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che fosse, secondando la vocazione originaria del filosofare. Se dunque “il moralista cattolico vuole piegare l‟intera vita mondana, fin negli elementi più concreti, sotto norma etico-religiose, che, in ultima analisi, derivano dalla lex divina”, la cui obbedienza “per lui costituisce una condizione, al fine della salvezza e della beatitudine, non inferiore alla fede in Cristo, alla sua grazia e alla sua redenzione”, il Protestantesimo nel suo complesso “dichiara la „legge‟ „finita‟ e „mondana‟ e la considera come obbligante soltanto „al fine della pace terrena‟ (Lutero), ma non la considera vincolante dal punto di vista religioso e al fine della giustificazione e della beatitudine”, rinunciando per tale via “anche, per principio, a ogni genere di direzione etico-religiosa della vita economica”.403 Da qui la rinuncia alla “spiritualizzazione anche della vita corporale dell‟uomo” e di conseguenza “la rinunzia ulteriore a delimitare da un punto di vista etico-religioso, n qualsivoglia forma, l‟impulso acquisitivo”, e dunque “l‟emancipazione, in linea di principio, dello spirito della vita economica in generale da qualsivoglia ispirazione di un‟autorità spirituale etico-religiosa e da ogni direzione sacerdotale”.404E l‟intero “spirito operativo che si esplicava nel culto, come lato pratico della contemplazione e della preghiera si travasò “nello spirito operativo pratico-mondano del lavoro professionale e del lavoro acquisitivo”, realizzando “il paradosso, per cui il soprannaturalismo rafforzato della religiosità protestante […] doveva spingere l‟impeto dell‟energia della volontà dell‟uomo nient‟affatto verso l‟alto, bensì verso il basso, verso il lavoro illimitato sulla materia, anzi sviluppava quei poteri illimitati della volontà rivolti a dar forma e ordine alla materia”.405 Tuttavia, con buona pace di Scheler, non poteva un “paradosso” essere la ragione storica di una trasformazione così importate dello spirito europeo e della sua civiltà universale. Essa è

403 M. Scheler, Loc cit., pag. 79. 404 Ivi, pag. 80. 405 Ivi, pag. 82.

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potuta avvenire in quanto la possibilità di una devianza dalla trascendenza del fine della fruizione della lettura razionale del mondo era già compresa nel metodo razionalistico stesso, concepito ab origine proprio per emancipare la coscienza filosofica da ogni tradizionale determinazione fideistica. E fin quando la potenza della fede era riuscita a contenere nel suo orizzonte cristologico la tensione eversiva del filosofare, questo potette essere piegato dalla volontà religiosa a servire un fine trascendente, ma dal momento in cui l‟amore spirituale per l‟eterno nell‟uomo abbandona le sorti della sua carne al destino mondano, questo destino riprende a definirsi in termini di ragione universale autonoma, emancipata da ogni fine di santificazione. E‟ infatti nella natura della volontà stabilire un rapporto di forza tra impulsi divergenti, e quindi collegare l‟esito della stessa volontà alla forza maggiore, ossia a un Potere direttivo, per cui la direzione spirituale della volontà umana era inscindibilmente legata alla forza mondana della Chiesa, vindice su altri poteri concorrenti. Il Potere dello Stato moderno, rimosso teoreticamente il fondamento fideistico e trascendente del metodo razionale di direzione della volontà, ne esalta la sua libertà identificandola con la stessa emancipazione dalla fede, ossia dai fini trascendenti della sua fruizione metodica, ripristinandone l‟originaria destinazione anti-dogmatica e politica. Infatti sul terreno politico si incontravano sia la libertà della volontà dal fine religioso che la libertà della ragione dal fine trascendente, fondendosi modernamente in maniera filosoficamente alternativa al sincretismo teologico cristiano, e dove prima c‟era un prodotto rivolto al contatto col cielo, ora vi è un prodotto rivolto alla trasformazione della natura. Un ricorso neo-pagano della civiltà conseguente all‟esaurimento dell‟inerzia culturale della teologia cristiana medievale. “Proprio la nuova svalutazione religiosa, soprannaturalistica, del mondo sopprime l‟amore per il mondo e l‟atteggiamento contemplativo rispetto ad esso e ne fa una pura e semplice „resistenza‟ per un‟energia lavorativa adesso illimitata. Un mondo in sé dotato di valore, che provoca „gioia‟, lo si

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guarda con stupore e con ammirazione; solo il mondo svalutato può sviluppare un‟energia di lavoro illimitata!”.406 L‟etica del lavoro nasce nondimeno dal raffronto tra il modello cosmico razionale e la concreta realtà effettuale. Senza quel modello, neppure il lavoro avrebbe quel motivo di perfezionamento della natura che è implicito nella volontà di cambiarla attraverso di esso. E questa volontà razionalizzata in agire etico-politico è alla radice della dimensione della vita civile in senso greco, tesa al perfezionamento della vita morale dell‟uomo, ereditata dalle teorie contrattualistiche e democraticistiche moderne. La stessa teoria tomistica della società organica rappresenta l‟ordine delle gerarchie sociali come un correttivo razionale apportato dall‟uomo alla vita meramente biologica dell‟esistenza naturale, conforme alla immutabile lex divina ma comunque attinente a un ordine non spontaneo, non fosse altro perché garantito dalla azione pastorale della Chiesa, indispensabile al buon funzionamento dello stesso Stato. Ciò implicava che la superiorità morale dell‟uomo non derivava dalla sua natura perfetta rispetto alla imperfezione naturale, ma alla sua capacità di correggere tale imperfezione della natura, compresa di quella propria, in senso conforme a ragione, che è il fine sostanziale, “l‟anima” e la “causa”, dell‟essere umano. Se infatti “vivere è per i viventi l‟essere”,407 la vita razionale () è quell‟essere che tende a emanciparsi dall‟informe eternità dell‟essere di natura (), il cui modello cosmico è costituito dal ciclo biologico, quel divenire eterno delle cose che costituisce la vita naturale. “Al contrario, incastonata in un cosmo in cui tutto era immortale, la mortalità divenne il marchio distintivo dell‟esistenza umana”, caratterizzata da un  individuale che “sgorga dalla vita biologica, dalla ” e che nella nascita e nella morte ha i suoi termini., distinguendosi “da tutte le altre cose per il suo corso rettilineo”. E proprio “questo è l‟essere mortale: muoversi in linea retta in un universo dove tutto ciò che si muove segue, semmai, un moto

406 Ivi, pag. 83. 407 Aristotile, Dell’anima, II, 4, 415b-13. 190

ciclico”.408 La “frattura” che “spezza il moto circolare della vita biologica” diventa il contenuto straordinario della storia.409 Ma il senso riposto della “mortalità” è custodito dalla implicita incompiutezza della natura umana, dalla sua insufficienza antropologica, destinata a trovare nella socialità razionalizzata il correttivo artificiale alla sua disarmonia col resto della vita naturale, di ciò che nasce spontaneamente da sé e che costituisce il “peccato originale” dell‟uomo. Lo strumento per superare tale incompiutezza umana, che avvolge opere e parole, è affidarle alla memoria, a Mnemosyne, la quale strappa i  alla loro labilità e li fissa nella  scritta, nella parola poetica e quindi storiografica.410 E qui riscontriamo l‟origine del “paradosso” moderno ricordato da Scheler, il più “grave e doloroso”, che conferì “un aspetto tragico alle più alte espressioni della cultura greca”: il contrasto tra l‟eterntà delle cose divine e naturali e l‟immortalità delle gesta e delle parole umane, per definizione labili, che ha costituito “l‟incubo costante della poesia e storiografia elleniche, così come ha turbato la pace dei filosofi”.411 Mentre la poesia decantava l‟eroe divinizzato in quanto all‟altezza della natura, la filosofia rintracciava la verità eterna, non commensurabile con la finitezza dei prodotti mortali, anche gloriosi, e alla quale l‟uomo può attingere con la contemplazione, ossia con la “visione” di essa. Come ha ricordato il Pohlenz,  deriva dalla stessa radice , “vedere”, di , “sapere”, così che  è colui che sa in quanto ha visto le gesta umane grandiose che meritavano di essere ricordate.412 Per la Arendt, lo stretto legame tra natura e storia “non ha affatto il carattere di un‟opposizione”, e risiede nella “immortalità, che la natura possiede senza sforzo […], e che i mortali devono invece sforzarsi di realizzare se vogliono mantenersi all‟altezza del mondo in cui sono nati”, per cui “la storia accoglie nel suo bagaglio di memorie i mortali che con le loro gesta e parole si sono dimostrati degni della natura”,

408 H. Arendt, Between Past and Future (1954), tr. it., Milano, 1999, pag. 71. 409 Ivi, pag. 72. 410 Ivi, pag. 74. 411 Ivi, pag. 75. 412 Cit. da H. Arendt, Ivi, pag. 295.

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rimanendo “in compagnia delle cose durevoli, pur essendo mortali”.

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Ma il criterio della immortalità è necessariamente riferito alla caducità degli eventi umani rispetto a quelli divini. Emancipatosi l‟uomo dalla dipendenza religiosa, ossia dalla rappresentazione mitica della realtà, è venuto a mancare anche il termine di paragone relativo alla differenza rispetto alla in-differenza qualitativa del ciclo naturale, per cui la storia umana per affermare le proprie ragioni doveva umanizzare la natura, rendendola perciò storica, ossia prodotto non-eterno ma significativo in quanto opera della ragione. La stessa trasformabilità della materia ne dimostrava la sua finitezza, mentre la vera immortalità toccava alla ragione, l‟unica in grado di trasformare un inerte e indifferenziato composto di eternità fisica in un prodotto della determinatezza volitiva dell‟uomo. La storia così diventa il luogo delle vicende umane in cui la volontà si eleva sopra la necessità indifferente della natura, ossia sopra lo stesso destino. La storia come il luogo della trasformazione della vita di destino in esistenza ideale è lo spazio della libertà umana dalla necessità della natura, dalla sua indifferenziata indeterminazione. E poiché tale spazio di libertà era  ‟per i Greci quello politico, la storia diventa l‟epopea della libertà umana, segnata dalla trama del lògos eterno. A partire da Tucidide, la storiografia diventa scrittura non meramente narrativa ed espositiva ma significativa e teleologica, perché rappresentativa di avvenimenti collegati in senso logico, fenomenologia. Il  filosofico era una domanda senza risposta, la cui meraviglia consisteva non dalla contemplazione ma dalla necessità di attribuire al prodotto naturale un artefice che si occultava dietro gli eventi appariscenti. Esclusi gli dèi, anch‟essi soggetti alla lotta per l‟affermazione, la natura stessa fu pensata come dotata di un intimo fine, la riproduzione di sé, che è “l‟anima” della vita.414 Il demiurgo del Timeo stabilisce una  che non persegue semplicemente la tradizione di vita della specie indifferenziata, ma un modello ideale di , prodotto dalla coscienza teleologicamente orientata. La natura può essere eterna ma non grandiosa, perché il suo corso è prevedibilmente lo stesso, ciclico, e non si trascende. Presso i Greci, “la grandezza si

413 Ivi, pag. 78. 414 Aristotele, Dell’anima, II, 4, 415a-415b. 192

riconosceva subito come una cosa che di per sé aspirava all‟immortalità”, che rivelava un disprezzo “per tutto ciò che si limita ad avvenire e trascorrere”.415 La distinzione tra ciò che indeterminato e quindi caduco, da ciò che è determinato e partecipa del logos razionale è l‟attività stessa del filosofare. I fenomeni naturali, però, pur nella loro ripetitività, esperibile empiricamente e univocamente da tutti gli osservatori, celano il senso profondo di ciò che manifestano, attestando come solo il prodotto umano possa essere veramente conosciuto, secondo la conversione vichiana del verum col factum. Noi sappiamo il “come” di un fenomeno, ma non il “perché”, in quanto non possiamo metterci nella mente di Dio, imperscrutabile. L‟unico ambito veritativo in cui l‟uomo può esercitare la sua facoltà conoscitiva è dunque la storia, la realtà fatta da lui stesso. “Dal XVII secolo in poi ogni indagine scientifica, in materia storica o fisica, ha per oggetto dei procedimenti: ma solo l‟odierna tecnologia […] avrebbe potuto corrispondere in pieno all‟ideale vichiano della conoscenza”, sicché la storia in senso moderno “non narrava più lo svolgersi degli eventi connessi alla vita degli uomini, ma diventava un processo fatto da mano d‟uomo, l‟unico processo a carattere universale che dovesse la propria esistenza all‟esclusiva opera della razza umana”.416 Nondimeno, non bisogna mai perdere di vista che il suddetto “carattere universale” delle trasformazioni tecnologiche, sia pure non realizzate nell‟ambito della civiltà greca per l‟interesse riservato alla destinazione politica dell‟intervento umano, era comunque implicito nel razionalismo filosofico, costituendo l‟universalità il fondamento veritativo del sapere. Che tale universalità potesse essere conseguita nella definizione dei modelli formali di realtà, attraverso le attività teoretiche, era all‟origine, non soltanto della declinazione filosofica della conoscenza della realtà, ma della differenza tra esse e le attività pratiche, sempre limitate nella loro traduzione effettuale di quei modelli ideali. Recentemente però lo sviluppo delle potenzialità umane di intervento sui processi naturali ha ridotto progressivamente tale differenza, per cui “dai primi del Novecento, la tecnologia si è rivelata il punto d‟incontro delle scienze naturali e di quelle storiche”, secondando così perfettamente “le

415 H. Arendt, Loc. cit., pag. 83. 416 Ivi, pagg. 89 e 90.

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intenzioni più recondite della scienza moderna”, il cui metodo sperimentale si è esteso dalle scienze naturali a quelle sociali.417 Il metodo scientifico, richiedendo la condizionatezza delle procedure della conoscenza, realizza elitticamente anche un potere di controllo sulla realtà quale oggetto di conoscenza, costringendo per quanto possibile le azioni umane entro i parametri della loro verificazione formale. Questo è il senso della razionalizzazione del mondo: il ricondurre l‟esistenza umana universale entro un processo prevedibile di sviluppo regolamentato da quella che M. Weber chiamava “la gabbia della civilizzazione”, che nell‟agire politico greco trova il suo archetipo tipologico. Rispetto ai “manufatti” del tradizionale homo faber, le nuove creazioni umane conseguenti a interventi sulla natura in vasta scala differiscono per l‟incontrollabilità della loro fruizione, non più localmente circoscritta ai bisogni essenziali ma aperta a una molteplice funzionalità strumentale non sempre prevedibile e quindi astratta dalla concretezza dell‟agire umano, che dunque il metodo scientifico non può compiutamente conoscere. Ma questa insuperabile aleatorietà insita in ogni processo universale incide anche sulla credibilità scientifica del sapere filosofico, che trova il suo limite teoretico nella sua stessa pretesa di veridicità, a cui consapevolmente ha rinunciato la metodologia delle scienze accettando la verifica empirica delle loro ipotesi teoriche. Considerata la labilità dell‟azione umana, che non “potrà mai essere eliminata da nessuna direzione meccanizzata delle faccende umane”, solo l‟ipotesi di “un condizionamento totale, cioè la completa abolizione dell‟azione, può riuscire a sconfiggere l‟imprevedibilità”. Ma “anche quel comportamento prevedibile, imposto all‟uomo dal terrore politico durante periodi relativamente lunghi, difficilmente riuscirà a modificare la più profonda essenza delle faccende umane, e non potrà mai assicurarsi il futuro”.418 Ma se ciò è vero, la stessa pretesa universalistica della filosofia deve trovare il suo limite, non solo empirico ma ontologico, nella consapevolezza che la realtà concreta dell‟esistenza umana non può essere conosciuta attraverso il metodo astrattivo del sapere razionalistico, e dunque che lo spazio della libertà

417 Ivi, pag. 91. 418 Ivi, pag. 93.

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umana non può identificarsi e ridursi a quello politico del Potere frenante gli effetti del divenire, ossia di quella “pluralità di nuovi esseri umani” di cui parla la Arendt, “autori di azioni e reazioni imprevedibili da quanti vi si trovano prima e sono destinati a partire tra breve”.419 L‟azione umana, inserita con la sua imprevedibilità all‟interno della natura, ne altera lo sviluppo spontaneo, generando un “processo” anch‟esso imprevedibile, il cui concetto ha sostituito nella storiografia moderna quello antico di “immortalità”, facendo della storia umana un processo storico.420 Il concetto di processo sta alla storia spirituale dell‟uomo come il metodo razionalistico sta al pensiero umano; “sottintende che il concreto si è scisso dal generico, la cosa o l‟evento singolo si sono divisi dal significato universale”, per cui esso solo “rende significante tutto quanto si trova ad abbracciare, acquistando così il monopolio dell‟universalità e della significazione”.421 Sennonché, tale “monopolio” è implicito nella stessa pretesa di universalità avanzata dal concetto razionale quale condizione della sua validità intesa come “verità”; condizione che si costituisce attraverso l‟inveramento della rappresentazione della realtà offerta dal Mito, rielaborando il quale la filosofia distingue l‟evento di senso razionale dal suo significato concreto, considerando di esso solo il suo contenuto universale, astratto dal suo fondamento di senso eterno, ossia dalla concretezza della sua verità di fede. ed è appunto tale perduta concretezza del pensiero razionalistico che l‟azione pratica cerca di recuperare emancipandosi a sua volta dal metodo del pensiero astratto come atto spontaneo di libertà. Scisso il pensiero dall‟azione, e considerato questo essenzialmente libero, il metodo razionalistico dispiega la sua coerenza logica sempre più come un regno della necessità, analogo a quello della natura. E da qui l‟avvicinamento dei processi storici a quelli naturali; che non è moderno ma è un ricorso naturalistico del pensiero greco. Proprio per la polivalenza metodologica delle “domande” che l‟uomo pone agli eventi, questi non possono avere “un senso in sé e per sé”, originario e univoco, cioè

419 Ivi, pag. 94. 420 Ivi, pag. 95. 421 Ivi, pag. 97.

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metafisico, rispetto al loro significato razionale, in quanto la loro comprensione si è stabilita esattamente sulla esclusione o rimozione di quel presupposto extra-metodico. Esso infatti poteva essere concepito solo come eterno, dal momento che il nesso avvenimenziale tra i fenomeni storici si stabiliva sulla loro consequenzialità temporale che li comprendeva nella scansione finita che andava da un terminus a quo a uno ad quem. E l‟eterno è “sacro” per definizione, e dunque pertinente al divino, non all‟umano. Avendo il metodo filosofico costituito la sua validità scientifica sulla esclusione di ogni originario supporto di sacertà divina, ecco che la stabilità del fondamento assente la si rinvenì nella natura, nella sua onnipresente realtà, a cui si collegò l‟essere del pensiero razionale, secondo il binomio tipico della ontologia greca. Il cristianesimo ristabilì quel fondamento divino, facendo degli eventi umani una storia sigificativa rispetto ad esso, e in tal senso divina.

422 La divinizzazione cristiana della storia libera gli eventi umani dalla fatalità naturalistica consegnandoli alla volontà di Dio, che presiede e dirige il corso complessivo delle azioni dei singoli uomini, responsabili di esse. Il senso complessivo degli eveni singlari è nella visione cristiana della storia un senso sacro e spirituale, non razionale. Il cristianesimo ha universalizzato la singolarità di ogni storia personale, liberandola dall‟ancoraggio etnico della teologia ebraica (). Fu la tradizione alessandrina che con Filone concepiì l‟unico Dio della tradizione ebraica sancita dal primo Comandamento come il “monarca cosmico” di “tutto il genere umano”,423 facendo della storia dell‟umanità un evento unitario, per quanto frastagliato. Non si può, tuttavia, come fa la Arendt, separare l‟evento storico secolare dal religioso come il profano da quello sacro,

422 “Sebbene le istituzioni umane del passato siano riferite in una narrazione storica, la storia in sé non può essere annoverata tra le istituzioni umane”: Agostino, De doctrina christiana, 2, 28, 44, cit. da H. Arendt, Loc. cit., pag. 99. 423 Ved. E. Peterson, Der Monotheismus als politisches Problem, tr. it. cit., pagg. 35-36. Sulla concezione teologico-politica di Filone, ved. F. Calabi, Sovranità divina, regalità umana in F. di Alessandria, in P. Bettiolo-G. Filoramo (a cura), Il dio mortale. Teologie politiche tra antico e contemporaneo, Brescia, 2002, pagg. 63-77.

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attribuendo alla mentalità moderna uno stesso valore sacro agli eventi secolari,424 poiché l‟evento cristico conferisce all‟agire complessivo dell‟uomo come creatura divina un significato spirituale che trascende la stessa distinzione di secolare / religioso, in quanto il cristianesimo è una fede singolare e non una religione sociale o nazionale. E in questa singolarità, non già nella sua secolarità, riposa la considerazione moderna che le azioni di ogni attore storico abbiano un proprio e irripetibile percorso avvenimenziale.425 Diverso è il caso dell‟accostamento della storia umana a un processo naturale. Infatti già il naturalismo pagano presupponeva l‟eternità come fondale cronologico indeterminato della fenomenologia degli eventi naturali, per cui è vero che “tale duplice infinità, passata e futura, cancellando ogni nozione di principio e fine escatologica, stabilisce l‟uomo in una potenziale immortalità terrena”,426 ma nel senso che eliminando dalla storia il suo cristiano valore spirituale singolare, la riporta a una sequenza di meri processi fenomenici collettivi di tipo sociologico-naturalistico, aventi tutt‟al più un significato di carattere economico e politico. L‟immortalità degli eroi cantata dagli aedi e da Omero era confermata dalla immortalità del loro connubio divino, laddove l‟immortalità derivata dalle gesta politiche dipendeva dalla resistenza dello spazio politico all‟edacità del tempo, ossia al divenire irreversibile di tutte le cose umane, contro il quale il mondo era stato concepito come realtà alternativa. L‟Essere del lògos non poteva essere lo stesso per la natura e per la storia, poiché quella era impersonale e unitaria mentre questa frammentaria e molteplice. L‟unità della Storia doveva pertanto rinvenirsi in ciò che univa il molteplice, in un senso riposto delle cose umane, che però dipendesse non dalla volontà degli dèi ma dall‟uomo stesso. Ma niente di umano era immortale, non restava dunque che carpire agli dèi o alla natura la loro immortalità. Diventare come dèi ovvero come potenze naturali restava l‟unico modo di emancipare l‟uomo dalla sua finitezza ontologica, completando così la sua

424 H. Arendt, Loc. cit., pag. 100. 425 Ivi, pag. 101. 426 Ivi, pag. 102.

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consapevole imperfezione antropologica. La maniera greca, precristiana, e quella moderna, post-cristiana, di trascendere la finitezza umana consiste nella “secolarizzazione” della vita pubblica attraverso la “separazione della religione dalla politica”,427 ossia della Potenza dalla Verità, conseguente alla emancipazione del logos filosofico dai suoi fondamenti mitici. In termini politici, tale fenomeno si è manifestato come separazione del Potere degli uomini dal Governo di Dio.428 “Il problema politico riacquistava così nell‟esistenza umana quell‟importanza decisiva perduta con il tramonto della civiltà classica”.429 La questione moderna non era più dunque quella di stabilire la tipologia del regime politico conforme alla di Dio, quanto di definire il “sistema di valutazione” per porre i fondamenti secolaristici della sovranità, e quindi del criterio dell‟affidamento sociale del Potere. La creazione greca di uno spazio politico autonomo dalla costituzione tradizionale della società, aveva ridefinito i ruoli sociali secondo criteri razionali di funzionalità etica e non di prestigio morale. La politica si pose nei confronti dei tradizionali rapporti sociali come il pensiero filosofico di fronte alla tradizione religiosa. Ma la possibilità di costituire uno spazio relazionale alternativo a quello sociale quotidiano era condizionata dall‟affermazione di una funzione razionale dei ruoli politici esclusivamente circoscritta al bene comune. E ciò comportava il riconoscimento comune della superiorità della funzione pubblica e politica su quella privata ed economica di tipo appunto sociale. Allorquando si distingue l‟ascendenza sociale dal merito politico, si gettano le basi della costituzione dello Stato inteso come ideale realtà

427 Ivi, pag. 104. 428 “Gli scrittori politici del XVII secolo realizzarono la secolarizzazione scindendo la filosofia politica dalla teologia, e sottintendendo come le leggi naturali fornissero un fondamento alla politica indipendentemente dall‟esistenza di Dio. […] Non si negava con ciò l‟esistenza di Dio: si scopriva un senso immanente, indipendente del regno secolare, che non poteva essere alterato neppure da Dio”: H. Arendt, Loc. cit., pag. 105. Ma esattamente questo assunto naturalistico costituiva la credenza ontologica pagana dei Greci, che viene ristabilita in età moderna alla dissoluzione della cosmo-teologia cristiana. 429 Ivi, pag. 106.

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politicamente autonoma. Lo Stato realizza dunque l‟ideale condizione umana altra da quella tradizionale legata alla realtà sociale. Il carattere pubblico del ruolo politico differisce da quello sociale privato dalla circostanza decisiva che il ruolo privato è trasmissibile ed ereditabile, laddove quello politico è unico e intrasmissibile. Da qui la ritrosia dei costituzionalisti greci verso i reggimenti monarchici, che riflettevano gerarchicamente la struttura sociale del governo privato dell‟oikos. Mentre l‟attività economica tendeva a conservare il più possibile il patrimonio privato, l‟attività politica ricercava la “immortalità” pubblica, quella “gloria” degna di memoria ricordata dai monumenti ed eternata dagli storici. Ma l‟aristotelico  presuppone la mortalità dell‟uomo e la caducità delle opere umane, quelle politiche comprese. L‟umanesimo moderno riporta l‟uomo spirituale della tradizione cristiana entro lo spazio naturale della socialità politica, nel cui ambito culturale acquistano significato le sue opere finalizzate al consensus gentium. Con la constatazione della natura peritura degli stessi stati, lo scenario dell‟azione umana che aspirasse all‟immortalità terrena diviene la Storia dell‟uomo quale essere naturale, ossia l‟esperienza dell‟umanità. La Storia diventa così per gli uomini “ciò che la specie è per gli animali e le piante”.431 Il legame tra storia e politica si stabilisce a partire dalla determinazione stessa del tempo storico, il quale attende, come la nottola di Minerva, che gli eventi umani giungano a compimento prima di levarsi in volo a comprenderli. E poiché l‟avvenimenzialità entro l‟orizzonte politico riguarda l‟agire umano a partire dalla condizione naturale, ossia in senso trasformativo dello status quo ante della condizione sociale, e quindi il futuro, la storia diventa lo scenario dei processi umani in divenire, che il loro resoconto acquisisce quando già sono diventati passato. La dipendenza del passato dal futuro conferisce alla Storia un carattere contraddittorio, ma soprattutto paradossale, in quanto nello stesso tempo in cui afferma la dipendenza del presente dal passato, esalta il futuro insito nella tensione verso la libertà dal (le costrizioni del) passato. Da qui la propensione della filosofia politica

430 Aristotele, Etica nicomachea, 1177 b-31. Cfr. H. Arendt, Loc. cit., pagg. 106 sgg. 431 J.G. Droysen, Historik (1882), cit. da H. Arendt, Loc. cit., pag. 111. 199

moderna, a partire da Hobbes, a costituirsi come una teleologia razionale funzionale agli scopi del Potere (Herrschaft), di cui la memoria storica diventa l‟archivio magistrale.432 E di qui, di conseguenza, la propensione storicistica a porsi nella prospettiva del passato per leggere il presente come il futuro di quel passato. Dalla congerie degli eventi passati, lo storico ricerca quelli che lo conducono al presente che gli interessa, il quale presente, essendogli noto, non ha la caratteristica di ogni vero futuro, ossia di essere “misterioso”, né, avendo ancoraggio attuale, la caratteristica del vero passato, di essere appunto “passato”, per cui il tempo della storia è un “eterno presente” della memoria, in cui lo storico sospende le vicende evocate. Questo eterno presente storico è l‟Essere del pensiero filosofico, eternamente immobile nella sua attualità. Ed è nella storiografia che si opera la trasfigurazione memoriale () della realtà effettuale dell‟uomo () degna di perpetua gloria in racconto ideale. Rispetto alla narrazione mitica dell‟epica omerica, quella storiografica ha per oggetto l‟ente veramente reale () del pensiero razionale (), e non l‟immagine poetica semplicemente creduta reale per fede negli dèi. E pertanto lo storico () prende il posto di Zeus come garante della verità di ciò che è narrato, facendo della sua ricerca storica () la depositaria del significato del vissuto umano, che per Erodoto come per Aristotele era la causa originaria () da cui procedevano gli eventi fenomenici narrati. In tal senso, l‟origine significativa di un evento storico in senso classico era posta in un factum passato e compiuto, che diventava esemplare, e non, in senso moderno, nel fine di una realtà condenda, per cui la Storia appare un infinito processo di libertà soltanto perché si rappresenta come “una interminabile catena di scopi che nel suo continuo progredire cancella il significato di tutte le precedenti conquiste, proponendo obiettivi e intenzioni future” che pur richiederebbero un compimento.433 Solo i facta possono farsi, per cui il loro significato è relativo ai rispettivi modelli strutturali entro i quali ha senso l‟agire che li pone in essere. Fuori di quell‟ambito strutturale,

432 Th. Hobbes, Leviathan, I, 3. Ved. H. Arendt, Loc. cit., pag. 112.

433 H. Arendt, Loc. cit., pag. 115.

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