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46 Ivi, pag
pontefice, in quanto princeps e verus imperator, l‟apparato gerarchico della Chiesa romana – malgrado alcune caratteristiche del costituzionalismo – dimostrò una tendenza a divenire il prototipo perfetto di una monarchia assoluta e razionale, fondata su basi mistiche”, è parimenti certo che “contemporaneamente lo Stato dimostrava una tendenza crescente a diventare una quasi-Chiesa e una monarchia mistica fondata su basi razionali”, venendosi a creare le premesse dottrinali in cui “il nuovo misticismo dello Stato trovò la sua origine e il suo sviluppo” grazie alla traslazione – favorita dall‟interscambio del diritto romano nei canonisti, e del diritto canonico nei civilisti, come pure dalla comune fruizione del metodo scolastico e della filosofia aristoteica - degli arcana ecclesiae spirituali nei nuovi arcana imperii dello Stato assolutista. E anzi fu l‟uso comune tra “i giuristi di tutte le branche del diritto” dello stesso formulario teorico a consentire il libero uso “di metafore e di similitudini teologiche per avvalorare i propri pareri nelle glosse e nei giudizi ufficiali”, a seguito del quale uso “nacque la formula dei „misteri dello Stato‟ che oggi, in un senso più generico, tradurremmo con „teologia politica‟”.371 Se a parlare di “arcana imperii templari” fu per primo Tacito negli Annales, a usare l‟espressione “il mistero dello Stato” in una accezione cristiana come “prerogativa” regale, ovvero “i misteri del potere del sovrano”, fu Giacomo I d‟Inghilterra, secondo il quale il sovrano e i principi “sono dei in terra”, ai quali si deve “il rispetto mistico di chi siede sul trono di Dio”, e sul cui “dominio” “nessuno si deve mai permettere di intromettersi”, né tantomeno “è ammesso confutare i misteri del potere dei re”, poiché così come “è da atei e blasfemi contestare quello che solo Dio può fare […] Analogamente, è trasgressione e vilipendio contestare le azioni del sovrano”, secondo una normativa imperiale del 395 di Graziano, Valentiniano e Teodosio che denunciava come “sacrilegio” ogni controversia sulle decisioni del principe, che era già stata recepita dal Codex di Giustiniano e poi nella legislazione di Ruggero II di Sicilia e di Federico II, e quindi dal diritto canonico e applicato al pontefice prima di arrivare alla dichiarazione del sovrano
371 E.H. Kantorowicz, Mysteries of State. An absolutist Concept and its late Mediaeval Origins (1955), tr. it. in I misteri dello Stato, Genova-Milano, 2005, pagg. 188-189. Da ora MdS.
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inglese ai Lords e Commons del 1609 ribadita alla Star Chamber del 1616. E dunque i “misteri dello Stato” promanano da ciò che i giuristi del XII e XIII secolo chiamavano, in riferimento al proemio delle Institutiones giustinianee, la “religione del diritto” (religio iuris), ovvero, come nelle Costituzioni siciliane di Federico II, come i “misteri della Giustizia” (mysterium Iustitiae), dove Giustizia stava per Governo dello Stato.372 Considerata la stretta analogia tra mysterium e ministerium, risalente all‟epoca cristiana e ancora invalsa nel Medioevo,373 la “pertinenza ministeriale” cui faceva riferimento Matteo in ambito del governo regio, presupponeva invece una distinzione rispetto alle prerogative papali, tale che queste prevalessero in materia religiosa. E dunque, ai fini della prevalenza del sacro sugli affari profani, era indispensabile che la sfera politica non venisse, per così dire, contaminata dal carisma religioso e dall‟aura mistica che avvolgeva le funzioni sacerdotali. Invece, come chiarisce il Kantorowicz, “la carica regale fu clericalizzata” allorquando l‟incoronazione con l‟unzione del capo, risalente al VII secolo, venne assimilata alla consacrazione dei vescovi, per cui “il diritto romano e quello canonico produssero una nuova interpretazione del vecchio ideale rex et sacerdos che non era né esoterica né liturgico-clericale, bensì legalistico-clericale”, che dal XII secolo “aprì la strada al concetto di regalità per mezzo del diritto divino […] quando il carattere quasi sacerdotle del sovrano non era più legittimato esclusivamente dall‟unzione e dall‟altare, ma in quanto proveniente dal diritto romano che definiva sacerdotes iustitie i giudici e i giuristi”,374 secondo l‟apertura del Digestum di Giustiniano, e come confermata da una sua Glossa ordinaria a opera di un tale Accursio in cui si stabiliva “un chiaro parallelo tra i sacerdoti della Chiesa e quelli del diritto”. Il che ovviamente comportava per estensione che anche “l‟imperatore fosse chiamato anche pontefice”, secondo la chiosa di Guglielmo Durando al Decretum di Graziano, per cui “une et Romani Imperatores pontifices
372 MdS, pagg. 190-195. 373 Ivi, pag. 195. 374 MdS, pagg. 196-197.
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dicebantur”, che confermava inequivocabilmente “l‟inseparabilità dei misteri dello Stato dalla sfera del diritto e della giurisprudenza”.375 Ma allorquando il concetto di regalità andò gradualmente a “separarsi dall‟altare”, se la “pretesa a una giurisdizione universale” avanzata dal Barbarossa “sulle basi del diritto feudale e di quello romano, subì uno scacco”,376 esito diverso ebbe la analoga pretesa papale di senso inverso. Infatti, sul fondamento paolino per cui “l‟uomo spirituale giudica ogni cosa senza poter essere giudicato da nessuno” (Cor., 2, 15), proprio la bolla Unam Sanctam di Bonifacio VIII avanzava, dopo il Dictatus papae di Gregorio VII, la pretesa della giurisdizione universale della Santa Sede, la quale “omnes judicat, sed a nimine iudicatur”, come reciterà da allora in poi la massima canonista.377 Il principio papale, secolarizzato, fu mutuato dai teorici dell‟assolutismo regio come Salmasio, difensore di Carlo I d‟Inghilterra, il quale “non fece altro che trasformare la teoria papale trasferendone l‟essenza allo Stato secolare”, mettendo così “il principe assolutista […] nei panni del pontefice romano”, dando corpo teorico al moderno “super-uomo” politico, che come “homo spiritualis Bonifacio VIII aveva tentato di monopolizzare con forza a favore del Pontefice Romano, escludendo tutti gli altri”.378 E proprio il sermo di Matteo, non citato dal Kantorowicz, costituisce il testo canonico più significativo a contrasto della teoria assolutistica laica, in quanto tende a stabilire nel contempo sia l‟eterogeneità delle sfere religiosa e politica, sia la loro comune appartenenza all‟orizzonte cristiano, indicato come “arca Noe” e “navis Christi et Petri”,379 e di cui la plenitudo potestatis papale rappresenta l‟unità simbolica del temporale e dello spirituale. Ma quale la differenza tra la concezione cattolica del Potere, di natura teologica, e quella assolutistica laica, di natura giuridica? L‟idea di Potere come Governo della società cristiana era comune tanto alla Chiesa che al regno secolare, e sul governo della società cristiana si
375 MdS, pagg. 198-199. 376 Ivi, pag. 199. 377 MdS, pag. 200. 378 MdS, pag. 201. 379 SpP, pag. 187.
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stabiliva la concorrenza dei due poteri, ecclesiale e statuale, entrambi intenti a stabilire la propria natura mistica originaria superiorem non recognoscentem. Finché però si accoglieva come fonte del Potere la potestà divina, il buon principe cristiano non poteva senza conseguenze ereticali contestare il primato petrino, ossia il fondamento teologico della stessa sovranità regale, per cui era inevitabile che, volendo rimanere nella stessa “nave” cristiana, la concezione del Potere assumesse un connotato funzionale, non tanto al Governo della scietà cristiana, quanto alla sussistenza dello Stato come organismo precipuamente politico. In questa accezione politica, o Stato veniva distinto dal corpo mstico cristano, e quindi dallo stesso suo Governo, facendo assumere a quest‟ultimo una accezione tutta spiritualistica e dunque consegnata alla sfera religiosa. La distinzione tra il Governo spirituale della società cristiana, e il Potere politico del consorzio civile, evitò tanto il misticismo politico che l‟integralismo religioso, e dunque scongiurando quell‟assolutismo teologico-politico tentato invano sia dalla Chiesa che dallo Stato, che caratterizzava la figura dell‟imperatore bizantino quale “uomo divino superiore a tutti gli uomini” (), secondo la definizione di Gregorio Nicefora ancora vigente nel sec. XIV.380 Tale sdoppiamento del Potere politico dal Governo spirituale, se per un verso scongiurò l‟esclusività concorrente dei due poteri ecclesiale e secolare, dall‟altro creò le premesse dell‟assolutismo nell‟ambito dello spazio politico, che riabilitò la concezione razionalistica greca della politeia come zona franca da ogni ingerenza mitico-sacrale. Ed proprio contro questa deriva neo-pagana che si concentra la tesi di Matteo d‟Acquasparte oggetto del Sermo de potestate Papae pronuncato ad Anagni il 24 giugno del 1302, in cui si rivendica al papa, a costo “di sacrificare il corpo e la vita del Pontefice e di ogni ecclesiastico del sacro Collegio, […] il pieno potere in campo spirituale”, identificato con la stessa “libertà della Chiesa”.381 Ciò significa, in altri termini, che la libertà rappresentata dalla Chiesa
380 MdS, pag. 201 n. 36. 381 “Unde dominus noster, Summus Pontifex, habet plenitudinem potestatis in spiritualibus. Unde pro libertate Ecclesiae et pro ipso ego et omnes Fratres sacri Collegii auderemus et vellemus exponere corpora nostra et vitam nostram”: SpP, pag. 188.
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ha una natura spirituale, e non politica, e se essa costituisce il fine morale della convivenza, è nel suo orizzonte ecclesiale cristiano, come salus trascendente e non già in quello statuale, come immanente libertas, che va realizzata mondanamente. E ciò non ineriva ovviamente a una questione nominalistica, dal momento che la libertà della Chiesa era appunto dal Potere assolutistico, e la libertà dello Stato consisteva nella emancipazione della sfera politica da quella religiosa, secondo la tipica struttura ideologica del sistema liberale europeo. Questa duplice e simmetrica tensione ideologica ha potuto ingenerare il ritenimento per cui Chiesa e Stato fossero in competizione sull‟egemonia politica entro la comunità cristiana, laddove la questione vera ineriva al concetto della libertà, come salvezza cristiana dell‟anima singolare, ovvero come modus vivendi della socialità politica. Entrambe le posizioni liberali partono da una mancanza antropologica: quella teologica dal peccato originale, mentre la politica dalla condizione di dipendenza dalla natura. Ma mentre la salus animi riguarda ogni singolo uomo, e dunque la sua personalità morale, la emancipazione politica dalla precarietà dello stato naturale riguarda l‟uomo in quanto membro di un consorzio sociale, e dunque la specie biologica. Ora, se ogni forma storica di socialità varia nel tempo per cultura e tradizioni locali, variando con essa la relativa fisionomia del potere secolare, ciò che sta all‟origine di ogni esperienza umana nel tempo, potere secolare compreso, ed è invece immutabile, è la condizione spirituale dell‟umanità, legata al peccato originale, per cui, a fianco della legittimità del potere dei principi inerente alla varia e perfettibile giurisdizione degli affari temporali, esiste la giurisdizione spirituale del Sommo Pontefice, che si estende a ogni manifestazione della vita umana, e dunque anche agli affari temporali, oggetto di giudizio morale. Ciò implica che la categoria morale della giurisdizione del Governo spirituale è dunque idonea a giudicare ogni azione umana, e pertanto è inclusiva di ogni forma di Potere secolare, laddove ogni potere secolare è competente solo iuxta propria principia, nei limiti cioè delle sue pertinenze ministeriali. E come Dio creò il sole per illuminare il giorno (luminare maius, ut praeesset diei), e la luna per illuminare la notte (luminare minus, ut praeesset nocti), così esistono due giurisdizioni, la spirituale, che pertiene per legge divina (de iure) al Papa, e la temporale la cui gestione usuale spetta per esercizio mandatario (ratione actus et usus) all‟imperatore e agli altri re, le cui legittime azioni però sono 173
anch‟esse giudicabili dal Sommo Pontefice in ragione dell‟indelebile peccato originale.382 E, seppure il potere temporale, relativamente all‟esercizio e alla gestione di fatto, non competa al papa, non di meno il buon principe cristiano è tenuto a ravvedersi in caso di errore di condotta, e gli verrà perdonata ogni cosa, confidando che il Nostro Signore sia pronto ad accoglierlo a braccia aperte.383 Ciò che dunque concerne la “materia conquerendi” tra i due poteri, e che trasforma l‟incidente bagatellare in una fondamentale questione di principio, è la portata ontologica della sfera spirituale, il cui Governo cattolico include ogni particolare e transeunte esercizio del potere temporale, che resta sempre circoscritto alle funzioni che gli vengono demandate dalla fonte suprema, che è divina e non umana, e che è unica per entrambi i contendenti, e pertanto l‟unica veramente monocratica e universale. La differenza, quindi, tra il Governo spirituale dell‟unico erede di Pietro e il Potere dei molti reggitori politici consiste nella universalità del primo e nella circoscritta territorialità e contingenza degli altri, sicché le relative istanze rispettive, quella eterna e trascendente, e quella storica e immanente, non possono essere idealmente equipabili e considerabili allo stesso piano formale di giurisdizione. Infatti, così come quella del Governo spirituale è inclusiva di ogni determinazione politica, mentre quella politica è esclusiva di altre analoghe e concorrenti giurisdizioni, parimenti la categoria dell‟amore cristiano che sta alla base del Governo spirituale dei papi non può essere equiparata a quella politica su cui si basa il Potere secolare dei principi. Se questo è vero, ne consegue che la essenza del politico non è il suo metodo discriminante tra amicus et hostis, come vorrebbe Schmitt, ma bensì il criterio suppostamente universale fondativo di quella discriminazione, che consiste nella uguaglianza tra gli uomini compresi
382 “Sunt enim duae iurisdictiones: spiritualis et temporalis. Iurisdictionem spiritualem principaliter habet Summus Pontifex, et illa fuit tradita a Christo Petro et Summis Pontificibus, seccessoribus eius; iurisdictionem temporalem habeant imerator et alii reges, tamen de omni temporali habet cognoscere Summus Pontifex et iudicare ratione peccati”: SpP, pag. 189. 383 “Sed iurisdictio temporalis quantum ad usum et quantum ad executionem actus non competit ei”, cioè al papa, “si velit redire, scio quod Dominus Noster paratus est eum”, cioè il principe, “cum duobus brachiis [amplecti]”: SpP, pag. 190. 174
nel solo spazio della cittadinanza, la , che non a caso è “il nome comune a tutte le forme di costituzione”,384 ma che comprende forme diverse e incompatibii, e perciò intrinsecamente polemiche. Solo attraverso la definizione di questo spazio come orizzonte politico della libertà, comune ma interno alla sola cittadinanza, è possibile discriminare sulla appartenenza o meno e circa la varietà dei regimi costituzionali. Prescindendo da questo astratto criterio fondativo del politico, ogni costituzione ne custodisce uno positivo, tale da creare con la relativa forma politica anche il suo contenuto polemico essenziale. Ma in realtà ogni costituzione deve presupporlo come la sua implicita Grundnorm, che rimane aperta alla definizione formale in quanto consiste nella stessa definizione ideale. In altri termini, lo spazio politico si costituisce attraverso la sostituzione della realtà (rappresentata attraverso le forme ideali del concetto) alla verità (rappresentata dal racconto cosmico del Mito). E‟ questo il vero ratto del fuoco che gli uomini compiono a scapito degli dèi olimpici. E in questo preciso senso epistemologico, l‟assunzione del Logos greco nell‟ambito della fede religiosa operata dalla teologia cristiana costituisce la prosecuzione, sotto forma di religione razionale, del programma greco di civilizzazione universale. Ed è nello stesso senso che va compresa l‟importanza del concetto di religione all‟interno dell‟orizzonte di coscienza della tradizione filosofica.385 Occorre tenere presente che lo stesso processo di
384 Aristotele, Politica, III , 7, 1279 a, 35 sgg. 385 H. Jonas, osserva che le “radicalizzazioni” sono state “imposte alla filosofia dalla difficile convivenza con la rivelazione”, per cui a suo dire “la filosofia non poteva far altro che tentare di eguagliare lo spirito assoluto della rivale”, e ciò sarebbe inoltre “la ragione per cui la filosofia più recente è priva della padronanza di sé, dello spirito di moderazione, che caratterizza la filosofia antica”: Id., Jewish and Christian Elements in the Western Tradition (1967), tr. it. in Dalla fede antica all’uomo tecnologico, Bologna, 1991, pag. 68. In realtà, nessuna forma religiosa, né pagana né cristiana, ha condotto una battaglia contro la filosofia che non sia stata condotta per mezzo della filosofia, ossia in nome di quell‟universalità della ragione totalitaria, che è stata acquisita dal cristianesimo ellenistico in conseguenza della compatibilità col retaggio monocratico giudaico, contestato però dalla predicazione antilegalistica di Gesù. In questo spirito filosofico e legalistico risiede la lotta teologica ricordata da Scheler contro le posizioni metafisiche autonome dal 175
cristianizzazione culturale della società europea ha comportato, quale sua premessa religiosa, l‟affermazione dei regimi politici di massa, ossia di quelle distinte espressioni storiche di “democrazia”, indicata da Aristotile come la forma degenerata di politia, definita sulla base del prevalente interesse sociale, economico per definizione, delle sorti dei “poveri” su quello delle altre classi sociali. Il criterio aristotelico dunque è chiarificatore della posizione generale del pensiero politico greco, il quale appunto considera devianti le forme dei regimi costituzionali in cui prevalga l‟interesse sociale dei gruppi particolari su quello politico generale, considerato bene comune.386 La definizione concettuale di tale bene politico comune a tutti i cittadini della polis fa di esso un valore universale, proprio cioè di tutti i cittadini di tutte le poleis. Il concetto razionale di politica rappresenta dunque la forma ideale di cittadinanza universale, ossia di ogni regime costituzionale fondato sulle leggi eterne del Logos. Ma la differenza di tale valore razionalmente universale, rispetto a quello naturalistico religioso, risiedeva non solo nell‟ampiezza orizzontale dello spazio del politico, ma anche nella declinazione dell‟eternità dell‟essere di natura, ente religioso, in termini di immortalità dell‟essere di cultura, cioè appunto dell‟uomo politico.387 Se infatti la natura è immortale in quanto non prodotta dall‟uomo mortale, il mondo compreso nello spazio politico ha sicuramente un suo inizio, e quindi una sua pre-istoria naturale, ma può non avere una fine, ossia è possibile all‟uomo di non seguire il ciclo mortale di ogni ente naturale, e di edificare una realtà duratura che interrompa quel ciclo, sostituendo al telos naturale uno tutto umano, di carattere politico. Il senso finalistico dell‟opera umana dotata di ragione è di emanciparsi dalla divina fatalità, che sottomette il destino umano mortale al ciclo naturale eterno, che consiste nella indistinzione degli enti. Viceversa, attraverso la distinzione logica, l‟uomo perviene a separare la propria storia antropologica dall‟indistinto ordine fagocitante della natura. Che
dogmatismo religioso. Ma lo stesso retaggio ebraico che, come ricorda Jonas (Ivi, pag. 69), è stato tramandato all‟interno della civiltà cristiana nelle forme di pensiero che il cristianesimo teologico ha assunto, sono forme appunto filosofiche. 386 Ivi, 7, 1279 b, 5-11. 387 Ved. H. Arendt, The human Condition, tr. it. cit., pagg. 14-17. 176
questa “separazione” sia un atto di creazione umana, è il fondamento di ogni ordine del mondo filosoficamente concepito; che poi tale creazione sia creduto l‟atto della volontà divina, è il contenuto di fede della religione ebraica e quindi di quella cristiana.388 L‟aspetto più importante dell‟emancipazione politica dell‟uomo dalla necessità del ciclo naturalistico è la costituzione positiva della dimensione razionale come derivazione antitetica della dimensione naturale, la cui negatività logica rispetto a quella politica si poneva come niente. Il Niente come sottofondo naturale della realtà della ragione umana, è un altro modo dell‟essere cosmico, legato alla pura necessità, rispetto al quale modo quello della politica si costituiva come il modo della libertà. Non, pertanto, la ragione cosmica era pervasa da un logos di libertà, ma solo la ragione politica, la cui tàxis liberava la natura della sua contraddittoria contingenza particolare entro la
388 H. Jonas, quando afferma che per la filosofia classica “il mondo è eterno”, per cui questo “è una conseguenza necessaria della natura divina, e ciò nel doppio senso che esso esiste perché esiste il divino e che è ciò che è perché la natura divina è ciò che è”, omette di considerare che “l‟impossibilità intrinseca di „essere altrimenti‟ è logicamente necessaria o razionale” (Op. cit., pagg. 72-73) solo in riferimento alla struttura normativa cosmica, appunto di tipo razionale, ma non già in riferimento all‟ordine politico (tàxis), parallelo a quello naturalistico, per cui, fruendo epistemicamente delle leggi cosmiche, l‟uomo sostituisce gli dèi nella organizzazione del vivente, sostituendo in ambito sociale il caso fortuito con l‟ordine politico giusto. In tal senso, la giustizia consiste nella applicazione della razionalità entro il mondo sociale, scientificamente amministrato secondo la virtù (ossia la teleologia della volontà) politica, la cui vigenza implica che gli enti sociali politicizzati siano uguali rispetto al necessario principio razionale che li pone. Ma tale uniformità, vigendo all‟interno del particolare spazio politico stabilito dall‟uomo, stabiliva inevitabilmente, almeno in quell‟ambito, una scissione tra antropologia e fisica, che non derivò dunque alla filosofia dalla concezione ebraica, come vuole Jonas (Ivi, pag. 74). Il bìos qualificandosi politicamente ri-formava la natura in mondo, la cui costituzione, diversamente da quella del resto ella natura, poteva essere dimostrata a priori. L‟incontro con l‟ebraismo avviene in questo luogo creazionistico, dove Dio, similmente al demiurgo politico greco, era artifex mundi, solo più potente.
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necessità cosmica, destinandola a una univoca e coerente necessità, quella della sola realtà attuale, (aliqua res actu, direbbe Duns Scoto), originariamente desunta dal confronto delle tesi o volontà particolari avanzate dai rappresentanti politici delle distinte phylai, e quindi logicamente, e quindi necessariamente, determinata attraverso il procedimento metodico della tecnica dialettica. Liberata dalla negatività della physis, l‟attualità dell‟essere razionale è tutto ciò che di positivo può esserci nella realtà del bìos. Ora possiamo renderci pienamente conto che la “prudenza”, quale virtù del Potere politico, consista nell‟evitare la degenerazione dell‟ordine razionale in una condizione naturale, pre-politica, nella quale si ripropongono tutti gli elementi di conflitto nelle relazioni umane che erano state depurate della loro ingiusta, e cioè contingente, distribuzione naturale. Ciò vuol dire non già che l‟ordine complessivo della natura sia irrazionale, ma che lo sia il suo interno sviluppo contingente, privo di alcuna finalità che non sia la ripetizione dell‟uguale. L‟ordine politico, di contro, riportando all‟interno della fenomenologia della vita umana l‟ordine cosmico generale, adatta metodicamente la società al principio razionale di socialità, la politìa. E in ciò costituisce l‟areté della “prudenza”. La scelta razionale consiste pertanto nella possibilità riservata all‟uomo di emanciparsi dal ciclo della vita naturalistica, dalla sua inconcludente ed eterna ripetizione, assegnandosi un tèlos che sia la ragione dello svolgimento della sua vita mortale, il quale consiste nel bios politikos. Lo spazio della vita politica realizza il modo di emanciparsi dalla finitezza della natura. Un modo dunque pratico, istituzionale ed etico. L‟uomo greco è consapevole della finitezza della natura umana e convinto di poterla superare attraverso la forma politica. tale forma non è noetica, inerente il nous, ma ideale, inerente un modello astratto di realtà utile alla sua definizione reale, cioè alla sua realizzazione concreta. In questo senso, l‟idealismo è l‟espressione teoretica del pragmatismo greco, finalizzato alla de-finizione dello spazio politico alternativo a quello originario naturale. uno spazio derivato da un modello ideale razionale. Uno spazio ideale, quello politico, che in natura non c’è ma va creato dall‟uomo come suo mondo, all‟interno del quale egli stabilisce delle dinamiche di comportamento razionale non rinvenibili direttamente in natura, ma derivate dalla scoperta del rapporto di identità del pensiero logico con l‟essenza ideale della realtà. 178
L‟essenza ideale della realtà è di tipo razionale, ossia consiste nella dimensione d‟essere di ciò che è privo di divenire, e quindi stabile, conoscibile attraverso il modo dialettico di distinguerla dalla dimensione contraddittoria del processo naturale, instabile per definizione. Razionale non è pertanto la realtà naturale, ma solo quella del pensiero ideale, conseguibile col metodo del ragionamento filosofico. Lo spazio politico era per l‟uomo greco l‟ambito in cui gli era possibile determinare il passaggio dall‟essenza all‟esistenza attraverso la volontà razionale, piegata cioè dall‟ “intelletto attivo” epistemico. L‟ambito della razionalità politica era dunque quello della volontà emancipata dalla fatalità naturale e padroneggiata dall‟uomo attraverso il significato del suo tèlos universale. La volontà universale era quella della ragione politica, e l‟ambito politico era dunque quello dell‟universalità dell‟essere razionale, in cui era possibile liberarsi filosoficamente del divenire naturale, ossia, infine, dalla dipendenza degli dèi.389 Il primato greco della volontà umana fu riesumato dalla tradizione cristiana che, se da un lato riabilita la diffidenza ebraica verso la natura, esalta dall‟altro con Agostino la “volontà nell‟uomo, come luogo estremo del dramma del peccato e della salvezza”,390 intesa però in senso trascendente e punto socio-politico. Il senso cristiano di “totalità” allarga l‟orizzonte filosofico-politico di universalità, e con esso anche la sfera della volontà, in cui essa è chiamata a “prendere le sue decisioni senza l‟aiuto dell‟intelletto”. Una forma o un modo di essere della volontà è la fede, che diventa con Duns Scoto il suo fine ultimo al posto della conoscenza,. “Questo spostamento rompe con una tradizione millenaria, che aveva concepito il fine ultimo come una forma di conoscenza”.391 D‟altronde, l‟intelletto, se ha perduto il primato sulla volontà, può conoscere non solo le realtà astratte universali ma anche l‟individuale, che con Duns Scoto diventa la realitas ultima, ossia la perfezione, anziché un difetto rispetto al modello della forma ideale. Ora anche l‟individualità ha un modello formale, che è la haecceitas, che completa
389 A maggior ragione ci si poteva liberare dal giogo del potere non conforme ai dettami della verità razionale. 390 H. Jonas, Op. cit., pag. 88. 391 Ivi, pag. 90.
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la essenza generale della quidditas degli enti, per cui “lo stesso principio di individuazione si trova nella sfera ideale, cioè nel cuore delle cose”. Se nella conoscenza in senso greco conta solo la forma universale, di cui l‟individuale è una rappresentazione materiale che nulla aggiunge di intelligibile, rimanendo la materia “estranea all‟essenza”, la “forma dell‟individualità” postulata da Duns Scoto diventa una “componente necessaria, intrinseca dell‟essenza concreta”, tale che “ciascun ente individuale [abbia] la sua forma”.392 L‟ente divino del monoteismo ebraico-cristiano, superando la pluralità del deismo pagano e le sue contraddizioni criticate da Socrate nell‟Eutifrone platonico, non può irretire la sua onnipotenza creatrice entro le leggi della ragione, per cui l‟ordine da Lui stabilito è morale, non in quanto conforme a leggi immutabili ma in quanto opera della Sua volontà. “E in virtù del potere assoluto di Dio sarebbe anche possibile un altro ordine morale”. Ciò che conta è il mutamento del concetto di legge morale in ordine alla volontà e al potere, nel senso che “la volontà di postulare dei valori, e il potere di trasformarli in legge, sono congiuntamente all‟origine di ogni norma operativa”, il cui fondamento è per la fede la imperscrutabile saggezza di Dio. Quando il fondamento della fede venne a mancare , “restano solo la volontà e il potere dell‟uomo a fondare ogni norma o legge”, sicché , se nella prospettiva del razionalismo socratico “i comandamenti varrebbero anche senza Dio, in quanto si basano su essenze intelligibili”, il cui fine immanente è l‟euzein politico, nella nuova prospettiva volontaristica affermatasi col cristianesimo “l‟uomo eredita il ruolo di creatore e protettore dei valori, senza alcuna luce che guidi la sua scelta, poiché egli non è saggio e non ha alcuna visione dell‟eterna saggezza a cui ricorrere”.
All‟inizio, l‟antica distinzione tra leggi valide “per natura” (perciò immutabili) e leggi “istituite” (perciò mutevoli) venne cancellata dalla dottrina creazionista-volontarista secondo cui ogni cosa era “istituita”, e trasformata nella distinzione tra istituzione divina e istituzione umana. Successivamente, questa seconda distinzione, privata del suo sostegno dottrinario e svanito il suo elemento divino, si ripiegò sull‟elemento
392 Ivi, pagg. 90-91.
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rimasto, quello umano, e il legiferare dell‟uomo, immerso nel continuo mutamento del suo essere, rimase padrone del campo. Fu questo l‟effetto potenzialmente dirompente della svolta determinata dal confluire di scotismo e nominalismo, che segnò il passaggio dal Medioevo all‟Età Moderna.393
La questione è però che la riesumazione di tale svolta omette di considerare che a) l‟incidenza “dirompente” dell‟istituzione umana presupponeva a) la rimozione della civitas Dei quale contraltare alla città dell‟uomo, e b) il ruolo che il dogma teologico ha per resistere alla riduzione del messaggio evangelico a ideologia politica. La sostituzione della civitas Dei alla pòlis pagana comportava da parte cristiana una ridefinizione della legislazione terrena in senso escatologico che escludeva dalla sua prospettiva terrena il rifacimento istituzionale del modello razionalistico greco, concepito come funzionale alla realizzazione dell‟astratto ideale politico, e quindi lo stesso fondamento epistemico della sua giustificazione filosofica. Di contro, proprio la assunzione della prospettiva filosofica pagana come metodo di rappresentazione razionale dei contenuti scritturali e dogmatici da parte della teologia cristiana – si pensi alla giustificazione dell‟impero romano col monoteismo da parte di Eusebio, che per puro spirito di acquiescenza al Potere romano rimosse l‟istanza anti-politica dell‟escatologia cristiana, esaltando “la pax augusta come qualcosa operato dalla Provvidenza per preparare la diffusione del vangelo cristiano tra i popoli non più nemici” 394 ha determinato la “svolta” politicistica e razionalistica moderna, consentendo quindi la formazione di una “teologia politica che abusa dell‟annuncio cristiano per giustificare una certa situazione politica”.395 Ma proprio tale trasformazione del messaggio divino in ideologia politica è alla radice dell‟idolatria razionalistica, operata per primi dai filosofi idealisti greci, i quali hanno svincolato le leggi umane da ogni rapporto di fede religiosa. L‟emancipazione filosofica greca dalla
393 Ivi, pagg. 92-93. 394 G. Ruggieri, Editoriale in E. Peterson, Der Monotheismus als politisches Problem (1935), tr. it., Brescia, 1983, pag. 14. 395 Ivi, pag. 16.
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religione pagana tradizionale avvenne in nome della costruzione etica del contesto politico, garantito non più dagli dèi ma dalla costituzione. Nella forma del regime politico si realizzava l‟oggettività del modello ideale. Per quanto riguarda la fede cristiana, invece, il rapporto tra coscienza filosofica e Stato si trasformò nel rapporto problematico tra coscienza individuale e Chiesa. Se, infatti, nel caso politico, l‟individuo si definiva attraverso la sua appartenenza alla comunità statale, nel caso religioso l‟appartenenza alla Chiesa non era affatto scontata, in quanto l‟istituzione ecclesiale non era il fine, che rimaneva trascendente, cui tendeva il cristiano, ma semmai lo strumento storico, per cui il senso dell‟adagio extra aecclesiam nulla salus, andrebbe intesa come nulla ecclesia sine salutem. Omologare la Chiesa allo Stato, facendo di entrambi il fine dell‟operare umano, equivaleva appunto a idolatrare l‟opera umana. Questa ideologizzazione dell‟escatologia cristiana in senso ecclesiale è avvenuta attraverso la fruizione teoretica dello stesso strumento concepito dal pensiero greco per pensare la virtù nella città terrena, ossia la filosofia, la cui universalità attende di realizzare se stessa, il suo modello ideale, e non la parola di Dio. Il testimone della virtù politica dello Stato è il cittadino, rappresentante della vita politica. Il testimone della grazia divina è il martire della confessione della sua fede in Cristo, e della Sua chiesa, intesa in senso originario di comunità dei battezzati, non di Chiesa istituzionale. La dogmatica ecclesiale è la stessa fede espressa attraverso la sua concreta confessione pubblica, e non il testo legale opposto a quello della astratta legge statale. Il cittadino può rappresentare lo Stato, partecipando da sovrano democratico alla sovranità, in quanto l‟essenza della sua funzione è la stessa essenza del Potere. il credente, invece, non rappresenta mai la sua chiesa, né tantomeno la Chiesa istituzionale, in quanto la sua concreta singolarità è già una totalità rispetto agli altri uomini, e non perfettibile che in rapporto escatologico alla perfezione spirituale di Dio, non certamente attraverso il medium socialitario, sia quello politico che ecclesiale.396
396 Quando si afferma che nella fede “la politica e lo spazio della sovranità umana non vengono annullati, ma solo sostenuti in un atteggiamento più grande che demitizza, laicizza, desacralizza quel potere […]” (G. Ruggieri, loc. cit., pag. 25), 182