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42 Ivi, pag
in senso dell‟universale etico-razionale non è più la supposta coesistenza di “due ordini di esistenza” umana, quello privato e quello pubblico, ma bensì la trasformazione dell‟ordine sociale spontaneo nel razionale e necessario ordine politico. L‟esigenza di un correttivo antropologico nasce dalla condizione stessa dell‟uomo naturale, esposto a possibili determinazioni culturali diverse da quella politica e interne alla naturale socievolezza, la quale dunque viene a sua volta trasformata in socievolezza politicizzata, ovvero in razionale socialità. Il dato antropologico di partenza della filosofia politica è tutt‟altro che naturale e originario, ma razionale e derivato, e pertanto proprio all‟ordine concettuale relazionale in senso ideologico, intendendo fondare un novus ordo politicus che sostituisca l‟ordine della natura, attraverso la costituzione di una seconda natura, quella che Rousseau indicava come “la civiltà”. Il dato strutturale della costituzione politica democratica è la “uguaglianza e parità dei cittadini”,340 ossia una condizione legale del tutto differente da quella reale, di tipo sociale ed esistenziale. La prevalenza della identità politica su ogni altra è il presupposto formale dell‟appartenenza civile, e pertanto del Governo quale “autorità sovrana della polis”.341 L‟elemento fondamentale della costituzione politica è la sostituzione del tradizionale Governo sociale, fondato sui valori etici, con il nuovo Governo politico, fondato sulla legge. Nell‟atto in cui si afferma la “traslazione” (Uebertragung) della sovranità comunitaria dal luogo naturale della società a quello artificiale della politica, si costituisce anche l‟etica concreta con un‟etica astratta dalle relazioni umane concrete. E l‟astrazione consiste appunto nell‟assunzione della cittadinanza come valore universale di uguaglianza tra gli uomini. Il parametro della cittadinanza si sposta dall‟elemento della disuguaglianza naturale all‟elemento dell‟uguaglianza politica, a una condizione cioè nella quale
stato significò per l‟uomo ricevere “accanto alla sua vita privata una sorta di seconda vita, il suo bios politikos. Ora ogni cittadino appartiene a due ordini di esistenza; e c‟è una netta distinzione nella sua vita tra ciò che è suo proprio (idion) e ciò che è in comune (koinon)”: H. Arendt, The human Condition, tr. it. cit., pag. 19. La cit. tra virgolette è tratta da W. Jaeger, Paideia. 340 Aristotile, Politica, III , 6, 1279 a, 9-10. 341 Ivi, 7, 26-30.
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non trovavano più vigore i rapporti naturali fra gli uomini, fondati sulla loro diseguaglianza reale. Non importa se si continua a ribadire il dato naturale della differenza tra gli uomini, poiché esso non è in alcun modo ignorabile; ciò che veramente risulta decisivo politicamente è la possibilità di superarlo attraverso la definizione dello spazio politico, entro il quale prende forma una nuova gerarchia di sovranità, fondata su presupposti di Potere, e non di Governo.
4. L‟opera di Erodoto rappresenta, per la civiltà ellenica, la versione prosaica di ciò che l‟epica omerica fu in senso poetico, offrendo agli Elleni “la consapevolezza di avere una storia comune”, 342 indicando nella koinonìa degli eventi che li riguardavano il senso stesso dell‟appartenenza a uno stesso destino nazionale. Sul piano della tradizione, già Omero nella Iliade aveva indicato l‟opportunità che “uno solo fosse il signore”343 Nell‟età del razionalismo greco, sul piano politico, “le riforme di Clistene rivelano i lineamenti caratteristici del nuovo tipo di pensiero [per cui] essi sono paragonabili a quelli che ci sono parsi definire, con l‟avvento della filosofia, la trasformazione del mito in ragione”. 344 Platone, nel Timeo, afferma infatti che il demiurgo è appunto colui che “conduce dal disordine all‟ordine”,345 lasciando supporre che l‟ordine politico () dovesse ricalcare quello formale del pensiero, che consiste nel portare all‟unità ideale l‟empirico molteplice. L‟ideale d‟ordine, come sinonimo di unità, era già presente in Callimaco e in Esiodo, come ricorda il Peterson, . 346 ma l‟accezione
342 “La sua opera, pervasa dal fuoco di un genuino entusiasmo, il primo grande monumento in prosa della letteratura greca, ha avuto, per lo sviluppo della coscienza nazionale, un‟importanza appena inferiore a quella dell‟epos omerico”: M. Pohlenz, Der hellenische Mensch (1947), tr. it., Firenze, 1962, pag. 248.
343
“”: Iliade, II, 204. 344 J.-P. Vernant, Mythe et pensée chez les Grecs. Etudes de psychologie historique (1965), tr. it., Torino, 2001, pag. 406.
345 “”: Timeo, 30 a.
346 E. Peterson, Der Monotheismus als politiches Problem (1935), tr. it., Brescia, 1983, pag. 39.
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razionalistica imprime al modello unitario della realtà del mondo umano un senso di compiutezza formale che manca alla rappresentazione mitico-poetica della sovranità divina, e che viene invece recuperata dalla dogmatica cristiana nella dottrina della monarchia di Dio come “segno dell‟obiettività dello spirito” contrapposta alla concezione politeistica del poeta, intesa come “espressione della possessione dell‟anima”, la cui “esaltazione” esprime “un pluralismo metafisico, che è in un ultima istanza, di origine demoniaca”.347 In tal senso, lo spirito unitario è di per sé espressione divina, per cui sorge spontanea la questione se il monoteismo comporti una costituzione politica di tipo monarchico. In considerazione del rapporto tra Cristo e Dio, il giurista Tertulliano, ispirandosi al “doppio principato” romano, che consentiva una partecipatio imperii, distinse il “solo ed unico comando (imperium)” monarchico, che spetta a Dio, dalla “amministrazione” del Potere che spetta al Figlio, sicché anche la monarchia può in analogia essere amministrata da altre persone all‟uopo designate come “funzionari” (officiales).348 L‟unità politica propugnata dalla filosofia greca postulava l‟omogeneità dei cittadini, indispensabile premessa dell‟esercizio del Potere su uomini ugualmente liberi (isonomia). Rispetto a questa concezione politeistica del Potere, che non poteva estendersi che a uomini e non certo ad altri esseri naturali, soggetti ad altro governo rispetto a quello politico, la concezione creazionistica del monoteismo ebraico-cristiano introduce l‟idea che Dio sia il signore unico di tutto il creato, il cui “dominio si estende su una realtà differente e per questo motivo egli non regna con la violenza della tirannide, ma con la fermezza dell‟amore”. Il governo divino è dunque diverso dal governo politico, ossia dal Potere, esercitato per mezzo della “coercizione” () e della “forza”349
347 E. Peterson, Op. cit., pagg. 42-43. Tale pregiudiziale anti-pluralistica nel campo della metafisica ha costituito una costante della teologia cristiana anche in età moderna, come ricordato da M. Scheler, Probleme einer Soziologie des Wissens (1924), tr. it., Sociologia del sapere, Roma (1966), 19772, pagg. 134-135. 348 Tertulliano, Adv. Praxean, cit. da E. Peterson, Op. cit., pag. 45. 349 ().Macario di Magnesia, cit. da E. Peterson, Op. cit., pag. 50. 156
La distinzione tra il Governo divino e il Potere politico è fondamentale ai fini della costituzione di un regime liberale, in quanto stabilisce, in conseguenza di quella distinzione, la persistenza di valori fondamentali comuni trascendenti a fronte di una varietà di forme politicocostituzionali empiriche. Ora, la determinazione politicistica greca di emancipare la sfera politica dalla contraddittoria e razionalmente incoerente rappresentazione mitico-religiosa della realtà, ha inteso operare nei termini della unità del molteplice entro la sfera della realtà sociale, avendo intrapreso una ricognizione filosofica in direzione di una unità metafisica dell‟Essere, che doveva perciò supportare la dimensione politica nel suo fondamento ideale. Ma proprio il carattere omogeneo che l‟ontologia greca assegnava all‟ente fenomenico e all‟Essere del pensiero comportava una complessiva circoscrizione dell‟interesse teoretico della filosofia alla dimensione socio-politica, intesa appunto come riflesso mondano del complessivo equilibrio cosmico universale, che andrà costituendo il paradigma immanentistico di ogni posteriore razionalismo. D‟altro canto, in conseguenza del mutuo filosofico ellenistico contratto dalla teologia cristiana di formazione romano-alessandrina, l‟insopprimibile carattere pluralistico della dimensione etico-politica interno alla dialettica filosofica venne traslato nella dogmatica teologica cristiana. Il concetto di “traslazione” (Uebertragung) risale a Leibniz 350 , e fu riadoperato da C. Schmitt nella sua Politische Theologie del 1922, nel noto esordio del terzo capitolo allorquando afferma che “tutti i concetti pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati [che] vengono traslati [uebertrangen wurden] dalla teologia alla dottrina dello Stato”. 351 La questione, al di là della
350 G.W. Leibniz, Nova methodus discenda docendaeque jurisprudentia del 1667. Ved. G. Zamagni, Op. cit., pag. 180. 351 C. Schmitt, Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveraenitaet, Munchen, 19342, pag. 49. Il concetto fu contestato da E. Peterson nel suo saggio sul Monoteismo come problema politico del 1935, in ragione del concetto trinitario delle persone di Dio. Per J. Assmann si tratterebbe di invertire il riferimento proposto da Schmitt, per cui egli sostiene che i concetti più rilevanti della teologia “sono concetti politici teologizzati”: Id., Potere e salvezza. Teologia politica nell’antico Egitto, in Istaele e in Europa, Torino, 2002, pag. IX. 157
correttezza teologica del mutuo concettuale, non è affrontabile in termini esegetici e filologici, poiché inerisce al rapporto tra i fondamenti onto-teo-logici della rappresentazione della realtà nell‟ambito dell‟orizzonte culturale cristiano, e il conseguente sviluppo critico-filosofico dei relativi archetipi categoriali, secondo una processualità tipica della tradizione razionalistica occidentale, sicché la tesi di Schmitt è storico-culturalmente corretta.352 Ciò non toglie che il passaggio da uno ad altro orizzonte concettuale possa comportare una variazione, anche riduttiva, di senso legata all‟adattamento nel contesto allotrio, tale che quello rinnovato conservi dell‟originario un significato anche soltanto simbolico, come appunto quello legato al potere creatore divino traslato nel campo regale della sfera politica. Ma ciò che rileva dal punto di vista storico-culturale è propriamente la fungibilità dei concetti teologici nella sfera politica, il che comprova che la loro funzionalità semantica è conseguente alla rielaborazione concettuale, operata dal pensiero razionalistico moderno, dei fondamenti ontologici della tradizione mitica che presiedono alla rappresentazione della realtà,
352 “Le infinite interrelazioni attive tra Chiesa e Stato in ogni secolo del Medioevo diedero luogo a ibridi in ambedue i campi. Derivazioni e scambi reciproci di insegne, simboli politici, prerogative e diritti onorari continuarono senza sosta a intercorrere tra la guida spirituale e quella laica della società cristiana. Il papa adornava la propria tara d‟una corona dorata, indossava la porpora imperiale e si faceva precedere dalle insegne imperiali cavalcando durante le processioni solenni per le strade di Roma. L‟imperatore portava sotto la corona una mitra, indossava i calzari pontificali e altri paramenti sacerdotali e riceveva, come un vescovo, l‟anello al momento dell‟incoronazione […] sicché il sacerdotium finì per acquisire un aspetto imperiale e il regnum un carattere sacerdotale. […] Durante il basso Medioevo […] gli scambi tra Chiesa e Stato continuarono; ma il campo di influenza reciproca, estendendosi dai singoli dignitari ad intere comunità, fu d‟allora in poi determinato dalle questioni giuridico-costituzionali riguardanti la struttura e l‟interpretazione dei corpi politici. Sotto la pontificalis maiestas del papa, che veniva anche definito „principe‟ e „vero imperatore‟, l‟apparato gerarchico della Chiesa cattolica tee a divenire il prototipo perfetto di una monarchia assoluta e razionale su base mistica, mentre al contempo lo Stato dimostrava la crescente tendenza a diventare una quasi-Chiesa o una corporazione mistica razionalmente fondata”: E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pagg. 166-167. 158
o mondo della vita, oggetto pertanto anche di quel pensiero. D‟altro canto, la stessa possibilità di rinnegare quella fungibilità teoretica allotria, espressa dal teologo Peterson, sta a indicare il nucleo problematico essenziale della tensione, non componibile, tra l‟attualità (Jetztzeit) della metafisica razionalistica di origine greca, volta all‟Essere-che-è, al fenomeno astratto dal suo divenire, e l‟attualità della prospettiva escatologica in cui si pone l‟éskaton cristiano, in cui “l‟allora (das Einst) degli albori del destino” (Heidegger), cioè “l‟allora della creazione” (Taubes), “giunge come l‟allora per l‟ultimo (zur Letze)” (Heidegger), che è “l‟allora della redenzione” (Taubes).353 Una tensione che la teo-logia cristiana ha cercato di contenere entro l‟orizzonte della fede piegata alle ragioni mondane di un “contenimento” (katechon) della dissoluzione imperiale, latente peraltro nella stessa pretesa d‟ordine di ogni Potere politico, la quale è stata interpretata paolinamente come anti-cristica, e quindi esposta ab origine a una “traslazione” ideologica in chiave di teologia politica. Nel caso specifico della mitografia cristiana, la loro trascrizione in termini teo-logici, costituiva già di per sé una forma originaria di elaborazione concettuale, rispetto alla quale la più recente opera di demitizzazione non è altro che il consapevole esercizio logico. Ma esattamente questa elaborazione teologica dei fondamenti di verità cristiani costituisce il paradigma di ogni futura “traslazione” semanticoconcettuale in campo profano, in verità non originario, ma mutuato dal metodo della filosofia greca socratico-platonica, che stabilisce pertanto l‟archetipo di quel percorso intellettuale la cui tracciabiità ideale coincide con la storia stessa della nostra tradizione culturale, costellata di tante “parole-chiave”. Una delle più importanti è quella di sovranità, che secondo Schmitt cnsiste nella “decisione” presa nello “stato di eccezione”, ovvero allorquando la struttura formale della legislazione si inceppa di fronte alle aporie della concretezza esistenziale, che porta in evidenza le contraddizioni della ragione astratta. In questo caso eccezionale, l‟auctoritas, che secondo il noto adagio di Hobbes facit
353 Per M. Heidegge, ved. Der Spruch des Anaximander, in Holzwege (1977), Frankfurt/M, pag. 327; per J. Taubes, ved. Abendlaendische Eschatologie, Munchen, 1991, pag. 12, citt. da E. Stimilli, Prefazione a J. Taubes, In divergente accordo. Scritti su Carl Schmitt, Macerata, 1996, pag. 13. 159
legem, si immedesima con la veritas, tenuta normalmente lontana dalla lex, per cui le previsioni legali sono efficacemente vigenti nella situazione ordinaria, in cui è possibile al diritto di esonerare la verità dalle sue considerazioni di giustizia formale. Ma allorquando si presenta il caso di eccezione, ecco che la rimozione della verità viene contraddetta a sua volta dalla necessità di riesumarla per derimere un conflitto decisionale, formendo alla volontà ragioni più forti di quelle razionali chiamate ad ispirare la vita politica ordinaria dello Stato. Si pensi all‟appello di Stalin alla antica fede ortodossa, che lo Stato ateo comunista aveva cercato di rimuovere dalla vita civile dei Russi, in occasione della resistenza all‟esercito nazista invasore della madre patria. Non bastava l‟ideale della Rivoluzione a salvaguardare la indipendenza nazionale, ma occorreva una motivazione più prodonda e fondamentale, appunto religiosa e veritativa, come quella di libertà, il cui sentimento intuitivo e profondo non coincideva con il suo formale concetto. Non si trattava, infatti, di resistere alla forza imperativa illecita, ma a una forza più radicalmente illegittima, quella del Male, ossia della dissoluzione dell‟ordine cosmico stabilito sui fondamenti di quella verità evocata come sacra e accolta come la vera libertà dell‟uomo di fede. In quel caso, contro il Male rappresentato dall‟invasore tedesco, lo Stato comunista, per quanto ateo, rappresentava il Regno che si opponeva katechonticamente all‟Anticristo nazista. Ma proprio in questa “traslazione” del senso cristiano della libertà nella resistenza politica del popolo russo al nazismo si perviene a quella sua conversione dal senso teo-logico al suo senso ideo-logico, che snatura la libertà, consegnandola a una accezione polemica ed esclusiva da agapica e inclusiva che era in origine, e pertanto contraddittoria e fallace, diabolicamente perversa, in quanto induce a credere idolatricamente al comunismo ideo-cratico appunto come al “regno della libertà”. Allo stesso modo si è poi agito a sua volta contro il regime totalitario russo da parte delle democrazie liberali, sventolando contro il mostro comunista nemico della libertà, l‟idolo amico del capitalismo occidentale, contrabbandato anch‟esso come il “regno della libertà”. Ogni trasvalutazione di senso teo-logico in senso ideo-logico era consentita dalla fungibilità della componente logica comune alla teologia e alla ideologia, che fungeva da ancilla sia alla trascrizione del Logos divino che alla definizione del Logos ideale, consentendone, con la traslazione concettuale, la sua rielaborazione di 160
senso. Infatti, come simbolicamente Zeus verso Crono e come Cristo verso Jehova, la logia applicata al Mito aveva rielaborato l‟antica autorità della fede paterna nei termini di una rinnovata rappresentazione della sua verità, che da fondazione nazionale diventava astratta credenza universale, e come tale concettualmente permutabile e ideologicamente fungibile a un uso politico contingente. Il metodo dialettico di rappresentazione logica dei contenuti di fede implicava l‟assunzione di un deuteragonista come condizione indispensabile della sua stessa posizione tetica, lasciando l‟adito alla loro trascrizione politica, sicché la teo-logia, come linguaggio di fede della comunità ecclesiale, presupponeva l‟esistenza di una antropo-logia, ossia il linguaggio proprio dello spazio politico dello Stato, che pertanto diventava la realtà sociale opposta alla Chiesa. Il metodo di confronto tra le due realtà, ossia la rappresentazione razionalistica del mondo, essendo comune diventava il vero assoluto tra le due posizioni relative alla Chiesa e allo Stato, prendendo il posto che era stato dei contenuti della fede, assumendone anche la relativa credenza nella sua verità; da qui il duplice carattere fideistico e idolatrico sia delle teo-logie, fruibili come politiche proprie dell‟ordine sacro stabilito dalla Chiesa, che delle ideologie, concepite come “religioni civili” dell‟ordine profano stabilito dagli Stati secolari. Era il Lògos a unire e nello stesso tempo a dividere la Chiesa dallo Stato, dando vita alla civiltà liberale, caratterizzata dalla condivisione di un comune orizzonte razionalistico di rielaborazione e “gestione della verità” del Mito354 fondativo della comune civiltà cristiana, in cui confliggono polemicamente la libertà della Chiesa e la libertà antitetica dello Stato, ognuno in funzione di katéchon nei confronti dell‟assolutismo totalitario dell‟uno e rispettivamente dell‟integralismo teocratico dell‟altro termine polemico.355 Prendiamo
354 “E‟ un pregiudizio corporativo [degli storici], quello per cui le immagini mitiche o i termini mistici sarebbero oracoli vaghi, duttili ed obbedienti a ogni volontà, mentre la lingua scientifica del positivismo avrebbe preso in gestione la verità”: J. Taubes, Carl Schmitt. Un apocalittico della controrivoluzione (1985), tr. it. in Id., In divergente accordo, cit., pag. 36. 355 E‟ appena il caso di precisare che la teologia cristiana, ossia la Cristo-logia, definendosi come logos del Figlio che rielabora la parola del Padre inscritte nella Legge della nazione ebraica, si costituisce come discorso tetico dell‟antitesi 161
dunque a proposito il caso tipico e forse più rilevante di esercizio creatore di sovranità politica, quello del moderno diritto di libertà, al centro del novus ordo saeclorum. La difesa della proprietà, garantita dalle leggi dello Stato costituzionale pre-rivoluzionario, consisteva nella salvaguardia della libertà come valore privato e autonomo, del quale erano responsabili i corpi etici particolari della società, da quello pubblico e politico, del quale era responsabile la Corona. L‟assolutismo monarchico non consisteva tanto sulla condizione per cui la volontà del re fosse legibus soluta, quanto sull‟avocazione della libertà dal piano sociale al piano politico, ossia dalla considerazione della libertà, tradizionalmente privata, come libertà pubblica. Ciò avvenne con la fine del sistema feudale e la creazione dello Stato nazionale, che determinò il passaggio definitivo della proprietà feudale da una condizione possessoria de facto a una condizione de jure, implicante che anche i suoi contenuti esistenziali, a partire dalla libertà, fossero giuridicizzati in quanto rientranti nel patrimonio pubblico, e dunque considerati disponibili ope legis. Questo comportò, con la fine della condizione feudale come rapporto fiduciario del vassallo col sovrano, stabilito sul principio etico della fedeltà, l‟insorgenza di un vincolo giuridico relativo anche ai suoi contenuti reali, che da concreti e legati alla autonomia feudale, divennero astratti da quella condizione e quindi indipendenti da ogni possibilità di essere difesi da quella autonomia, ma riconosciuti e difesi solo dal Potere statale. La pubblicizzazione della libertà, e dunque la sua politicizzazione, comportò l‟inserzione della discriminante propria della dimensione politica tra chi ne poteva godere e chi non, secondo la volontà superna del Potere esclusivo. Per un verso, dunque, la libertà venne riconosciuta anche ai non proprietari, in quanto meri sudditi dello Stato, per l‟altro verso essa, in quanto intesa come di natura politica, venne concepita come una concessione regale. L‟idea di un contratto sociale col quale si
legalistica giudaica, e universalizzandosi in teologia cattolica deve riprodurre ogni volta, per affermarsi come posizione eterna, una antitesi di carattere legale, e dunque statuale, rappresentata come particolare e transeunte. Come infatti affermato da Peterson, “la Chiesa esiste solo a partire dal presupposto che gli ebrei, in quanto popolo scelto da Dio, non sono diventati credenti nel Signore”: cit. da J. Taubes, Da una disputa intorno a Carl Schmitt (1986), tr. it. in Id., In divergente accordo, cit., pag. 61.
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delegasse la propria quota di sovranità al Potere politico, presumeva la natura appunto politica della libertà dei singoli quale facoltà astratta dalla condizione sociale di proprietari. La dissociazione della libertà, come stato politico, dalla proprietà, come condizione sociale, fu conseguente al riconoscimento, e dunque alla salvaguardia legale, del diritto di proprietà da parte del potere regio o statuale, che successivamente considerò la libertà come un attributo della proprietà idealmente indipendente da essa, anziché come la sua essenza stessa. E così la proprietà, avendo perduto il suo carattere di condizione sociale e divenendo un astratto diritto legale, poté essere dissociata dal suo contenuto esistenziale, ossia dalla libertà, la quale divenne essa stessa un diritto, che poteva essere riconosciuto o non dal Potere politico, che pertanto ne diventava il suo originario detentore e discrezionale dispensatore. L‟estensione in senso universale dei diritti di proprietà e di libertà comportava implicitamente la possibilità di una loro revoca, facendo del Potere il depositario della sovranità, consistente appunto nella creazione giuridica di quei diritti. E proprio in tale funzione il Potere legislativo assunse nel contesto civile e secolare il carattere monocratico analogo a quello divino, teologicamente riconosciuto come il potere creatore per eccellenza. Come già notato dalla Arendt, la deriva dispotica presa dalla rivoluzione francese, ma non da quella americana, fu legata alla natura dei rapporti tra corona e corpi costituiti, che in Francia erano di tipo esclusivamente politico, mentre nel Nuovo Mondo conservavano la struttura tradizionalmente sociale della costituzione inglese, per cui se “la rottura fra il re e il parlamento gettava veramente l‟intera nazione francese in uno „stato di natura‟ [poiché] dissolveva automaticamente la struttura politica del paese, nonché i legami fra i suoi abitanti, che si basavano non su reciproche promesse, ma sui vari privilegi accordati a ciascun ordine e stato della società”, mentre “il confitto fra le colonie americane da una parte e il re e il parlamento inglese dall‟altra non dissolveva nient‟altro che gli statuti concessi ai coloni, e quei privilegi di cui essi godevano per il fatto di essere inglesi, privava il paese dei suoi governatori, ma non delle sue assemblee legslative; e gli americani, rifiutando la loro fedeltà a un re, non si sentivano affatto sciolti dai loro numerosi patti, accordi,
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reciproche promesse e „consociazioni‟”.356
L‟ideologia democratica, sostituendo la titolarità sovrana del re con quella del popolo, mutò la persona nominale del Potere politico, che da singolare divenne collettivo, ma non la struttura ordinamentale dello Stato di diritto, che rimase auto-cratica e priva della sanzione morale di una auctoritas meta-politica. Come scrisse la Arendt, “teoricamente la deificazione del popolo nella rivoluzione francese fu la conseguenza inevitabile del tentativo di far derivare tanto la legge che il potere dalla stessa identica fonte”. 357 Lasciando assoluto il Potere legislativo di promulgare qualsivoglia norma politica, l‟ideo-logia populistica ne consentì l‟identificazione col Governo democratico, determinando così la forma totalitaria del moderno Stato di diritto secolarizzato di matrice razionalistica. In tal senso, quanto affermato dalla Arendt circa “la pretesa della monarchia assoluta di fondarsi su „diritti divini‟ [che] aveva configurato il governo secolare a immagine e somiglianza di un dio, insieme onnipotente e legislatore dell‟universo, ossia a immagine di quel Dio la cui Volontà è Legge”,358 non è ciò che più propriamente rileva ai fini della deriva totalitaria dello Stato, poiché la fondazione sul diritto divino costituiva già una forma di controllo morale sulle sue leggi. La questione decisiva era la pretesa di sostituire quella tradizionale fondazione divina con una di natura assolutamente politica e di tipo meramente costituzionale. La vexata quaestio risale all‟alto Medio Evo, di cui il Sermo de potestate Papae di Matteo d‟Acquasparta, pronunciato ad Anagni il 24 giugno 1302 al cospetto di Bonifacio VIII, del collegio cardinalizio e dei legatari di Filippo il Bello, è documento eloquente ed estremamente significativo per l‟intero percorso della tradizione teologico-politica occidentale.359 Partendo da Geremia, 1, 10, in cui Dio concede al
356 H. Arendt, On Revolution, tr. it. cit., pagg. 206-207. 357 H. Arendt, Loc. cit., pag. 209. 358 Ibidem. 359 Il Sermo de potestate papae di M. D‟Acquasparta (1240-1302), ex Cod. di Parigi, bibl. Lat. 1505, f. 82v-84v ( = P), è riportato in originale come Appendice ai Sermones de S. Francisco, de S. Antonio, de S. Clara, ed. G. Gàl, Firenze, 1962 (BFA X), pagg. 177-190. Da ora SpP. La versione italiana qui utilizzata è di G. Tamburi.
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Battista “la sovranità su tutti i popoli e i regni, affinché estirpi e demolisca, dissipi e disperda, costruisca e semini”,360 Matteo afferma che “queste parole […]si potrebbero più veritieramente dire di Cristo e del suo vicario, il beato Pietro e dei suoi successori, Sommi Pontefici”, che Dio avrebbe posto “sopra i popoli e i regni”.361 Quindi passa a trattare del “dissenso sorto tra il nstro signore, Sommo Pontefice, il sacro Collegio dei Frati e la Chiesa da una parte, e l‟illustre re di Francia e i suoi consiglieri dall‟altra”, scaturito da una causa che il teologo definisce “modesta e certamente di poco conto”,362 ma che in realtà si rivelò di estrema importanza in quanto vertente sulla plenitudo potestatis del Papa, e di converso della estensione della sovranità regale del monarca secolare. Il fatto fu che Bonifacio aveva creato nel 1295 la diocesi di Pamiers, ricavandola in parte da quella di Tolosa, ponendovi a capo il prevosto Bernardo Saisset, senza interpellare né il re di Francia, che insieme al conte di Foix esercitava il patronato di Pamiers, e neppure il vescovo di Tolosa. Il nuovo vescovo entrò in urto col re allorquando questi, contro precedenti accordi, concesse nuovamente il patronato al conte, al quale il papa, interpellato dal nuovo vescovo, inflisse le previste pene ecclesiastiche. A questo punto il re, colpito da alcune intemperanze verbali del Saisset, lo priva dei suoi possidimenti con un‟ordinanza del 24 ottobre 1301 e quindi lo cita in giudizio innanzi al consiglio di Stato “per offesa del re, ribellione, alto tradimento, simonia ed eresia”, facendolo condannare e incarcerare presso il metropolita arcivescovo di Narbonne.363 Informatone il papa, al quale il re richiese la destituzione del neo-vescovo, Bonifacio esigette di contro la sua liberazione, ritirando con la bolla Salvator mundi del 5 dicembre 1301 i privilegi concessi al re, e convocando un sinodo speciale dell‟episcopato francese per il I novembre 1302 a Roma, al quale anche Filippo fu invitato con un‟altra bolla intitolata Ausculta fili, contenente
360 SpP, pag. 177. 361 SpP, pagg. 179-180. 362 SpP, pag. 181. Sulla “poca importanza” dell‟ “incidente” concorda anche la più recente storiografia. Cfr. H. Wolter, Celestino V e Bonifacio VIII (1968), in Storia della Chiesa, dir. da H. Jedin, vol. V/1, tr. it., Milano, 19932, pag. 396. 363 H. Wolter, Loc. cit., pag. 397.
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