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potere entro le rispettive sfere, spirituale e politica, è simmetricamente opposto e speculare, in quanto mentre la monarchia divina della Chiesa apostolica viene legittimata dalla sua rappresentanza divina in terra, la monarchia secolare degli Stati politici dipende a un tempo da Dio, in riferimento alla destinazione trascendente di ogni potere mondano, e dal popolo in riferimento al suo concreto esercizio. Con la conseguenza che mentre la vita interna alla Chiesa viene svincolata da ogni ingerenza interessata del Potere politico, riservando ad essa una autonomia di principio non revocabile umanamente, la vita storica degli Stati invece viene, tranne che per la provvidenziale funzione escatologica, consegnata alla tradizione politica classica e alla cultura filosofica pagana che la sostiene, giungendo a sostenere come migliore il governo misto.202 Le conseguenze di questa impostazione teologico-politica della questione del Potere per la civiltà occidentale sono enormi, in quanto legittimano all‟interno della cultura cristiana l‟autonomia della sfera politica, che diventa oggetto di considerazione naturalistica, cioè una tecnica di potere sociale del tutto emancipata da ogni vincolo di destinazione trascendente. Mettendo in mora la immensa prospettiva singolaristica dello spiritualismo evangelico, e riabilitando invece teologicamente la sociologia classica pagana, il pensiero cristiano tende sempre più storicamente a diventare religio, funzionale all‟equilibrio della pax populi, anziché al fine della salus animae. Tale religione, secolarizzata in termini civili, mantiene la funzione di collante sociale, attribuendo alla fonte consensuale () dell‟opinione pubblica () un ruolo sempre più politicamente dominante, a detrimento di quello indipendente del Governo, tradizionalmente monarchico. Quanto alla fonte popolare della legittimazione politica, essa produce quella astratta determinazione sociologico-giuridica dell‟ente sovrano (il Popolo) che va sostituendosi alla concreta esistenza storica delle
202 “Talis enim est optima politia, bene commista ex regno, in quantum unus praeest; et aristocratia, in quantum multi principantur secundum virtutem; et ex democratia, idest potestate populi, in quantum ex popularibus possunt eligi principes, et ad populum pertinet electio principum”: Tommaso d‟Aquino, Summa theologiae, I-II, q. 95, a. 1.
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aristocrazie sociali che costituivano il presupposto stesso della monarchia come regimen principis. Rispetto alla formazione storica di lungo periodo delle aristocrazie nobiliari, la fonte astratta della sovranità popolare determina a sua volta un astratto rapporto col Potere, che diviene sempre più impersonale e burocratico, legislativo e amministrativo, formale e irresponsabile appunto perché collettivo e indeterminato: ideale. Il processo di idealizzazione della fonte della sua legittimità crea a sua volta un Potere ideale, universale, e come tale per principio totalitario. La tesi secondo cui il Potere politico non sarebbe totalitario fino a quando riconosce il Potere spirituale come suo limite, è del tutto sofistica, in quanto la totalità, sia essa spirituale che politica, inerisce a sfere diverse, e quindi, come le plurime categorie ideali, ognuna universale iuxta propria principia. Ed è la teoria tomista delle due sfere indipendenti, confermativa di quella antropologica agostiniana, a creare questo presupposto dis-organico, che costituirà il paradigma gnoseologico dello scientismo moderno, molto più dissolutorio del razionalismo antico, in quanto l‟unità ideale viene ricercata all‟interno di un ordinamento cosmico di natura fisica, anche se creato da Dio, che diventa la meta finale di ciò che il naturalismo greco poneva come premessa. Sicché, mentre la certezza naturalistica antica poneva Dio come mistero, la ricerca naturalistica moderna pone come mistero la Natura, facendo del Creatore un‟ipotesi indimostrabile e gratuitamente fideistica, comunque distaccata da quella ricerca e inutile ai fini del suo esito. E dunque, così come Dio parlerà il linguaggio della Natura creata, anche il Potere regale parlerà il linguaggio formale dei suoi anonimi creatori, tale che Dio sarà concepito come l‟Unità del Molteplice, e il Potere politico come l‟unità delle forze sociali antagonistiche. Unità che non è Governo sintetico ma è astratta reducio ad unum idealistica del Molteplice reale, priva affatto delle sue concrete determinazioni, che per gli uomini sono esistenziali e non meramente naturali. In un quadro di progressiva riabilitazione umanistica del razionalismo classico a detrimento della forma neo-mitica cristiana, il sapere moderno acquista sempre più la sua legittimazione epistemologica dal grado di emancipazione che stabilisce con i pregiudizi teologici, per cui, giusta la separatezza delle rispettive sfere cognitive, la conoscenza scientifica della realtà diventa il metodo gnoseologico pertinente alla dimensione di vita naturalistica dello 80
L‟inserzione della filosofia nell‟orizzonte teo-logico cristiano, provoca col tempo la stessa tensione universalizzante che nell‟antichità fece implodere il cosmo religioso tradizionale a opera del razionalismo socratico-platonico, riproponendone, mutatis mutandis, lo stesso processo di de-mitizzazione. Con la differenza importante che, distinta l‟etica sociale dalla morale individuale, si fece coincidere la prima con la ragion di Stato, e la seconda con una mera petizione di principio di valore individuale e non afferente agli affari politici. La questione dirimente, che si credeva erroneamente quella della fonte ideale del Potere, che è divina, è risultata essere invece quella della sua origine genetica, per cui attribuirlo a Dio ma facendolo esercitare in Suo nome dal popolo, equivale fare di questo il depositario simbolico della volontà di Dio, sostituendo appunto la volontà del Potere alle sue ragioni, pervenendo alla sovversione del suo principio razionalistico. Come più volte asserito, tale conversione della tesi ideale nella sua concreta antitesi reale è l‟esito di ogni astratto razionalismo, che, distinguendo la concreta realtà in divenire in astratte opposte polarità dialettiche, affermando una ne afferma anche l‟altra opposta, idealmente negata ma concretamente immanente come l‟antitesi alla tesi. A questo proposito sarà interessante esaminare le tesi propugnate in compendio da Tommaso nel suo trattatello d‟occasione sulla politica dei principi cristiani, rimasto incompiuto per la morte del destinatario ma comunque significativo delle posizioni esplicitamente classiche del più grande teologo della cristianità. L‟impianto argomentativo della teoria tomistica della società e del governo politico è chiaramente naturalistico e di modello aristotelico. L‟uomo, sostiene infatti Tommaso, essendo intelligente in quanto provvisto “per natura di un lume di ragione naturale”, agisce per un fine, ma in modi diversi, per cui gli necessita una guida, “qualcuno che lo diriga verso il suo fine”. Diversamente sarebbe se “l‟uomo vivesse da solo….re a se stesso sotto l‟autorità di Dio sommo Re, perché attraverso il lume della ragione datogli da Dio dirigerebbe se stesso nelle sue azioni. Invece l‟uomo di sua natura è un animale sociale e politico fatto per vivere insieme agli altri” in quanto deve provvedere alla sua sussistenza “con l‟opera delle sue mani. Ma a far questo un solo uomo non basta”, per cui “agli uomini è necessario vivere in società in modo che l‟uno sia aiutato dall‟altro e ognuno con la ragione si occupi di cose diverse”, come è comprovato da “l‟uso della parola, per mezzo del quale ciascuno può esprimere completamente il 81
suo pensiero agli altri”. Il bisogno del governo nasce dalla opportunità di organizzare l‟amministrazione della produzione dei beni ai quali ogni uomo provvede per sé secondo il suo giudizio. “Se ognuno provvedesse soltanto a ciò che gli serve, il popolo si frantumerebbe nei suoi componenti, qualora non ci fosse qualcuno che si occupasse anche del bene comune”, sicché “una società sarà tanto più perfetta quanto più sarà di per sé sufficiente alle necessità della vita”. Questo qualcuno è “il re”, cioè “colui che regge per il bene comune il popolo di una città o di una provincia”.203 Ciò che colpisce a posteriori di queste tesi è la pedissequa ripresa dei fondamenti naturalistici della sociologia antica, senza minimamente dubitare della loro inadeguatezza in riferimento all‟antropologia cristiana. Soprattutto in merito alle ragioni della socialità, Tommaso avvalora la tesi, in sé contraddittoria, della sovranità personale dell‟uomo e della congiunta necessità di condividerla per motivi utilitaristici legati alla sua imperfetta costituzione naturale. Se infatti la perfezione biologica dell‟uomo dipende dalla sua natura sociale, il governo politico diventa a fortiori il motivo più significativo della speculazione razionale, il tema teoretico ‟ per cui quella stessa condizione viene assunta come in trascendibile, facendo pertanto della una variante religiosa del modello originario di società umana. L‟idea di Chiesa istituzionale si conforma a questo modello socialitario di convivenza, di natura politica. Rispetto al modello agostiniano di società, quello tomista acquisisce la condizione sociale dell‟uomo come di fondamento naturale, ossia condizione necessaria e imprescindibile, non meramente storica ed empirica, per cui ogni ulteriore intervento umano, anche in senso spirituale, deve potersi adattare a tale condizione di base. E se dunque il consorzio socio-politico è naturalmente necessario, esso è voluto imprescindibilmente da Dio, né vale opporglisi, ricercando l‟uomo di fede solo il riconoscimento da parte del Potere della potestà sovrana celeste e la conseguente disposizione del governo politico a perseguire i fini soteriologici coi quali va identificato lo stesso bene sociale comune. In tal modo, la somma potestà divina diventa confermativa della condizione storica del Potere, facendo di questo un “dato” naturalistico
203 Tommaso d‟Aquino, De Regimine Principum (1267 ca.), I, tr. it. di R. Tamburrini, Siena, 1997, pagg. 14-19.
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oggettivo di fronte al quale recedere o comunque conformarsi. Si comprende dunque come la “anomia” sociale acquisisca per Tommaso un significato precipuamente politico, originario rispetto a ogni valutazione teologica, la quale non potrebbe che confermarlo se non volesse opporsi assurdamente all‟ordine naturale. Ed ecco che la “follia” cristiana si arresta all‟evidenza della realtà naturale della condizione politica, rinnegando in nome del suo realismo storico l‟invito di Gesù a seguirlo in fede della charitas avendo reciso ogni altro legame sociale, politico come familiare. Proprio la rescissione di ogni legame naturale rendeva quello spirituale un legame impolitico, diverso da quello politico e di sangue. E nel passaggio () dalla condizione naturale, politica e familiare, a quella spirituale, ecclesiale e caritativa, veniva a realizzarsi esistenzialmente la interna della conversione nella fede cristiana. Orbene, nella prospettiva tomistica viene eliminata la soluzione di continuità, a favore di una concezione gerarchica del Potere che parte da Dio, si esprime nel popolo e converge nel sovrano, stabilendo tra il vertice divino e la base molteplice degli uomini una corrispondenza speculare ricalcata sull‟idealismo platonico, sia pure adattato alla lettura naturalistica aristotelica. La ricerca dell‟ottimo regime diventa un succedaneo logico alla premessa socio-antropologica, e verte sul fine della conservazione della società stessa, indicato come “la pace”, senza la quale “finisce l‟utilità della vita sociale, perché la moltitudine in disaccordo è gravosa a se stessa”. La pace, a sua volta, indica nella vita sociale ciò che costituisce il fine del ragionamento, ossia “l‟unità” in cui si comprende sia il popolo che il discorso e che Tommaso, citando Paolo, equipara analogicamente a “l‟unità dello spirito nel vincolo della pace” (Efes. IV, 3).204 Stabilita l‟analogia tra la società profana e quella sacra, si comprende anche l‟origine comune della loro destinazione dialettica, consistente nella stessa condizione naturale, che diventa il fondamento ontologico sul quale costruire il cosmo teo-logico cattolico. La persistenza entro lo stesso orizzonte ontologico ha determinato un cambiamento di livello di coscienza, ossia una variazione di “modelli” razionali (o “caselle concettuali” o “paradigmi”), nel senso di Kuhn, i
204 Ivi, pag. 19.
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quali danno alle Weltanschauungen “la massima coerenza interna e la più stretta aderenza alla natura”, fornendo “i requisiti indispensabili per una scienza normale”,205 ma nondimeno interna a uno stesso orizzonte di coscienza, definito dall‟onto-logia greca, generatrice di .In riferimento allo stesso comune orizzonte ontologico, ogni variazione di modello scientifico costituisce non già un passaggio di orizzonte () ma una digressione rielaborativa (), che prende ad oggetto di analisi le forme strutturali del , i “paradigmi” appunto, ma non i fondamenti di credenza () che li sostengono. Per cui la filosofia rielabora i contenuti del Mito, ma non fuoriesce dai suoi fondamenti epistemici, che nel caso greco sono naturalistici. La cura () teoretica della coerenza strutturale dei , propria del filosofare, non inerisce soltanto al controllo epistemologico, ma anche al governo della struttura. Ed è esattamente questo aspetto congiunto di controllo e di governo delle forme teoriche della conoscenza della realtà a determinare quella fermata, quel contenimento di salvaguardia delle forme ideali che costituisce il senso metafisico della conservazione delle forme politico-istituzionali espressa nell‟idea paolina di . Da qui il rapporto strettissimo tra la intesa come conoscenza scientifica, e il suo connesso senso politico di obbedienza all‟autorità costituita. Non si dà pertanto Potere senza Conoscenza. Il sapere che è potere, nel senso di Bacone, non è dunque una scoperta moderna, ma è il senso stesso del processo teoretico del sapere greco come tecnica () a un tempo dialettica e politica. Orbene, rispetto a questo orizzonte di coscienza pagano, la visione della realtà predicata da Gesù di Nazareth rappresenta non già un cambiamento di paradigma ma una vera e propria ontologica, la cui consapevolezza metafisica mancò però del tutto alla cultura cristiana medievale, compresa quella espressa sommamente dalla teologia di S. Tommaso. “La divina provvidenza”, afferma Tommaso, “dispone ogni cosa nel modo migliore”, provenendo il bene “da un‟unica causa”, che lo rende
205 Th. S. Kuhn, The Structure oi Scientific Revolution, tr. it. cit., pagg. 21 e 30. Il corsivo è nostro.
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“più forte”, laddove “il male invece sorge distintamente da difetti particolari”, ossia da “più cause”, che lo rendono perciò “più debole” del bene. In campo politico, parimenti, considerato che “un governo è tanto più ingiusto quanto più si allontana dal bene comune”, “è bene dunque che un regime, se giusto, sia monarchico, affinché sia più forte. Se invece tende all‟ingiustizia, è meglio che sia di molti, affinché sia più debole e i molti si ostacolino a vicenda. Fra i governi ingiusti dunque il più tollerabile è la „democrazia‟, il peggiore la tirannide”.206 Per “bene comune” o “giustizia” Tommaso intende la sussistenza della società, ovvero gli interessi della moltitudine, del popolo, mentre per “ingiustizia” e “bene privato” intende l‟interesse dei governanti.207 E dunque quello di bene comune è un concetto empirico, che può essere verificato solo in itinere durante il governo concreto della società. Se ciò è vero, la determinazione astratta del miglior governo è impossibile, essendo il giudizio in merito al suo esercizio sempre e solo possibile a posteriori. Di conseguenza, basterà che la moltitudine, cioè i destinatari del “bene comune”, approvino un regime politico perché esso sia anche giusto. Ma questa auto-referenzialità etica della vita politica è esattamente quella condizione doxastica stigmatizzata dal razionalismo etico di matrice socratica. Perché il giudizio sul miglior regime politico abbia una sua validità razionale, esso deve emanciparsi dall‟opinione degli stessi beneficiari e affidarsi a un criterio di validità oggettiva che per i filosofi Greci era appunto logico-razionale, e per Tommaso è “il diritto”,208 ossia la volontà diretta al bene comune, indicato come “governo utile” o tendente alla “unità”,209 che consiste finalmente nella “pace che è il bene principale della comunità civile”.210 Ma, l‟utile può coincidere con l‟etico se il principio razionale (ideale) lo si fa coincidere con il criterio generale (opinione), e l‟universalità con la
206 Tommaso d‟Aquino, De Regimine Principum, Libro I, cap. 3, tr. it. cit., pagg. 22-23. 207 Ivi, pag. 22. 208 Ivi, Libro, I, pag. 23. 209 Ivi, Libro I, pag. 22. 210 Ivi, Libro I, cap. 5, pag. 28.
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società stessa. In tal caso le ragioni immanenti all‟azione del Governo giusto sono coincidenti con la funzionalità stessa della sua capacità politica, e viceversa. Proprio, però, questa convertibilità dell‟azione politica con l‟azione di governo, rende la prima etica e la seconda politica. Sicché nel momento in cui i due principi si convertono reciprocamente, ecco che diventa opinabile il principio etico, e di valore etico ogni condivisa volontà politica. Questo è esattamente il principio democratico, che significativamente viene indicato, anticipando di sette secoli un noto detto di W. Churchill, come “il migliore regime tra i peggiori”, ossia, considerando la natura umana, il più sostenibile. Tenuto conto di quanto affermato circa il regime monarchico, ecco che con tale teoria tomista ritroviamo in nuce quella del sistema misto, che consegna alla monarchia la salvaguardia del principio unitario del bene comune, e alla democrazia il consenso popolare indispensabile alla legittimazione politica della giustezza etica del governo. Tommaso non si avvede che affidando al consenso sociale la determinazione del giudizio etico, si abbandona la funzione di Governo alla prassi politica “utile” di salvaguardare la coesione del gruppo sociale, che diventa perciò il fine stesso dell‟azione di Governo, identificandola perciò con la stessa volontà di potenza dello Stato, ossia col Potere. Divenuta l‟azione di Governo identica all‟esercizio del Potere, bastava de-mitizzare il concetto di “bene comune” per emancipare la politica da ogni indirizzo morale, esautorando di conseguenza il ruolo della Chiesa di custode religiosa dei principi morali per avere lo Stato assolutistico moderno. Ed è infatti quanto è avvenuto in Europa con la “scienza politica” del Machiavelli e con lo Stato teorizzato da Hobbes. Ma tale sviluppo era potenzialmente già nella dottrina politica di Tommaso, nella sua teologia del Potere.. Affrontato dal punto di vista del “male”, il regime politico pluralistico è per Tommaso più soggetto a discordia rispetto al regime monarchico, e “dunque bisogna fuggire di più i pericoli che provengono dal governo di più uomini piuttosto che dalla monarchia”. Infatti, la discordia tra molti genera la prevalenza di uno sugli altri con conseguente usurpazione del dominio sulla società, per cui, come dimostra la storia, “quasi tutte le democrazie sono finite in tirannide, come appare manifesto nella repubblica romana”. E poiché il male maggiore è la tirannide, e questa si ingenera più spesso dalle democrazie che dalle monarchie, “ne consegue che è preferibile vivere sotto il governo di un solo re piuttosto 86
che sotto il governo di più uomini”.211 Se a parte boni il miglior governo appare quello democratico ché evita la concentrazione tirannica del Potere, a parte mali sembra che il regime migliore sia quello monarchico. Ma anche in questo caso l‟apparente preferenza tomista alla monarchia, va sempre rapportata alla fonte della legittimazione del Potere. Infatti, chi è preposto a scegliere a preferenza il regime migliore? Il popolo, e dunque in ogni caso la sua volontà, è determinante, anche se si ammette che “niente sembra più fragile della gloria e dell‟onore nella considerazione degli uomini; poiché essi dipendono dalle opinioni degli uomini, di cui nulla è più mutevole nella vita”.212 Ciò nonostante, nessun regno “si può conservare a lungo [se] è in contrasto con i desideri dei molti”.213 Stabilita la corrispondenza speculare tra ordine ideale-divino e ordine reale-politico, era inevitabile che la vox populi desse fiato alla vox Dei. Ma la voce divina del popolo restava comunque quella di un ente collettivo e impersonale, che soltanto l‟esperienza politica del Potere rendeva reale. E questa condizione di dipendenza da Cesare era esattamente ciò che doveva essere distinto e separato da ciò che spettava a Dio, che era l‟esperienza spirituale di ogni singolo uomo. Invece ancora in Tommaso ritroviamo l‟antico ente collettivo politico, senza il contraltare morale della coscienza personale, per cui la dimensione politica diventava anche in lui, come per i prediletti filosofi greci, il luogo ‟ della realtà umana e dunque anche umanamente divina. La stessa funzione regale di “ricercare il bene della comunità”,214 è un fine impersonale, diretto a conseguire risultati generali non commensurabili con gli aspetti esistenziali dei singoli destinatari, che non sono di spettanza della politica. E dunque, se i singoli possono resistere alla iniqua politica di un Potere tirannico, la loro disposizione d‟animo va considerata relativamente alla loro vita sociale e collettiva di popolo. E‟ il popolo che può soffrire politicamente la tirannide, ma non è la coscienza singolare che può essere moralmente indulgente
211 Ivi, Libro I, cap. 5, pagg. 28-29. 212 Ivi, Libro I, cap. 7, pag. 35. 213 Ivi, Libro I, cap. 10, pag. 48. 214 Ivi, Libro I, cap. 7, pag. 34.
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verso un Potere iniquo, perché questa deve rispondere a Dio e non a Cesare. Pertanto, se la voce di Dio risuona politicamente nel Governo della città, essa stessa risuona moralmente nelle singole coscienze con accenti ben diversi. Sono due linguaggi, quello del Potere e quello morale, che per un cristiano non vanno confusi, come avveniva per la sapienza antica. E poiché l‟etica antica era comunque una ragione politica, la differenza rispetto ad essa della morale cristiana risiedeva nella diversità della considerazione coscienziale rispetto a quella relativa alla vita sociale del gruppo. Se dunque nella considerazione morale entrasse la valutazione politica, il dominio di Cesare si estenderebbe anche alla coscienza, prendendo il suo Potere anche il posto spettante a Dio. Il tributo a Cesare è di natura politica, laddove il tributo a Dio è il dovere di coscienza. La doppia lettura della storia poteva condurre al conflitto solo se le due regalità, politica e divina, insistessero sullo stesso dominio. Ma la dicotomia dialettica nemicus –hostis poteva insorgere se e solo se la ekklesia e la polis fossero sovrapponibili nello stesso concetto di realtà. Gesù, però, non predicava questo, anzi rifuggiva scientemente da ogni tentativo zelotico di portare la diatriba esistenziale sul piano dei rapporti politici. Questo errore fu invece commesso dalla Chiesa cattolico-romana, concepita come l‟unità mistica del corpo sociale, ossia dell‟entità collettiva del popolo dei credenti, la cui realtà storica era inevitabilmente istituzionale, ossia a sua volta politico-giuridico-amministrativa, e come tale concorrente a quella dichiaratamente ed esclusivamente politica dello Stato. Da qui la confusione deleteria tra la persona morale e quella istituzionale, che poteva riguardare la realtà fisica dei corpi, ma non poteva inerire giammai alla dimensione spirituale, nella quale non c‟è propriamente collettività ma appunto solo singolarità. La differenza tra le due dimensioni risiede nella impossibilità di cogliere l‟Unità spirituale, in cui consiste la verità della fede in Dio, nella Molteplicità politica, ossia nello Stato, che può conseguire soltanto l‟effimera unità politica, la gloria terrena, che il principe consapevole deve conseguire e insieme disprezzare in nome della vera virtù. Infatti la ricerca della gloria terrena porta alla “ipocrisia”, alla finzione e falsità della simulazione di “quelli che fanno le buone opere
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per essere visti dagli uomini”.215 E‟ la condizione stessa della finitezza a generare le contraddizioni, e con esse l‟anelito al loro superamento, la ricerca di quell‟armonica unità del molteplice che la sapienza antica ha creduto di poter ottenere con l‟uso metodico della ragione, ossia con la filosofia. Lo Stato virtuoso e l‟ottimo vivere sociale consisteva appunto nella realizzazione di questo anelito unitario sul piano dei rapporti sociali, ossia sul terreno della vita politica. Orbene, la ricerca dello Stato ideale per la cultura antica è il compito della virtù applicata alla ragione, ma cristianamente essa è un miraggio dettato dalla stoltizia umana, fidente nella possibilità di convertire l‟essere molteplice in essere unitario, facendo del kaos un kosmos razionale, coerentemente strutturato a immagine del modello ideale eterno. Ma il riscontro stesso delle contraddizioni reali che la ragione incontra nel mondo molteplice sono il segno visibile della natura propria al Molteplice, la sua finitezza ontologica, che alcuna theoria potrà convertire in armonia esistenziale. La “verità” del Cristianesimo è nella consapevolezza della impossibilità del percorso filosofico nel tentativo di conseguire l‟Unità dell‟Essere in termini politici, consoni a quelli previsti dal metodo della ragione. E quella Verità nasce e può affermarsi solo nella consapevolezza del fallimento della filosofia, ossia nell‟incongruità del metodo razionalistico di trans-formare la realtà finita in realtà specchio dell‟eterno. Pertanto, aver cercato da parte cristiana di utilizzare il metodo razionale, concepito per la fruibilità politica, come strumento della salvezza spirituale, è stato equivalente a rapportare il piano trascendente della fede escatologica su quello immanente della socialità, entrando in questo modo in concorrenza con la virtù politica creando i prodromi del messianismo ideologico delle utopie sociali. Un Cristianesimo come perfezionata ideologia messianica è stata la prospettiva etico-politica di Costantino, il Cesare convertito. Ma Gesù non predicava la conversione di Cesare, perché non pensava a una fede come a una religione di Stato, e neppure a uno Stato religioso. Quelli c‟erano già. La idolatria romana dell‟Imperium e la religione messianica degli Ebrei. Non bastando al re consapevole dei suoi compiti di governo “l‟onore mondano e la gloria umana”, egli ha da attenderlo da Dio, quale Suo
215 Ivi, Libro I, cap. 7, pagg. 35-36.
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“ministro”, secondo il libro della Sapienza, provenendo, secondo l‟Apostolo, “ogni potere da Dio” (Rm, XIII, 1).216 La felicità, secondo Tommaso, consiste per l‟uomo nel “raggiungere ciò che maggiormente desidera”. Per un re il desiderio massimo è nel “ben governare i sudditi”, il cui premio che lo rende felice è la “beatitudine”, che è “bene perfetto” in quanto comprendente tutto ciò che è possibile desiderare, e che non può essere un bene terreno,”poiché nessuna cosa terrena”, [non essendo “permanente”] può quietare il desiderio” e dunque “può rendere beati, al punto di poter essere una ricompensa adeguata per il re”. E mentre nessuna cosa terrena può pervenire a perfezione in quanto variabile per qualità, lo può l‟anima umana, il cui stadio finale è appunto la beatitudine, “il bene completo al quale tutti desiderano pervenire”.217 Poiché il desiderio “tende al proprio principio dal quale è causato il suo essere”, il desiderio dell‟anima non può che essere Dio, che l‟ha creata e dunque ne è la sua causa, presso la quale si trova inoltre il “bene universale”, che l‟uomo conosce “per mezzo dell‟intelletto, e lo desidera per mezzo della volontà”. Conseguire tale sommo bene per aderire a Dio resta compito precipuo del re, la cui salvezza eterna salverà anche i suoi sudditi “portandoli alla parità con gli angeli”.218 Pertanto, secondo Tommaso, è possibile per ispirazione divina non solo raggiungere la beatitudine ma, attraverso il buon governo, farla conseguire universalmente al popolo, rendendo così potenzialmente la politica virtuosa una tecnica soteriologica. Se l‟obiettivo della beatitudine universale è conseguibile dai re, figuriamoci come sia ancor più possibile ai Papi, la cui ispirazione divina non è un obiettivo morale di buon governo ma la premessa stessa della loro azione pastorale. E dunque in questo scritto protrettico si nasconde una indiretta apologia del governo papale, predisposto alla guida della Chiesa, simbolo della città celeste. La confusione traspare chiaramente allorquando si afferma che “il bene della comunità è più grande e più divino del bene di uno solo”,219
216 Ivi, Libro I, cap. 8, pag. 38. 217 Ivi, Libro I, cap. 8, pag. 40. 218 Ivi, Libro I, cap. 8, pag. 41. 219 Ivi, Libro I, cap. 9, pag. 43.
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facendo così della “pace di tutta la comunità”, e non già della salvezza comune, il fine del Governo regale. Ma questa prevalenza del bene collettivo sul male individuale fu appunto la logica che condusse al martirio di Gesù in nome dell‟interesse politico dell‟Impero e della pace sociale in Galilea. L‟errore morale consiste nel metterli sullo stesso piano di valutazione, che è poi quello politico. Infatti, per salvaguardare la pace sociale è giustificabile anche un massacro collettivo perpetrato in nome dell‟interesse superiore generale. Resta però che il male, in quanto tale, è sempre giustificabile con un bene maggiore dello stesso genere, ma non è riscattabile con un fine eterogeneo, per cui il principio machiavelliano del fine che giustifica i mezzi, è ammissibile solo nell‟ambito della stessa natura comune. Ma non può la morte di un innocente (Gesù) essere strumento della vita collettiva. La morte politica del singolo può ammettersi solo se la sentenza di condanna riguarda il soggetto al regno politico e viene assunta in termini omogeneamente politici, per cui non può giustificarsi politicamente un reato religioso, se non appunto considerare la religione un affare di Stato. La vertenza tra Pilato e il Sinedrio verte esattamente sulla qualità del reato e quindi del tribunale competente a comminare la pena. Che l‟appello derimente al popolo non abbia condotto a una risoluzione divinamente ispirata, non è luogo qui di precisare, ma semmai conferma solo la pericolosità di una tale supposta coincidenza. Sicché, affermare che sia Dio a permettere che “vi siano dei mali” allo scopo di far “derivare [da essi] dei beni per l‟utilità e la bellezza dell‟universo”,220 non è solo blasfemo ma profondamente errato, in quanto la sequenza delle cause maligne e degli effetti benigni interessa due ordini di valori del tutto diversi, come quello naturale, che riguarda le conseguenze effettuali di cause fisiche, e quello morale, inerente alla situazione esistenziale dell‟uomo quale singolarità spirituale. Per cui asserire che “Dio permette che i tiranni governino per punire i peccati dei sudditi”,221 equivale ad associare la “ira di Dio” a moventi immanenti all‟agire umano, di carattere politico, facendoLo intervenire su ciò che è pertinenza di Cesare.
220 Ivi, Libro I, cap. 9, pag. 44. 221 Ivi, Libro I, cap. 10, pag. 50.
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Da tale confusione dottrinale si è potuta stabilire una falsa correlazione tra il noto terremoto di Lisbona del 1755 con la supposta giustizia divina. Ma Dio Padre non può presiedere né ai fenomeni tellurici né tantomeno al Governo degli Stati, e per la semplice ragione che ogni evento in sé considerato non è giudicabile che per i suoi effetti umani, che variano quanto la diversa considerazione del loro legame di senso. Per questa elementare ma essenziale ragione, può sussistere solo una storia spirituale per ogni uomo, e infinite sequenze fenomeniche per le vicende collettive, relative ai loro legami di senso. E dunque la Storia in senso storicistico è solo una proiezione idealistica di una fenomenologia naturalistica astratta dalla sua concreta effettualità molteplice e trasformata in unitaria sequenza spirituale. Ma i processi collettivi non sono mai unitari, unitario è il solo percorso trascelto tra i possibili. Se la scelta avviene attraverso lo strumento della ragione, ogni conoscenza della realtà diventa razionale, e la stessa realtà, in quanto oggetto di ragione, viene considerata in sé razionale. Ma razionale è il metodo, per cui filosofico o scientifico non è l‟Essere in sé quale prodotto della creazione, ma appunto l‟essere razionale. Mutando il metodo, ossia il criterio della conoscenza, muta anche l‟essenza dell‟oggetto metodicamente conosciuto. Ora, esattamente in questo passaggio () consiste la “rivoluzione” spirituale cristiana, ossia nell‟inserzione di un altro modo di conoscere la realtà rispetto a quello razionalistico, in virtù del quale l‟altro non è il potenziale amico-nemico della logica politica, ma il prossimo, con cui solidarizzare come la coscienza fa con la propria esperienza di sé. E‟ ovvio che questa prospettiva impolitica richiedesse una spirituale che implicasse una nuova visione, non solo dei rapporti inter-personali, ma della intera realtà, fino ad allora culturalmente strutturata secondo le coordinate del cosmo pagano, tale che non fosse uno sviluppo perfezionato delle teorie cosmologiche pregresse, ma una nuova fondazione dell‟Essere. Durante l‟intervallo () della transizione verso il futuro rinascimento dell‟Uomo a immagine del Nuovo Adamo, la vita organizzata secondo il sapere tradizionale andava consegnata a Cesare, mentre la vita rifondata secondo la fede spirituale andava dedicata a Dio. se la vita umana organizzata da Cesare era lo Stato, e la nuova esistenza spirituale doveva essere costruita nella Chiesa, le due comunità, politica e rispettivamente spirituale, non potevano adottare gli stessi criteri di convivenza, ma criteri diversi 92
quanto lo sono la politica e la carità. Adottare, di contro, il sapere che presiedeva alla logica politica, equivaleva a introdurre la ragione di Cesare nella città di Dio, nella Chiesa, facendo di questa una entità rivale a quella statuale, in contesa sullo stesso terreno di rivalsa. Persino l‟accenno alla continuità con le credenze pagane nella deificazione dei sovrani,222 dichiara esplicitamente la derivazione mitica del premio celeste agli eroi.223 La differenza poteva discriminarsi solo attraverso la diversa considerazione dell‟esperienza umana nei rispettivi contesti esistenziali. Infatti, nella realtà politica, il valore dell‟uomo è commisurato a ciò che lo rende funzionale alla vita collettiva. Diversamente, nella Chiesa di Cristo il singolo uomo, in quanto immagine di Dio, è un valore assoluto in se stesso, considerabile alla stregua di un mondo inconfondibile e unico. Ed è questa caratteristica ontologica a fare dell‟uomo una creatura divina in rapporto col suo Creatore, oltre che con gli enti della realtà fisico-naturale, anzitutto con quelli politici ed economici della natura sociale. Tra il cosmo pagano, che è una struttura razionale, e il mondo spirituale, che è una esperienza esistenziale, passa la stessa differenza tra la conoscenza dialettica degli astratti nessi concettuali e quella simbolica delle cifre mnestiche della concreta esistenza. La funzione della politica interviene, a partire da Platone, nel momento in cui dalla contemplazione individuale dell‟Essere ideale si intenda passare alla fattiva corrispondenza della sua perfetta armonia nel mondo reale, appunto attraverso gli strumenti della politica, la quale diventa il braccio secolare della Ragione, del Logos. Il compito razionale della
222 Ivi, Libro I, cap. 9, pag. 46. 223 Interessante notare a proposito che, a fronte dello scopo utilitario del buon governo del principe, il suo personale interesse a non tralignare dal percorso virtuoso e diventare tiranno deriva, come detto, dal premio celeste eterno, che “sarebbe sciocco perdere per dei beni così meschini e soggetti all‟usura del tempo” come quelli mondani, ma anche “dall‟amore di amicizia che unisce gli uomini virtuosi e conserva e promuove la virtù”. La tirannide non dura a lungo, poiché non ha l‟appoggio popolare e il solo timore “è un debole fondamento” del potere, potendo spingere i sudditi alla disperazione, e “la disperazione della salvezza poi spinge a tentare audacemente qualunque cosa”: Ivi, Libro I, cap. 10, pagg. 46-47 e 49.
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politica è quello di rendere attuale la possibilità insita nell‟Essere. per rendere attuale la possibilità, la politica deve intervenire fattivamente ad escludere ogni altra possibilità diversa da quella razionale. Ciò vuol dire che la politica agisce nel senso di dare armonia razionale al caos. La legittimazione morale inerente alla funzione politica dipende strettamente dalla fede che tra le tante possibilità insite nell‟Essere quella razionale sia l‟unica veramente soddisfacente per l‟esistenza umana. Infatti, che la possibilità razionale sia quella “vera” è un atto di fede, una credenza metafisica, che col tempo si è rivelata priva di fondamenti epistemici. Ma, nonostante la demitizzazione della credenza razionalistica della filosofia idealistica, operata già a partire dalla predicazione cristiana, la politica continua a costituire lo strumento valido per la soluzione della convivenza umana, e quindi a godere di una credibilità tecnica che la sua legittimazione razionale ha teoreticamente perduto. Occorre comprendere le ragioni di tale persistenza. Le conseguenze che ne derivano sono la progressiva dissociazione () del sapere teoretico dalla prassi politica, e il conseguente predominio dell‟aspetto tecnico della politica, l‟economia, finalizzato alla esclusiva volontà di potenza del Potere, cioè alla sola sussistenza del gruppo sociale, dovuto alla stessa perdita della politica di ogni intrinseco finalismo escatologico. Circa le ragioni della persistenza della logica politica nella soluzione delle questioni umane, non ci si può esimere dal considerare le responsabilità avute dalla teologia cristiana nell‟elaborare una Weltanschauung in cui la politica in senso razionalistico-pagano rientrava a pieno titolo nell‟ambito di una confermata concezione della storia come dinamica di soggetti collettivi, che l‟assumeva come strumento della stessa volontà divina. Ma assegnare alla politica una funzione strumentale al disegno provvidenziale non poteva non implicare anche la sua legittimazione teoretica in ambito spiritualistico, ossia l‟accreditamento cristiano della fede pagana nel Logos, che diventa addirittura l‟espressione terrena del Cristo, la forma concettuale dell‟incarnazione divina. Non è difficile intendere che, diventato un Mito religioso, il cristianesimo sia stato oggetto di demitizzazione razionalistica da parte dello stesso metodo logico adottato per giustificare teoreticamente la fede nella Rivelazione. Né tampoco è difficile comprendere come l‟intera teo-logia cristiana risulti, retrospettivamente agli occhi del 94
credente consapevole, una imponente quanto incessante rielaborazione () della credenza greca nella verità del Logos, ossia del Mito cosmologico razionalistico della civiltà naturalistica pagana. E infatti Tomaso afferma che la natura sia il modello dell‟arte, e dalle cose naturali “impariamo ad agire secondo ragione”, sicché “s‟impone come la miglior cosa desumere il compito del re dalla forma del governo esistente nella natura”, il cui governo “universale” viene inteso come lo stesso “governo di Dio”.224 Inoltre, a conferma della specularità tra il “governo divino” universale in senso idealistico e il governo particolare dell‟uomo, micro-cosmo dell‟universo, Tommaso stabilisce una relazione tra la volontà di Dio, “che con la sua provvidenza governa ogni cosa”, e “la ragione” la quale, egli afferma, “è presente nell‟uomo, come Dio è nel mondo”,225 dove è palese la corrispondenza tra il cosmo razionale del Logos naturalistico pagano e la Provvidenza divina in senso cristiano. La preoccupazione teologica di assumere entro il finalismo escatologico cristiano la tradizione della sapienza greca non consente di considerare il carattere più essenziale della predicazione cristiana, che è la diversità del fondamento spirituale dell‟esperienza singolare e individuale dell‟uomo, che trovava in Dio il suo referente normativo, rispetto al fondamento razionalistico della sua esperienza collettiva e sociale, che quel referente lo trovava in Cesare. Proprio l‟assunzione della concezione universalistica greca nell‟ambito del pensiero teologico ha permesso la dialettica Chiesa-Stato, quali proiezioni mondane di enti ideali accomunati entrambi dalla potestà divina. Ma se per lo Stato, di spettanza al potere di Cesare, era possibile una riconferma dei presupposto naturalistici della filosofia politica greca, era chiaramente una forzatura idealistica fare dell‟uomo un ente naturalistico qual era grecamente in qualità di membro della polis. Era infatti impossibile, nello spirito cristiano, estendere la concezione organicistica dello Stato alla Chiesa, in quanto la non è un ente socio-politico ma una comunità spirituale di singoli credenti il cui collante di fede è Cristo. La differenza rispetto allo Stato è radicale, non differendo la società
224 Ivi, Libro I, cap. 12, pag. 54, corsivo nostro. 225 Ibidem.
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politica dalla comunità spirituale per le rispettive Weltanschauungen ma per il diverso fondamento ontologico, che per il cosmo pagano è il e per il mondo cristiano è l‟. Un mondo umano pensato alla luce della carità () cioè della benevolenza, è un mondo diverso da quello pensato alla luce della , della cittadinanza. Il Logos non può presiedere alla politica e all‟amore cristiano, essendo radicalmente diversa la legge del polemos dalla prescrizione dell‟amore fraterno. E dunque asserire, come fa Tommaso alla stregua del suo Aristotile, che “l‟uomo è per natura un animale sociale vivente in comunità”, e che come “singolo uomo è retto dalla ragione”,226 significa accogliere i postulati naturalistici e sociologici della filosofia greca, e non pensare la spiritualità cristiana alla luce del proprio fondamento di fede che la sostiene, che è diverso dal fondamento di fede che sostiene il cosmo pagano. E dunque, una volta confermata l‟antropologia naturalistica del razionalismo greco era difficile approntare un pensiero che metafisicamente non ne dipendesse, e che alla fine non liberasse le sue intrinseche possibilità dialettiche, che fecero infine implodere la struttura dogmatica della teologia cristiana, dandole la parvenza di una mito-logia. La dissoluzione della metafisica cristiana era in qualche misura inevitabile, reggendosi sul fondamento della fede escatologica predicata nei Vangeli. E dal momento che la struttura del cosmo razionalmente pensata veniva attribuita all‟opera di Dio, anziché alla natura, ogni prova della sua inconsistenza logica e ogni riscontro della sua incongruità morale, inevitabilmente provocava un soprassalto di fede, una incrinatura dell‟edificio teologico che andava restaurato. Fino alla emancipazione della ragione da ogni ipoteca teologica, ossia fino al punto da distinguere la struttura razionale del mondo da ogni finalismo religioso, cioè dai suoi fondamenti ontologici di fede, secondo il procedimento logico della scienza, che astrae i fenomeni reali da ogni finalismo metafisico, salvando della costruzione teoretica il solo metodo razionalistico, che sottopone quindi a verifica empirica. L‟esito sarà sempre confutativo, poiché le costruzioni scientifiche astraggono dalla concretezza del divenire dei fenomeni della realtà, legato alla loro finitezza e incompiutezza.
226 Ivi, Libro I, cap. 12, pag. 55.
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La differenza dell‟opera della Provvidenza rispetto agli schemi razionalistici della realtà consiste nella capacità della mente ordinatrice di Dio, non già di connettere strutturalmente ogni cosa al sistema, come già fa la natura, ma di operare per singoli fenomeni in maniera tale da renderli unici e irripetibili: singolari. Tale capacità divina, assegnando ai fenomeni una volontà di essere, non li rende determinati ma liberi, cioè in grado di determinarsi. La determinazione costante dei fenomeni naturali li rende dipendenti dal loro contesto di vita, che è lo habitat. Per l‟uomo tale contesto è la società. Ma, a differenza degli altri esseri viventi e senzienti, è l‟uomo a creare a sua volta la società, ossia le condizioni della sua vita biologica impersonale e collettiva. E proprio perché opera dell‟uomo, la struttura sciale non è eterna; e in quanto impersonale e collettiva è anche conflittuale con la volontà dei singoli uomini. Distinguere i destini personali dell‟uomo dalle condizioni impersonali della sua vita sociale è il presupposto della fede escatologica in senso cristiano, la quale opera nella volontà dei singoli anche quando le condizioni sociali non la assecondano. Ed è proprio tale dissociazione dell‟esistenza singolare dai destini collettivi a fare del cristianesimo una fede non religiosa, cioè funzionale ai valori unitivi della socialità, ma trascendente, inerente alla salvezza delle singole anime. Averne fatto una religione secolare, è il risultato conseguito dalla teologia cattolica romano-alessandrina, che ha trasformato il Mistero divino predicato da Gesù di Nazareth in Mito religioso, in una mito-logia, che è servita da modello metodologico per ogni rielaborazione storicistica e conseguente riduzione sociologica. L‟ipotesi tomistica di un governo divino del mondo “nella sua universalità” è mutuata analogicamente dalla supposta dinamica razionale della natura, e dunque poggiato sulla conoscenza della “ragione” delle cose. E la “ragione della fondazione del regno deve essere desunta per analogia dalla fondazione del mondo”, in cui predomina la “produzione” e la “distinzione” delle cose nel loro “ordine conveniente”.227 Anche i re devono essere considerati dei “fondatori” di regni, quasi che questi potessero assimilarsi a un‟opera dell‟ingegno creativo dell‟uomo, senza distinzione tra opera singolare e
227 Ivi, Libro I, cap. 13, pagg. 56 e 57.
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