo a braccia aperte. Ora, chi desideri sostenerci, avere maggiori informazioni e delucidazioni, si faccia sotto. I nostri recapiti telefonici sono lo 0039 328 9243782, la nostra email arrivo. info@gmail.com e il nostro IBAN lo specificheremo più in là. Non paghiamo affitto, perché la sede è a casa mia. Disponiamo di una piccola biblioteca cartacea, forse ne dovremmo fare una virtuale. Implementare, per esempio, il sito archive. org ovvero il sito che raccoglie e archivia files per sempre e in modo libero e gratuito. Ma noi non siamo scienza, nemmen fantascienza, lasciamo riposare gli intenti e godiamoci il tempo libero. L’associazionismo tuttavia non è una ragione di vita, né un hobby. È un modo di essere, fare e pensare. È regolamentato in modo tale da permettere di respirare aria buona e ossigenata. Fino a poco tempo fa, comunque, era un gran proliferare di nuove associazioni, ricordo che la mia città era candidata a capitale europea della cultura. In molti questa cosa produceva acquolina in bocca. Una volta in semifinale, però, non siamo risultati vincitori, di conseguenza i molti hanno allentato la morsa e si sono disciolti alla luce del sole. Poi facemmo dei progetti anche con il Centro Servizi Giovani del Comune, prima ancora con l’Informagiovani e l’adiacente Post, o museo della scienza: siamo agli albori della

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nostra costituzione, il direttore del Post è ben predisposto al mio progetto di videoscrittura in tempo reale, il Clipwriting, poi denominato Tastiera Aperta dal CSG, infine convertito nel progetto Ascolti e scrivi. L’ultima versione è stata ripresa e condivisa dal collettivo Flusso per un evento di presentazione di un numero del loro foglio d’arte che ha avuto luogo al Postmodernissimo, il cinema d’essai per eccellenza di Perugia. Occorre, quindi, fare ordine. Troppi nomi, troppe sigle e troppi progetti. Non se ne viene a capo.

Bisogna concentrarsi su poche cose. Cercare di non distrarsi. Andare avanti con una narrazione logica e utile. Ma come definire l’associazione Arrivo? Mi sembra una mancanza di rispetto. Eppure so che ha una sua personalità. Anche ora sto attuando il comando Ascolta e scrivi, ho messo nel Panasonic il primo CD dei Verve che fluttua nell’aria della mia stanza, con la finestra aperta sulla nebbia del mattino del giorno dopo la morte di Diego Armando Maradona. Solo a scriverlo mi fa strano, non mi sembra vero. Non è possibile, proprio lui, il più amato, il più forte di tutti, il poeta del calcio. Dieghito, con te se ne va un pezzo della mia adolescenza, per sempre. Non ci sono parole per esprimere il mio dolore, tutti ammiravano le tue giocate col piede sinistro, i tuoi gol e dribbling, il tuo genio. Ho freddo, sai, ho freddo alle caviglie, mi sento solo, ho fatto sogni brutti stanotte e alla fine mi sono alzato alle 6 del mattino e sto qui a cercare di dare ordine ai pensieri attraverso una tastiera. Il progetto Tastiera aperta era un tentativo di condividere, per l’appunto, una tastiera per una scrittura collettiva video-proiettata in tempo reale. Si sceglieva la musica da ascoltare e poi si cominciava a scrivere. Creammo un piccolo gruppetto di giovani di ogni nazionalità, ognuno voleva una musica diversa. Presentammo il progetto in aula, non ci diedero la parola. Semplicemente si dimenticarono di noi. Un lapsus, probabilmente. Fu abbastanza comico e imbarazzante. Sembrava facessero un favore a noi, quelli del

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Comune. L’Assessore alla cultura era un mio amico dell’adolescenza con cui giocavo a pallone, ci ho vinto insieme un torneo. Non ho mai capito se mi premiò per merito o per altro. Il progetto lo presentai con tutte le specifiche del caso. Comunque, ci diedero dei soldi. Organizzammo alcuni incontri al CSG, scaldammo l’ambiente e poi trasferimmo il progetto nella nostra sede operativa, il Circolo Island. Tornammo al nome iniziale, il Clipwriting, e lo abbinammo con un dj-set e poi con un concerto reggae. Prendemmo la porchetta e facemmo i panini. I musicisti reggae erano vegetariani. Giulio era il cantante. Dreadlocks nascosti sotto la lana colorata. Era molto alla mano, gli piaceva portare avanti il messaggio spirituale di Hailé Selassié, a me stimolava la scrittura. Da qualche parte ci dovrebbe essere la registrazione di quel Clipwriting.

Il fatto è che parte tutto dal cervello. Gli stimoli di input e di output, la cabina dei comandi è lì. Quindi, se ascolti della musica sei stimolato e lo restituisci componendo delle frasi, è così che funziona. Lo stile musicale non influisce più di tanto su quello della scrittura, poi un conto è farlo in casa da soli, un altro è farlo in una situazione di condivisione degli spazi quale un evento-festa. Personalmente avrò partecipato a una ventina di eventi legati a questa forma di scrittura meccanica dal vivo. La prima volta fu presso la neonata Biblionet, nel 2000. Mi portai una piantina germogliata a farmi compagnia. Io stavo di spalle al pubblico. Cercavo di captarne gli umori, in maniera solipsistica. Non ero dentro il mondo culturale della mia città, ancora. Arrivo forse era in embrione. È probabile che la solitudine che mi portavo dentro, questo modo di esprimermi con le lettere, abbia contribuito alla voglia di associarmi. Non so, è una forma di esistenza il fatto di esporre subito a qualcuno la scrittura che creo? Insicurezza? Egocentrismo? Spettacolarizzazione forzata? Io la interpreto come una forma d’arte, di intrattenimento, per l’appunto.

-Ma no, dai, tranquilloo…

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Mi dice il dottore al telefono. La musica di Marley in sottofondo. Ho preso la medicina per Tyga, tre sacchette di colore diverso con dentro erbe, cortecce, radici. Insomma cose della natura. Poi mi sposto, verso acciaio e stoppini, quanto meno metallo. Smonto lo zippo di mio fratello e lascio i pezzi sulla scrivania come a formare un robottino da recensire.

Ho ricevuto recensioni per i miei scritti, in passato, da parte di persone autorevoli e amiche. Prefazioni e postfazioni. Non so quanto possano essere utili, ma è sempre del materiale da recuperare. È logico. Arrivo.

Prima della costituzione dell’associazione oggetto di questo capitolo, io e Daniele, che ci conoscevamo da un decennio, organizzammo una festa su un casolare in campagna e la chiamammo The Bottle Party. Chiunque avesse voglia di partecipare veniva invitato a portare una bottiglia, piena, da bere. Naturalmente dormimmo lì, coi postumi della festa. La mattina dopo la proprietaria ci chiese dei soldi per la luce consumata. Pagammo e andammo via. Alla festa venne anche Roberto, molto ambito dal sesso femminile, presenza ironica e burlona, per noi. Roberto e Daniele, infatti, si conoscevano da adolescenti. Ne combinavano di ogni. Daniele era più compassato esteriormente, meno fuoco. Roberto invece una persona delirante, in senso buono, meno inserito di Daniele, che aveva un lavoro sicuro, quello di grafico al computer. Roberto faceva invece il fotografo, fino ad arrivare ad aprire uno studio fotografico nel quartiere, in società con Salvo, e poi il corso degli eventi li porterà dritti a fotografare le serate del Red Zone. Allora, arrivavamo io e Daniele al Red e ci facevamo fotografare da uno dei due, e poi tutti al bancone. Mi mancano quei due mattacchioni, le scorribande e il senso di libertà che trasmettevano. A me dava gusto andare a casa loro. Era tutto organizzato, in apparenza. Sembrava vivessero in un’azienda, nulla era fuori posto, tutto molto funzionale.

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Daniele passava la maggior parte del tempo libero a leggere libri e ascoltare dischi. Al suo 40° compleanno lo trovai intento nella lettura di Dostoevskij con in bocca un sigaro enorme e un bicchiere importante. Se la godeva, sebbene soffrisse di depressione e psoriasi. Negli anni ’90 io e lui uscivamo sempre la sera del lunedì, per incontrare solo gli aficionados nei locali. Era il giorno più sfigato, ideale per noi. Frequentavamo locali popolari, alternando qualche rara uscita al ristorante cinese e a locali più à la page. Una volta mi regalò una cinta, di cuoio, che non metteva più. La cosa mi riempì di orgoglio. Mi aveva pensato, non solo come compagno di bevute. Lui era un po’ enigmatico, parlava poco, si isolava spesso. Poi, quando non ce la faceva più, iniziava a parlare di qualche argomento da concludere con una battuta a effetto, che ti rimaneva alla memoria. Aveva fatto, aveva creato una storia, al pari di Roberto, che di storie ne creava di continuo. Roby era sempre pieno di storie da raccontare, di contatti, di voglia di vivere. Aveva una parlantina speciale, mentre ti diceva le cose ti leggeva nella mente i desideri e i pensieri e te li riportava nel discorso, davanti a te, che rimanevi un po’ a bocca aperta. I miei amici degli anni ‘90, cari, dolci, teneri. La musica ci accompagnava sempre e ci univa. Su tutto, i Velvet Underground. Me li fece scoprire Danielone, alla stazione dei treni del nostro quartiere, tirando fuori da un cestino della spazzatura un pezzo di giornale che recensiva i loro lavori. Fu subito amore a prima vista; conoscevo, ovviamente Lou Reed, fin da piccolo. Saperlo leader di una band epocale, una di quelle che in pieno periodo hippy suonava roba nichilista, di New York, avendo come mentore Andy Warhol, mi sembrava ancora più bravo. Da lì, dall’ascolto, approfondii le orecchie che si deliziavano della voce di Nico. Rivedere, infine, i due ultimi anni di Nico su schermo mi ha colpito. Come un salta-tempo impazzito, come vedere Trainspotting 2, insomma. Siamo tutti cresciuti, abbiamo messo qualche ruga, perduto i capelli,

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un po’ di pancia, disillusi. Ecco, la disillusione della mia generazione sconfitta dal G8 di Genova, ma una fetta resiste, lo so, noi cibernauti etici, che andiamo sul sito di cisti.org. Così, tra pochi giorni arriverà Lucio a sistemarmi il pc per mettere Linux. Iniziare a fare gli ebook con Calibre e avviare la casa e-ditrice. E-dizioni Arrivo. E-ticamente. Tanti ebook. Tante adesioni. Alcuni passi in avanti. L’associazione vive, pulsa, e fa bene. C’è da fare il travaso tra i due anni, a ridosso del nostro ventesimo. Dobbiamo organizzare una festa carina, con delle sorpresine. Iniziare a produrre files audio di alcuni scritti da noi selezionati. Leggere, ripetere, correggere la dizione, l’impostazione e gli errori e gli svarioni tutti, per poi rigiocarceli come meglio crediamo.

Riflettendoci, è tempo di chiedere. Possiamo richiedere il rinnovo della tessera e, in generale, lanciare una campagna di raccolta fondi per le nostre attività culturali. A questo scopo, alfine, pubblico l’IBAN per intero, intestato a Associazione culturale e letteraria Arrivo L’IBAN è il seguente:

IT65M0501803000000017007790 (Banca Etica Perugia)

La community di Arrivo si compone di persone che hanno il comun denominatore di attuare ed espandere i principi dell’associazionismo, del volontariato e di azioni culturali attraverso l’intervento artistico e creativo di produzione del materiale, da assemblare, presentare e divulgare, o semplicemente fruirne. La nostra organizzazione è antifascista. È antirazzista. È contro la guerra. È antisessista. Applica, come e quando può, i principi della riduzione del danno (prodotto dal capitalismo, in primis). E poi c’è tutto il resto: teatro, performance, lettura dal vivo, produzione di testi scritti e orali, registrazione audio, registrazione video, gestione di una rivista freepress, fotografia, illustrazioni, poesia, musica, grafica, pittura, installazioni.

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Ci trovate su qualche social network ma non tanto, sul blog, al telefono (anche whatsapp) al numero 0039 328 9243782, dove abbiamo creato un gruppo. Dobbiamo affrontare questi freddi tempi di tecnologia video e meet, dotarci di videocamere e microfoni, iniziare a fare presentazioni sul web? Vedremo. La nostra mission la scrive il tempo. Questo libro lo scrivo io, intanto. Mi auguro possa servire a immaginare mondi. A mescolare la realtà con la fantasia, ma pure a rendere inorganica la materia. Indifferenziata. Grigia. Piatta. Liscia. Tattile. Puzzolente. Humus. Fertilità. Una natura morta, insomma, che non ha pace, ostinata e resistente. Io mi sento così, e cerco di trasmetterlo. Sfaccettature sottili, liminali, emotive, votate all’astensionismo (impossibile) del giudizio, sono senza giudizio, con la testa tra le nuvole, fluttuo, gongolo, mi ingrasso e digerisco. Come stanotte. Risvegliarsi in compagnia ogni tanto è un toccasana. Sempre diventa un’abitudine. Occorre rimanere soli, del tutto, per apprezzare le relazioni. È questo che mi insegnava Torgeir, a cui ho dedicato l’autobiografia. Anche questo è un progetto di Arrivo, uno dei libri pubblicati grazie a esso. Il mio ultimo saluto a Torgeir Wethal. Nessuno è innocente, amore. È il lungo titolo dato all’opera, e mi sembra doveroso parlarne in quanto sono più di dieci anni dalla scomparsa del maestro, e poi non ho ancora illustrato i libri di Arrivo. O forse sì. Fatto sta che ormai è uscito nel 2019, grazie a un accordo con un’altra associazione culturale, La casa degli artisti. Pure il contributo iniziale per le prime copie, dato da Il Giardino di Francesca, ha permesso l’inizio del progetto. Progetto che non è ancora uscito dal territorio, distribuito a mano dall’autore e, per la prima volta, con un prezzo di vendita a metà tra autore ed editore. Sarei curioso di sapere quante copie ne sono state messe in giro. Un libro non è un ripasso, ma un oggetto prezioso da ripassare.

Si potrebbe farne un audiolibro, ora va di moda leggere e registrare ogni cosa. Suddividerlo per capitoli, of course, ma

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non ci sarebbero le illustrazioni e le foto ivi contenute. Per ora, lo stiamo facendo, cerchiamo di farlo, con la rivista freepress Le Periferie #12. All’interno è contenuto un racconto orale riportato a lettera, dal titolo Ognuno per sé, di Mohamed Camara, a.k.a. TBoy and the G Family. Ovvero il nostro glorioso vicepresidente. È un racconto tramandato da generazioni, ha dentro di sé elementi di narrazione volti a creare una coscienza in chi la riceve, un insegnamento. Che non è una morale, piuttosto un forte invito alla riflessione. Ci sono pochi personaggi, una mamma, due figli, un uomo, detto appunto Ognuno per sé. Intorno a lui ruota la vicenda, con un epilogo feroce e vivido. Ho individuato questo testo, questo racconto breve, come centrale per divulgare la rivista. Come per il precedente numero Le Periferie Freepress #11 avevo estratto il testo Latte alla portoghese e poi performato con Benedetta, o come, ancora prima, avevo rappresentato prima con Francesca e poi con Benedetta La favola del fuoco, che a sua volta era un estratto di Glacoma Sicu, così ora è venuto il momento di proseguire l’affabulazione e metterla in scena, solo che, siccome quando ho scritto questo testo che stai leggendo eravamo in pandemia, non potevamo provare e rappresentare, a meno che non utilizzavamo le dirette. Webcam, smartphones, cuffie bluetooth con microfono, stanze insonorizzate. Questo il kit necessario. Oltre al PC, chiaro. Ognuno è un terminale che si collega all’altro. Lettura collettiva, a due voci, singola... questo si vedrà. Maschile, femminile. Stili e timbri, pause e intonazioni. La fonetica. La voce. Le casse di risonanza. Usare il proprio corpo. Prestarlo a un evento. Farlo nel tempo libero, perché il volontariato è un hobby, mai un lavoro. Non è e non può essere retribuito; può invece essere una palestra, un centro di produzione senza diritti e senza doveri. Come si evince, tutto parte da un medium. Con Ognuno per sé partiamo dall’oralità e vi ritorniamo in modo seriale. La analizziamo, la studiamo, la facciamo propria e la

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interpretiamo per restituirla con una parte di noi. Arte che parte. Sono tentato di copiare e incollare il testo, sono tentato di copiare e incollare il link dove metterò la registrazione, ma qualcosa mi trattiene, non lo trovo giusto senza l’autorizzazione di TBoy. Sicuramente sarebbe d’accordo, ma c’è un altro elemento da considerare. Non voglio svelarlo, è prematuro. È tutto così puro, acerbo e fresco che ha bisogno di sedimentare, in una terra accogliente. La ciela il terro. Questa confusione di generi, interculturale, transculturale, elementi antropologici connessi e interscambiabili, eppure con una loro dignità e identità fluida, tuttavia. Il periodo storico che viviamo è di grande cambiamento. I media mainstream si allineano a divulgare news di ciò che il sistema afferma, fanno da cassa di propaganda. Occorre saper discernere. Essere critici, formarsi, appunto, una coscienza critica individuale per sapersi confrontare con l’esterno. Lo scambio di opinioni tra noi di Arrivo determina le nostre scelte artistiche, i temi da trattare, spesso latenti. Marketing cooperativo? No, non direi, piuttosto Creative Commons, gente.

Si fa squadra. Il gruppo ha iniziato a registrare i brani contenuti nel freepress. Con Giacomo stiamo approcciandoci al materiale utile per il prossimo numero, il #13. Abbiamo un artista suo conoscente che produce vignette e illustrazioni psichedeliche, abbiamo poi visitato siti di informazione su Dr. Alexander Shulgin e Ann Shulgin, i coniugi americani che sintetizzavano e sperimentavano sostanze psicoattive, e introdurremo Gina la Fanzina, un inserto umoristico. Abbiamo incontrato Carlo, col quale avvieremo un progetto di scrittura in 4. Questa è la materia nobile del futuro prossimo, in questi incerti tempi di passaggio dell’anno vecchio a quello nuovo, con la solita corsa all’acquisto dei regali e la tosse persistente.

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Questi sono i coniugi Shulgin, lui non c’è più, ma lei è viva e vegeta. Per dare un’idea della percezione che si ha di loro, in America, riporto un’immagine dell’immenso Alex Grey:

Dove ci si approccia in modo alchemico alla realtà.

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E poi, dato che siamo in dirittura d’Arrivo, ci sono i tesseramenti per il prossimo anno da fare, nuovi o rinnovi. Dimenticavo una cosa importante. La Pace. È un componimento scritto agli inizi dell’associazione, che è giusto ritirare fuori e non farlo ammuffire nel cassetto della memoria del PC. Che parola semplice, e complessa, Pace. Significa essere contro la guerra, in ogni forma. Gino Strada afferma che lui non è pacifista, lui è contro la guerra. Ciò significa che la guerra va combattuta con ogni mezzo. Anche con lo streaming. Stream da flusso. Flusso è anche il nome del collettivo cui collaboriamo. La nostra coscienza si allarga. Solve et coagula.

A volte mi capita di rielaborare quello che scrivo. Sono da solo, magari guido la macchina, e compongo. Compongo pezzi che devo aggiungere a questa narrazione, ma non li appunto da nessuna parte. Per esempio, a volte mi viene in mente di scrivere di e su Roberto, il suo calvario finale, quegli ultimi giorni sul letto dell’ospedale che non si dava pace. Era uno strazio vederlo, voleva strappare le lenzuola e chiedeva una sigaretta. Io mi avvicino e gli do da bere, e lui mi riconosce e ringrazia. Poi dovevo andare a lavorare e lui muore. Torno in ospedale e lo vedo. Scoppio a piangere. Un amico-fratello maggiore che non è più con noi, fisicamente. Qualcuno che mi prendeva sempre in giro per aver messo in copertina del libro sull’associazione la foto di Danielone. Non la metterò qui. Io e Dani eravamo radicali e abbiamo trasferito questo sentimento nell’associazione. Tocca a me portarla avanti, in memoria sua. In memoria di Milena, che ha permesso con i suoi soldi di registrarla. In memoria di tutti gli sbagli, gli errori, gli strafalcioni commessi nel tentativo di urlare la nostra indipendenza al sistema.

Ho riletto in parte, ho scorso le pagine dedicate al libro Storia dell’associazione culturale Arrivo pubblicato 10 anni fa e disponibile in lettura gratuita all’indirizzo:

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https://issuu.com/cesvol/docs/desktop. Non sono che circa 35 cartelle e descrivono le attività del primo decennio. Adesso ne ho scritte quasi altrettante, per il secondo decennio, riprendendo elementi del primo, allungandoli e adattandoli al presente. Le macerie del passato col vento del progresso in avanti spingono la nostra navicella spaziale chiamata Arrivo verso l’avvenire. Saremo capaci di pilotarla, di scegliere le giuste traiettorie, di fare incontri fortunati? Vedremo. Intanto, cambiamo scrivania e scrostiamo i muri.

Conclusioni:

L’associazione culturale Arrivo, nel giorno 29 Maggio 2021, è diventata associazione culturale Arrivo APS, ovvero di promozione sociale. Il nuovo Statuto di 12 pagine è stato registrato il 31 di maggio, ovvero 19 anni e 7 mesi e un giorno dalla sua nascita.

Ci sembra un buon inizio.

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RELAZIONE LABORATORIO DI SCRITTURA CREATIVA

Gratitudine. Questa parola mi è venuta subito in mente quando mi hanno chiesto di scrivere le mie considerazioni alla fine del percorso intrapreso e chiamato Laboratorio di scrittura creativa, organizzato dall’associazione Arrivo APS in collaborazione con Cesvol Umbria.

Gratitudine, già perché la proposta del Presidente Nicola Castellini mi giunse tra il lusco e il brusco, entre chien et loup, all’improvviso, inaspettata. «Wow», pensai e forse addirittura esclamai, come in un fumetto. Perché io di corsi o laboratori non ne avevo mai tenuti. E con un solo libro di narrativa pubblicato non l’avevo nemmeno mai preso in considerazione. Non mi ci vedevo come David Foster Wallace, con bandana in testa, a discettare di creatività e di scrittura. E il «wow» era esploso, non importa se solo in testa o fuoruscì dalla mia bocca come un colpo di pistola (mi autocito) o se rimase per qualche secondo sospeso in una nuvola parlante, non importa. Quel che importa è che fu l’espressione di uno stupore sincero e commosso perché così tanta fiducia non me l’aspettavo. Non tanto dal Presidente, dico in generale. Nemmeno da me stesso, me l’aspettavo. Ecco. L’ho detto.

E quindi gratitudine. Poi, ovviamente, subentrarono turbe psicologiche, psichiche, psicotiche a contrastare l’adrenalina, la dopamina autoprodotta in quell’istante (che siamo ancora a quel momento, quello della proposta, e se avete fretta di vedere il programma, di quel che abbiamo parlato, allora saltate questa parte e continuate dal paragrafo che comincia con “Però toccava almeno fissare delle tappe”). E quindi pensieri del tipo:

«Ma-macché fiducia. È semplice incoscienza, la sua.»

«Ma chi ti credi di essere? Non accettare!»

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«Mamma non ti aveva forse detto di essere umile?»

«Ma ti sta provocando, ti sta prendendo in giro, non lo vedi? Mollagli un cazzotto sul grugno e scappa a gambe levate.»

Ignoro il perché tutte queste esternazioni cominciassero con un ma, fatto sta che bellamente le ignorai tutte. E risposi al Presidente che mi stava ancora guardando, presumo in attesa di una risposta, chi sa da quanto tempo stava lì. Appena due secondi? O forse come due gatti il tempo scorreva e noi fissavamo il vuoto di fronte a noi, l’insondabile di cui non abbiamo più memoria una volta ritornati in noi, forse me lo chiese cinque anni fa, forse da allora stavamo fermi a fissare l’indicibile, ma appena sbloccati da questa immota situazione gli dissi: «Accetto!»

Con gratitudine. Non lo dissi allora, lo dico ora, a una certa distanza di tempo dai fatti, dagli incontri. Perché prima ero troppo preso dalla proposta inattesa, troppo concentrato verso il futuro, troppo stronzo per dirglielo sul muso. Perché la parola gratitudine è pesante, ingombrante, lenta ad uscire.

Ci misimo... ci mettimmo... a volte le parole sfuggono... ah ecco, ci mettemmo al lavoro per capire quanti incontri programmare, cosa dire e fare e baciare, nomi cose città, e stabilimmo un piano d’attacco, d’attracco, di bivacco. Mi lasciò libero nel prendere le mie decisioni sugli argomenti, sui tempi, sul materiale, su tutto. Mi lasciò libero dentro, mi lasciò libero sessualmente, intellettualmente, incondizionatamente. Ed ecco sciorinarvi qui, in bella mostra, gli argomenti trattati incontro per incontro. Non ho mai voluto chiamarle lezioni, ma incontri, non corso, ma laboratorio. Perché non ci sono regole, nella scrittura, o se ci sono vanno scardinate se no sai che palle?, ci sono solo indicazioni di massima per cercare il proprio percorso espressivo, non ci sono certezze, si brancola

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spesso nella penombra rischiarata a volte dalla luce dell’intelletto, a volte dalla luce della fantasia, a volte va di culo e la frase nasce spontanea e perfetta.

Però toccava fissare almeno delle tappe, delle tematiche per ogni incontro. E se, come diceva Cortázar, se con un romanzo l’autore vince ai punti, con il racconto si vince per k.o. E allora ecco qui il nostro sommario, gli argomenti discussi in due ore ogni due giovedì a partire da ottobre 2021:

(1) L’INCIPIT, perché tutto ha un inizio;

(2) LA VOCE NARRANTE, chi racconta la storia;

(3) I PERSONAGGI, caratterizzazione;

(4) L’AMBIENTAZIONE, i luoghi della vicenda;

(5) LA FABULA E L’INTRECCIO, il montaggio;

(6) IL DISCORSO, discorsi diretti o indiretti?;

(7) IL RITMO, frasi brevi o lunghe, variazione;

(8) LA LINGUA, il tono, lo stile, la lingua specifica.

Non metterò qui tutti i brani di romanzi o racconti letti e commentati in aula, nella stanza a noi riservata dal Cesvol, ma mi piace ricordare come si svolgevano gli incontri. Sulla tematica del giorno, una selezione di testi ci permetteva di discutere, analizzare, sezionare, implementare l’argomento, cercare di capire le scelte dell’autore o dell’autrice. E da lì anche imitarli, perché no?, perché nell’esercizio di scrittura e di lettura si vestono i panni dell’autore e dell’autrice, si entra nella loro pelle. E in letteratura si può rubare a mani basse, prendere in prestito, citare, magari non copincollare, ma insomma, ci siamo capiti. E chi veniva, liberamente, gratuitamente, diceva la sua, portava i suoi esempi, e tutti ci provavamo, a volte, a scrivere anche noi, a buttar giù righe sul tema, variazioni sul tema.

E oltre non vado, e qui passo e chiudo, forse con un arrive-

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derci alla prossima, spero in un arrivederci alle feste alle goliardate, alle letture, alle performance che organizza questa banda di creativi che stanno sotto il nome di ARRIVO APS, ma sicuramente ancora e per sempre un arrivederci con la parola gratitudine.

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FOGLIO

Sono un semplice foglio bianco.

Così bianco e vuoto da lasciare interdetti.

Quando mi presento bello pulito ci si chiede cosa farne di me.

Il più delle volte alloggio all’ultimo banco in attesa di un segno ispiratore e quando la cattedra mi accoglie solo grigie impronte digitali restano impresse.

Eppure sono infinito, tutto il mondo può entrare in me.

Quando mi presento il bianco emana una luce che non dà via di scampo, basta un nulla per cominciare, tanto che una mano si offre volontaria.

Ma basta un altro nulla che irrimediabilmente mi trovo accartocciato e virtuosamente faccio canestro.

Avanti un altro!

Eccomi di nuovo, sfiorato da penna incerta perdo il mio candore.

Ansioso mi domando se sarò all’altezza e, in un battito di ciglia, sono già nel cestino.

Come un alieno mi riproduco all’infinito: virtuale, luminescente e caratteri veramente eleganti mi lasciano buoni presentimenti.

Eleganza e contenuto si sposeranno?

Mai divorzio è stato così rapido, con un clic sono sparito.

Non demordo e appropriandomi di non concessa umanità imperterrito mi offro come una cortigiana.

È tanta la voglia di protagonismo che sono disposto a tutto.

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Qualcuno riversi su di me lo scibile oppure l’ignoto, purché mi usi.

Attendo lettere, geroglifici, ideogrammi, anche una semplice linea, ma che si dia inizio! Anche di notte, quando immancabilmente vengo usato come sottopiatto da qualsiasi oggetto gettatomi sopra.

La notte è fonte di ispirazione, oltre che del lancio dell’oggetto (dove lo metto lo metto), le costellazioni notturne fanno sognare di altri fogli in altri mondi. Chissà se saranno bianchi!

Ma tutto tace, anche il suono del silenzio, il che è tutto dire.

Cosa posso fare? Ci fossero impresse alcune righe potrei orgogliosamente esibirle e perché no, ricamarci sopra.

Immaginare un seguito, come quella volta che...

Oggetto inanimato e appallottolato al centro della piazza guardavo passare.

Punto di osservazione perfetto, trecentosessanta gradi di visualizzazione.

Passanti di ogni genere.

Frettolosi, turisti, famiglie con prole.

La dolce prole che calciandomi mi catapulta sotto un tavolino del bar centrale!

Abbandonano nella nuova dimora, osservavo chi leggeva il giornale, chi beveva il caffè e chi non ordinava in attesa dell’immancabile ritardatario.

Ero tutto occhi e orecchie, si fa per dire, attento a tutto ciò che mi circondava.

Non nascondo che mi sarebbe piaciuto essere attore più che

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spettatore, ma la mia condizione la conoscete bene.

Tutto si svolgeva nella regolare routine di un bar. Giornale terminato e conto saldato. Una seconda sigaretta e viva la libertà!

Ecco anche il ritardatario/a.

Si siede, si scusa e si becca: - Tanto sei inossidabile.

Effettuata l’ordinazione, dalla soddisfazione delle espressioni si leggeva: “missione compiuta!”

Ci sono varie tipologie di individui, quelli che escono da casa sapendo già quello che ordineranno, quelle che debbono rientrare dieci volte per paura di aver dimenticato qualcosa e quelle che non gliene frega niente. Chissà loro a quale appartenevano.

“L’identikit non ci è dato conoscerlo, la tipologia neanche e come può esserci una storia che abbia un senso, un qualunque senso”, reclama la platea.

Per favore! Che vi aspettate agenti segreti, amanti clandestini, drammi esistenziali?

Pensate veramente che due chili di omicidi e quindici amplessi siano le uniche degne di appartenere a una storia?

Effettuata l’ordinazione, P, quello/a puntuale, dice: - Conosco il bar... prima di mezz’ora non arriva nulla! Tanto vale cominciare. -

- OK, cominciamo. - risponde R, il ritardatario/a.

- Allora?

- Allora che?

- Come, allora che? Non ci hai parlato? Che hanno detto?

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- Cosa vuoi che dicano. Sono in stallo.

- Stallo? Senti, se vuoi parlare parla senza vagheggiare. Non è una questione di poco conto.

- Non vagheggio, ma la questione è ingarbugliata e paradossale. Ognuno arroccato nelle proprie posizioni. Pensa che si rinfacciano cose di quaranta anni fa, “e tu mi hai fatto questo e tu mi hai detto quest’altro”, tu, tu, tu, sembrano due telefoni occupati.

- Proprio ora, alla venerata età di tre quarti di secolo, dovevano fare il bilancio della loro unione. Ma prima no? Che vogliono fare ora? Separarsi? Rifarsi una vita?

- Mamma, proprio così ha concluso: “non ti sopporto più, voglio andare via, rivoglio la mia vita, anzi rifarmela!”

- E papà?

- Sai come è la sua ironia...

- Perché che ha detto?

- E che ha detto... ha detto: “capirei se fosse estate, potresti andare al mare, ma adesso è quasi inverno, non c’è nessuno e poi potresti raffreddarti!”

- Immagino mamma, sarà uscita di senno.

- Più che di senno! Comunque ti assicuro che è stata proprio una bella scena! Ma tu guarda se proprio a noi doveva capitare una cosa così, alla loro età!

- Al cuore non si comanda, non conosce stagioni.

- Tale e quale papà, sempre in corsa per l’oscar della stronzaggine!

- Era per sdrammatizzare. Da una parte vorrei sbattere la te-

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sta, dall’altra mi sembra così paradossale che...

- Che?

- Che diamo tutto per scontato: genitori monolitici e porto sicuro! Chissà quante ne hanno dovute ingoiare in nome di una sana armonia familiare. Ricordi i nostri amici figli di separati? All’inizio li commiseravamo come poveri orfanelli, orfanelli divisi tra i giorni dispari e pari. Poi, cresciuti, hanno ritrovato il loro equilibrio e senza il fardello di genitori frustrati.

- Fermiamoci! Fermiamoci un momento! I monoliti, il porto sicuro, i figli dei separati che diventano orfanelli e così via. Ma che roba è? Ma chi l’ha scritta? E noi dovremmo rappresentare sto scempio? Immagina il pubblico che viene da casa dove stava comodo, caldo e spensierato. Si trova catapultato nella terza età, pazientemente sente di due vecchi rancorosi che hanno riscoperto la voglia di vivere e poi, si trovano a ingoiare la parabola dell’orfanello dei genitori divisi. La migliore delle ipotesi è un gatto morto che arriva senza preavviso.

- Hai ragione, non convince neanche me. A dire il vero non mi convince neanche l’intera storia. Sarà anche un tema sociale quello della terza età, ma non regge un intero spettacolo.

- E poi, oltre a scriverlo, vuole fare anche la regia. Mah!

- Tanto sul palco ci saliamo noi e la faccia ce la mettiamo noi!

Non sono sceneggiatore, regista neppure e neanche testimone protetto, vista la fine che faccio ogni volta, ma, empaticamente, commiseravo il mio gemello foglio, brutalizzato e vilipeso da un delirio di creatività negletta.

- Non dobbiamo essere complici di farneticanti testi e improbabili regie.

- Si basta, dobbiamo riappropriarci della nostra dignità!

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- Bisogna scrivere un manifesto di denuncia verso questi improvvisati scrittori, registi e soprattutto raccomandati!

- Ah, ecco i caffè! Fortuna che sono di torrefazione locale, se erano brasiliani altro che quaranta minuti...

- Lasciamo perdere le battute la cosa è molto seria. Direi proprio di cominciare a buttare giù due righe. Serve carta e penna, la penna ce l’ho, manca uno straccio di carta.

- Evitiamo di chiederlo al cameriere, visti i tempi di attesa!

- E basta con le battutine, sembrano quelle della commedia. A proposito qua sotto il tavolino c’è un foglio appallottolato che mi sembra pulito, pulito si fa per dire.

Raccolto e risolto come il cubo di Rubik, eccomi sul tavolino.

Frasi sconnesse ondeggiavano tra una piega e l’altra.

Cancellature, frecce spezzate, frasi monche. Il delirio!

Solo una frase a caratteri cubitali sovrastante il crogiolo del tutto sentenziava:

“L’utopia è dei pazzi! Ma l’utopia è l’unica che lascia una speranza!”

Strappato in mille pezzi mi dissolsi nell’aria.

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IL CHIODO

Si narra che un quadro quando è terminato non appartenga più all’autore, diventa autonomo.

E non è ancora tutto, da oggetto diventa soggetto. Sì, perché è lui che ti osserva.

Lungi da lui, la pur minima riconoscenza per l’artefice che lo ha portato in essere, anzi, con indifferenza presenzia all’affastellarsi delle spiegazioni.

- Il soggetto?

- Il soggetto è la luce dell’ombra, innocente e contemporaneamente ermetica.

- E il prezzo?, incauta domanda.

- Il prezzo..., l’esterrefatta risposta.

Contabili, investigatori: che fatica titanica! Possibile che non entrino nell’opera, il prezzo e le similitudini?

- Mi sembra che riprenda i motivi...

- Assomiglia a...

- È carino!, colpo imparabile e finale.

In bella mostra sulla parete, pieno di sé, è noncurante della solitudine del suo papà in una guerra persa in partenza.

- Quei segni non sono altro che le cicatrici dell’anima, dice una signora competente.

- E l’autorizzazione per questa affermazione da chi l’hai avuta?, risponde l’amante, (ancora per poco), incompetente.

- È chiaro, è monocromatico, sentenzia la competente.

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- Che l’anima fosse monocromatica mi era ignoto, glissa l’incompetente.

- Riflettici!, ribatte la competente.

Il caso volle che l’incompetente fu inghiottito dalla folla.

- In tutta onestà, debbo confidarle che non capisco il significato della luce dell’ombra, la sua innocenza, l’ermetismo. Vedo segni, macchie, insomma non distinguo nulla. Mi perdoni, ma ho bisogno di aiuto.

Lo chiede un visitatore, senza sarcasmo, ma con sincerità, senza il “avrei saputo farlo anche io”

- Spiegare l’astratto è complesso. Personalmente lo associo al trascendente, ciò che travalica il senso comune, che corrisponde solamente a un mero numero statistico. Non so se ho trasmesso il concetto. - risponde l’artista sorpreso dalla franchezza.

- Assolutamente no. Comunque da profano mi colpisce, lo guardo come se osservassi quello che non c’è, risponde il visitatore.

- Grazie, cosa migliore non poteva osservare. Dice di non aver capito, però vede! È stato più chiaro di me!, risponde il padre putativo dell’opera, che poi continua: Si dice che l’opera non appartenga più all’autore e ha una sua autonomia. Vede il mio quadro, così in bella mostra, tronfio per gli sguardi che lo avvolgono? Bene, anche se ha conquistato la sua indipendenza, manca pur sempre di una visione, la visione non dell’apparenza, ma di ciò che è oltre e, allo stesso tempo, davanti a noi. Ma, d’altronde, oramai non mi ascolta più.

L’onesto visitatore, indeciso tra un cordoglio di circostanza e il dubbio di stare a giocare a biliardo con il cervello, optò per un drink assolutorio.

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Con le zampe anteriori accavallate e il catalogo in bocca, si rese conto di aver sbagliato mostra, lo avevano ingannato! Non era quella canina. E per di più con una sola opera in esposizione. Chissà chi sarà mai questo, deve essere proprio importante, pensò. Non aveva voglia di uscire quel giorno, non aveva grattato alla porta come al solito. L’aveva intuito che non ci sarebbe stato niente di buono per lui. Nulla da annusare, neanche un albero per marcare il territorio, che dire, almeno un osso usato! Solo patatine fritte. Le odiava. Poi tutta quella gente! Era così deluso che avrebbe sbranato il primo sguardo compiacente.

- È suo? Che bello! Maschio o femmina?

Ecco, ci mancava anche questo, guaì appoggiando il muso sulle zampe.

- Non è un vezzo che ci sia una sola opera esposta, in una mostra c’è un concentrato del mondo. Il tutto e una parte del tutto, spiegava il critico che guardava di sottecchi il catalogo finito in bocca al nostro amico. Un’opera come questa è la sintesi finale della parte del tutto! Non c’è bisogno di altro.

E altro non è stato chiesto.

La proprietaria del cane, riconoscendo la voce della signora competente le chiese: Mi scusi, mi aiuterebbe a prendere un bicchiere d’acqua?. La proprietaria era ipovedente.

- Certo, la vuole liscia o gassata?

- Gassata, mi mette più brio. A parte la stupida battuta, non volendo, ho sentito che lei ha visto nell’opera monocromatica i graffi nell’anima. Quindi lei esclude che l’anima abbia colori, e per parlare io di colori è tutto dire!

- Vorrei tanto approfondire, purtroppo sto cercando una persona che è venuta con me e ora non so dove sia. Mi scusi

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tanto.

- Forse si sarà persa nell’arcobaleno, mormorò, prendendo il cane e incamminandosi verso i “suoi colori”.

- Sembra che va bene, la gente è interessata e partecipativa. È venuta anche una cieca!, disse l’organizzatore all’artista.

- Dire “è venuta anche una cieca” non mi sembra il massimo. Comunque, i “non vedenti” percepiscono più di quanto possiamo immaginare, tra sentenze e commenti, sarà entrata più lei nell’opera di chiunque altro. Peccato che è andata via, mi sarebbe piaciuto fargliela toccare, l’avrebbe anche sentita!, concluse il pittore.

- Che avrò mai detto di male, sempre strani questi artisti!, bofonchiò l’organizzatore.

Un signore canuto, accostandosi all’artista con fare noncurante, visto il momento di calma (apparente), ruotando il contenuto del drink per ottenerne chissà quale miscela, buttò là:

- Che fatica mettersi in gioco, non trova?

- Cosa intende?, chiese il pittore.

- Mi riferisco alle opinioni lontane dalle nostre intenzioni, doversi avvalere di traghettatori di concetti, mediatori protesi a rubare la scena. Sì, ha capito bene, intendo i critici, non quelli che si limitano a presentare l’artista, mi riferisco a quelli che vogliono creare l’artista!

- Ci va giù pesante..., guardando perplesso lo sconosciuto.

- Crede? Oramai si è creato questo triangolo, l’artista che vuole esporre, l’organizzatore, quello che ha i mezzi e, per sdoganare il tutto, chi mette un sigillo con la propria firma. Se c’è quella firma allora è proprio vero, è un’opera d’arte!,

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disse il candido sconosciuto.

- Perché lei conosce altre strade per..., ribatté l’artista.

- No. È un semplice prendere atto di questo circolo infinito che porta sempre al punto di partenza. La notorietà non è detto che sia sinonimo di valore, ma tanto è che bisogna pur vivere, diciamo pure, mangiare.

E così dicendo si accomiatò con un insolito inchino.

- O è un collega frustrato, o qualcuno che non riesce a firmare nulla, pensò il pittore.

- Ecco quanto annunciato.

Con queste parole il critico attirò l’attenzione su di sé.

- Ora punteremo una luce “particolare” sull’opera (mai svelare i trucchi del mestiere). Per favore, per favore, si possono spegnere le luci?, rivolto non si sa a chi.

- E dalla superficie bidimensionale emergerà, satura, la profondità! Tutta da esplorare! La luce per favore, la luce!

In certe occasioni manca sempre quella collaborazione mai pianificata ma sempre pretesa.

L’interruttore fu più prezioso dell’opera. Tutti lo cercavano con la speranza del premio “sono stato io a trovarlo”.

Stancamente, un anziano signore seduto con il suo fedele bastone, diede un colpetto all’interruttore che era proprio alle sue spalle e, senza pretendere nessun riconoscimento, fece buio.

Così, la satura profondità prese il dovuto plauso accompagnato da mormorii compiaciuti.

- Ecco la luce dell’ombra! E quando riapparirà la luce “natu-

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rale” tutto tornerà nell’ipogeo!, chiosò il critico, lasciando il dubbio se avesse raggiunto l’estasi o la totale trascendenza. Quando anche l’ultimo visitatore uscì, l’artista notò che l’anziano visitatore, sorreggendosi sul bastone, stava ancora contemplando l’opera.

La giornata era stata lunga e intensa, ma non volendo mettere fretta ed essere scortese, si avvicinò e chiese: Vedo che sta ancora osservando il quadro o l’installazione, come desidera chiamarla. Prenda tutto il tempo che vuole, ora che c’è un po’ di quiete.

Lentamente l’anziano volse lo sguardo verso l’artista e accennò un sorriso dicendo:

- Grazie, ma non vorrei deluderla e sicuramente non la deluderò proprio io, lei di complimenti e attestati di ammirazione ne ha ricevuti così tanti che non servono proprio i miei. Riguardo la delusione, le debbo confidare che non stavo ammirando l’opera, ma un’altra piccola e all’apparenza insignificante cosa. Prima però le voglio far notare un particolare. Vede, lei sta parlando con me e osserva la mia persona che è in piedi e distrattamente nota che un bastone mi sorregge. Oggetto complementare che è degno sì e no di uno sguardo distratto. Ora, se sono qua è grazie anche a lui, e se posso avere un minimo di eretta dignità ambulatoria è sempre grazie a lui. Anche se il centro dell’attenzione sono io, debbo ringraziare lui se posso essere ancora dignitosamente un po’ più io. Ebbene, stavo riflettendo, è qui che non vorrei deluderla, non su l’opera e il suo artefice, ma sul quel piccolo insignificante chiodo che, inosservato, ha sostenuto il tutto. Pensiero ridicolo, lo so, ma a volte sfugge che anche l’insignificante ha un suo perché.

Così dicendo, l’anziano signore e il suo bastone si incamminarono.

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Spegnendo le luci, l’artista, ipnotizzato dal chiodo, osservò che una lagrima di rugginosa gratitudine colava lentamente dalla sua testa.

IL MURO

In pietra o paglia e fango.

Portante o divisorio.

Cupole, volte, grattacieli, un mondo sulle spalle! Che sensazione!

Chiudo, divido, delimito, separo! Altra sensazione.

Assisto passivo a calcoli probabili e improbabili, non ho voce in capitolo.

Resisto per secoli, oppure, ignominiosamente crollo.

Posso osservare un affresco, oppure un soffitto bianco.

Contenere una stanza o un giardino.

Accolgo anime sorde, abbracci sussurrati, teste piangenti.

Divido folli confini, sovrasto gli sguardi!

Maestoso o insignificante, ogni collocazione è una lotteria.

Come il volo della cicogna, dipende dall’estrazione.

Le mie memorie?

Scolpite sul muro, naturalmente!

Progettato “dall’architetto degli architetti”, assurgo a musica solidificata.

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Sfoggio linee, incavi, fessure, volte.

Mostro pietre, marmi e stucchi.

Con leggerezza, sostengo anni di storia.

Ammetto di essere un po’ fanatico, d’altronde solo principi e signori mi hanno frequentato, mentre

fuori, spesso, le spade incrociavano i bastoni, e i più abbienti erano muniti anche di forconi!

Il motivo dello scontro non mi era chiaro.

Da quello che ho potuto origliare si trattava di gabelle e altre meschinerie rivendicate dall’orda della plebe.

“Meravigliati dalle rimostranze”, i miei signori hanno sempre dovuto circondarsi di nobili cavalieri che giuravano la loro fedeltà a Dio e al Re.

Sono sempre stato ben difeso e protetto, nessun oltraggio veniva ammesso alla mia figura.

Offendere me era un affronto punibile con la gogna, e oltre!

Oggi, ancora più protetto, non sono più abitato.

Resto memoria dei tempi andati.

Il bar era affollato.

Ancora per poco, poi si sarebbe svuotato.

Ogni giovedì chiusura serale.

Unica concessione, o meglio compromesso, si sarebbero potuti tenere i bicchieri a condizione che fossero poi riposti in una cassetta davanti alla saracinesca.

Altrimenti, fine dei giochi!

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Basso parapetto di poco nobile fattura, tufo e calce, era il momento in cui accoglievo natiche di tutte le taglie, piedi di varie misure e, verso l’alba, corpi sdraiati in ebete contemplazione.

Posizione strategica tra il bar, la sabbia e il mare, ideale per il branco libero da ogni inibizione.

Rutti portati via dal vento e valutati dall’inflessibile giuria.

Sbronze finite in mare.

Proposte d’amore.

Sogni irrealizzabili.

Ben diverso dal tiepido giorno transitato da carrozzine, attempate coppie e sporadici amanti clandestini!

La notte vivevo, di giorno riposavo. Turnista per vocazione!

Avevo trovato il mio equilibrio, pur non avendo raggiunto vette di architettonica fattura.

Ma come tutti gli equilibri, la parola stessa lo insinua, sono precari! Basta un nulla che il baricentro esca dalla base.

Come può un muretto, tozzo e lungo, smarrire il suo baricentro e perdere l’equilibrio?

Non chiedetelo a me, piuttosto rivolgetevi alla mareggiata che con un colpo solo mi ha spazzato via sparpagliandomi sul litorale.

Così, il “Consiglio Comunale” deliberò: “...quindi, per un maggiore decoro, nonché per evitare bivacchi notturni, il vecchio muro verrà sostituito da una ringhiera”.

“Sempre meglio del filo spinato” pensai, durante il viaggio verso la discarica.

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Senza tregua continuava a incidere, graffiare e scarnire.

Come voler trovare l’anima.

Solo giorni, mesi e anni apparivano in quell’anima introvabile.

Quattro le pareti.

Cento gli anni da scontare.

Il soffitto diventava pavimento nei giorni dispari, e viceversa.

Oramai aveva perso il conto dei giorni dispari e di quelli pari.

Allora inventò un gioco: nei giorni dispari era libero, in quelli pari pure.

Fu così che riuscì a evadere.

Non fu mai più ripreso!

Bombardata da ambo i fronti ero oramai ridotto alla parvenza di una parete.

Senza lati, senza soffitto, né porte né finestre, una vela di pietre in balia del vento.

Macerie, le mie fondamenta.

Ridotta a un rudere, accoglievo cuori frantumati, preghiere balbettanti, respiri sospesi, singhiozzi trattenuti e, “nell’ipocrita misericordia”, l’ultimo desiderio del condannato!

Non posso guardare altrove, sono quello che sono.

Testimone inerme!

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INCIPIT

Agli occhi di Betsabea tutta quella massa di lacchè non contribuiva affatto a dare un senso alla sua vita ma nelle speranze del regista, della troupe, perfino dei curiosi che passavano lì per caso, Betsabea Borromeo e tutta la sua casata davano lavoro e un senso alle vite dell’intera città.

«Dov’è la mia Carrozza? Ho speso milioni per questo set! Qualcuno mi porti immediatamente quella cazzo di Bachmann!»

Lo scanner della telecamera registrava ogni movimento tracciato dai sensori innestati nella catsuit nera della top influencer Betsabea Borromeo. Il regista era nervoso e guardava preoccupato Betsabea fremere sotto il latex. Era sul punto di licenziare tutta la troupe.

All’improvviso la grande porta-garage del set si aprì e, spinta da quattro steward, fece l’ingresso una macchina scintillante e sinuosa come una pallottola d’argento.

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FESTA DI TESSERAMENTO

Arrivo c’è!

Festa di tesseramento

che tesse trame di emozioni

Parole che si avvolgono e si svolgono da un nastro rosso di raso

Recisioni e rinnovate Connessioni

Azione condivisa

Neologismi

Com-perdersi

Ritrovarsi in un luogo del cuore

Il Crx.

Atmosfere

oniriche ed intimiste

graffianti e dissonanti

Momenti di incontenibili risate

Un Mix and Mach che scuote ed accarezza

Danza catartica di corpi emozionati

Squarci dirompenti

Panici!

Azione in Relazione

Tanta Poesia.

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Grazie Nik Cast, Benny, Laura e Marga per questo bagno di vitale follia e grazie alle persone che fanno vivere quotidianamente il Circolo Island che l’altra sera pulsava di Umana

Energia.

S.L.

LA POESIA

La Poesia si fa

Accade

Si sperimenta con corpo animato

Decidiamo possa accadere

Decidiamo che sia

Dare vita nuova alle cose

Nuove regole

Ri-Creare

Un sassolino in tasca ha anima ed emozioni

Altro da sé stesso

Risignificare le cose del mondo

Creare universi di significati risonanti

Specchiarsi in un lago

Occhio che riflette

Il mondo attraverso nuovi occhi

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Ricordi

Passato

Visioni

Futuro

Respirare nel corpo

Presente

Pensieri

Azioni

Parole

Musica

Immagini

Un sassolino in tasca

Risonanza

Significato

Non sens

Equilibrio

Rottura

Gioco

Libertà

Poesia è dare potere trasformativo al gesto

La Poesia

Accade

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POESIE DI GIULIETTA

Ascolta…

il silenzio

il silenzio è calmante

il silenzio ti aiuterà

il silenzio ti illuminerà

una mattina il silenzio

ti sveglierà.

…………………………………………………………………

…………………………………….

Come una pianta

crescerai come una pianta

cambierai come una pianta

67 se La Si Fa.
S.L.

Sono solo una bozza sono la bozza iniziale non mi giudicare perché non sono ancora completa!!

Non mi giudicare e non ti aspettare grandi cose.

La luce arriverà

la luce illuminerà

le lampadine con i pensieri e la gioia ormai spenta

la luce rilluminerà

le strade buie e nebbiose

la luce della gioia sconfiggerà la paura e la tristezza.

68 accoglierai. ………………………………………………………………… ………………………………………
………………………………………………………………… ………………………………………
………………………………………………………………… ………………………………………

La notte impaurirà

ma un giorno la notte calmerà ma un giorno dormirai la notte silenziosa un giorno completerà il puzzle per la calma e la serenità.

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Un giorno svogliato, un tramonto particolarmente luminescente… dal respiro di un mio momento giovincello memozio-dolescente, decido di mettermi a fermare alcune mie più recenti impressioni su ciò che rappresenta ai miei occhi Arrivo… associazione culturale. Scrivo! E metto giù queste idee. Creo di nuovo, eccomi qua.

Facciamolo, cari Arrivo-membri. Facciamolo. Ultimamente questo autoimperativo, a molti noi tutti dell’associazione o meglio i più presenti, vicini da vicino, viviani (ma tutti gli altri potevano pur osservare che ciò faceva molto da magma incoraggiante, più che mai).

Ci piaceva proporre segnalare dire fare baciare lettere e antitestamento, vivere il momento. Metto al pentolone di questa mia riflessione. Anche quella volta della presentazione del libro di Nik al cafè Timbuctù, dove un nuovo associato colpito, per molta parte, a mio avviso, dalla nostra simpatia farcita a chiacchierio iperemozionale spontaneo, si era lanciato in Arrivo il giorno dopo senza esitare. E via in chat a partecipare. E via poi la festa dei 20 anni a casa di Benedetta e Gnappo.

Questi, questo. Protuberanti semini incandescenti in sbocciatura da precedenti attività fatte da noi e il presidente... mi hanno colpito un pochino, abbastanza da far pensare toccare, aver da organizzare, scriveredire, ideare e conoscere, questa bevanda integrativoalimentata-re, seppur da dentro o fuori di una pur associazione... fredda di nome quadrata, dal suo statuto ufficiale nella città a freddo di getto fisicamente creata, il luogo fisico di è nata.

Ma tutto ciò che fa nascere un’Associazione che sia viva di potenziale non può, a mio parere, non essere che un episodio piccolo e grande di un giorno spontaneo in cui due tre amici partoriscono l’idea di creare insieme quel qualcosa. La cui visione c’è stata dal presidente+uno. Dopo un periodo di

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scoglionamento di rabbie, che a quanto pare lo hanno avuto in più persone, che accomuna vite umane, verso ciò che faceva sentire sdatti o inopportuni occlusi da, non saprei. Un’afa cittadina... forse. Forse del sociale un po’ sparito... di un socializzare cose... non pervenuto... invisibilato. Ormai, ai nostri sensi. E oltre tutto poi in più... in più, in più dei più di prima... anche un “virus avvento” cercò di aumentare... E invece già da allora... da quel dì, poi di seguito... eccolo che Arriva. L’appoggio vivace. Di un altro tardo adolescente del momento, amico in più, avveniva altresì lo stesso spontaneamente. Poi un quarto si avvicina divertito e si interessa di quel di se stesso certo hobby far sbocciare, che sia una scultura originale di Andrea o una bella foto di Paolo o Mary, un bel testo improvvisato di Nicola. Quel certo potenziale così serio pesante quasi una croce ingombrante. E al tempo stesso... così straordinariamente spensierato e ondeggiante di libertà.

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[Parte 2]

Alcuni di noi hanno dipinto tra pause, giretti e ballicchiare-gustare la musica messa da stereo da uno di noi, Marga, che era arrivato un po’ più tardi ma ha subito con entusiasmo recuperato.

Hanno dipinto, un poco, mettendo poi la propria firma: Floriano la Gatta, che ha organizzato il live painting su una tela in zona cantina della festa20, insieme a Nina.

Poi abbiamo finito la bella e vivacissima densa opera, quale è venuta… e ci siamo scattati una foto (molto allegramente) di gruppo. [Parte1 pre ora-di-festa-ufficiale]

I primi appena giunti alla casa di Carlotta Benedetta e Gnappo per la festa20 Arrivo si sono messi un po’ a chiacchierare un po’ a preparare e aiutare.

Io ed altri abbiamo in particolare preparato panini farciti.

Benedetta e Gnappo hanno pensato ad allestire la cantinetta, già ben arredata e predisposta per angolo bar, con impianti per musica e proiezioni.

Nick Castellini intanto pensava anche ad un esempio di scaletta scritta per indirizzare e guidare alla festa20 gli invitati e i partecipanti. Abbiamo fatto un piccolo pranzo, chi di noi era giunto nel luogo, tra l’altro all’esterno di un bello che superava molti paesaggi, all’aperto tra minimal tavoli e sedie e una mini amaca + la compagnia dei quadrupedi Carlotta e il cane di una ragazza disinvolta lì presente anche lei che si sarebbe fermata anche a dormire.

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[Impressioni]

Vedevo che tutti eravamo in generale sciolti e pronti a partecipare ai festeggiamenti e a rilassarci, tra molte performance che ci hanno distratto ispirato per nuovi scambi di parole discorsi e sorrisi alcolici.

Di questa impressione e ne ho ancora il rilascio prolungato...

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Nel sogno conosco chi sei

Nel sogno conosco chi sei

Nascosto da anni

Nel mare inesausto

Di vite passate

Alcool e sigarette

Docile il cuore si piega

Incauto e lontano

Protetto crogiolo di fiamme mordenti

Corre e si ferma

Corre e si ferma

A schiarire la voce dell’Anima

In smarrita ricerca

E nell’assenza

Urla il nome

Per dire il colore

Del cielo diviso

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Che muta infinito.

… Ma per le strade i sogni si dividono non si trattengono i desideri se non li afferri con i denti con voce fatua o profonda.

Si perdono asomatici, muti di foni animali

come divorati da un disantropico sentire.

Tu sei per me

Quello che c’è Ch’assomiglia più all’Amore.

Soltanto un tocco gentile

Uno sfiorarsi di sguardi

Un sussurrio di carezze

Come di chi resta in attesa

Senza chiedere: “perché?”

Simile all’albero

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Appeso al cielo

E avvinto alla terra

In risoluto equilibrio

Nel corrisposto Amore degli Opposti.

Per quanto vorrei baciarti

Mi trattiene la lontananza

E l’irrimediabile assenso del mio cuore Codardo.

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1. Lèggiamo il futuro

Nel sangue innocente

Delle nostre bambine.

2. FINITUDINE

Finitudine isolata.

Strenuamente

combatte profonda e indomabile, Selvatica, Abbarbicata a fare il greppo

Per qualche sterpaglia

nascosta nell’inconscio

E non mi lascia pace.

3. IL SEME SCOMPOSTO

Proteggi senza rivolta

Il seme scomposto

nel tuo giardino

Sorridi e non biasimarti

Se disaccudito non cresce al sole

Ma per strade erte e scoscese

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E sentieri di nidi scoperti

E trapunti di visioni.

Immoti attimi tra tuoni e coltelli…

Terremoti senza terra.

4. TEMPO

La clessidra singhiozza la sabbia…

Attendere

Se spenta la speranza al pianto dipinto d’un sogno

Compatisco la nostra specie…

Sparano su di me

Granate da cieli più neri più vuoti

Sparano su di me

spirali di odio e di nodi d’amore

Sparano su di me

Antigone alla porta del sopruso…

Butto una cicca e la vendetta

rifugio di niente d’una vita non scelta.

5. NON TI MUOVERE

Non ti muovere

Se senti soltanto

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sentori insulsi e assordanti.

Non ti muovere

Se sulla scia dei passanti

Non i sorrisi seducono salute

Ma sordi ingorghi di folle inettitudine

E false tregue dal rancore.

Non ti muovere

Con la sciarpa appesa al collo

Dalla noia,

Ma tenta invece di calarti

Nei loro panni

Che son pur sempre

Più veri

Dei tarli ignoranti

E perduti a capofitto

Nel labirinto della mente.

Hanno una rara purezza

Certi sguardi umani

Annusati di traverso

Nelle mimiche dei volti.

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6. HANNO UNA RARA PUREZZA

Senza pelle si sente più scura la notte

E si rivolta l’abito diurno

Carogna e conchiglia

Chi passerà a prendermi?

A portarmi via di qua?

A conoscere dove muovermi senza cadere, Senza chinarmi a raccogliere la polvere?

Spiragli d’aria pulita

Nelle fessure della notte.

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“Mi dia 4 metri di tubo da irrigazione”“Come lo vuole?”

“In che senso?”

“Sì, intendevo dire il diametro, il foro d’uscita” “Ahh, ho capito. Mi dia quello più largo che ha.”

“Beh, se le serve per il giardino il più grande che abbiamo è quello da 13”

“Va bene, mi faccia un pacchetto, ...ehm mi incarti quello”

...Mi faccia un pacchetto, mi incarti? non siamo mica in gioielleria, penso.

Se sei il commesso di un negozio di ferramenta e ti entra uno che ti chiede di incartarti 4 metri di tubo da irrigazione allora sta pur sicuro che vive in un appartamento al ventesimo piano senza terrazzo. Se poi questo ha gli occhiali spessi, le mani curate, lunghe e affusolate, lo sguardo nervoso di chi non vede l’ora di uscire dal negozio, e siamo in novembre, allora qualche sospetto ti viene.

Gli do la merce, incartata col quotidiano locale di ieri, una busta e se ne esce gentilmente salutando.

Vado istintivamente alla porta e lo guardo entrare in auto, una berlina neanche tanto vecchia ma polverosa. La busta la infila nel baule. Lo vedo con le mani al volante, pochi attimi di attesa e poi l’accensione. Parte con poca determinazione, quasi controvoglia.

Mi annoto il numero della targa, non si sa mai. Rientro al bancone, un cliente mi chiama.

Per tutta la giornata, a fasi alterne, mi viene in mente il tizio del tubo. Sono incuriosito e preoccupato. Ma che posso fare?

Per ora soddisfo la curiosità. Ho un amico poliziotto, lo chiamo e gli do il numero della targa.

“Fammi una ricerca, dimmi di chi è questa targa”

“Che cos’è, ti sei fatto l’amante?”

Fa lui ridendo:

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Ferramenta

“Magari, qua non si batte chiodo.” faccio io scherzando.“Scusa devo mettere giù, il titolare mi chiama.” Fortunatamente l’ambiente di lavoro non è poi malaccio, siamo solo in due, io e il titolare. La ferramenta è piccolina, quello che basta a servire un paese di periferia senza farsi inghiottire dai vari Bricocenter. E il titolare mi ha preso come un figlio, lui che figli non ne ha. Mi dà fiducia, apro e chiudo il negozio, faccio gli acquisti, e mi lascia fare anche qualche telefonata privata. Il giorno dopo l’amico mi richiama: “Ho i dati che mi hai chiesto. L’auto è intestata a una società fallita, ti do gli estremi e anche il nome dell’amministratore, che presumo sia quello che usa l’auto”

Sempre molto premuroso l’amico, delle volte mi viene da pensare che non abbia poi molto da fare.

Strappo il foglio con le annotazioni appena trascritte e me lo metto in tasca. Avrò qualcosa da fare stasera.

Alla sera chiudo il negozio e mi dirigo verso casa. Mia moglie mi accoglie con il solito sorriso di circostanza.

“Com’è andata la giornata?”

“Come al solito” faccio io, “Anzi no, è successa una cosa strana”.

E le racconto del cliente che ha acquistato il tubo per irrigare e dei miei sospetti.

“Maddai” fa lei, “tu vedi storie nere dappertutto” “E se fosse vero?”

“Vero cosa? Che si è comprato il tubo per irrigare il giardino dei suoceri che magari l’hanno rotto, oppure che l’ha preso per un amico che gliel’ha commissionato”

“Mah, sarà”...

Dopo cena i pensieri si affastellano. Mentre mia moglie mette a letto il bambino cerco l’indirizzo dell’amministratore.

Internet, Pagine bianche, trovato! Ma è qui vicino!

“Amore, esco un attimo” urlo a mia moglie, ma non mi sente. Prendo il cellulare, la chiamo dopo.

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Salgo in macchina, mi sembra di essere un detective. La cosa mi turba e mi eccita allo stesso tempo. Vorrei avere ragione, salvare in extremis una vita e nello stesso tempo vorrei che non accadesse, che tutte le mie congetture si rivelassero sbagliate.

Salvare una vita? direte voi, certo perché, se ancora non si è capito, io sono quasi sicuro che quello là ha intenzione di farla finita col gas. Sì, col gas di scarico della macchina. Basta avere un po’ di nastro adesivo da pacchi, del tubo per irrigare e il gioco è fatto. Mettici pure un po’ di sonnifero per non accorgersi del salto, e il gioco è fatto.

Mi suona il cellulare, è mia moglie.“Ma dove sei finito?”

“Scusami amore, mi sono dimenticato una cosa, poi ti dico. Non faccio tardi. Un bacio”.

Non ricevo nessuna risposta ma un eloquente click. Sarà sicuramente incazzata, ma dovevo uscire, devo assolutamente darmi una risposta.

Ci metto cinque minuti per arrivare all’indirizzo in questione. Parcheggio in prossimità ed esco. È buio pesto, sono le ventuno e trenta. L’illuminazione scarseggia, cammino tra i vari condomini di periferia alla ricerca del numero. Eccolo, un palazzo non tanto grande, cinque piani appena. Ed ha anche dei grandi terrazzoni. Allora magari mi sbaglio, non sarebbe la prima volta.

Mi avvicino al portone di vetro dell’entrata, fortunatamente è illuminato e mi metto a leggere i nomi sui campanelli. E subito sento il click del portone che si apre, ne esce un ragazzo che gentilmente mi lascia aperto. Colpo di fortuna insperato. Intanto sono riuscito a scoprire a che piano vive il nostro. È proprio al quinto, l’ultimo. Prendo l’ascensore, ma decido di salire al quarto. Mi avvicino allo specchio e mi guardo gli occhi, mi pettino come se stessi per andare ad un appuntamento. E vedo riflesso nell’angolino dietro, mezzo nascosto sotto la moquette dell’ascensore, un qualcosa che sembra un

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anellino. Mi chino a prenderlo ed è proprio un anellino, o meglio, una fede nuziale. Leggo distintamente al suo interno due nomi e una data incisi. Il nome maschile corrisponde al nome del nostro. Sarà un caso? Nel frattempo l’ascensore si ferma e la porta si apre. Resto interdetto per un attimo, quel tanto che basta affinché le porte comincino a richiudersi, e allora le blocco ed esco. Con la fede nuziale in mano cammino sul pianerottolo rischiando di urtare l’enorme pianta di ficus appoggiata alla parete. Salgo le scale, devo andare al quinto. La temperatura si fa più mite, sembra quasi più umido. Sul pianerottolo una sola porta, segno che l’appartamento copre l’intero piano. Mi guardo intorno, ci sono vasi di piante dappertutto. Il pianerottolo è talmente grande che nell’angolo a destra della porta dimora un generoso abbaino dispensatore di luce diurna. E infatti sotto la vetrata campeggia orgogliosa una scala piena zeppa di vasi con piante di un verde quasi accecante, talmente lucide da sembrare finte. Sono talmente attratto che mi avvicino, ma non è solo curiosità. È ammirazione.

Mi chino a sfiorare le foglie della prima pianta che mi si presenta davanti, quasi con devozione. Trasmette vitalità, sento che è viva, il suo colore mi parla di sé. E per poco non mi metto a parlare con lei, ignaro di essere spiato.

“E’ una specie rara di felce”.

La sorpresa mi fa sobbalzare, mi giro di scatto e vedo il signore che ho incontrato al negozio.

“Buonasera, le piacciono le piante? ...ma io la conosco, dove ci siamo visti?”

“Buonasera, ...ssì, mi piacciono le piante, cioè no... scusi, ci siamo visti al negozio di ferramenta”

E cerco di sfoderare una scusa plausibile che mi venga di giustificato aiuto all’inaspettato incontro. La fede nuziale!

“Ecco dove ci siamo visti, sì, è vero! ...ma a cosa debbo la ...visita? …oppure era di passaggio?” fa lui con un tono

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lievemente sarcastico.

“Mi chiedevo se questa l’aveva persa lei” e gli porgo la fede nuziale che avevo stretta nella mano destra.

Mi guarda e la prende in mano, la rigira, cercando le incisioni all’interno.

Il suo stupore questa volta non mi sorprende, mi sorprendono i suoi occhi lucidi.

“Sì, è la mia, ...ma la prego, entri”.

Entro in casa, musica classica diffusa, le pareti cosparse di stampe antiche di botanica trasudano passione. I vari cimeli/ memorie/ricordi di viaggio trovano spazio dappertutto, anche in cucina.

Mi fa accomodare in salotto, l’ambiente è caldo, accogliente, il divano flessuoso.

“Dove l’ha trovata?” mi chiede brusco.

“Nel parcheggio del negozio” rispondo io agganciando una balla stratosferica che non so da dove sia scaturita. “E siccome abbiamo una telecamera esterna mi sono rivisto la registrazione. E dalla targa della macchina sono risalito a lei.”

“Complimenti, non so se un altro si sarebbe preso tutti questi fastidi. La ringrazio moltissimo per quello che ha fatto. Questo è un oggetto che significa molto per me.”

“Si figuri, non è stato poi così impegnativo. Ma mi dica, vedo che ha una grande passione per il giardinaggio.”

“Venga che le faccio vedere.”

Ci alziamo dal divano, oltrepassiamo un corridoio larghissimo fino ad una grande porta doppia tipo residenza hollywoodiana. Giunti ad un metro le due porte magicamente scorrono all’interno delle pareti lasciando intravvedere uno spettacolo a dir poco maestoso: una foresta tropicale al quinto piano di un palazzo del centro. Piante altissime, fino a una decina di metri, aiuole piene di vegetazione lussureggiante e un rumore continuo come di pioggia cadente.Guardo in alto, non riesco a capire, l’illuminazione mi confonde.

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Frastornato dalla vista e dal calore umidiccio che mi avvolge non riesco a dire niente, ma sono a bocca aperta.

“Ho ricostruito in questa serra, utilizzando una parte dell’appartamento e l’enorme terrazzo, l’ambiente naturale per alcune piante rare e in via di estinzione che abbiamo avuto il permesso di raccogliere e coltivare. Perché sa, non è semplice al giorno d’oggi. Bisogna avere i contatti giusti, dimostrare coi fatti la bontà e la scientificità delle intenzioni, e così via. Noi siamo ricercatori, e questo è il nostro laboratorio.”

“Noi?” faccio io.

“Ora le presento mia moglie, credo stia ancora lavorando.”

Ci addentriamo nella selva cautamente, spostando alcune enormi foglie smeraldo che intralciano il passo. In fondo intravvedo una piccola scrivania con un monitor e lei, la moglie, seduta a capo chino.

“Amore, sono io”.

“Ti ho sentito”, risponde lei con un sorriso voltandosi. “Ti presento ...”

“Ermanno” faccio io, levandolo dall’imbarazzo.

“Piacere, Lucia”, e mi porge la mano destra ruotando la carrozzina elettrica che la accoglie.

“Pensa che Ermanno mi ha riportato la fede che pensavo di avere perduto.”

“No, davvero? Che bella cosa, e che bel gesto. Grazie Ermanno.” “Si figuri, è stato un piacere” ...ma non riesco a dire nient’altro di più intelligente?

Trascorro una delle più belle mezz’ore della mia vita, con due persone innamorate, innamorate come se fosse il primo giorno.

Ad un certo punto mi accorgo che si è fatto tardi, ringrazio dell’ospitalità e me ne vado con la promessa di rivederci.

Entro in casa quasi come un ladro, di soppiatto, per non svegliare nessuno.

Mentre mi occupo delle operazioni normali che tutta la gente

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fa prima di andare a letto penso a Lucia, che avrà, o meglio, dovrà avere sempre al suo fianco il marito. Entro in camera da letto, mia moglie già dorme. Il piccolo è nella culla, lo guardo e sorrido. Penso proprio che domani mattina racconterò questa storia a mia moglie e le proporrò di andare a trovare quei signori per svelar loro il vero motivo della mia visita di stasera.

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Il braccio capitolo 1

Una volta lessi, su Selezione, …o era la Settimana Enigmistica? ...della storia pazzesca di un uomo che aveva subito l’amputazione dell’avambraccio sinistro da parte di un camion in velocità.

Era in macchina a velocità elevata, la capote aperta, il braccio fuori dal finestrino. Il camion glielo staccò di netto, e lui non si accorse di niente. L’effetto anestesia era stato causato dalla forte velocità e dal vento. Se ne accorse solo quando si fermò. E alla vista del moncherino, svenne. Così era scritto sulla rivista. Una storia incredibile e sicuramente inventata da qualche giornalista alle prese con qualche sensazionalismo da “weird tales”.

Fattostà che da allora non sporgo più il braccio dal finestrino.

Quel giorno però era caldo, anzi caldissimo. E allora abbasso il finestrino, l’aria condizionata la reggo solo per qualche minuto. Appoggio appena il braccio alla portiera, senza sporgerlo.Viaggio ad una velocità abbastanza sostenuta, oltrepassando il limite di cinque punti patentati appena. L’aria entra nell’abitacolo con forza, il rumore mi impedisce anche di ascoltare la musica. Però sto bene, la sensazione di freschezza mi avvolge, e ne assaporo il momento.

L’attimo dopo mi accoglie l’adrenalina. Uno schiocco. Il proiettile entra dal finestrino. Si conficca nella spalla sinistra, all’altezza del deltoide. Dolore lancinante. Chiudo gli occhi in una smorfia urlante, portando la mano destra alla spalla. La sbandata è inevitabile. Invado la corsia di sinistra. Sta sopraggiungendo un camion. Mi punto sul freno, la mano destra sulla spalla, la mano sinistra dolorante che non riesce a governare il volante. Sento il clacson del camion. L’auto si di-

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rige verso il bisonte, cerco di sterzare ma non ce la faccio, sto sempre pigiando sul freno. Il camion sterza alla sua sinistra, cerca di fare il possibile per evitarmi. L’auto si impegna in un testa coda fumante, che non riesce completamente perché il camion mi colpisce violentemente all’altezza dell’angolo posteriore destro. La macchina carambola impazzita, si mette a girare su se stessa. Io non mi rendo conto, non ho più il piede sui freni, la mano destra però è sempre sulla spalla. La testa ballonzola a destra e sinistra. Il posteriore esce dalla banchina. Incontra il vuoto, entra nel fosso. Il muso si alza di colpo. In due secondi mi trovo a testa in giù e la macchina finalmente si ferma, coricata sul lato destro. Il motore urla, odore di fumo e di bruciato. Ho sempre la mano sulla spalla, sento di avere qualcosa conficcato. Il sangue mi appiccica la mano. Il dolore mi impedisce di sfiorare il punto, non riesco a muovermi. La cintura di sicurezza mi tiene aggrappato e sospeso, ma il dolore è atroce. Non riesco a muovere il braccio. Riesco a girare a malapena la testa e vedo una specie di freccia metallica lunga trenta centimetri infilata nella carne. Cosa cacchio sarà mai? E svengo. Non so quanto tempo dopo sono svegliato dal rumore metallico e stridulo di una sega a motore. Qualcuno mi sta aiutando ad uscire e per farlo sta distruggendo la mia utilitaria. D’altronde una scelta bisogna pur farla, e i vigili del fuoco non hanno certo tempo da perdere alla ricerca di soluzioni. Il dolore è sempre più lancinante, ogni piccolo movimento si tramuta in fitte che non riesco più a sopportare. Trattengo a stento le urla, cerco di assumere un certo contegno anche di fronte al dolore, non mi va che mi giudichino una mammoletta.

Finalmente il rumore cessa ed una voce amica lo sostituisce.

“Ci siamo, ora sta tranquillo che ti tiriamo fuori. Come ti chiami?” Biascico il mio nome ma non riesco a finire che svengo un’altra volta.

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capitolo 2

Il risveglio stavolta è in ospedale,

Ho la bocca impastata, una spugna ruvida al posto della lingua, gli occhi che non vogliono saperne di aprirsi, la luce eccessivamente bianca mi innervosisce, ma devo vedere. E vidi. La camera d’ospedale è come tutte le camere d’ospedale, al mio fianco intravvedo la colonnina della flebo, un letto e l’ombra di alcune persone. Il collare che mi impedisce qualsiasi movimento del capo mi obbliga a ruotare gli occhi.

La stanza bianca, la luce diafana, i miei occhi fanno il giro del piccolo mondo che gravita intorno a me e si fermano davanti ad una figura imponente di uomo in camice bianco, col taschino ricolmo di penne ed evidenziatori, forse anche un telefonino.

Non capisco bene, ma mi sta dicendo qualcosa in merito al mio risveglio e alla mia fortuna. Si avvicina alla mia faccia ma non mi guarda negli occhi, è interessato alla mia spalla sinistra. Tocca la parte e sento un acuto dolore, ma non apro bocca. Chiudo gli occhi e faccio una smorfia, e quel movimento mi provoca altro dolore.

“Le fa male?” riesco a sentire chiaramente la domanda. Non rispondo, mi limito ad annuire con un leggero movimento del capo.

Lui allora si rialza e in quel momento vedo una figura minuta che il corpulento volume dell’uomo mi aveva nascosto. “Questa è la dottoressa Laura che la seguirà nel percorso riabilitativo. Buongiorno” E sparisce lasciandomi in compagnia di quell’esserino che gradatamente mi informa sul mio stato di salute.

Ero stato fortunato, ripete la dottoressa, e in quel momento la odiai. Pochi centimetri più in alto e quell’affare avrebbe potuto trapassarmi il collo.

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Quell’affare cosa? Cosa era successo? Non riesco a parlare ma il mio sguardo interrogativo ècosì eloquente che la dottoressa capisce e dice: “Lei è stato colpito da uno dei denti di una macchina tagliaerba che stava operando all’altro lato della strada.” E allora mi viene in mente di aver visto il trattore che affondava la benna nell’erba alta del fosso. “Quell’affare si è staccato e come un proiettile è andato a conficcarsi nella sua spalla. Bastavano pochi centimetri più in alto”

Cazzo che sfiga, ma non potevo invece arrivare un secondo dopo? penso tra me e me, guardando compatito l’esile medico.

“Si è conficcato nella spalla forando il muscolo deltoide e scalfendo appena l’osso. Ci sarà bisogno di un po’ di tempo e di riabilitazione ma tutto si metterà a posto. Comunque non ho mai visto una cosa del genere. Ora si riposi, passerà l’infermiera più tardi per la medicazione. Arrivederci.”

“Non ho mai visto una cosa del genere?” penso mentre si allontana e la saluto con un cenno della mano. Ma allora sono stato fortunato oppure la sfiga si è particolarmente accanita?

E ripenso a quella storia assurda, al tipo che perse il braccio e non se ne accorse.

Nel frattempo il dolore si riacutizza, probabilmente l’antidolorifico sta terminando il suo effetto. Vorrei dormire, ma non ci riesco. Il soffitto di quella stanza lattiginosa mi si avvicina, lo scruto, dipingo scenari danteschi. Si apre la porta, entrano i miei genitori. No, non voglio vederli, non voglio parlare adesso, sto troppo male. Mia madre si avvicina, mi chiede come sto, non le rispondo neanche. Mio padre guarda la cartella clinica ai piedi del letto, la legge attentamente e la commenta, lui che ha quarant’anni di officina meccanica alle spalle. Mia madre ha portato il sacchetto con la biancheria pulita, apre il cassetto del comodino, mette i fazzoletti e ci inserisce pure un pacchetto di biscotti. “Sei stato fortunato, sai? Appena due centimetri sopra e ... non voglio neanche pensarci. Ma perché

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non parli? Stai male?”.

E cosa cazzo dovrei rispondere? Che sono in un letto d’ospedale perché mi avevano detto che organizzano un torneo di calcetto? Guardo mia madre con un misto di incomprensione, rabbia e schiumosa voglia di rispondere. Abbozzo solo uno “Scusate, ma ho un male cane alla spalla e dolori diffusi su tutto il corpo, vorrei stare un po’ tranquillo”.

“Ma se hai dolori chiamiamo l’infermiera” dice mia madre e afferra il pulsante che penzola dalla parete schiacciandolo due volte. La guardo incredulo ma senza dire niente perché è un gesto che non le rimprovero di aver fatto. Sto veramente male.

L’infermiera arriva immediatamente e mia madre la investe prontamente di informazioni sul mio stato di salute. Lei si rivolge freddamente verso di me e mi rivolge un “Dolori?” al quale rispondo con un cenno del capo. Prepara la siringa e in un battibaleno mi inietta un bruciante antidolorifico nel gluteo.

“Per otto ore sei a posto. Buon riposo” e se ne va.

Mia madre la guarda uscire in attesa di un saluto che non arriva e poi si gira verso di me: “Ma che modi, sono tutte così qua dentro?”

Non rispondo, il dolore mi sovrasta.

Mia madre si avvicina al letto e mi appoggia la mano sulla fronte.

“Sto qua io stanotte, non posso andare a casa con te che stai così male. Loro si arrangeranno.” Si riferisce a mio padre e a mia sorella, che sta entrando in questo istante.

“Cosa è successo?” e si mette istintivamente le mani sul viso appena mi vede pieno di ematomi e fasciature. E inizia teatralmente a lacrimare.

Vaffanculo, devo essere proprio preso male!

Avvicinarsi al letto è una sofferenza per lei che non mette piede negli ospedali terrorizzata com’è dalla paura di soffrire. La

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guardo con pietà mista a dolore fisico perché qualsiasi semplice smorfia del viso mi provoca un male diffuso.

“mioddio, cosa hai fatto?? ma quando è successo?? e la macchina??” sciorina piangendo la drammatica nenia.

Chiudo gli occhi, mi salva dalla situazione la sempre presente mamma, che apostrofa mia sorella intimandogli l’alt.

“Stai zitta, non vedi che soffre??”

Al comando genitoriale si siede su una sedia e continua convulsamente a piangere con il viso tra le mani. Ma mio padre la prende e la porta fuori, cercando di calmarla.

“Tua sorella è una frignona, lo sai com’è. Vent’anni e non saperlo!”

Abbozzo un sorriso. L’ho sempre detto io, ho una mamma intelligente e determinata. E sento che l’antidolorifico sta facendo effetto, mi addormento senza accorgermene.

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Ospedale 2

Figuriamoci se mi fermo a parlare con te dopo quello che mi hai fatto. Dopo che ti sei portato a letto la mia (ex) ragazza, e per giunta adesso ti sei messo con un’altra ancora più carina. E questo mi turba ancora di più.

Ti ho incrociato in ospedale, io che mi dirigo verso il laboratorio per ritirare il referto dell’ultimo esame del sangue, solita routine per me che sono donatore, e tu che mestamente vai verso l’altra ala dell’ospedale, quella nuova, dove c’è oncologia. Ho un sussulto, tu non mi hai visto e procedi. Io che ho un attimo di ripensamento e mi giro. Prendo coraggio, ti chiamo per nome.

“Ehilà, Piero!”

“Ciao Marco” fa lui stupito voltandosi, e il suo viso incornicia un mare di preoccupazioni.

“È stupido chiederti cosa fai da queste parti; in genere quando si varca questa soglia non lo si fa certo per divertirsi” dico io “Sì, hai proprio ragione” mi risponde Piero. E nel frattempo abbassa la testa. È dimagrito, il pallore che ha addosso lo rende ancora più magro. Io che son sempre stato suo amico, ma che l’ho sempre invidiato per i suoi modi, per la sua facilità di fare amicizia, per le sue frequentazioni. E poi perché riusciva sempre in tutto, mentre io fallivo.

Mi viene un coraggio insperato e gli dico:

“Sono mesi che non ci vediamo, dove sei finito?”

“Non sono stato proprio benissimo, ho evitato di uscire.”

“Se hai voglia di parlarne, io sono qua.”

“No, guarda, lasciamo stare, ti ringrazio della gentilezza, apprezzo lo sforzo che stai facendo.”

Io mi spingo ancora oltre, stupendomi di me stesso.

“Guarda che il passato è passato, e poi di fronte a certe cose bisogna soprassedere, e andare avanti” dico io mentendo, ma con un profondo desiderio che non sia proprio come la

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penso.

“Ecco ...”, fa lui convincendosi forse che sono sincero, o forse è solo bisogno di parlare con qualcuno che riesca a comprendere, “...non è il posto ideale per parlare, se vuoi prendiamo un caffè. Io sono in anticipo di venti minuti, e poi loro sono sempre in ritardo, c’è sempre un mucchio di gente che aspetta.”

“Sì dai, prendiamoci un caffè, il bar è lì in fondo.”

Ci dirigiamo verso il bar dell’ospedale. Ho un misto di malinconia, pena e pure dolore. Ci mettiamo a sedere e lui sorride, mi guarda e abbassa la testa.

“Sei mesi fa mi hanno riscontrato un tumore” dice.

Io trasalisco, era quello che immaginavo ma che non volevo fosse. Non volevo sentire. E mi scopro a pensare a quelli che non riescono a pronunciare il nome, cancro, e dicono: il brutto male.

In alcuni momenti della vita ti capita di augurare a chi ti ha fatto del male le cose peggiori. Ma poi ti rendi conto, nel momento in cui ci sbatti il naso contro, che non vorresti mai aver augurato del male a nessuno. E cambi idea in un attimo. Non so cosa rispondere, e che cazzo, ti viene da dire in momenti come questi? Su coraggio? Non ti preoccupare? Si saranno sicuramente sbagliati?

Che cazzo dici? Cosa rispondi a quegli occhi che chiedono aiuto, persi nel nulla, alla ricerca di una piccola, flebile speranza di vita?

… resto semplicemente a bocca aperta e lo guardo. Ed è lui che mi toglie dall’imbarazzo.

“Non dire niente, sono perfettamente conscio di quello a cui sto andando incontro. Non so se ce la farò, speranze ce ne sono, ma ho bisogno di intraprendere alcuni cicli di terapia.

Ne ho già fatto uno, ora devo andare dal medico che verifica gli ultimi esami, ma mi ha già preannunciato che sarà necessario un secondo ciclo per essere più sicuri del risultato”.

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Abbiamo 30 anni, siamo stati a scuola insieme, tutto questo non è giusto, penso tra me e me.

Mentre prendo i caffè e li porto al tavolo vedo i suoi occhi brillare. Sono lucidi, prende il fazzoletto e se lo porta al viso.

“Scusami sai, ma ogni tanto ci penso, e non dovrei.”

“Non ti scusare” faccio io e gli porto la mano sulla spalla come per fargli un massaggio, un leggero massaggio “raccontami”

“Ora si è fatto tardi, devo andare. Se ti va usciamo una seraa prenderci una pizza, come ai vecchi tempi.”

“sì certo. Ti chiamo la settimana prossima, va bene?”

“Sì, spero che la terapia me lo permetta” aggiunge con un sorriso che non ti aspetti.

Pago i caffè e ci abbracciamo con la promessa di rivederci. Io resto imbambolato nel vederlo allontanarsi, lo seguo con lo sguardo, mi appoggio al muro bianco dell’ospedale, e mi viene un nodo in gola.

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Incipit 2

Il fastidio che provavo sentendo il rumore provocato dal coltello che tagliava le bucce di mela era perfino doloroso. Mi prendeva la gola, la testa, le orecchie. Non lo sopportavo, dovevo allontanarmi. È inspiegabile ma non riuscivo a resistere. Mi veniva persino da vomitare.

Il pensiero correva alla malattia che aveva colpito buona parte della mia famiglia: una follia conclamata che si sviluppava tra i 40 e i 50 anni, e io ne avevo 35. Le prime avvisaglie erano dei dolori cervicali, accompagnati a una sudorazione intensa. Successivamente il dolore si stabilizzava ma subentravano altri scompensi: perdita di memoria, fobie, aggressività e comportamenti antisociali che conducevano inevitabilmente al ricovero in strutture psichiatriche.

Così mio nonno, morto a 79 anni, dopo averne passati più di 30 in una di queste strutture che erano chiamate ospedali psichiatrici, ma che dell’ospedale avevano solo il nome. E poi mio zio, il fratello di mia madre, che riuscì a suicidarsi prima che la malattia prendesse possesso totalmente del suo cervello. Aveva 43 anni, una moglie e due figlie. Ora sua moglie si è risposata e conduce una vita normale.

Ogni giorno vado a trovare mia madre ma non mi riconosce più. Sono ormai più di dieci anni, tredici per l’esattezza, che è “parcheggiata” in un istituto di cura per le malattie mentali. Inutile dire che è imbottita di farmaci e praticamente vegeta. Non so perché vado a trovarla ogni giorno. La guardo, le parlo ma lei non mi risponde. I nostri sguardi si incontrano, si studiano, o perlomeno io studio il suo, ma da lei nessuna reazione. Sto pensando che il motivo per cui non smetto di farle visita giornalmente è perché ho terrore di avere la sua stessa malattia. Ogni momento scruto e scandaglio il suo comportamento. Mi porto un taccuino dove annoto giorno per giorno anche ogni semplice cambiamento. A scadenze regolari, una

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volta al mese, porto i risultati del mio monitoraggio ad un medico.

Prendo appuntamento presso il suo studio, normalmente alla sera dopo il lavoro. Per lui è normale orario di visita, e allora entro in sala d’aspetto e mi siedo aspettando il mio turno. Guardo le stampe di anatomia appese alle pareti, apparati digerenti, stomaci e fegati sezionati. È un gastroenterologo, è il mio medico di famiglia, conosce per filo e per segno tutta la nostra storia familiare. Ha più di settant’anni ed approva scientificamente quello che sto facendo. Gli interessa anche, spera che un giorno o l’altro si possa venirne a capo. Conserva in una cartellina tutte le mie schede mensili, annotando in un file ogni comportamento ripetitivo od anomalia degna di nota. Riferisce poi ad un collega psichiatra col quale ha un rapporto confidenziale molto stretto e successivamente me ne parla. Fra poco è il mio turno, prima di me c’è una ragazza pakistana che avrà sedici anni, incinta, accompagnata da quello che presumo sia il marito. Sembra che abbia più di trent’anni, timido e taciturno. Lei invece parla al cellulare senza curarsi del prossimo, animata ed a voce alta. Ogni tanto si rivolge al marito, il quale si limita ad un cenno del capo. La porta si apre, un paziente esce e lascia il posto alla ragazzina incinta ed al marito. Sono rimasto solo, sono l’ultimo. Mi alzo in piedi e passo in rassegna le stampe di anatomia. Sono antiche, del XIX secolo. Sono state sicuramente strappate da un trattato di medicina, penso a quel povero libro squartato, le pagine incorniciate come parti di un corpo mutilato ed esposto al pubblico. Di fianco un calendario di una casa farmaceutica con foto di paradisi tropicali, per trasmettere un senso di vitale speranza all’eventuale utilizzatore della loro medicina. A me fa l’effetto opposto, quasi una presa in giro. Spero di non aver mai bisogno del loro prodotto. Improvvisamente mi suona il telefono. È Paolo, un collega di

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lavoro.

“Ciao, ti disturbo?” chiede

“No, sono in attesa dal medico ma dimmi pure”.

“Hai problemi?”

“No, sono qui per mia madre” faccio io.

“Ah ho capito. Volevo chiederti se dopo vieni a prenderti una pizza con noi. Sai, siamo i soliti. Due risate, pizza e birra e poi a casa.”

“Sì, volentieri, passo dopo alla solita pizzeria allora?”

“Perfetto, intorno alle 20/20,30. Ti aspettiamo, ciao.”“Ciao”. Mentre penso che sarà una serata all’insegna dell’ordinario, la porta dell’ambulatorio si apre e la ragazza incinta esce col suo compagno. Il medico mi accoglie con la sua solita gentilezza, alzandosi dalla sedia e dandomi la mano. Certe volte penso che tutta questa gentilezza nasconda della pietà e, soprattutto, nasconda una verità che non riuscirei a sopportare.

“Buonasera Riccardo, come va? Ci sono novità?”

“Buonasera dottore. Non saprei. Ho annotato tutto nel taccuino, se vuole leggere...”

Prese gli appunti e cominciò a sfogliare dapprima tutte le pagine. Poi alzò gli occhi verso di me e disse:

“Mamma mia quanta roba hai scritto. D’altronde, è un mese che non ci vediamo. Hai notato qualche cosa di nuovo?”

“Mah, ci sono delle piccole variazioni comportamentali, tipo quando alza gli occhi al cielo ad ascoltare gli uccelli cantare, oppure abbozza un timido sorriso quando gli porgo la mano. Ma non so se siano cose importanti. Poi ce ne sono altre, le ho scritte nel quaderno”.

“Allora le leggerò con calma, ora è tardi. Ma dimmi di te. Come ti senti?”

A quella domanda trasalii. Ogni volta che ci vedevamo quella domanda mi faceva un brutto effetto. Sapevo di essere a rischio, e c’erano serie probabilità che io potessi sviluppare la malattia. E a quella maledetta domanda non sapevo mai come

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rispondere. Pensavo che qualsiasi cosa potessi dire avrebbe potuto avere un effetto negativo. Ero cambiato dal mese prima? Ero diventato più aggressivo? E mi venne in mente il litigio fatto con un collega ambizioso ed arrogante, e di come io mi ero accalorato tentando inutilmente di farmi valere. Era forse un inizio di instabilità? Ormai questa cosa la vivevo con un’ansia tremenda. Sapere che forse da un momento all’altro qualche rotella se ne sarebbe partita per non tornare più non mi faceva vivere bene. Non pensavo ad altro che a quello. Ogni giorno, ogni minuto.

“Abbastanza bene direi, non mi pare di notare differenze dal mese scorso” risposi.

La mosca che ronzava fastidiosamente sopra di noi si posò d’un tratto sul mio polso. Tentai di schiacciarla con una mossa veloce ma non feci altro che schiaffeggiarmi inutilmente il braccio. Ricominciò il suo volo scampanato incurante delle mie nervose reazioni.

Il medico mi guardava con interesse, si direbbe che mi stava proprio studiando. E questo mi dava ancora più fastidio. Cinque minuti dopo mi congedò con la promessa di rivederci il mese successivo.

Uscii dallo studio e salii in macchina pensando al mio comportamento, elencando mentalmente le cose che mi urtavano, dal fastidioso rumore di mela sbucciata al cane che ululava, dalla vista delle unghie nere alla polvere tra i tasti del computer e lentamente cercavo di dare una cronologia, se quel tale fastidio l’avessi sempre avuto oppure si fosse sviluppato o acuito da poco.

Non riuscivo a darmi pace, la memoria mi faceva difetto. D’ora in poi decisi che avrei tenuto un quaderno pure per me. Mi avviai verso la pizzeria con il desiderio che mi venisse un mal di testa tale da rinunciare. Non avevo voglia di vedere nessuno, tantomeno i miei colleghi. Mi assalirono però i sensi di colpa. Altre volte avevo rinunciato, per un motivo o per

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l’altro, e non mi andava di dare buca un’altra volta. Mia madre era (dovrei dire “è”) cattolica, praticante e così devota che aveva un sacco di immagini di santi e sante sul comodino. Andava a messa ogni domenica, spesso anche il sabato, e non si perdeva nessun funerale, anche di semplici conoscenti di cui magari aveva solo sentito parlare. Aveva tentato di insegnarmi un certo tipo di morale, che io non avevo proprio assimilato del tutto. Di questo insegnamento mi era rimasto però il rispetto per le persone e una certa dose di correttezza. Per questo di fronte all’impulso di desistere e tornarmene a casa ho scelto la pizzeria. Durante il tragitto era mia mamma che mi guidava, che mi assisteva nella guida, indicandomi quando frenare e che distanza tenere dall’auto davanti a me. E non parliamo dei semafori e delle strisce pedonali. Ero come in trance, un altro corpo dentro il mio aveva ragione della strada e dell’auto. Mi trovavo ad eseguire degli ordini, e neanche controvoglia. Mi sembravano più che altro sani consigli, e li accettavo senza battere ciglio. Arrivato al parcheggio della pizzeria mi fermai e presi carta e penna. Annotai queste sensazioni con dovizia di particolari e rimasi a riflettere per più di dieci minuti, cercando di scovare qualche verità nascosta. Quand’ero piccolo era lei che mi accompagnava a scuola e mi veniva a prendere. Mi aiutava a fare i compiti, preparava la merenda del pomeriggio e aveva sempre la parola adatta per farmi sentire a mio agio. Anche quando sbagliavo e mi arrabbiavo aveva un particolare modo di sgridarmi e di farmi capire le cose che ora considero un gran dono, una capacità di dialogo ed ascolto che non ho riscontrato in nessun’altra persona. Mio padre lo vedevo qualche volta alla sera, rientrava tardissimo dal lavoro e spesso io ero già a letto. Alle prime avvisaglie del male, con tranquillità dico io, si defilò. Sparì ed andò a vivere non so dove con la sua amante che presumo frequentasse da anni. Penso che per lui fu decisamente quello che si aspettava. Poteva finalmente

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vivere la sua vita alla luce del giorno senza ansie da clandestinità. Io avevo 20 anni,ormai mi sapevo arrangiare ed avevo già un lavoro, mia sorella ne aveva 18. Rimanemmo nel nostro appartamento, lui contribuisce tuttora alla retta della mamma e finché mia sorella non trovò un lavoro ci versò un congruo assegno mensile. Non lo vedo da anni, ma non mi manca. Mia sorella se n’è andata dopo il matrimonio, circa 4 anni fa, e da allora ci sentiamo ogni giorno al telefono. Non parliamo più della condizione della mamma, è una nostra scelta. La ricordiamo semmai per come era; parlare dell’oggi ci sembra ingiusto e lesivo, addirittura offensivo. Non parliamo di nostro padre per lo stesso motivo ma con una prospettiva diametralmente opposta. Guardo l’ora e mi accorgo che è tardissimo. Scendo dall’auto pensando che dovrò inventarmi un ritardo del medico per potermi giustificare. Entrando in pizzeria mi assale un senso di vuoto. Mi devo fermare, è come se fossi sull’orlo di un baratro e non vedessi l’ora di saltare. Non è paura, al contrario è una sensazione bellissima, di serenità. Sto fluttuando, sono sospeso da terra, quasi volo. Ma in un attimo tutto scompare. Mi guardo intorno e sento la pesantezza riprendere il mio corpo. Tiro fuori il bloc-notes ed annoto luogo, ora e sensazioni.

In pizzeria sono già tutti seduti e con la pizza sul piatto. Mi scuso per il ritardo accampando la frottola del medico e mi siedo. La cameriera mi si fionda subito addosso col listino e mi metto a leggere. Lei è in piedi che mi aspetta spazientita, si vede che sta per finire il suo turno. Chiudo il menù e le ordino una margherita e una coca. Mi secca avere qualcuno che mi soffia sul collo, le restituisco il listino e mi metto a parlare con gli altri. L’arredamento opprimente del locale mi disgusta. Colonne, dorature e specchi dappertutto. Mi confonde mentre sto parlando con la collega seduta accanto a me. Al bancone un gruppo diragazzi è alle prese con la divisione del conto e stanno innervosendo la cassiera.

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Insegnamenti di sciamanesimo urbano:

Gramigna.

La gramigna conosce segreti e misteri. È la capacità di chi non vale niente, benedizione della crepa. Non la gramigna di campagna, vincitrice dell’eterna guerra perché sempre in piedi dopo ogni abbattimento, ma l’umile, inquieta erbaccia di città, quella che, tentando di colorare, rivela la forza dominatrice del grigio.

L’esercito dei campi affonda e spinge e più affonda più spinge, e non ha tempo di ascoltare.

Il filo verde fra i mattoni e i sampietrini, invece, aspetta gli operai del comune, quei primati senza volto e pietà, e intanto cerca di capire. Non ha molto altro da fare, in fondo.

Ha sofferto, la gramigna. Ha sfruttato ogni granello di polvere, ogni concava ruvidezza, ogni residuo di maternità. Ha sussurrato ascesa, ha discusso con se stessa di circolarità, ha canticchiato la semplicità e ha riscritto la violenza.

Si è fatta largo nell’aria opzionata, ha frusciato nel rombo, ha fatto buon viso a incosciente risata.

Conosce misteri. Sa chi ha messo la bomba, chi ha buttato la cicca, chi ha sedotto l’ubriaca.

E conosce segreti. Ma non li dirà. Né al primate né al topo. Né al cane che annaffia né alla rondine che sogna.

Uno solo ne esprime, per chi può comprenderlo.

È il segreto della forza, della sua stessa forza. Ma è un discorso complesso, per chi sa seguire la via della crepa in direzioni accennate, irrigare la polvere o sprecare semi in città.

27/08/2020 -19.15 circa, bar Fibonacci, Città della Pieve.

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Quant’è bella, La sora lella. È bella la sora lella, è proprio bella la sora lella, che non si sa quanto sia bella la sora lella. Insomma, la sora lella è proprio bella in quanto è proprio lella la sorella, ecco, la sorella della lella è una avventura bella, la proprio lella è bella della sorella della lella della mamma della nella la sora lella approssima la sorella della lella nella mammella della sorella nella figlia della lella la mamma e la sorella della lella è la mamma della nella in quanto la lella è abbastanza bella come la sorella della lella e la figlia della nella ha un qualcosa che somiglia alla nella della mamma della sorella della figlia della lella e la nonna della lella e la zia della nella e la sorella e la mammella e il digestivo della nella e questo è il risultato della mammella e la sister della bella, e la dama della nella, la concetta della lella, e la catena della bella, e la sandrina è pur bella, e questa è sua sorella la figlia e la mamma e la nonna e la zia, la cugina e la nipotina, e quella sua gattina coi piedini e la lella, eccola la sorella della bella e la mamma e la figlia e il cuoricino la bella e la dentista della cappella e la nostra moglie è pure una nella, è tutta bella, è tutta strana, è tutta cantata, è tutta ammogliata, è tutta quella.

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Destiny

I wanna know my destiny after my Polish experience because life is like a great direction to the death.

Il destino

Voglio conoscere il mio destino

dopo la mia esperienza in Polonia

perché la vita è come

una commendevole direzione verso la morte.

Przeznaczenie

chcę poznać swój los po moim doświadczeniu w Polsce

ponieważ życie jest jak

godna pochwały droga ku śmierci.

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tłum. Jolanta Maria Dzienis

La

Terra Il cielo Urla

storie infinite per darci la Terra promessa, di vetro.

The Land

Never ending stories some sky screaming to give us promised, glassed land.

Ziemia Niebo krzyczy

niekończące się historie

daje nam

Ziemię obiecaną, ze szkła.

tłum. Jolanta Maria Dzienis

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“Perugia, quarto piano, cinque uomini, sei donne, 21 ottobre 2021, è ancora Bilancia o è già Scorpione?”

Questo disse tra sé e sé Guerino Marinaro, mentre con trepidante entusiasmo ammirava il distributore automatico che terminava di riempirgli il bicchiere di carta riciclata con la cioccolata calda che aveva selezionato con ansia fanciullesca.

Decise di addolcire l’attesa prima di sentirsi chiamare per entrare nella grande stanza vetrata.

“Bilancia, sì, sicuramente Bilancia, magari cuspide Scorpione, ma ancora siamo sotto il segno della Bilancia, dominata da Venere tra l’altro. Allora, cinque più sei uguale undici con lo Yin maggiore dello Yang a livello energetico, tra l’altro.

Due più uno più uno più zero più due più zero più due più uno uguale nove, quindi sommando undici a nove fa venti, cioè due più zero ovvero due; in più quarto piano sta ad indicare il numero quattro che è il quadrato di due, tra l’altro ... mmmm... interessante!”, pensò.

“Il numero 2, il primo numero femminile, il numero della Luna, è detto della sapienza, del verbo, della parola divina, tra l’altro ... il tutto nella laica Perugia!”, rifletté ancora.

Intuitivamente, mediante un’ossessiva interpretazione divinatoria di vaga ispirazione taoista, dove sincreticamente con tanta originalità miscelava la lettura astrologica caldea alla numerologia pitagorica, era alla ricerca di indizi su ciò che di lì a poco, loro, gli avrebbero chiesto.

Guerino Marinaro, come avrebbe detto sua nonna “teneva i capilli a la mascagna” e li impomatava con una brillantina stile anni Trenta all’essenza di mallo di noce, dal pungente sentore di goudron e cuoio bagnato, difficile da acquistare. Per questo pretendeva ossessivamente di averne sempre una confezione con sé.

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Dietro dei grandi occhiali da vista a goccia, con montatura dorata e lenti fotocromatiche, aveva dei piccoli occhi magnetici dal colore nero mediterraneo, sempre in fibrillazione, lo sguardo fulmineo testimoniava la rapidità di osservazione e di analisi, mentre la carnagione olivastra bruciata dal sole esaltava il suo physique du rôle che rimaneva inalterato benché non fosse più giovanissimo.

Univa a un vero e proprio outfit di abiti degli anni Settanta e Ottanta delle suppellettili di mode attuali, chiaramente ispirate al design dell’epoca, tanto da renderlo nella sua eccentricità oltre che vintage decisamente retrò.

Anche quel giorno difficilmente passò inosservato visto che impazzò nella sala d’attesa e per i corridoi atteggiandosi da damerino col suo ridicolo completo verde acqua abbinato a una vistosa camicia rosa shocking, impreziosito da un ascot di seta con variopinte fantasie floreali al collo e ai piedi da scarpe di pelle effetto coccodrillo tipiche dei tangueros più sanguigni. Queste a turno le sfregava ossessivamente sulla parte posteriore del pantalone a ridosso del polpaccio pur di non vederle anche solo minimamente impolverate.

Colpa di sua madre che a modo suo, con la volontà di togliergli di dosso l’aria da pezzente data dalle umili origini, gli aveva fatto intendere che la classe di un individuo si denota subito dalle calzature per cui era opportuno che lui indossasse sempre un paio di scarpe eleganti, mai banali e soprattutto belle lucide.

Quella santa donna, neanche tanto santa, in realtà, sempre a modo suo lo indirizzò anche alla devozione per l’arte oratoria ricordandogli che i veri “Signori”, quelli con la esse maiuscola, sanno parlare bene e lui, contrariamente a lei, avrebbe dovuto imparare a farlo in fretta senza smettere mai di perfezionarsi.

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Seguì con dovizia quest’ulteriore insegnamento materno tanto da leggere negli anni tutto ciò che gli capitò a tiro e assorbire come una spugna tutto ciò che riuscì ad ascoltare intorno a lui.

Ciò gli permise di sviluppare una sua singolare capacità espressiva, crocevia tra la parlantina di un folkloristico piazzista viaggiatore, l’ironia di un sagace comico d’avanspettacolo, le passionali arringhe di un avvocato penalista da trincea, la spigliata dialettica di una raffinata guida per turisti stranieri e l’enigmatica eloquenza di un sapiente conoscitore di discipline misteriche, in sostanza gli permise di coniare una sorta di inedito e personalissimo “esperanto” comunicativo perennemente in aggiornamento.

La sua andatura molleggiante, quasi a ricordare il primissimo Celentano, non risultava un flettere forzato, ma un felino andare flemmatico spontaneo come quello di un gatto selvatico, sempre pronto a scattare al primissimo campanello d’allarme, ancor più al suono vibrante di qualsiasi melodia musicale che al volo lo faceva muovere e ancheggiare sinuoso seguendo meravigliosamente il ritmo.

Afferrato il bicchiere bruciante con entrambe le mani si posizionò alla finestra sorseggiando a piccoli tratti il suo “brodo indiano”, come definirono gli spagnoli nel Cinquecento la calda bevanda ricavata dalle divine fave di cacao importate dal Nuovo Mondo, ammirando là in fondo, sull’angolo del palazzo, una ragazza minuta dalla gonnellina a scacchi bianchi e neri e il giacchino arancione.

Era intenta a osservare amorevolmente, tra le foglie melangiate di un kaki quasi completamente spoglio, ma carico come un albero di Natale di turgide sfere arancioni, il suo cagnolino fulvo impegnato nella ricerca spasmodica della condizione ottimale per marcare il territorio.

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“Potrebbero voler conoscere quale ruolo sostanziale assume la componente femminile della compagnia nello sviluppo intuitivo della nostra prolifica creatività... mmm... oppure il valore intrinseco nelle nostre performance della ricerca del doppio nella costruzione dell’identità, magari nei gemelli a partire dal mito dei Dioscuri, Castore e Polluce, come conferma la definizione del secondo numero naturale, il primo numero primo e l’unico tra questi a essere pari, tra l’altro... mmm... magari l’integrazione di tutt’e due le componenti. Chissà quale potrebbe essere la loro fondamentale curiosità da soddisfare per determinare la scelta a nostro favore?” sentenziò.

“Il signor Guerino Marinaro?” pronunciò ad alta voce una slanciata e graziosa signorina bionda, dal tailleur blu elettrico e scarpe col tacco gialle, aprendo la porta della stanza dalla grande vetrata che, dopo poco, non avendo ricevuto risposta ripeté: “È presente il signor Guerino Marinaro?” “Eccolo!”, rispose lui con voce ferma da giù in fondo come destandosi da un torpore. Si affrettò a terminare la cioccolata calda e lanciò il bicchiere nel cestino con un tiro libero dalla lunetta, quindi si avviò con passo deciso e portamento sfrontato lungo il corridoio.

Durante il tragitto però, passando davanti alla stampa del dipinto de “Il golfo di Marsiglia visto dall’Estaque” di Paul Cezanne, rallentò e si fece sempre più pensieroso, i contorni iniziarono a sfumare man mano che avanzava risultando sempre più rarefatti e la porta da raggiungere, passo dopo passo, incredibilmente più lontana.

Dagli abissi della memoria riemerse con nitidezza il ricordo di quella volta che Pinuzzo, il barbiere del natio borgo selvaggio, lo raggiunse di corsa al cimitero trovandolo in contemplazione davanti alla lapide che riportava il suo stesso nome e cognome, per comunicargli con fare trafelato che

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dalla montagna stava arrivando nella piazzetta il postale che lo avrebbe finalmente portato in città, giù al mare.

Ricordò che corsa estenuante aveva fatto per raggiungere e bloccare al curvone la corriera ripartita da poco e di come lui si era catapultato dentro senza neanche uno straccio di valigia, men che meno uno zainetto.

Poco prima, ancora inginocchiato e concentrato con gli occhi chiusi sulla pietra tombale, seppur consapevole del ritardo accumulato e costantemente incalzato dall’amico d’infanzia, si deliziava, con la mano aperta sul granito scuro, del delicato piacere dato dalla lieve frescura dell’acqua di fonte gettata sopra questa con cura e meticolosità per ripulirla dagli aghi di cipresso e stemperarla teneramente dall’incidenza del sole cocente.

Un gesto di affettuoso saluto e d’intensa venerazione, insieme alla meditata richiesta d’intercessione oracolare, verso l’omonimo e sconosciuto fratello maggiore che alla nascita non aveva avuto l’opportunità di gridare con forza tutta la sua volontà di vita terrena.

Vi erano stati momenti, come questo, dove ovunque lui si trovasse il richiamo profondo delle origini, quella che lui definiva la “terra dell’oblio”, diventava quasi insopportabile.

Tornare lì, in particolar modo in quel cimiterino di montagna contornato da imponenti castagni secolari, risultava doveroso se non addirittura necessario.

Nel tempo lo aveva concepito come un pellegrinaggio, aveva compreso che una volta deciso di incamminarsi per raggiungerlo l’esigenza era quella di scrollarsi di dosso strada facendo delle personali nevrosi e maschere quotidiane facendo tesoro degli incontri avvenuti durante il percorso, così da predisporsi umilmente ad arrivare con il miglior

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anelito spirituale possibile.

Aveva compreso nel tempo che ciò risultava la migliore preparazione possibile per incontrare la sacralità del nume tutelare della sua stirpe e permettergli di congiungersi amorevolmente e profondamente con il proprio “nomen omen”.

Trovato un posto accanto al finestrino, mentre riprendeva fiato asciugandosi il sudore con uno dei suoi intramontabili fazzoletti di stoffa damascata sempre presenti nel taschino, continuò a salutare animatamente un affannato Pinuzzo che, piegato con le mani sulle ginocchia col suo simpatico sguardo e il suo affascinante sorriso d’attore neorealista, ricambiava con genuina amicizia.

Piano piano all’interno del suo campo visivo questi divenne sempre più indefinito e quando la corriera svoltò non lo scorse più, allora volse lo sguardo ad ammirare il percorso zizzagante della strada che scendeva giù, colorandosi sempre più intensamente del verde e del giallo delle ginestre in fiore, fino allo stretto ponte sul torrente per poi risalire tortuosamente su per il pendio di fronte.

Aguzzando la vista all’orizzonte riuscì a scrutare laggiù un bagliore di intensissimo blu marino e lassù nel cielo terso la roteazione di un falco pellegrino che in balia di una corrente ascensionale disegnava ad ali spiegate messaggi interpretabili soltanto da un augure esperto.

Man mano che i suoni del reale timidamente riaffioravano, insieme a una sempre più nitida immagine del corridoio, Guerino Marinaro si convinse che quel divinatorio volo del messaggero di Horus ammirato quel dì contenesse già i fili dell’ordito del fato su cui lui, alla stregua della stesura di un artigianale tappeto mongolo, aveva intessuto la trama della

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sua intricata vicenda umana e professionale.

Si convinse consapevolmente che per poterne stringere finalmente l’ultimo nodo doveva giocarsi fino in fondo e senza timore alcuno l’opportunità che gli si era venuta a creare.

Quando entrò nella stanza dalla grande vetrata osservò rapidamente la commissione composta da due donne e due uomini con la sempre presente signorina bionda, che mentre lo annunciava, lo invitava ad accomodarsi sulla sedia posta al centro.

Dopo un saluto di rito, Guerino ammirò meravigliato dietro di loro la skyline di Perugia che all’imbrunire, da quel punto di vista, risultava decisamente suggestiva.

Seguì come incantato il profilo partendo dalla linea orizzontale del Borgo Bello intervallata dalle linee verticali del campanile di S. Pietro, con la guglia affilata, e del campanile di S. Domenico, con la guglia tagliata, risalire sinuosamente il colle Landone fino a riallinearsi lungo Corso Vannucci, adornato dai contorni imponenti degli edifici medievali del potere temporale, il Palazzo dei Priori, e di quello spirituale, il Duomo di S. Lorenzo, per poi culminare salendo ancora nell’acropoli etrusca in cima al colle del Sole, quindi ridiscendere rapidamente fino al bel campanile in prossimità di Porta Pesa e riappianarsi di nuovo per arrivare dolcemente a Monteluce, dagli antichi e moderni contorni geometrici.

Scuotendosi dalla rapida visione, imprevedibilmente, prima ancora che qualcuno della commissione gli domandasse qualcosa, prese dal suo borsello in pelle lo smartphone e una piccola cassa wireless ponendoli entrambi sulla sedia, selezionò il brano “B-Side” dei Khruangbine & Leon Bridges e sotto lo sguardo attonito dei presenti iniziò a ballare liberamente seguendo un’originalissima coreografia.

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Le innovative sonorità contemporanee, frutto in realtà della rivisitazione e della fusione tra il soul degli anni Sessanta, il funk e il dub thailandese degli anni Settanta e la musica elettronica psichedelica degli anni Ottanta, ben si combinavano con il look e le morbide e flessuose movenze tanto che seppur sconcertati i commissari rimasero piacevolmente rapiti dall’inaspettata situazione e dalla surreale atmosfera della sua lisergica performance.

Quando la musica terminò, Guerino rimase in piedi davanti a loro con il fiato corto e un sorriso sofferto appena accennato, iniziò quindi ad asciugarsi la fronte con il suo solito fazzoletto damascato nel taschino, pronto a rispondere.

“Perché?”

“Il biglietto da visita della Compagnia degli Intronati.”

“Nome originale!”

“Nella prima metà del ‘500, a Siena, l’Accademia degli Intronati scrisse nel proprio Manifesto costitutivo: A significare il desiderio dei fondatori di ritirarsi dai rumori del mondo, dai quali erano come sbalorditi, per dedicarsi alle commedie e agli studi di lingua e letteratura.”

“Un richiamo fin troppo importante, dalla grande responsabilità!”

“Con autentica presunzione abbiamo ritenuto fondamentale ispirarci all’Umanesimo rinascimentale italiano e in particolare a quest’accademia per ritirarci dalla velocità del mondo contemporaneo e dedicarci alla molteplicità dell’espressione artistica nella dimensione-spazio temporale che riteniamo più concernente.”

“Cosa proponete di così inedito per le performance artistiche nelle strade, nei cortili, nei parchi, davanti alle scuole,

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fuori dalle residenze socio-sanitarie durante i lockdown pandemici?”

“L’Arte nelle sue molteplici declinazioni come promotrice innanzitutto di Bellezza, unico ponte tra le angoscianti difficoltà del reale e le salvifiche aspirazioni di benessere del genere umano in un rinnovato concetto di Umanesimo fondato sull’etica, sulla spiritualità e sulla grazia.”

“Con quali atti?”

“Con visionarie azioni di street art generate dalla fusione e contaminazione tra danza, musica, poesia, teatro, comicità, arte circense, pittura, video, ecc…”

“Interessante.”

“Risulteranno inoltre ispirate all’accurata ricerca effettuata dalla componente femminile della nostra compagnia intorno alla poetessa Vittoria Aganoor Pompilj: raffinata e colta poetessa ritiratasi nella splendida villa di Monte del Lago, vera e propria intellettuale sulle sponde del Trasimeno, meravigliosa testimone tramite la sua appassionata e struggente storia artistica, politica e sentimentale del rocambolesco e innovativo passaggio tra Ottocento e Novecento.” “Perché proprio lei?”

“Per la ferrea volontà di libertà e autodeterminazione, per la delicatezza dello stile e la sensibilità spirituale del suo carteggio e delle sue liriche, per l’intelligenza e la vivacità intellettuale delle sue analisi politiche, per il fascino misterioso delle sue origini armene, per il tormento e l’insofferenza all’incomunicabilità, anche tramite la personale e sofferta testimonianza di vita, della condizione femminile in un passaggio epocale per lo sviluppo dell’emancipazione della Donna e soprattutto per la fruttuosa e continua produzione della sua corrispondenza.”

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“Quest’ultimo riferimento attualmente non le sembra anacronistico?”

“Tutt’altro, immaginiamo che in questo tra, che non è già ma neanche ancora, parafrasando il grande etnologo Marc Augé, risieda la vera essenza per accogliere l’incertezza del passaggio epocale.

Come artisti per voltare definitivamente pagina nell’era digitale riteniamo assolutamente doveroso attingere all’epoca analogica.

Quest’ultima, raffinato humus della stratificazione del passato, pensiamo che rappresenti l’alimentazione giusta per le radici del futuro permettendo al presente di far germogliare codici e linguaggi comunicativi d’avanguardia estremamente efficaci.”

“E l’educazione alla corrispondenza, quindi?”

“Risulta meravigliosamente, con le dovute rivisitazioni, un ponte tra l’identità reale e quella virtuale che all’interno di un’esistenza iperconnessa in continua espansione comunicativa, a partire dai molteplici social network, si misceleranno sempre più probabilmente anche per l’ampliarsi dei diversi mondi digitali in sviluppo, come l’attualissimo Metaverso!”

Per tutto il tempo Guerino Marinaro, con una frequenza definita, aveva continuato ossessivamente a sbattere sul pavimento la punta delle scarpe, alternandole, come potrebbe fare un talentuoso giocatore di calcio in campo per togliere la terra o l’erba incastrata tra i tacchetti in un momento di stallo della partita prima di contribuire creativamente a cambiarne l’inerzia.

Quando il cicalino della capsula iniziò a emettere un suono

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stridulo con una frequenza e un volume in crescendo, Guendalina, sbloccato e alzato il coperchio, iniziò a chiamarlo delicatamente con voce soave, subito dopo avergli tolto il casco sensoriale mentre gli accarezzava i capelli con cura scoprendogli la fronte come era solita fare per rendergli più dolce il risveglio.

Il Professore si era raccomandato: “Tre quarti d’ora e non di più, per il momento”, tanto doveva durare la sua immersione.

Tolse con accuratezza anche tutti gli altri rilevatori presenti sul corpo, in particolare quelli più sofisticati sulle sue gambe bioniche, quindi vocalmente - azionando la tendapermise all’intensa luce rossa dei due tramonti di pervadere interamente la stanza.

“Bentornato, amore mio!”

Guerino la fissò per qualche secondo con uno sguardo tra lo spaventato e l’attonito, poi con il viso illuminato le sorrise dolcemente senza pronunciare parola.

“Dove sei stato?”

“Nel Sistema Solare, sulla Terra.”

“Precisamente?”

“In Italia, a Perugia.”

“Per cosa?”

“Un’audizione.”

“In che giorno?”

“21-10-2021.”

“Quindi non sei riuscito a risalire alla data palindroma del 22-02-2022, quella del portale?”

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“No, ma questa volta mi ci sono avvicinato molto, e comunque è una data che mi ha permesso di verificare l’importanza del doppio... e anche del femmineo!”

“In che senso? Com’è andata l’audizione?”

“Ci prenderanno sicuramente, ne sono certo. Ritengo che abbiano compreso che siamo in grado di sviluppare una riflessione notevole e potente lavorando sullo sviluppo futuribile della comunicazione e delle relazioni umane attraverso soprattutto l’attenzione al femminile.”

“Come ci sei riuscito? “

“Ho ballato e filosofeggiato.”

“Non ti smentisci mai, eh! Come ti sei sentito? “

“Libero! Il fiato ha retto e finalmente ero sudato, indossavo le scarpe da tangueros, quelle di coccodrillo, te le ricordi? Dovevi vedere come scivolavano via.”

“Stai migliorando nel controllo onirico?”

“Sensibilmente! Grazie alla respirazione pranayama nello stato meditativo più profondo il mio avatar vedico è sempre più concreto, percepisco i sensi pienamente e le emozioni sono vivide.”

“Dovremmo parlarne con il Maestro.”

“Sì, i suoi insegnamenti sono sempre più preziosi, lo stato di coscienza è pregnante, mi riconosco sempre di più in lui, in particolare nelle sue ossessioni, ma ancora meglio nella produzione del pensiero.”

“Dovremmo parlarne anche con il Professore.”

“Assolutamente, sembrerebbe che la sperimentazione

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cibernetica stia dando i frutti sperati, le gambe bioniche sono integrate meravigliosamente e potrebbero dare presto delle risposte ancora più sconvolgenti.”

“E l’intelligenza artificiale di supporto?”

“Sublime, l’algoritmo si arricchisce di memoria e di processi elaborativi più complessi a ogni nuova situazione vissuta, è incredibile come assimila i contenuti emotivi in ogni dettaglio.”

“Ma alla fine, in sostanza, cosa hai vissuto o provato?”

“Consapevolezza... con un forte senso di pienezza, ma sopra ogni altra cosa un’irresistibile e suadente sensazione di leggerezza!”

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Cuore capitale

Diviso tra lo stomaco e il cerebrale

Khunstalle esistenziale

Per sequenze emozionali sequenze emozio(sintesi)nali

Sintesi tra tesi antitesi è estasi

Tesi tra antitesi estasi è sintesi

Antitesi tra estasi sintesi è tesi

Estasi tra sintesi tesi è antitesi

Attrito sociale Divisione del tempo

Dati-info-accounts milioni

Sotto controllo stormo droni

Retromarcia verso il vuoto imitando la matematica del volo

“ PROTOCOLLO DI DISTANZA DISINSERITO!

PIATTAFORMA DI AUTOCONTROLLO DISATTIVATA!

PROTOCOLLO DI DISTANZA DISINSERITO!

PIATTAFORMA DI AUTOCONTROLLO DISATTIVATA!”

La fine dell’oggetto rivaluta il soggetto, eliminato e poi sostituito, in uno spot pubblicitario

Nessuna vita facile

In stanze digitali

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Sdraiati tutti in fila

Sopra i letti verticali

Umano arma letale Pericoloso liminale

Quando mi sveglierò da questo letto verticale!

Sopra i letti verticali!

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A volte mi sorprendo a camminare nel vuoto.

Altre mi ritrovo a muovere in maniera scomposta e urgente

braccia e gambe in un fluido nulla.

Galleggio in un incastro di dimensioni inconsistenti.

Eppure sorprendermi a camminare, nuotare, galleggiare nonostante tutto, nonostante il niente, mi riempie il cuore di gratitudine per me stessa per la mia vita per la vita.

Grazie a me. 2

Il crepitio della neve ghiacciata sotto il mio passo deciso.

Freddo. Freddo il viso.

Fredda l’aria ghiacciata nelle narici.

Prepotente arriva in gola, sa di nuovo, di pulito.

Colline bianche tutt’intorno,

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riflettono promesse di facili felicità.

Ne accarezzo i fianchi passo dopo passo

L’orgasmo cromatico del tramonto riempie il cielo e la terra di senso profondo, semplice.

Tanti altri esseri son passati da qui, vedo le loro tracce nitide, il loro nome non so.

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Perugia, martedì 25 agosto 2022

ARRIVO, e sono arrivata anch’io. Arrivata in un posto dove posso far cadere le maschere. Quelle che indossiamo tutti, per paura, vergogna, poca autenticità o poco coraggio.

Ho incontrato Nicola Castellini, a teatro, nel gruppo Human Beings, abbiamo subito riso, ho riso per la sua tosse particolare e la sua risata che ha contaminato il mio cuore.

Ho sentito una voglia di amare, di conoscere l’altro, senza capire tutto, ma accettandolo così come è. Ora non mi stupisce perché con il tempo ho iniziato a far parte della sua associazione Arrivo, che riflette il suo cuore, la sua immaginazione e ben di più: la sua anima.

Arrivo per me è gioia, arte, apertura, amore, senza giudicare, accetta tutto e tutti. Noi arriviamo, e come raramente si fa pienamente e profondamente, noi viviamo, e ci esprimiamo.

Persone che dipingono, persone che ballano, persone che leggono poesie, persone.

Sono arrivata in questa bella famiglia in un lungo momento di buio e di solitudine nella mia vita, e piano piano ho ricominciato ad aprirmi, a pensare che questa vita valesse la pena viverla, perché ho visto cuori, domande, speranze e messaggi di cuori diversi l’uno dall’altro.

Ma la cosa più bella che ho visto è la gente, gente che arriva su una strada, quella dell’espressione di sé, e che non ha ancora finito di arrivare, perché non si finisce mai di scoprirsi, sfogarsi, esprimersi, conoscere gli altri. Finché c’è vita c’è ancora strada, sicuramente lunga, ma finché c’è Arrivo c’è la via giusta, quella che ci porta a noi stessi e alla felicità con l’arte e con l’ascolto, insieme agli altri.

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Tutti insieme, eccoci qua, a far parte di questo gruppo, e consiglio con il cuore a tutti quelli che ancora cercano una via per evolversi mentalmente ed emozionalmente, di unirsi a noi, perché è bello, semplicemente bello, poter sperare insieme, cuori e menti uniti.

E forse ci arriveremo, alla meta che porta alla felicità.

Grazie Nicola, per tutto quello che mi hai portato, grazie per essermi stato di conforto quando tutti mi hanno voltato le spalle, quando tutti mi hanno giudicata, quando tutti hanno avuto paura del mio malessere. Tu, invece, lo hai preso nelle tue mani e mi hai guidata verso una strada per aiutarmi, salvarmi e farmi sentire un po’ come tutti: umana.

Sono fiera di essere la tua amica, fiera di averti conosciuto sul mio cammino di vita, e fiera di far parte di Arrivo.

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INDICE

Arrivo, secondo decennio - Nicola Castellini p.7

Relazione Laboratorio di scrittura creativa – Carlo Floris p.43

Foglio – Adriano Serafini p.47

Il Chiodo - Adriano Serafini p.53

Il muro - Adriano Serafini p.59

Incipit - Ernesto Rossi p.63

Festa di tesseramento – S.L. p.64

La Poesia – S.L. p.65

Poesie di Giulietta p.67

Pentolone – Laura Adriani p.70

Notes – Laura Adriani p.72

Nel sogno conosco chi sei – Nina Filippo p.74

Sei poesie – Nina Filippo p.77

Ferramenta – Fabio Sala p.81

Il braccio – Fabio Sala p.88

Ospedale 2 – Fabio Sala p.94

Incipit 2. Settembre 2014 – Fabio Sala p.97

Gramigna – Fabrizio Bellini p.103

La sora Lella – Nicola Castellini p.104

Destiny – Nicola Castellini p.105

La Terra – Nicola Castellini p.106

Il Ritorno - Tiziano Manni p.107

Letti verticali - Massimo Margaritelli p.120

Due poesie - Benedetta Rocchi p.122

Perugia - Maria Alda Scarcella p.124

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Il libro racconta la storia del secondo decennio dell’Associazione culturale Arrivo. Incontri, corsi, scritti di un’associazione culturalmente attiva da più di vent’anni nel territorio Umbro

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