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62 Ivi, pag
Nel riferimento al contesto sociale, la decisione del Potere politico () è conseguente alla deliberazione di Governo (), quale sua determinazione operativa. Ed è in questa fondamentale differenza il senso della distinzione tra l‟Imperium della prospettiva costantiniana e federiciana, e la Monarchia proposta da Dante, per il quale “esse unum” è la “radix” dell‟ “esse bonum”657 . Il destino delle due dimensioni ontologiche, la politica e la spirituale, è di non poter essere dialettizzabili in senso logico poiché non afferiscono alla stessa sfera di esistenza, ma nel contempo esse sono inscindibilmente unite nella stessa esperienza umana, che perciò le riflette drammaticamente nella vita concreta di ogni uomo. Partendo dall‟unità singolare dell‟uomo, la sua proiezione universale si riflette in ambito sociale come “concordia”, intesa come “uniformis motus plurium voluntatum”, la cui radice è la “unità delle volontà”, che dunque è sinonimo di concordia. 658 Dalla omogenea considerazione della voluntas individuale con la “unitatem voluntatum”, ossia con la “concordia”, è possibile per Dante stabilire una analogia tra la singolarità umana, l‟unità familiare e del consorzio civile e l‟unità dello stesso genere umano, 659 sicché la volontà umana viene assimilata alla libertà politica e intesa alla stregua di un “pouvoir faire ce que l‟on doit vouloir”,660 dove “l‟accento”, come giustamente notato dalla Arendt, “è su pouvoir”, ossia “sulla capacità di fare”.661 Il fare è una attitudine legata alla possibilità di realizzare la volontà in un‟azione produttiva. Identificare la volontà col suo supposto prodotto, significa fare della prima una determinazione astratta e dell‟azione produttiva l‟unica realtà oggettiva della libertà dell‟attore. Ma è vero il contrario. Infatti, la volontà è l‟unico elemento concreto riferibile al soggetto agente,
657 Dante, Monarchia, I, XV, 8-9, pag. 166. 658 Ivi, XV, 20-23, pag. 167. 659 “[…] Sicut homo optime se habens et quantum ad animam et quantum ad corpus est concordia quedam, et similiter domus, civitas et regnum, sic totum genus humanum; ergo genus humanum optime se habens ab unitate que est in voluntatibus dependet”: Ivi, XV, 38-42 pag. 168. 660 Montesquieu, Esprit des lois, XI, 3; tr. it., Torino, 1965, vol. I, pag. 273. 661 H. Arendt, Between Past and Future, tr. it. cit., pag. 215. 302
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dipendendo soltanto da lui, laddove l‟azione che mette in atto il proponimento della volontà ha una realtà oggettiva in quanto rientrante in un orizzonte simblico-culturale di natura sociale, e dunque di valore collettivo. In questo senso, la libertà di fare è una qualità dell‟azione socializzata, e come tale astratta dalla volontà dell‟attore agente, ossia dalla concretezza della fonte esistenziale dell‟opera umana. E dunque la considerazione della libertà del fare è già interna all‟orizzonte di senso politico, cioè del Potere, e non pertiene alla determinazione della voluntas singolare in quanto tale. L‟equivoco “disastroso che l‟equazione tra libertà e facoltà volitiva ha avuto sulla politica teorica”, di cui parla la Arendt, non nasce “dal conflitto tra l‟io che vuole e l‟io che agisce”,662 ma dal supposto superamento di tale conflitto attraverso la risoluzione dell‟un termine nell‟altro, tale da concepire, alla maniera spinoziana, una Mente collettiva che giunga all‟unità delle singole volontà individuali, e quindi a un Potere sovrano che le determina secondo la sua esclusiva volontà di potenza. Questo concetto di Potere sovrano non risale al pensiero politico moderno, a Rousseau, ma appunto all‟ideale monarchico di Dante interpretato in senso statalistico, 663 mentre è vero che “in senso politico, l‟identificazione di libertà e sovranità è forse la conseguenza più deleteria dell‟equazione operata dalla filosofia tra libertà e libero arbitrio”,664 ma “l‟illusione” di una “sovranità delle società politiche” non nasce dal fatto che “sulla terra non esiste l’uomo, bensì esistono gli uomini”, come crede la Arendt, ma dal fatto che la sovranità politica, intesa come esercizio del Potere sulla “volontà comune di un gruppo organizzato”, e la sovranità morale, ossia “la volontà individuale con cui io costringo me stesso”,665 non sono equiparabili, in quanto pertengono a sfere esistenziali ontologicamente diverse e non omologabii, cioè riducibili ad un unico concetto. Infatti, l‟esercizio del Potere politico è un fare che presuppone
662 Ivi, pag. 216. Ved. a proposito della “introduzione di un ateggiamento poietico nel dominio della praxis” Ch. Taylor, The secular Age (2007), tr. it., Milano, 2009, pagg. 151 sgg., che però non menziona le posizioni analoghe della Arendt. 663 H. Kelsen, Loc. cit., pag. 116. Ved. infra. 664 Ivi, pag. 218. 665 Ivi, pag. 219.
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il polemos, ossia un rapporto antagonistico ed escludente, e inerisce perciò la sfera della convivenza sociale e riguarda la mediazione delle volontà singolari attraverso forme direttive e decisorie di carattere istituzionale e normativamente cogenti. Viceversa, l‟esercizio della volontà come “liberum arbitruim” riguarda la sfera della moralità, ossia quel Governo della possibilità che, attraverso la persuasione del dialogo interiore, il , si perviene alla deliberazione comportamentale. Mentre la decisione del Potere riguarda la sua paritaria efficacia erga omnes, con cui si impegna la volontà (di ciascuno) per il futuro (comune), la deliberazione di Governo non stabilisce un modello di comportamento astrattamente uniforme, cioè una fattispecie legale, ma un principio di azione. La differenza consiste nella circostanza per cui, mentre la fattispecie legale universale astrae dalla concreta volontà dell‟attore quale soggetto ideale, il principio morale ha come riferimento esclusivo il télos dell‟azione, e dunque la voluntas agendi in quanto intenzione individuale dell‟uomo concreto. La considerazione legale della “libertà” in senso politico assume come reale la sola dimensione dell‟esistenza collettiva dell‟uomo socializzato, ossia la esclusiva sfera della politica, quale spazio dei rapporti naturali dello . Rispetto a tale spazio collettivo, che suppone come sappiamo il rapporto polemico tra enti sociali molteplici, la dimensione singolare diventa astratta, o astrattamente equivalente alla totalità sociale, mentre invece è la sola concreta in quanto comprensiva esistenzialmente di quella totalità originaria e moralmente drammatica di naturalità e spiritualità costitutiva del singolo uomo. Solo il singolo è pertanto una totalità, e giammai l‟ente collettivo, cioè l‟astratto universo ideale, che è sempre intrinsecamente molteplice e polemico, e perciò abbisognevole di pace. La dimensione della esistenza, in quanto totalità comprensiva delle differenze ontologiche in cui si determina la conoscenza razionale, non è una sfera categoriale, e dunque non è riducibile a una idea ma costituisce una unità originaria di spirito e materia a partire dalla quale si perviene a ogni determinazione del mondo e quindi ogni conoscenza della realtà. Ciò vuol dire che la singolarità dell‟esistenza umana, ovvero il singolo uomo concreto, vive la realtà del mondo plurale, che è esterno alla sua coscienza ed esperienza originaria, in quanto, non solo lo determina attraverso la sua coscienza razionale, come sostiene ogni idealismo, né solo lo esperisce attraverso la sua coscienza sensibile, 304
come sostiene ogni empirismo, ma lo patisce in virtù della sua coscienza spirituale, la quale sostiene il peso della differenza della duplice natura umana, e che fa di lui un homo patiens. Proprio perché duplice, l‟essenza umana soffre il dramma dell‟esistenza, lacerata dalla tensione tra le due forze che la abitano, vettorialmente contrastanti, l‟una verso la necessità, che è la legge della vita naturale, l‟altra verso la libertà, che è il segno della trascendenza della realtà materiale. La necessità rappresenta il richiamo umano della specie, esigente la conservazione e la riproduzione della vita biologica, e perciò abbisognevole di una organizzazione economica e politica che stabilisca in senso favorevole all‟uomo un rapporto con la natura nel suo complesso, dal clima all‟equilibrio con le altre specie e alla convivenza sociale. La libertà rappresenta la capacità precipuamente umana di trascendere la realtà del molteplice e riportarsi all‟unità originaria col Tutto, di cui ogni spirito singolare è particola di totalità. Tale trascendimento è ciò che Scheler chiama la capacità umana di “emancipazione esistenziale da ciò che è organico”.666 Ma l‟organicità dell‟uomo è la convivenza sociale organizzata politicamente secondo determinate forme di cultura. Ciò vuol dire che la “funzione” dell‟uomo “libero” di costituire un “mondo” di “oggetti”, di cui parla Scheler, non è “conoscitiva” solo in senso strettamente teoretico, e cioè relativa a una conoscenza metafisica, ma inerisce a una esperienza cognitiva più ampia perché inclusiva di quel patimento che è il sentimento proprio dell‟esistenza umana in quanto impregnata di trascendenza. Non a caso Scheler, a proposito della “apertura al mondo” da parte dell‟uomo, parla
666 Ossia “di svincolarsi dal potere, dalla pressione, dal legame con quanto è organico, dal legame con la „vita‟ e con quanto essa abbraccia, e quindi altresì dal legame con la propria „intelligenza‟ ancora sottomessa alla tendenza. Un essere „spirituale‟ non più legato alla tendenza e all‟ambiente, ne è „libero‟, e perciò „aperto al mondo‟; un essere siffatto possiede un suo „mondo‟, ed è altresì capace di trasformare quei centri di „resistenza‟ e di reazione del suo ambiente, che originariamente anch‟egli possiede (i soli per l‟animale che vi è immerso extaticamente) in „oggetti‟”, e in tal senso “lo spirito „è‟ un‟entità vivente capace della più completa oggettivazione”: M. Scheler, Die Stellung des Menschen im Kosmos (1928), tr. it., Roma, 1997, pag. 144. 305
del “dramma umano”.667 Il rapporto drammatico che vive l‟uomo in quanto animale razionale e dunque politico, e insieme come essere spirituale e dunque consapevole della finitezza di ogni proponimento umano, consiste nella relazione di socialità, cioè nel rapporto con l‟altro, nella convivenza di ogni livello, dalla famiglia allo Stato. In questo senso, ogni istituzione umana è funzionale a un rapporto di socialità, e costituisce pertanto una forza di resistenza alla libera determinazione dell‟uomo, rappresentata dalla libertà delle volontà altrui. Ma le libertà altrui non si presentano mai all‟esperienza singolare della propria libertà come forze impersonali, ma sempre come “volontà di potenza”, cioè come azioni ostative dotate di un certo grado di potere. Ciò vuol dire di converso che alla coscienza singolare che tende a trascendere le determinate e concrete resistenze ambientali, la volontà ostativa si rappresenta come Potere, ossia come una struttura impersonale dalla cui potenza egli è escluso. Il senso di esclusione, che caratterizza il rapporto politico, costituisce la traccia psicologica di una condizione esistenziale di opposizione all‟Essere dell‟ente, alla situazione di ciò-che-è potente, e dunque alla possibilità attuale. E dunque la libertà singolare esperendosi come vita confliggente con altre vite, si vive come dramma dell‟esistenza politica, ovvero della convivenza all‟interno di un campo di forze dinamiche regolate da vincoli di potere. Il “dare a Cesare” del Vangelo significa appunto riconoscere nel Potere politico il luogo di esercizio della forza umana in funzione della sopravvivenza biologica. Il luogo della “carne” dominato dalla necessità della condizione naturale. Questo riconoscimento, però, è possibie soltanto nel momento in cui la coscienza si trasferisce dal piano politico dell‟esistenza umana, al piano ultroneo della coscienza spirituale, la quale de-finisce l‟esperienza conflittiva del politico nei termini della sua finitezza e della propria in-finitezza, ossia atraverso la consapevolezza della rispettiva differenza. Il perdono del Cristo in croce a coloro che “non sanno ciò che fanno”, non è riferito alla incongruità dello scopo politico dell‟agire dei suoi carnefici, i quali “sanno” come fare per negare la libertà di Gesù a professare la sua fede. Il “sapere” cui allude Cristo è propriamente la conoscenza della differenza, ignota alla coscienza pagana non convertita. La conversio o della
667 Ivi, pag. 145.
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coscienza consiste proprio nel passaggio dal livello politico (della vita organica, segnata dalla necessità) a quello spirituale (della esistenza singolare, segnata dalla libertà). Il punto di displuvio tra le due dimensioni coscienziali è caratterizzato dalla “angoscia”, intesa quale estrema della “coscienza infelice” che esperisce il “dramma” della esistenza umana. Tale dramma umano segna il confine della vita biologica, che è anche il limes della stessa vita politica, quello appunto della finitezza della condizione umana, contrassegnata dalla morte. La morte è il limite oltre il quale si perviene al non-essere rispetto all‟essere della vita, e cioè della convivenza sociale contrassegnata dalle regole del Potere. La morte è dunque anche il limite del Potere stesso, oltre il quale esso è in-potente, ossia non ha la forza di tradurre la sua possibilità in effetto attuale. Oltre la soglia del Potere c‟è la dimensione della possibilità, ossia di ciò che non è attuale, e perciò potenziale, e come tale libero. La morte è il varco che segna il passaggio dalla necessità alla libertà, cioè dalla attualità alla possibilità. Dalla prospettiva della libertà-possibilità, la morte è l‟accesso alla coscienza spirituale. Dalla prospettiva della necessità.attualità, invece, la morte segna il confine della potenza umana, e dunque del Potere, che è potere di determinare la possibilità come attualità. Da qui l‟idea greca della potenza come , come forza determinatrice di attualità dell‟Essere. La sapienza pagana è paga dell‟attualità dell‟Essere. Essa si appaga della sola dimensione d‟essere dello spazio politico, all‟interno del quale l‟esperienza umana esperisce la sola dimensione dell‟attualità, quella fenomenica degli enti che hanno varcato la soglia del niente. Quella stessa che la coscienza spirituale varca per morire alla vita organica e raggiungere la sua unione mistica col Tutto. Questa realtà meta-politica e misticamente unitaria governata dallo Spirito è la Chiesa cattolica, la realtà differente rispetto a quella costituita dallo Stato, il cui imperium confina con la vita bio-politica. La corrispondenza storica dell‟unità spirituale del “genus humanum” all‟Imperium politico dell‟orbe cristianizzato, e la loro reciproca confusione, è l‟immagine utopica della Monarchia di Dante, in cui l‟Uno divino, che si è manifestato nel Cristo unigenito, si rappresenta nell‟unità politico-spirituale del genere umano attraverso la figura del Monarca, simbolo storico del Cristo-re. La questione che a questo punto va posta è se l‟auctoritas esercitata dal Monarca sia la stessa che nasce dalla “razionalizzazione del Potere
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politico, che consiste nel „trasformare‟ la forza in legge, il fatto in diritto, e che mette capo a una auctoritas dotata delle prerogative dell‟assolutezza (vale a dire: dell‟indipendenza dalla persona fisica che l‟incarna, e dunque dell‟impersonalità) e dell‟indivisibilità”.668 La risposta è negativa, in quanto il Governo monarchico non è la “summa legibusque soluta potestas” di cui trattava Bodin, non essendo quella del Monarca una legislazione indipendente dai fondamenti soteriologici della potestas divina, i cui atti siano “universitates sufficientes et superiorem non recognoscentes” (Bartolo di Sassoferrato), né tampoco esso è diretto a stabilire un “diritto”, ossia un criterio universale e astratto di giustizia, essendo il principio caritativo della relazionalità cristana sempre pietoso, ossia relativo al caso concreto, che ha per soggetto il singolo e non un tipo legale. Infine, la cn-fusione dei “due corpi del re” nella stessa figura presuppone una regalità carismatica fondata sulla santità, anziché sulla potenza, e tale che la sua efficacia sia commisurata non tanto al suo Potere (Herrschaft), e dunque alla correlativa obbligazione legale dei destinatari, quanto al grado di libera adesione che il Governo riesca a ispirare. Questa adesione, poiché è in principio libera, non è un mero consenso legato alla legittimità della forza esercitata dal Potere; consenso che, in quanto intrinseco al principio di legittimità può anche essere supposto. Essa implica una relazione con l‟auctoritas del Governo che, diversamente dalla passività della oboedientia, è di tipo attivo, ossia partecipativo, ispirato al principio di fedeltà al sovrano, e che possiamo indicare come fidelitas, parola che ha la stessa radice di fides. La fidelitas al sovrano non si può presumere né stabilire normativamente per legge, ma essa è costitutiva della stessa possibilità dell‟esercizio del Governo. In tal senso, non è il pactum societatis hobbesiano a vincolare reciprocamente i sudditi al Monarca, né è la sua forza a costringerli al suo servizio, ma soltanto la prerogativa carismatica che nasce dal riconoscimento comune. La formula della fedeltà al Governo per adesione comune non significa che il riconoscimento sia spontaneo da parte di tutti i sudditi, ma occorre “lucem correctionis effundere”, cioè adoperarsi come l‟illuminato della caverna platonica a diffondere la luce emendativa
668 G. Marramao, Dopo il Leviatano. Individuo e comunità, Torino, 20132, pag. 314.
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