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Coscienza storica Rivista di studi per una nuova tradizione diretta da
Costantino Marco
MARCO EDITORE
Segretario di redazione Federico Marco Ogni proposta di pubblicazione va inviata presso coscienzastorica@outlook.it.
In copertina: Erich Voegelin (1901-1985) Coscienza Storica
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Coscienza Storica Nuova Serie 9
L’ordine politico-religioso III
I. Verità e oggettività. Le “occulte fonti di fondazione”
II. Storia e Spirito
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pag. 189
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I Verità e oggettività. Le “occulte fonti di fondazione”
1. La espressione “idea” era desunta dal lessico democriteo e stoico e adattata a quello di “concetto mentale” (koinai ennoiai), mentre in Platone era chiamata a svolgere ben altra funzione semantica. Voegelin sostituì perciò il termine di “idea politica” con quello di “esperienza dell'ordine”, non legandola ad alcun riferimento all'empirismo e applicabile a diversi campi spirituali. La scienza greca dell'ordine fu, in effetti, ben più che una teoria della polis migliore. (…) L'ordine delle società concrete, delle istituzioni delle poleis e dei loro simbolismi cultuali (…) non si era affatto formato a partire dalla filosofia, mentre di converso i paradigmi del giusto ordine che Platone e Aristotele svilupparono nelle loro opere non formarono mai l'ordine istituzionale di una polis concreta. 1
L' “ordine greco” comprendeva tre civiltà collegate: la minoica, la micenea e la ellenica. Quest'ultima aveva una sua coerente fisionomia culturale, linguistica e religiosa, priva però di una “organizzazione politica permanente”, per cui alla “unità di civiltà” non corrispondeva l'unità politica. Il concetto di Ordine formulato da Voegelin non concerne solo le “forme di organizzazione atte a garantire la 1
E. Voegelin, Order and History, vol. II, The World of the Polis (1957), tr. it., Milano 2015, pag. 35. Da ora WP.
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sopravvivenza degli individui di una società”, ma ha una accezione plurivoca. Al centro della attività politica greca non vi è la ricerca di una sintesi tra “l'etica dei principi” e “l'etica della responsabilità”, secondo la nota dicotomia weberiana,2 ma il concetto di prohairesis, intesa come capacità di scelta basata su un tipo di conoscenza noetica, e non tecnica, acquisibile per educazione e persuasione, e non per costrizione, implicante dunque il piano spirituale della libertà, e non quello della legalità. I piani dell'ordine sociale vanno interpretati, secondo Voegelin, in riferimento a un ordine ontologico di ricezione intuitiva, la cui partecipazione non è oggettivabile ma solo rappresentabile simbolicamente. Il “salto nell'Essere” (leap in Being) consiste nella scoperta di una dimensione della realtà ulteriore rispetto a quella cosmica (cioè naturale) e connessa con la dimensione spirituale e morale dell'uomo, il cui nucleo coscienziale è il “cuore” e la “anima”. Questa definizione di Voegelin, per quanto suggestiva, è nondimeno problematica, in quanto l'Essere in senso greco è la Physis, l'unità ontica. La dimensione trascendente segna il superamento del piano ontico-naturalistico, inteso come la forma estetico-razionale entro cui si svolgeva il contenuto irrazionale delle vicende umane. 3 La conprensione del movimento della libertà umana entro l'ordine delle forme immutabili implicava un atteggiamento correttivo della spontaneità delle pulsioni umane sostanzialmente ortofrenico e teso a omologare la errata prassi concreta alla corretta prassi ideale. Non esistendo perciò nella realtà il mondo delle rette forme razionali, esso andava costruito, secondo una modalità architettonica di inveramento politico-deontologico.4 Tale rispecchiamento reale delle forme ideali, se per un verso nobilitava l'esistenza informata a prassi virtuose, per altro verso ne confinava l'orizzonte spirituale entro le strutture simboliche della socialità politica, funzionale appunto alla loro concreta dinamica. Non a caso, alla visione tragica derivante da questa 2
M. Weber, Politik als Beruf (1919), di cui esistono varie tr. it., tra esse quella curata da M. Cacciari, Milano, 2006. 3 Ved. N. Berdjaev, Il senso della storia (1923), tr. it., Milano, 1971, pagg. 31 sgg. 4 Come notato da F.J. Stahl, “la Idea platonica del Bene rivela una qualche cosa, che non esiste ancora, ma deve esistere, un obbietto avvenire; e solamente l'intuito, anticipato che ella stessa conferisce, abilita lo spirito a conoscere esso Bene”: Storia della filosofia del diritto, vol. I, Torino, 1853, pag. 16.
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dicotomia ontologica subentri, come risposta teoretica risolutrice, l'immagine filosofica del mondo, che scioglie nel monismo il carattere anfibologico della rappresentazione tragica. Sicché, la Weltanschauung filosofica supera in senso monistico il kaos originario, rimuovendo da esso l'elemento perturbatore dell'ordine politico-razionale della libertà umana, la quale, in un contesto culturale totalmente socializzato, non poteva che rivolgersi a una dimensione meta-politica e trascendente, ossia meta-fisica. Il razionalismo costituiva la risposta noetica alle antinomie della vita reale, che rappresentasse l'Ordine universale delle cose molteplici. Il modello simbolico di tale Ordine può essere garantito solo teologicamente, cioè da una prospettiva extra temporale e metastorica, eterna. Eterno non è altro che ciò che è sempre presente alla coscienza, infinita durata.5 “Davanti a Dio ogni civiltà passata presente e futura vive nella dimensione del presente, e tutti i punti del tempo hanno la stessa distanza rispetto all'infinitudine attuosa della presenza di Dio”. Ogni civiltà ha un suo percorso partecipativo all'Essere – e quindi è accomunabile a ogni altra a ciò -, ma non tutte hanno lo stesso grado di perfezione. La visione idealistica cerca di mantenere le differenze, negate dalla prospettiva illuministica del progresso univoco,6 ma tende a ridurre il Logos cristico al logos filosofico e questo alla dialettica della coscienza, secondo un atteggiamento gnostico che procede alla identificazione della realtà trascendente con quella immanente, il quale, cancellandola linea di demarcazione che separa il conoscibile dal mistero,7 immanentizza aspetti della realtà costitutivamente sottratti alla conoscenza oggettivante. Per ovviare ai limiti di una “storia pragmatica”, costituita da catene di eventi legati da un nesso strumentale di causaeffetto e volti a conseguire fini inframondani, presupponendo il 5
Sull'argomento, ved. R. Mondolfo, L'infinito nel pensiero dell'antichità classica (1934), Milano, 2012, pagg. 47-182, che confuta il pregiudizio per cui “les Grecs n'avaient le sentiment ni de l'infini, ni de l'éternité”: Ch. Seignobos, Histoire de la civilisation ancienne, Paris, 1910, pag. 106. 6 Ved. H. Butterfield, The Origins of Modern Science (1958), tr. it., Bologna, 1962, pagg. 243-269; J. Bury, The idea of Progress. An Inquiry into its Origin and Growth (1920), tr. it., Napoli, 2018, pagg. 153-168. 7 Ved. A. Orbe, Introducciòn a la teologìa de los siglos II y III (1987), tr. it., Roma, 1995, pagg. 50-77.
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relativismo culturale e la visione naturalistica dei cicli biologici delle singole civiltà, Voegelin la distingue dalla “storia paradigmatica”, cioè universale del genere umano, che individua nessi fra le diverse civiltà a seguito di eventi comuni, che distinguono, nella differenza rispettiva, una cesura storica, un passato da un presente che ha di mezzo l'evento decisivo.8 La filosofia, quale “scienza dell'ordine” e “simbolismo universale”, fu ben più di una teoria sulla polis migliore, poiché si fonda su una circolarità di senso tra ordine ideale ed esistenza storica, la cui crisi attiva la memoria (mnemosyne) di un passato significativo da recuperare e la reminiscenza (anamnesi) di un ideale da realizzare. Come scrive Voeglin, “la concezione stessa di polis paradigmatica era, in mano a Platone e Aristotele, uno strumento critico da utilizzarsi contro la realtà tutt'altro che paradigmatica dello scenario politico circostante”.9 Tale modello doveva necessariamente superare le incertezze pragmatiche legate alle contrastanti opinioni, che avevano come sfondo normativo la tradizione mitologica, fondata sulla condizione drammatica originaria che divideva la volontà degli dei dagli intenti umani. Il salto nell'Essere avvenne dunque col passaggio progressivo dal Mito alla filosofia, che diede vita a una visione teologica della realtà. La cifra sintetica della filosofia greca – in entrambe le sue articolazioni, lo studio della physis da un lato, quello della psyché dall'altro – si svela così intrinsecamente teologica. (…) Alla fragilità della forma politica corrispose (…) sul versante ellenico una libertà dello spirito individuale, non costretto entro le forme collettivistiche e burocratiche di un potere teocratico e centralizzato.
L'appello alla ragione è legato al bisogno d'ordine utile al governo delle cose, alla necessità di una decisione circa la condotta comune. E la decisione è sempre storica, legata a tempo e luogo, condizionale, mai definitiva. Non può perciò identificarsi con la Verità, che è la realtà dell'eterno. “Il significato della storia non coincide con la risposta alla domanda sul significato della vita (poiché) il destino dell'uomo non è posto nel futuro, ma nell'eternità”.10 Perciò la gnosi 8
Ved. La Introduzione di Voeglin a Il mondo della polis, cit., pagg. 7-29. Ivi, pag. 39. 10 Ivi, pag. 10. 9
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rientra nella speranza della Verità, ma non nel suo darsi. In tal senso, “il salto nell'Essere” come “rottura con l'ordine mitico”11 è un salto nella speranza, una decisione che però non offre garanzia di Verità. L'illusione della filosofia è di far coincidere il passaggio all'Essere con il disvelamento della verità (aletheia), intesa come condizione inmemore, eterna, e perciò comune. E' a partire dal fondamento eterno che è possibile ogni svolgimento erratico. Ma tale fondamento non è l'Essere di ciò-che-è, ma la possibilità d'essere dell'Essere. L'eterno, dunque, è la Possibilità che è Mystero. La possibilità misteriosa è la vera unità che lega il genere umano, la sua condizione esistenziale e antropologica comune. Le risposte al Mystero differiscono, sono storiche, razionali, contingenti, variamente culturali, positivamente diverse, laddove “il problema dell'Ordine rimane il medesimo per tutti gli uomini in tutte le epoche”.12 Essendo condizione originaria, il problema dell'Ordine appartiene al Mystero del Kaos, che viene prima di ogni cosa, prima di Gea e di Eros, e anche prima della risposta dell'Ordine. L'arché originaria è il femminile, il caos da cui scaturisce la forma, che è il Logos, l'elemento maschile generato e generatore dell'Essere. Dal Kaos e dal Logos nasce l'Essere.13 Dalla decisione ontologica nasce l'Ordine politico. “La cultura della città costituì la matrice di tutte quelle società che possono dirsi civiltà, e che presero parte effettiva alla ricerca dell'uomo per il vero ordine”14 La vita cittadina rappresenta uno sviluppo del sentimento sociale dall'ordine naturale del sangue, tribale, a quello della convivenza plurima, non meramente biologica e topica, ma ideale, o per meglio dire, simbolica. La convivenza simbolica si stabilisce su un criterio di appartenenza comune a più entità biologiche che le unisce per il suo tramite ideale. Il simbolismo meta-etnico rappresenta un livello culturale superiore a quello della coscienza tribale e territoriale. Richiede un mito di fondazione di tipo simbolico che sia insieme poetico ed etico, e tale che ne risulti una legittimazione politica. Il poeta aiuta l'uomo ad ascendere dall'oscurità alla luce. In Eschilo e in Platone ricorre il tema della cecità e della 11
Ivi, pag. 9. Ivi, pag. 12. 13 Esioso, Teogonia, 116-120. 14 E. Voegelin, Loc. cit., pag. 68. 12
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visione, per cui “colui che vede il mondo è cieco e ha bisogno del soccorso delle Muse per guadagnare l'autentica visione della saggezza; colui che invece è cieco al mondo è veggente nella saggezza del dolce canto”.15 Parallela alla dinamica cecità-visione è quella tra rimembranza e oblio, rispettivamente delle gesta degne e dei mali transitorii, e quella tra vera e falsa realtà nella tragedia eschilea, dove l'azione vera è quella conforme all'ordine di Zeus, e la falsa quella transitoria e non memorabile.16 Questa dicotomia sarà riproposta dai filosofi come antitesi tra Essere e Divenire. L'Essere, pertanto, non comprende la totalità della realtà ontica, ma soltanto quella significativa secondo il Logos, che ha preso le veci di Zeus. Tutto il resto dei fenomeni è del Divenire. La filosofia è la sostituta logica delle antiche teofanie. “I poeti cantano ciò che è degno di essere ricordato; e la vita dell'uomo raggiunge la sua acme quando, persino nella sofferenza, il suo agire e il suo patire sono degni di essere cantati”.17 Anche i drammi umani, oltre che le gesta eroiche, vengono sublimati dal ricordo poetico, dal canto degli aedi. L'uomo poteva scegliere una vita comune o vivere secondo la Memoria, strumento di immortalità, che legava gli uomini agli dei. “Quando gli eventi memorabili vengono trasfigurati in canto, diventano il passato della società per la quale il poeta canta”.18 L'evento narrativo rivela il senso simbolico degli eventi, trasformandoli in Mito, cioè in racconto memorabile significativo. La trasfigurazione epica trascende la realtà storica e ne fa un paradigma simbolico: è questo che diventa memorabile superando il Divenire. Ciò che diviene è caotico, appartiene al preessere indeterminato, al pre-mondo, non de-finito e non de-scritto per conservarlo nella Memoria. Il non-essere è kaos, è prim-ordo, antecede l'ordine, è dis-ordine. L'ordine è il governo del Kaos per volontà divina. Ma cos'è il Kaos? E' la condizione irriducibile all'ordine dell'Essere. E cosa è irriducibile all'ordine del Logos se non l'elemento particolare di ogni ente, ciò che lo rende irriducibilmente diverso da ogni altro e proprio solo a se stesso? Qual è l'elemento che 15
Ivi, pag. 81. Ivi, pagg. 81-82. 17 Ivi, pag. 82. 18 Ivi, pag. 83. 16
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l'idea non può unificare perché sfugge a ogni determinazione e persino alla vita? Tale elemento è la Morte. Infatti, soltanto la morte di ognuno può restare di ciascun vivente come un elemento non accomunabile a nessuna idea generale. La Morte è irriducibilmente singolare e unica per ognuno. E per la sua irriducibilità all'Ordine razionale, la Morte è mistero. Se la morte non viene accettata come un mistero della vita, anzi come parte del mistero stesso della vita; se attraverso la riflessione si cerca di trasformare il mistero nell'esperienza di un qualcosa, di una realtà, allora la realtà della morte diventerà il nulla che distrugge la realtà della vita. 19
L'esperienza della morte altrui è sempre originaria, come singolare è la vita di ogni mortale. Nella esperienza della morte si manifesta l'eziologia del disordine: “il male viene sperimentato come reale”.20 La realtà della morte è il dolore che nasce da essa; la morte altrui si sperimenta come proprio dolore. E da tale risvolto fenomenico nasce la vittoria sulla Morte: dalla sofferenza della morte altrui nasce l'evento comune al morto e al vivo. Questo con-patimento è l'immedesimazione nella esistenza dell'Altro che è l'amore. Solo nell'amore la Morte diventa evento comune. Si vive la propria morte nella morte dell'amato. La passività della morte subita diventa passione della morte assistita. Dei e umani non sono entità storiche, ma forze differenziate con maggiore o minore chiarezza di un ordine che li abbraccia entrambi. L'esperienza primaria è quella di un ordine dell'Essere che permea l'uomo e al tempo stesso lo trascende. Entrambe queste dimensioni sono di pari importanza: non c'è un ordine esclusivamente e propriamente umano, circoscritto rispetto a un ordine trascendente degli dei che lo sormonti senza toccarlo; le forze che
operano e interagiscono nell'ordine onnicomprensivo dell'Essere toccano l'uomo talmente in profondità che il confine fra umano e sovrumano ne esce sfocato.21 Caratterizza l'uomo la fisicità mortale. “L'eroe in senso omerico può 19
Ivi, pag. 98. Ivi, pag. 109. 21 Ibidem. 20
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essere definito come l'uomo nelle cui azioni si rende manifesto un ordine dell'Essere più che umano”, ripreso poi da Eschilo nelle Supplici.22 L'azione eroica è la manifestazione in cui l'agire umano e la volontà divina s'intersecano. Omero è stato molto perspicace nell'accorgersi che il disordine, in una società, non è altro che il disordine dell'anima dei suoi membri, e specialmente dell'anima della classe che comanda. (…) L'azione ordinatrice è quella conforme all'ordine divino e trascendente, mentre l'azione disgregante implica una caduta dall'ordine divino al disordine specificamente umano. 23
Dal “crollo della civiltà micenea” sorse “la forma di esistenza politica” tipica dell' “area di civiltà greca”, la polis.24 Al governo regale successe quello aristocratico, concomitante con l'espansione coloniale dei secoli VIII-VI, che lo portò in crisi, come testimonia l'opera di Esiodo. Il processo che condusse alla formazione delle poleis, il cosiddetto sinecismo, si estese nell'arco di alcuni secoli e, in alcuni casi, giunse a termine solo nel periodo classico. Nel caso di Atene, il sinecismo fu completato verso la fine dell'VIII secolo.25
Per quanto le costituzioni successive al periodo tribale furono nettamente distinte dalle tradizionali formazioni sociali, la struttura tribale della polis persistette fino alla conquista macedone come forma caratteristica di legame parentale. Pertanto, per quanto riguarda il suo carattere di città, la polis non arrivò mai a svilupparsi in una comunità di singoli cittadini tenuti insieme da un legame di conjuratio, simile a quello che caratterizzò le città medievali occidentali; e, come stato territoriale, la polis non fu mai in grado di espandersi in una nazione formata da singoli cittadini sul modello degli stati nazionali occidentali. Si trattò di un'unità politica, nella quale l'individuo non raggiunse mai lo statuto personale tipico delle formazioni politiche della civiltà occidentale, che poté sorgere grazie all'idea cristiana di uomo; al suo interno, 22
Ivi, pag. 111. Ivi, pag. 115. 24 Ivi, pag. 119. 25 Ivi, pag. 121. 23
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il singolo mantenne costantemente, piuttosto, una collocazione intermedia fra le relazioni tribali, fittizie, e quelle parentali, più concrete. 26
Il demos prevale come organismo di appartenenza parentale e civile sul genos e sulla phratria. Alla genealogia gentilizia si giustappose quella demotica, con culti agli avi e ai propri eroi e legami sacri.27 Le riforme democratiche di Clistene estesero lo spirito gentilizio a tutta la comunità dei cittadini ateniesi, confermandone la saldezza.28 Il potere politico dell'aristocrazia poteva anche essere stato spezzato, ma la sua cultura continuava a permeare il popolo, e la democratizzazione, in Grecia, non significò altro che l'estensione della cultura aristocratica a un più grande numero di persone, anche se nel processo di allargamento la qualità ne uscì indubbiamente annacquata.29
Che altro poteva essere la democratizzazione se non la diffusione della cultura superiore, cioè quella razionale, ai ceti popolari? E in che altro poteva consistere la corruzione dei valori originari se non nella perversione della loro significazione con gli istinti passionali degli strati sociali più incolti e arretrati? Perché “non troviamo nella storia della polis ellenica quegli sconvolgimenti drammatici che accompagneranno l'ascesa sociale delle classi urbane nella società occidentale”30? Perché l'unità sociale era legata a forme di appartenenza tradizionali (religiose, parentali, mitiche) non disponibili alla libera determinazione umana. Il fondamento sacrale indisponibile consentiva quel “singolare carattere di unità nelle istituzioni, nelle idee, nei costumi”, notata da Guizot, che rendeva unitaria la cultura della società greca che la forza del potere politico, mentre “con la prodigiosa diversità delle idee e dei sentimenti propria della civiltà europea è stato assai più difficile arrivare a tale semplicità, a tale chiarezza” di forma.31 Con la perdita del suo fondamento sacro, la 26
Ibidem. Ved. E. Rohde, Psyche (1890-1894), tr. it., Roma-Bari, 2006, pag. 143. 28 E. Voegelin, Loc. cit., pag. 122. Ved. L. Canfora, La guerra civile ateniese, Milano, 2013, pagg. 295-308. 29 E. Voegeli, Loc. cit., pag. 123. 30 Ibidem. 31 F. Guizot, Histoire de la civilisation en Europe (1840, VI ed.), tr. it., Torino, 1956, pagg. 26-29. 27
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ragione diviene strumento formale di potenza, tendente a un suo ordine unitario da se stessa legittimato. La polis sorge dalla struttura tribale quale “unità autonoma dell'ordine politico”.32 L'autonomia della cultura dalla religione, e quindi la privatezza dell'attività artistica e intellettuale, è la condizione della libertà di pensiero dalla istituzionalizzazione ideologica delle forme spirituali. Il pensiero “privato” che diventa “pubblico” acquisisce un fine politico che originariamente non aveva, e diventa pensiero ideologico.33 La composizione multipla della società, formata dai gruppi originari particolari, acquista fisionomia e struttura politica unitaria per mezzo della tirannide, in cui consiste l'azione del pacificatore. Portare ad unità il molteplice organizzandolo in forma politica armonica e in struttura sociale organica significa imporre una visione ideale di Stato a una realtà empirica che ne ha bisogno ma dalla quale non può prodursi spontaneamente, che dunque non esprime se lasciata a se stessa. Pertanto, l'idea politica, rispetto alla molteplicità delle doxai particolari, non consiste nella loro mera unità formale, di carattere razionale, ma nel loro contemperamento reale, che implica il carattere esistenziale della prassi sociale. La funzione politica del tiranno è quella del “moderatore”,34 ossia di colui che rende compatibili le differenze, correggendone gli eccessi che le condurrebbero al conflitto politico-sociale. Esso svolge dunque una funzione etica di pacificazione sociale, e quindi di governo etico di pacificazione politica. La natura abnorme della tirannide è legata alla sua funzione artificiale e, per così dire, ideale, ovvero ideocratica, in quanto la sua visione politica è il risultato di una forma di pensiero la quale, non emergendo che a contrario, per necessità, dalla realtà, non la riflette ma la contrasta e la nega. Finquando le forme ideali sono politicamente aliene e distanti dalla verifica empirica della loro realizzabilità storica, restano modelli noetici privati senza effetto immediato sui processi 32
E. Voegelin, Loc. cit., pag. 123. “La verità filosofica, quando entra nella piazza pubblica, cambia la propria natura e diventa opinione, perché ha luogo un vero e proprio metabasis eis allo génos, uno spostamento non solo da un tipo di ragionamento a un altro, ma da un modo di esistenza umana a un altro”: H. Arendt, Truth and Politics (1968), tr. it., Torino, 1995, pag. 43. 34 E. Voegelin, Loc. cit., pag. 125. 33
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pubblici; ma quando si propongono come dottrine politiche di pratica applicazione, allora la loro carica intellettuale deve tradursi in potere politico, snaturandosi. Da qui la piega violenta della tirannide, che contraddice in pratica il fine pacificatore che la legittima in teoria. La violenza tirannica consiste pertanto nel voler cambiare un processo politico storico accelerandone le dinamiche in senso compatibile con il modello ideale di direzione, negandone gli aspetti incompatibili. Ma questo atteggiamento ideo-logico è proprio del pensiero del soggetto teoretico che opera per imporre la coerenza formale della sua rappresentazione razionale alla realtà molteplice e contraddittoria del mondo-della-vita, e non è precipua della funzione di governo etico; anzi, ne rappresenta la sua degenerazione ideologica, astrattamente intellettualistica. La differenza tra il giudizio teoretico, che fonda l'etica della convinzione soggettiva che motiva il dovere personale, e il governo etico della comunità politica, risiede nel carattere “scientifico” della conoscenza sottesa al valore etico, inteso come coerenza pratica dell'agire pretesa dalla ragione;35 carattere che manca al sapere inerente la realtà politica, in quanto provvisto della consapevolezza intuitiva che l'agire sociale attiene a una volontà di natura diversa dall'intenzionalità soggettiva, perché attinente a un criterio di necessità indipendente dalla coerenza dei costrutti logici formali e dall'unità della coscienza soggettiva. La realtà oggetto del sapere politico è quel Divenire incessante che il pensiero astraente non considera reale, né le sue molteplici e convulse dinamiche come valore, bensì come negativo disvalore, sicché una rappresentazione della realtà come estetica del modello ideale, senza ombre di imperfezione e di contraddizioni, abita la coscienza del filosofo e dell'artista, ma non quella dell'uomo di governo, consapevole che la vita politica è fatta di conflitti e di disarmonie dialettiche, conseguenti al libero arbitrio dell'uomo. Libera è la determinazione non prevedibile come necessaria, cioè nuova. La novità nasce dal caso, cioè dal disordine (kaos). Il kaos è all'origine della libertà, che l'etica formale deve negare in nome delle sue norme assiologiche, e il potere politico deve governare. La rappresentazione logica del mondo ha un carattere insuperabilmente soggettivo, anche se l'immagine formale 35
Ved. E. Husserl, Einleitung in die Ethik. Vorlessungen Sommersemester 1920/1924, tr. it., Bari-Roma, 2019, pagg. 4-31.
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del mondo esterno, creduta come oggettiva, acquista valore di realtà universale. “La nostra civiltà è profondamente basata su questa illusione”,36 che costituisce il modo tipicamente greco di negare il Divenire, ossia di dominare il Kaos. Infatti, la definizione logica fa corrispondere la conclusione con la premessa ontologica che solo l'Essere è reale; congiungendo l'inizio con la fine, si nega il Divenire. Il concetto è il modo verbale (logico) di negare il tempo per l'eterno presente. L'eternità è dunque intesa come coincidenza dell'inizio con la fine nello stesso (tautologia). Con la conoscenza logica si supera la necessità della ripetizione dell'esperienza per pervenire all'esperienza de-finitiva, che è la stessa ripetibile all'infinito. La logica è in-finitiva; infinitizza l'esperienza, rendendola idealmente possibile, cioè eternamente presente alla coscienza: da qui il senso simbolico profondo dell'eidos platonico come “immagine”. Il concetto logico è il mezzo con cui la coscienza presenta a sé il fenomeno non esperito: è una forma di rap-presentazione del fenomeno in-esistente, assente. La rappresentazione concettuale della realtà è meramente ideale; il fenomeno assente, non esperito direttamente e fattualmente, viene assunto come presente alla coscienza. E' un analogon della realtà. Il modello logico, eliminando il tempo, elimina l'imprevisto, il caso, l'evento fortuito accidentale che può interferire nel processo consequenziale, alterandone la necessità. Dunque il giudizio logico, l'inferenza, è assertivo di necessità e negatore di possibilità. In tal senso, il pensiero logico è pensiero della Necessità, non della libertà. Libero è il pensiero che si origina dal Kaos, nella cui dimensione è possibile che qualcosa sia anziché non, laddove entro la realtà ontologica tutto è, e il niente non è. Dove tutto è, ogni ente è necessario, necessariamente reale, e dunque determinato. La realtà ontica è una realtà necessaria, priva di possibilità (di non essere). E ciò che necessariamente è, è determinato e non è libero. La decisione d'essere è una posizione etica, di valore. E il valore è la prospettiva da cui si esclude ciò che non vi rientra: un punto di vista assolutistico di relazioni. “Ogni valore è quindi un valore di posizione”, conseguente a una decisione.37 Da qui il rovesciamento pratico della posizione 36
G. Bateson, Mind and Nature. A Necessary Unity (1979), tr. it., Milano, 1984, pag. 49. 37 C. Schmitt, Die Tyrannei der Werte (1960), tr. it., Milano, 2008, pag. 53.
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tetica in lotta politica. “L'aggressività è connaturata alla struttura tetico-ponente (thetisch-setzerisch) del valore, e continua a essere prodotta dalla concreta attuazione del valore”.38 E' questa tensione deontologica della posizione assiologica che finisce per delegittimare eticamente la dinamica politica in relazione all'ordine sociale (pace), che rimane il fine di ogni processo politico in quanto razionalità dell'agire non in stato pre-civile di omnium bellum contra omnes. Ma chi assegna il valore? Weber afferma che sia il soggetto libero di determinarsi, poiché, secondo la definizione della persona di Kant, egli, in quanto homo noumenon, è un fine in sé, costituendo perciò un valore assoluto di dignità interiore (Wuerde, dignitas) non commisurabile.39 Nella dinamica sociale, nondimeno, è il potere politico a stabilire il valore comunemente significativo, cioè quello socialmente rilevante. Nulla ha significato se non è considerato in qualche contesto significativo. Tale contesto è la forma delle relazioni significative: la struttura del significato che fa significare altre relazioni simili. Il contesto formale del significato delle relazioni umane è un prodotto culturale, non naturale. Quello politico è il contesto dell'Ordine sociale come valore esistenziale razionale. La razionalità come Bene è la cifra ontologica ed etica della civiltà occidentale. Infatti, all'interno della ontologia greca si definisce anche la metafisica cristiana. Essendo realtà necessaria, cioè benigna, l'Essere non può non essere, per cui la sua ragion d'essere coincide con la sua stessa realtà necessaria: questo è il Bene, ciò che è necessario che sia. Se l'Essere necessariamente è e dev'essere, il suo opposto non-essere è il Male.40 Se il Bene è la realtà dell'Essere, e l'Essere è la necessità che qualcosa sia anziché non, l'esistenza in sé è fenomeno benigno, positivo. Positivo è il bene che è. Ma ciò che è appartiene all'Essere, è l'Essere stesso che si manifesta come ente determinato, come fenomeno che 38
Ivi, pag. 56. I. Kant, Die Metaphysic der Sitten (1797), ved, F. Volpi, Anatomia dei valori, in C. Schmitt, tr. cit., pag. 83 sgg. 40 “Il male è l'opposto del bene”: A.D. Sertillanges, Le problème du mal (1951), tr. it., Brescia, 1954, pag. 7. Ma “poiché il bene è il primo momento sostanziale dell'Essere, la sua negazione, il male, può opportunamente estendersi agli altri due momenti sostanziali,il vero e il bello, e a tutto l'Essere in quanto è negato”: A. Goffredo, La filosofia della storia, Roma, 1936, pag. 212. 39
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manifestandosi realizza la sua essenza necessaria, la sua Necessità. Riconoscere la Necessità dell'ente è l'attività del giudizio onto-logico, che definendo l'essenza dell'ente, ne riconosce la sua necessaria realtà. Necessario nell'Essere è che sia sempre ciò-che-è, se stesso. Ciò che è sempre sé stesso, non cambia. Dunque l'Essere è l'opposto del Divenire; ed essendo il Male l'opposto dell'Essere, il Divenire è il Male. Il Divenire è il tempo che intercorre tra due modi d'essere dell'ente, ossia tra due giudizi di realtà: tra due eternità. Eterna è la coscienza che l'Essere è. Diviene l'ente che perde la sua coscienza d'essere, cioè di appartenere all'Essere. L'ente che diviene è l'ente privo di coscienza di sé; l'ente privo della sua coscienza di bene, che è la sua essenza. L'essenza dell'ente è la sua coscienza di essere parte dell'Essere. La coscienza d'essere è la ragione, e il giudizio di ragione è la coscienza che riconosce l'appartenenza dell'ente all'Essere: la sua realtà. Reale è solo ciò che appartiene all'Essere, ovvero ciò di cui si conosce l'essenza razionale. La realtà onto-logica è un cosmo ordinato secondo la sua necessità d'essere ciò-che-è, ossia di essere parte dell'Essere. Essere parti dell'Essere significa essere necessari, essere necessariamente ciò che si è. Ed essere necessariamente ciò che si è significa essere eterni. L'eternità è la condizione d'essere privi del Divenire. La coscienza razionale è quel movimento del pensiero che libera l'ente dal suo divenire altro da sé e lo consegna alla sua coscienza eterna, alla sua essenza, che è il suo Essere necessariamente Bene. Il giudizio razionale libera dal Divenire, e dunque dal Male, il fenomeno, assegnandolo all'Essere, che è il regno del Bene eterno. L'ontologia greca è una soteriologia: la salvezza metafisica consiste nell'appartenere all'Essere. L'esclusività dell'appartenenza all'Essere definita dal giudizio logico è la sua uni-versalità. Solo uno è il modo proprio dell'Essere, il suo modo necessario, quello logico.41 Il giudizio logico è un modo di rappresentazione del mondo, creduto necessario all'ordine cosmico, contrario al caos, al disordine. Il modo proprio dell'ordine logico del 41
La differenza analitica tra logica e teoria del significato riguarda in realtà due momenti dello stesso processo di razionalizzazione della realtà, in quanto la nozione di verità logica non qualificata è data come acquisita o sottintesa nel suo significato stabilito, ossia deciso/definito. Ved. M. Dummett, The Logical Basis of Metaphysics (1991), tr. it., Bologna, 1996, pagg. 39-46, 79-84 e 93-121.
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mondo è la relazione delle loro essenze. Ordinare razionalmente il mondo significa mettere in relazione necessaria i fenomeni in quanto enti di ragione, cioè in quanto essenze prive di divenire. Ciò che è privo di divenire è stabile, cioè resiste al passare del tempo, e resiste al passare del tempo ciò che rimane in vita. La stabilità è la condizione propria dell'Essere, e benigno è ciò che garantisce tale stabilità. Ciò che è stabile è vero. Il Bene è la Verità, e la Verità è l'Essere. Vera è la rappresentazione onto-logica della realtà, quella priva di Divenire. Dunque, la verità della realtà è la sua rappresentazione logica, ossia la sua descrizione formale, eidetica, distinta dalle scienze naturalistiche. La costruzione delle scienze della natura è determinata dal modo in cui è dato il loro oggetto, cioè la natura. Le immagini si presentano in un continuo mutamento e sono riunite in oggetti, questi riempiono e occupano la coscienza empirica, e formano l'oggetto della scienza descrittiva della natura. Ma già la coscienza empirica osserva che le qualità sensibili presentatisi nelle immagini dipendono dal punto di vista da cui sono considerate, dalla lontananza, dalla illuminazione. E così sorge il compito di pensare gli oggetti in modo tale che divengano intelligibili il mutamento dei fenomeni e le uniformità che sempre appaiono chiaramente in tale mutamento: i concetti mediante cui ciò avviene, sono costruzioni strumentali che il pensiero crea a tale scopo. Così la natura ci è estranea, è trascendente al soggetto conoscitivo, ed è appresa da questo in costruzioni strumentali, mediante il dato fenomenico.42
Il passaggio dalla condizione in divenire alla condizione stabile, dal transeunte all'eterno, avviene attraverso la descrizione logica della realtà. Descrivere razionalmente la realtà significa rappresentarla secondo un ordine eterno, senza mutamenti, ossia privo di Kaos. Ciò che trasforma in mondo razionale il Kaos è il discorso razionale, la dialettica. Se per un verso la rivelazione della natura permanente delle cose (ousia) libera la coscienza dalla varietà delle rappresentazioni, che Platone chiama “immagini”,43 per altro verso la loro stabilità consente la sinossi dialettica; dialettico, infatti, per Platone è chi riesce ad avere delle cose molteplici una “visione d'insieme”, in cui consiste 42
W. Dilthey, Der Aufbau der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften (1910), tr. it. In Critica della ragion storica, Torino, 1954, pag. 159. 43 Platone, Cratilo, 386 e
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l'unità del Bene.44 Dunque il passaggio dalle molteplici rappresentazioni (doxai) all'unica vera consiste nel movimento dialettico maieutico che dal Kaos originario partorisce l'ordine razionale unitario delle cose. L'ordine onto-logico delle cose è un modo di descrivere (rappresentare) la realtà come necessaria, e perciò vera e buona. Descrivere in senso logico è distinguere, cioè selezionare, escludere. La tecnica dell'esclusione del Divenire dall'Essere è la dialettica (techne dialechtiké), che distingue il durevole dal transeunte, le due polarità antitetiche compresenti nella totalità originaria. Ma che cosa contraddice l'Essere e caratterizza il Divenire? Questo è un aspetto fondamentale per comprendere la funzione ausiliare del Potere nella costituzione dell'Ordine politico. Ciò che distingue l'Essere dal Divenire è che l'Essere è il prodotto di una rappresentazione, e dunque è derivato, laddove il Divenire è la condizione originaria del Kaos. Dunque l'Essere deriva dal Kaos, mentre il Kaos è all'origine dell'Essere. Ma se il Kaos è all'origine dell'Essere, l'Essere che ne deriva è parte del Kaos. Dunque l'Essere è sottratto dal Divenire e mantenuto in sé nella sua riduzione ontologica come realtà indipendente dal Kaos originario. L'Essere è dunque la riduzione del Kaos, la sua kenosis. La rappresentazione onto-logica della realtà è così un'opera di riduzione del complesso al semplice, ovvero del Molteplice all'Uno, che costituisce la verità e il bene assoluti, indipendenti cioè dal Kaos originario. L'operazione dialettica consiste dunque in una sostituzione archetipa, in cui l'Essere, escludendo il Kaos, diventa l'unico Tutto. Il figlio che spodesta il padre: Saturno al posto di Urano, Giove al posto di Saturno, Cristo al posto di Jeova nella lettura gnostica e marcionita. La dinamica del processo dialettico è un movimento deontologico in cui l'Essere deve soppiantare il Kaos originario. Tale consegna etica prospetta una realtà condenda che implica l'intervento coadiuvante e risolutore del Potere, che tende a stabilire un ordine de-finitivo, cioè razionalmente vero e buono, attraverso l'esclusione del divenire inteso come disordine. Ma tale divenire stabile di ciò che originariamente non è, costituisce l'intima contraddizione dell'Essere, la cui matrice caotica originaria è insopprimibile e perciò continuamente rinasce nel seno stesso 44
Platone, Repubblica, VII, 537 c. Ved. C. Preve, Storia della Dialettica, Pistoia, 2006, pagg. 34-35.
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dell'ordine ontologico-politico, determinandone la sua perenne instabilità. Questa intima incompiutezza rende la rappresentazione onto-logica dell'Ordine puramente convenzionale e fideistica, poiché la credenza che l'Essere sia Tutto non può di per sé eliminare il Divenire, ma può solo opporvisi come al Male cui si contrappone il Bene. La verità dell'Essere è confinata alla sua rappresentazione logica, ma non può essere trasferita come opinione comune senza l'intervento autoritativo di un nomos che trasformi l'ordine della narrazione, cioè l'orizzonte di pensiero della verità del Logos, in ordinamento giuridico: da qui il ruolo mediatorio della politica, la cui funzione servile, per il carattere fisiologicamente instabile dell'Ordine razionale, non può essere temporanea ma indispensabile alla costituzione degli assetti sociali. La politica entra dunque nell'ordine del discorso come fattore di stabilizzazione, decisivo della verità della parola. Quale mondo è ordinato con la parola? L'ordine logico è basato sul criterio di imputazione, tale che un effetto abbia sempre un soggetto autore di esso. L'ordine di imputazione è univoco, cioè ha un solo attore, il soggetto agente. Questo criterio consente la relazione univoca tra eventi volontari e responsabilità soggettiva. Tale rappresentazione dell'ordine soggettivo del mondo astrae dal contesto reale collettivo per concentrarsi sul solo significato logico delle sequenze avvenimenziali di un'azione socialmente rilevante. Il significato logico è astratto per definizione, sicché lo stesso soggetto agente è astratto dalla sua concreta personalità esistenziale e rappresentato come “tipo”. Il tipo è l'autore astratto, o soggetto logico, dell'azione de-contestualizzata. E come tale può essere chiunque. Ciò vuol dire che la conoscenza logica non coincide con la verità ma con la conoscenza tipo-logica. 45 S'intende per “realtà tipo-logica” la rappresentazione del mondo come ordine di relazioni tipiche secondo cause logiche. La “causa logica” è una relazione tra tipi astratti di enti razionali. I tipi logici della relazione tipologica sono enti astratti dal concreto divenire e considerati stabili, cioè perennemente presenti alla coscienza come essenze.Non c'è Pietro, ma l'omicida; non Matteo, ma 45
In
relazione alle scienze sociali, ved. M. Weber, Objectivitaet sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkenntnis (1904), tr. it. Ne Il metodo delle scienze storio-sociali, Torino, 1997, pagg. 107-120.
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il benefattore. La definizione logica elimina dalla soggettività imputativa ogni riferimento concretodi temporalità esistenziale. Il modo di trasformare Pietro in omicida, cioè in soggetto logico, è di trascrivere la sua realtà esistenziale in codice logicamente rappresentativo. Per attribuire all'ente un significato logico bisogna eliminare la sua singolarità, la sua possibilità di diventare altro da ciòche-è: mortale. La condizione mortale è il modo esistenziale dell'uomo di essere nel Divenire. L'Ordine razionale consiste dunque nell'impedire al soggetto reale di divenire altro da ciò che logicamente è: un soggetto logico, astratto: un tipo. Ciò è possibile partecipando l'ente della essenza eterna dell'Essere, riferendolo necessariamente alla sua realtà onto-logica. Ogni ente pertanto conferma l'onni-presenza dell'Essere, che l'ente rappresenta. La rappresentanza ontologica rende possibile l'oblio del fondamento comune, la verità dell'Uno che è l'Essere stesso, che resta sottinteso. La rappresentanza universale dell'Essere negli enti ne costituisce la sua necessità tautologica. La tautologia infatti è “un corpo di proposizioni legate insieme in modo tale che i legami tra le proposizioni siano necessariamente validi”.46 Le condizioni di validità sono introdotte dalla proposizione ipotetica iniziale: “se...”. La validità non deriva dai dati fattuali ma dalla definizione iniziale. La necessità della relazione logicamente significativa è dovuta alla credenza della verità della proposizione iniziale da cui deriva transitivamente la credibilità delle relazioni successive. Il fondamento veritativo di ciò che è vero, cioè la sua necessità di essere ciò che è, si basa su una credenza ontologica: che il principio di una rappresentazione logica sia necessariamente vero, poiché il suo contrario sarebbe assurdo, sarebbe non-essere, ossia il Kaos. Il Kaos, dunque, è la condizione di ciò che non ha un fondamento necessario (arché), una causa (aitìa) iniziale. La Necessità è la cifra della verità onto-logica, così come la Possibilità è la cifra del dis-ordine caotico. L'altro modo di organizzare il mondo attraverso il discorso consiste nel descrivere le apparenze sensibili alla luce di un valore simbolico recondito, non espresso come tale, ma suggerito da cifre evocative che rimandano a esso. Descrivere il mondo significa lasciarlo a sé stesso nella contemplazione. Questo lasciar essere il mondo senza ordinarlo 46
G. Bateson, Op. cit., pag. 116.
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per selezione logica è il modo proprio della narrazione mitica, in cui i contenuti della descrizione non assecondano un criterio di realtà esterno alla loro rappresentazione, ma sono essi stessi valori rappresentativi del Kaos originario. La narrazione mitica è il linguaggio che il discernimento logico depurerà delle parti non coerenti con la rappresentazione tautologica del mondo. Questi due linguaggi, il mitico e il razionale, sono espressivi dei due possibili modi di ordinare il mondo in relazione al significato che esso ha per la coscienza umana. Il modo mitico ha nella rappresentazione i suoi criteri di ordine significativo, per cui la descrizione degli eventi coincide con il loro significato simbolico. Il modo logico presuppone un senso rappresentativo unitario, senza il quale i fenomeni restano irrelati e inesplicabile il significato della loro stessa realtà. Il modo mitico è una narrazione inclusiva di molteplici significati possibili, tali cioè da ammettere la possibilità del divenire altro da sé dell'oggetto evocato. Il modo logico è invece una narrazione esclusiva di altri significati, diversi da quello proprio, esplicativo del senso eunitario complessivo. Da qui l'incompatibilità platonica dell'orizzonte mitico nella repubblica ideale. La narrazione mitica, o poetica, è infatti descrittiva del Kaos originario, laddove la rappresentazione logica è esplicativa di senso univoco necessario. Necessario è l'ordine che non ammette altre possibilità. Tra i due ordini descrittivi, la rappresentazione mitica è quella dell'origine, mentre la logica è la rappresentazione del futuro che dovrà essere. Per il Mito, dunque, la verità è all'origine; per il Logos la verità è nel futuro condendo. La tensione temporale del Mito è di riportare tutto all'origine, facendo del presente la perpetuità del passato. La tensione temporale del discorso logico, invece, è rivolta a modellare il presente nell'immagine ideale del futuro, in cui è vista la compiutezza mancante al presente. Rispetto alla compiutezza originaria narrata dal Mito, il presente è decadente per difetto di memoria; rispetto alla compiutezza razionale futura, il presente è carente di realtà, è niente. In entrambi i casi, la verità coincide col Tutto (pleroma), ma soltanto nella rappresentazione logica la verità è prodotto del cambiamento, cioè della alterazione della condizione esistente: ciò che è, è sempre imperfetto, e dunque in-esistente, per cui dev'essere. Sicché il giudizio logico non interessa mai l'esistente l'ente 23
ideale, espressivo dell'Essere. Da qui il contenuto astratto del giudizio, che non inerisce mai il fenomeno in sé, quello che si offre ai sensi, ma sempre all'ente trasfigurato idealmente. Ciò vanifica la pretesa di Kant di un giudizio che abbia un contenuto sensibile, poiché il contenuto del giudizio logico è sempre ideale. Mentre il Mito include il Divenire nell'origine attraverso la narrazione che non muta, il racconto logico lo trasfigura idealmente escludendolo come accidentalità particolare. Il Divenire, incluso dal Mythos ed escluso dal Logos, è il presente, che il Mito assorbe nel passato originario, e il Logos trasferisce nel futuro ideale. Il giudizio logico di realtà, pur essendo espresso al presente, si riferisce a un presente ideale, il quale, rispetto al presente reale, dev'essere, ed è quindi futuro. Da qui la differenza incolmabile tra il modello ideale e la copia reale, evidenziata da Platone per primo tra i razionalisti. La differenza temporale tra ciò che è esistente e ciò che è razionalmente reale, cioè vero, non è colmabile perché ontologica, sicché la coscienza razionale è costitutivamente in-attuale. L'inattualità del giudizio logico impedisce la conoscenza della realtà della verità, cercando di cogliere la verità della realtà. La realtà della verità è infatti il suo divenire sempre e solo sé stessa, che è quanto asserisce appunto il Mito. Ma ciò che diviene restando sempre sé stesso è il presente, inteso come l'orizzonte in cui Tutto avviene con-temporaneamente. Il Divenire dunque è la distinzione interna alla con-temporaneità. Tutto avviene nel contempo, ma non tutto avviene per la nostra coscienza percettiva, la quale conosce attraverso le distinzioni, ossia attraverso le correlazioni interne all'evento percepito. Tali correlazioni sono il contenuto delle descrizioni, cioè della rappresentazione della realtà. Rappresentare significa trascrivere un evento in termini correlativi, ossia di una sequenza temporale costituita da una causalità logica, cioè di distinzioni. La distinzione è la frantumazione del contemporaneo in sequenze causali, e pertanto la distinzione è la temporalità interna all'Essere inteso come Pleroma. Il giudizio logico distingue il contenuto onto-logico dagli eventi in-distinti della percezione. L'evento in-distinto e percepito nella sua totalità contemporanea è intuito. L'intuizione è la narrazione della percezione come evento temporalmente indistinto, e perciò originario. Nella rappresentazione intuitiva la descrizione non è di sequenze logico-causali, ma per 24
immagini, ognuna delle quali rappresenta l'intero evento. Nell'intuizione ogni immagine è frammento dell'evento in-temporale. La rappresentazione logica dell'evento, invece, non può mai rappresentarlo nella sua totalità, poiché l'intero ideale non si dà come manifestazione sensibile e fenomenica ma sempre in relazione dialettica alla particolarità finita di cui è immagine astratta. La totalità, in senso logico, non può darsi che come Differenza, tra il dato fenomenico (finito) e la sua ideale rappresentazione (infinita, tipologica). La totalità può essere solo intuita; oggetto di intuizione noematica,47 ma non di rappresentazione logica, in quanto ogni giudizio logico è esclusivo dell'indeterminato divenire. La categoria del giudizio logico esprime l'infinito, ma non la totalità. Solo a condizione di considerare l'infinitezza dell'Essere come Verità, l'ontologia può considerarsi scienza vera. E pertanto, solo “se” l'Essere si ponga come Tutto, il Logos può assumersi come discorso di verità. Tale condizione ipotetica è il contenuto della decisione ontologica di considerare falsa la narrazione mitica e niente il Divenire. Ma la lotta contro il Mito, tendente a sostituire il giudizio logico all'intuizione dell'Uno, implica anche la particolare declinazione della temporalità come negazione del tempo. Infatti, poiché solo l'intuizione, cogliendo la totalità dell'Uno, conosce la con-temporaneità dell'evento, ne costituisce la sua conoscenza in-temporale. La conoscenza logica consegue la sua infinita temporalità escludendo dal giudizio di realtà il divenire interno alla temporalità, collegando tautologicamente l'inizio con la fine. Esclude il tempo perché lo annulla. Il tempo annullato, reso niente, cioè divenire, persiste nella rappresentazione logica come Differenza del finito dall'infinito: è nella Differenza che l'Essere è, trasformando la con-temporalità in relazione. L'intuizione, invece, consegue l'eternità rendendo impossibile il tempo, poiché in essa l'evento non è scansionato in sequenze logico-causali, ma rappresentato per immagini con-temporanee, ognuna delle quali esprime il Tutto, l'intero evento, analogicamente. Analogica è l'immagine che si rapporta ad altre per analogia, non per differenza, poiché ogni immagine si riporta al Tutto, che è l'elemento comune a 47
Intendiamo come Noema la immagine, ovvero la concezione del mondo, derivata da una intuizione della realtà. Essa costituisce una forma di conoscenza della realtà ben distinta dalla fantasticheria o dall'illusione del Dokos.
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tutte, non per relazione di senso razionale, ma mnestica. L'intuizione ha per contenuto l'in-differente, lo stesso indifferente che per il giudizio logico non esiste, è ni-ente. La lotta dialettica per l'Essere sostenuta dalla logica è in tal senso una battaglia per l'oblio dell'origine, che non è l'Essere, come supponeva Heidegger, ma il Kaos. Solo rimuovendo dalla memoria il Kaos originario è possibile che l'Essere sia l'origine e Tutto. Ma questa decisione ontologica ha lo stesso valore del Potere che ne garantisce la vigenza. Essa pertanto è strettamente legata al destino politico, al suo carattere ideologico, che lo costituisce a sua volta come mito. Per stabilire una relazione, cioè una differenza, bisogna presupporre infatti una analogia. L'ente per opporsi al niente dive presupporre un elemento comune. L'elemento comune a ogni relazione distinguente è il reciproco non-essere l'altro. Dunque tutti gli enti di ragione distinti per differenza, cioè diversi fra loro, hanno in comune la loro rispettiva particolarità, che è il negativo dialettico rispetto all'Essere. Ciò implica che il Negativo include l'Essere, lo comprende nel Tutto originario indistinto, e dunque è “più grande” dell'Essere stesso. Sicché “ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore” non è l'Essere, che ha l'esistenza ma non il non-essere, cioè il Divenire; ciò che può essere pensato come essente in-esistente, ossia realtà possibile e contraddittoria, è il Kaos, il vero Principio e Tutto.48 La decisione dell'Essere non è inscritta nel processo originario, ma è solo una determinazione della volontà d'essere di una coscienza che sa di poter essere anziché non. Il sapere di poter-essere si determina come volontà (decisione) d'essere anziché non, e quindi di doveressere, contro ogni altra possibilità di non essere. La decisione ontologica, trasferita nel regno bio-logico, fa del motivo dell'ordine razionale quello della sopravvivenza del gruppo sociale. La 48
Pensando Dio con le categorie della ontologia greca, lo si è pensato come un Ente di ragione, non come Tutto, comprensivo dell'inesistente e dunque lo si è ponsato come Potenza infinita e non come Libertà di Amore. “Dio infatti è ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore: chi bene intende questo, intende per ciò stesso che Egli esiste in modo che non si può pensare neppure che non sia. Chi perciò intende che Dio è questo, non può neanche pensare che Egli non esista”: Anselmo d'Aosta, Proslogion, tr. it., Torino, 1956, pag. 12. Ma il Dio esistente è il Verbo incarnato, la Parola, il Logos Christos, l'Uomo storico, non il Dio-UnoTutto.
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prospettiva vitalistica si fonde con la prospettiva ontologica in una rappresentazione dell'Essere come Vita. Il motivo della vita implica che la relativa azione operosa sia di contrasto alla opposta tendenza contraria alla vita e alla ragione, che chiamiamo Morte. Se dunque guardiamo alla Vita come riferimento ontologico primario, la Morte rappresenta l'opposta tendenza negativa in-esistente. Se invece consideriamo l'unitario processo in cui s'intersecano simbioticamente Vita e Morte, allora la Vita ci appare solo come una possibilità non necessaria della unità originaria del mondo, che include tanto la Vita quanto la Morte, senza priorità etico-ontologica. Nell'ambito della possibilità della struttura originaria, la Vita appare come l'opzione non necessaria alla Morte, per la quale la decisione per la Vita si costituisce come il modo razionale di trasformare la sua possibilità in necessità. Il passaggio dal “potere” al “dovere” essere è ciò che chiamiamo “cultura umana”, nelle sue varie forme storiche di manifestazione. Rispetto alla generale tendenza culturale, che indichiamo come Storia, il processo originario che conserva l'integrità simbiotica della relazione Vita/Morte, indicato come Divenire, non è altro che la Natura, intesa come “l'organizzazione delle cose viventi che dipende da catene di determinazione circolari e più complesse (che) si combinano per conseguire il buon esito di quel modo di sopravvivenza che contraddistingue la vita”.49 Dunque la polarità negativa rispetto al valore ontologico positivo dell'Essere è la realtà originaria della Natura, in-distinta e caotica, che dev'essere negata per consentire all'ente di ragione di rapportarsi al suo fondamento decisionale, indicato come Vita e come Bene, ossia come valore assoluto. Per “valore” intendiamo con Schmitt ciò che “aspira a essere posto in atto”, in quanto “non è reale, ma è senza dubbio riferito alla realtà, e attende con impazienza di essere attuato ed eseguito”.50 Il valore è un costrutto ideale, una rappresentazione ideale della realtà, che ambisce e postula di diventare reale. Il postulato etico di tale ambizione realistica coincide con la posizione ontologica per cui l'Essere è (opposto al non-essere). Questa avversione metafisica è una posizione etica: di voler affermare l'Essere contro il Kaos originario 49
G. Bateson, Op. cit., pag. 141. C. Schmitt, La tirannia dei valori, cit., pag. 47.
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del processo di indistinzione naturale di Vita e Morte. Tale confusione, che impedisce il giudizio di ragione, costituisce l'antitesi polemica della posizione tetica ontologica a partire dalla quale si sviluppa metodicamente il pensiero razionalista della filosofia, sin dalla polemica verso il Mito. La filosofia, scienza della distinzione, si oppone alla indistinta narrazione mitica, che riflette il processo della Natura, senza offrire la risposta decisiva alla domanda tragica: “Perché la Morte se è possibile la Vita?” La risposta filosofica che supera le antinomie tragiche della cultura mitica è “Scelgo di vivere, cioè scelgo l'Essere, perché possono pensare la differenza”. Pensare la differenza significa appunto filosofare, ragionare secondo il Logos. Il poeta intuitivo diventa poeta pensante: nasce la filosofia (sec. VIII). La ragione è utilizzata da entrambe le forme simboliche del Mito e della filosofia. “Mito e filosofia, proprio come mito e rivelazione, sono separati dal salto nell'Essere, ossia dal distacco dell'esperienza compatta di un ordine cosmico-divino mediante la scoperta dell'ordine trascendente-divino”, anche se la “radicalità dell'evento” viene preparata storicamente a lungo fino alla sua piena trasparenza,51 grazie all'opera propedeutica degli aedi. I poemi di Esiodo costituiscono un simbolismo sui generis, in quanto rappresentano un'autentica forma di transizione dal mito alla metafisica (attraverso) il sostrato esperienziale fornito da Omero, (che consente ai
simboli mitologici di essere significati da più precise definizioni filosofiche). Con la Teogonia il mito degli dei olimpici inizia a lasciarsi penetrare dalla intenzione speculativa e, a partire da questo inizio, si può rintracciare una linea evolutiva di tale intenzione, che, passando per i filosofi ionici e italici giunge fino a Platone e Aristotele.52 Tra le due forme simboliche si pone la teologia, la forma intermedia propria di Esiodo. Con lui il poeta esce dall'anonimato dell'epica e si presenta come persona dotata di propria ispirazione, contrapponendo alla “non verità della società la propria conoscenza della verità.53 La 51
E. Voegelin, Loc. cit., pag. 133. Ivi, pagg. 134-135. 53 Ivi, pag. 137. 52
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capacità del poeta di sedare le passioni dei singoli è speculare a quella del principe di placare le turbolenze delle masse. Uno stesso carisma li possiede. Le Muse sono figlie di Zeus e di Mnemosyne, la forza ordinatrice dell'universo. Esse trasmettono l'ordine giovico al principe e all'aedo, perché essi lo trasmettano sia al popolo che all'uomo, nella sua solitudine. Essi trasmettono dunque una verità che è musica dall'effetto catartico, (…) la sostanza dell'ordine che afferma se stesso contro il disordine della passione, che regna nella società e nell'uomo. 54
“Il mondo di cui facciamo esperienza non è una struttura statica, ma un processo”,55 espressoda un suo adeguato simbolismo. L'orientamento paradigmaticamente esposto nelle favole è la prescrizione divina secondo Dike, il cui ordine finisce sempre per prevalere.56 Ma l'esito fatale non preclude all'uomo l'esperienza della crisi e l'incertezza esistenziale di essere annichilito dal Kaos. Le visioni rivelatrici non sono storie di uomini e dei, quanto piuttosto forme simboliche che tendono a oltrepassare il mito, e nelle quali si esprime l'inquietudine che l'anima prova quando avverte la possibilità della propria distruzione spirituale e morale.57
La paura e il pericolo spingono l'anima a uniformarsi all'ordine sociale e cosmico per sopravvivere. Se l'ordine è giusto, lo sarà anche l'anima; lo stesso vale se sarà ingiusto. Non vi è in Esiodo ancora la resistenza consapevole di un Senofane, di un Eraclito o un ordine alternativo a quello sociale come in Platone. Resistenza a cosa? All'adeguamento nichilistico al contesto contingente, senza guida valoriale trascendente la situazione di fatto. “Lo stile della civiltà ellenica è indubbiamente caratterizzato dall'assenza di burocrazie, sia di tipo laico che religioso”, con lo sviluppo di società libere; tanto da costituire un “paradiso geopolitico affacciato sull'Egeo”, dal 1100 al 500 a. C.58 L'epica omerica si serve di una grande riserva di miti tradizionali che 54
Ivi, pag. 138. Ivi, pag. 142. 56 Ivi, pag. 148. 57 Ivi, pag. 162. 58 Ivi, pag. 172. 55
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si producono all'interno di una società aristocratica promiscua di dei e uomini che convivono nel reciproco riconoscimento, ma Esiodo dispone di un patrimonio mitologico più ampio, comprensivo di divinità ctonie e primordiali, tale che “i materiali del mito popolare vennero sottoposti, con incredibile libertà e naturalezza, alle esigenze di una ricerca speculativa sulle origini dell'Essere e dell'ordine”, con la comparsa personale del soggetto narrante, portatore di una nuova verità nella storia. La verità è il fondamento dell'Essere e della realtà, la cui struttura, con Esiodo, acquisisce una pluralità di tipi di ordine che l'uomo può distinguere e indicare con “i simboli consoni a esprimerli”.59 Gli antichi simboli furono sostituiti da nuovi, allorquando cambiò il contesto socio-culturale, e i filosofi di Mileto (Talete, Anassimandro e Anassimene) nella loro ricerca del principio “sostituirono le figure divine del mito con simboli tratti da cose e realtà del mondo dell'esperienza sensibile”.60 Infatti, il dinamismo olimpico, con le sue dinamiche eroiche, presupponeva una cultura aristocratica e guerriera che escludeva l'estensibilità dei suoi valori all'universo antropologico di una società pluralista. Ancorare i fondamenti del pensiero alla Physis consentiva l'affidabilità dei valori alla certezza dei sensi comuni a tutti gli uomini, tale da spostare sulla elaborazione logica la selezione delle anime noetiche dalla massa dei meri sentimenti. La elaborazione del Mito da parte della filosofia si concentra costitutivamente e originariamente sui fondamenti ontologici, col conseguente esautoramento del dinamismo teogonico, sostituito con uno statico naturalismo. L'ontologia naturalistica si sviluppa pertanto come rimozione-negazione del Divenire, rappresentato dai personaggi mitologici, a favore esclusivo del solo Essere statico del concetto. Il passaggio all'Essere segna questa transizione dal Mito al fondamento naturalistico. Sul modello naturalistico venne comparata l'esperienza umana, l'aspetto difettoso e imperfetto che richiedeva una adeguazione al cosmo dei valori eterni custoditi dalle leggi universali, per mezzo del Logos. La Natura in sé, quale contesto di fenomeni spontanei, non rivela il senso dei processi umani, la loro significativa destinazione, ma occorre un intervento ermeneutico che ne sveli la trama simbolica, poiché “è improbabile 59
Ivi, pag. 173. Ibidem.
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che nella realtà, in quanto risultato di processi fisici, compaiano cose dotate di senso”.61 Il continuum del ciclo naturalistico esiodeo veniva trasfigurato dal telos significativo che attraversa le sequenze temporali tradizionali che scandivano sia il corso delle stagioni che delle generazioni umane.62 Il problema del confronto eroico con gli dèi legislatori si spostava dunque sul piano della coscienza, nella palestra della psyche umana, il cui ordine “trascende l'ordine della polis (…) nella forma simbolica che chiamiamo filosofia”.63 La filosofia costituì la rappresentazione dell'ordine ideale sulle manifestazioni dell'esperienza empirica, quale realtà vera rispetto alle deformazioni imperfette del vivere inconsapevole. Non c'è più il sovra-mondo divino, ma il sovra-mondo teoretico.64 La tensione fra l'Ellade dei poeti e dei filosofi e quella della polis, cui essi si contrapponevano, costituì la forma stessa della civiltà ellenica (…). Questa forma aveva qualcosa di sfuggente perché l'ordine dell'anima, derivante dal suo orientarsi verso una realtà che la trascende, è di tipo personale e non può essere istituzionalizzato: per formarsi in modo autonomo, poteva far conto esclusivamente su singoli esseri umani, 65
contrassegnando il carattere privatistico della filosofia in contrasto col suo oggetto pubblico. Il rapporto problematico fra coscienza privata e coscienza pubblica caratterizza infatti la posizione del filosofo sulla scena politica. Il nuovo ordine dell'anima, quando veniva comunicato dai suoi scopritori e creatori, entrava inevitabilmente in collisione con l'ordine pubblico, per il suo appello più o meno esplicito ai concittadini a riformulare la propria condotta personale, i costumi della società e, in ultima istanza, le istituzioni, conformemente al nuovo ordine scoperto. La filosofia ellenica divenne pertanto in misura considerevole l'articolazione del vero ordine della esistenza, all'interno della cornice istituzionale della polis ellenica.66 61
H. Blumenberg, Arbeit am Mythos (1979), tr. it., Bologna, 1991, pag. 105. J.-P. Vernant, Mythe et pensée chez les Grecs. Etudes de psycologie historique (1965), tr. it., Torino, 2001, pagg. 82-84. 63 E. Voegelin, Loc. cit., pag. 175. 64 Ved. E. Rohde, Op. cit. pagg. 380-425. 65 E. Voegelin, Loc. cit., pag. 175. 66 Ivi, pag. 176. 62
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Il mondo mitico, sostituito dall'ordine naturale del cosmo ontologico, si proiettò sulla realtà umana come opposizione logica al modello d'ordine ideale. Ma se il mondo divino era semplicemente creduto, la realtà del mondo umano era esperibile come vissuto comune, sicché la negazione razionale assunse aspetti esistenziali di opposizione politica della coscienza del filosofo verso la società del suo tempo, in cui egli stesso viveva e di cui ne era parte. I tre stadi scoperti da Comte dello sviluppo del pensiero, che dalla fase teologica passa a quella metafisica culminando in quella positiva, riflettono l'eziologia dell'impianto filosofico quale elaborazione del Mito in senso ontologico naturalistico. Essendo la verità filosofica una relazione tra il contingente fenomeno oggetto di pensiero, e il fondamento ontologico che lo definisce logicamente come elemento del suo essere, e dato il carattere naturalistico del fondamento, lo sviluppo concettuale tende ad affermarlo ai fini della credibilità dei giudizi di realtà, necessariamente confermativi di quel fondamento. Il naturalismo dei Milesi fu superato dal logicismo di Parmenide, per il quale l'Uno era identico al Logos. Con Anassimandro viene a perdersi il riferimento naturalistico delle sostanze sensibili e l'originario diventa in lui l'Apeiron, l'Illimitato. Anche il concetto di Natura diventa un ambito di considerazione autonomo, come processo infinito, relativo all'illimitatezza del mondo, che nel simbolo di Anassimandro trova il suo toponimo trascendente. Il filosofo della trascendenza teologica si distingue dal filosofo della trascendenza naturalistica, che trovano in Platone e in Aristotile i rispettivi campioni speculativi di “due distinti modi di filosofare”.67 Ma la conoscenza è anzitutto uno statuto dell'anima, che è all'origine di una epistemologia della scienza politica. Infatti, “conoscenza ed esistenza di pendono l'una dall'altra; l'ordine dell'Essere si fa trasparente solo per coloro che hanno delle anime ben ordinate”, secondo le “funzioni cognitive dell'intelligenza” e le “virtù dell'anima”. Platone indicherà il principio d'ordine dell'anima nell'Agathon, ma fu Senofane ad avanzare “la pretesa di un riconoscimento pubblico” della saggezza individuale, che stabilisse così l'avanzamento del livello di civiltà
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Ivi, pag. 189.
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raggiunto dalla comunità umana.68 Pertanto, la correlazione fra natura umana e autorevolezza sociale fa parte delle dinamiche dell'ordine politico, costituendo un fattore emulativo di progresso, che implica l'esistenza di una “unità del genere umano costituita dalla comunità dello spirito”. Con lo sviluppo della natura umana nella storia, gli uomini che attualizzano potenzialità rimaste fino a quel momento latenti nelle loro anime vivono col dovere di comunicare quanto hanno compreso ai loro simili, mentre sugli altri incombe il dovere di vivere aprendosi a una tale comunicazione. 69
L'unità spirituale è potenziale, non fattuale, sicché implica il riconoscimento di un corpo di ottimati che s'eleva dalla media della comune umanità. La dinamica sociale si sviluppa tra l'uguaglianza astratta e la concreta differenza fra gli uomini. La differenziazione dell'anima non è un processo collettivo, bensì ha luogo nelle anime individuali di persone particolarmente dotate (perciò) l'unico modo per apprezzare pienamente l'universalità della verità è che essa venga mediata da alcuni individui che si oppongono alla comunità. Più ci si avvicina alla rivelazione di una verità trascendente valida per tutti gli uomini, più intensa si fa la solitudine dei mediatori.70
La posizione ideologica dei moderni razionalisti consiste appunto di dare alla forma astratta della condizione spirituale una effettualità concreta attraverso l'opera del potere politico. E' il caso tipico dei “pubblicisti repubblicani” del sec. XVIII “addetti alla ipotesi del patto sociale”, i quali, eliminando la differenza tra astratta uguaglianza e concreta condizione storica dei singoli, intendendo pervenire autoritativamente a una uguaglianza sociale concreta, reale, che eliminasse la differenza tra il dato naturale e la condizione individuale, privando la condizione umana della sua concreta e particolare singolarità, che è all'origine della insuperabile disuguaglianza fra gli uomini. Infatti, l'astrazione sociale, “combinandosi coll'elemento
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Ivi, pag. 193. Ivi, pag. 194. 70 Ivi, pag. 209. 69
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concreto può diventare disuguaglianza individuale”.71 Con Parmenide, dopo Senofane, la linea esperienziale giunge fino a concepire il destino soprannaturale dell'anima, che tende alla verità trascendente. Partendo “dal pathos della polis datrice di gloria immortale”, giunge alla “verità dell'anima individuale (che) si disincaglia dall'esistenza collettiva per raggiungere la sintonia con la realtà divina trascendente”.72 Con la Rivelazione cristica il simbolo della redenzione è sottratta ai filosofi, “e la filosofia, unica sorgente di ordine trascendente per la polis, (col Cristianesimo) è diventata una delle due sorgenti d'ordine per l'uomo, quella della ragione a fianco di quella della rivelazione”.73 L'esperienza della immortalità, attribuita al divino, precede la scoperta dell'anima quale sua fonte e che ne è partecipe. “Ma questa partecipazione (metaschesis) viene sperimentata come precaria; è qualcosa che può accrescersi o scemare, che può essere conquistato o perso. Pertanto l'attività dell'anima nutrirà l'elemento mortale o quello immortale”. La sospensione dell'anima tra Gea e Urano è la stessa della condizione umana, che può crescere in uno dei due sensi opposti, terreno o divino. Il thymos (cuore) che non lascia tranquillo il pensatore è la forza dell'anima che successivamente, in Platone, diventa l'eros del filosofo; e la direzione viene impressa da Themis e da Dike, le divinità del giusto ordine e della giustizia, che ricompaiono nella Repubblica come Dike, la forza che conferisce all'anima proporzione e ordine.74
Ma è con Parmenide che inizia la vera storia della filosofia, “intesa come esplorazione della costituzione dell'Essere (eon)”,75 che diventa il simbolo di tutta la futura speculazione filosofica, e che, “come impostazione del problema della conoscenza, resta lo stesso, pur con i suoi sviluppi, anche nel seguito della filosofia greca”.76
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Ved. L. Taparelli d'Azeglio, Saggio teoretico di dritto naturale, vol. I (1840), Roma, 1949, pag. 281. 72 E. Voegelin, Loc. cit., pag. 211. 73 Ivi, pag, 212. 74 Ivi, pag. 215. 75 Ivi, pag. 216. 76 G. Colli, Gorgia e Parmenide. Lezioni 1965-1967, Milano, 2003, pag. 112.
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L'essere di Parmenide non rappresenta l'origine degli enti percepibili sensibilmente (ta onta), come era avvenuto con la speculazione ionica. Si tratta di qualcosa che viene dato nell'esperienza del trasporto. Ecco perché il darsi dell'eon non è ricavabile per via speculativa come l'arché, il principio del flusso degli enti che si sperimentano (il quale, proprio in quanto flusso, è al tempo stesso un divenire), ma è dato alla speculazione come un dato di esperienza immediata.
Una intuizione dell'anima che entra in contatto col trascendente. Infatti, il concetto di Essere in Parmenide si muove a un livello che non è quello della speculazione filosofica; ma si tratta di un processo dell'anima in cui l'essere inteso come trascendenza assoluta entra ultimamente nell'orbita della presa esperienziale. Il filosofo che gode di questa visione ha travalicato l'ambito dell'esperienza sensibile e non compie una speculazione sulla pluralità delle cose in quanto oggetto dei sensi. La sua visione ha un contenuto specifico che può essere apprezzato esclusivamente mediante una specifica facoltà dell'anima. Parmenide ha chiamato questa facoltà nous (il quale) rende presente e sicuro l'assente. 77
Il nous è la “mente”, intesa come unità, ovvero come “comprensione totale e compiuta, per cui l'essere non è né un punto, ove tutto si “concentra”, né una serie “disgregata” di punti accanto a punti, ma totalità”. In Parmenide, dunque, non si tratta tanto di un essere che è e di un non essere che non è, ma di due nostri modi di atteggiarsi di fronte a un'unica realtà: o si accettano le cose così come appaiono all'occhio fisico, ai sensi, le une accanto alle altre, ritagliate e disarticolate, contraddittorie, nascenti e morenti; o, di là dall'apparenza fisica, si coglie, mediante la ragione, la ragion d'essere del tutto, che non è nessuno degli aspetti, ma è tutti insieme, simultaneamente. (…) Le due famose vie di Parmenide (fr. 2) si risolvono in effetto in una sola via legittima, quella del pensiero, che è l'unica che svela il reale.78
Il nous dunque è l'organo cognitivo che coglie la realtà non sensibile ma puramente intelligibile, della quale però non è in grado di 77
E. Voegelin, Loc. cit., pag. 216. F. Adorno, La filosofia antica, vol. 1, Milano (1961), 1977, pag. 55.
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articolare il contenuto, che è l'attività propria del Logos, l'organo cognitivo col quale è possibile determinare la natura dell'Essere. La realtà intuita dal nous è in-determinata, cioè non ascritta ad alcuna determinazione esclusiva di altre. Ciò che è indeterminato, però, non è solo l'unità generica degli enti non ancora vagliata dal Logos, ma è la con-fusione di ciò che è reale e di ciò che è ideale, trascendente. Non si tratta di un atto di pre-cognizione intuitiva, ma di cognizione del Tutto nella sua relazione immediata col finito. La conoscenza indistinta è quella recepita per abitudine e trasmessa in maniera acritica. Ma non è il caso del nous. Il procedimento del Logos si muove all'interno della distinzione tra l'ethos della conoscenza consuetudinaria del nomos, e la realtà che-è, quella appunto ontologica. Ciò che è coglibile con il nous non equivale a ciò che è coglibile con il pensiero discorsivo. Avanzare sulla via che porta alla luce culmina nell'esperienza di una realtà suprema, che può essere espressa soltanto nell'esclamazione “è”. 79
Ciò che “è” presente intuitivamente alla coscienza è quanto non procede e non diviene ma si rivela come evento assoluto che è tutto ora (nyn). Il suo non-divenire è lo stesso non divenire discorso (logos) comunicativo credibile, che, per Aristotile, ha il suo telos nell' “ascoltatore” (akroates).80 La totalità della rivelazione intuitiva le impedisce di divenire, cioè di perfezionarsi o corrompersi nel tempo. E in quanto in-finito, lo “è” di Parmenide è trascendente ogni determinazione razionale. Il pensiero filosofico si sviluppa a partire da questa intuizione della realtà totale a opera del nous. Come ha ben compreso Voegelin, “la speculazione critica, la filosofia nel senso tecnico del termine, sorge come un'operazione logica a partire da questa esperienza dell'è!”81 Dalla compresenza dei due elementi, intuitivo e discorsivo, sorge la Verità. “La speculazione filosofica costituisce l'incarnazione della Verità dell'Essere”. Ogni speculazione che prescinde dal fondamento intuitivo del nous è sofistica o pertiene alla mera opinione (doxa), e concerne il non-Essere. 79
E. Voegelin, Loc. cit., pag. 219. Aristotele, Rhetorica, A 3, 1358 a 37 sgg. 81 E. Voegelin, Loc. cit., pag. 221. 80
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Il conflitto tra verità e illusione non pertiene al conflitto tra proposizioni vere o false: l'illusione, in effetti, può dirsi altrettanto vera della verità, se per verità si intende l'articolazione adeguata e coerente di un'esperienza. Il conflitto si genera piuttosto fra due diversi tipi di esperienza. La verità consiste nella filosofia del realissimum, che si sperimenta allorché l'anima percorre la via che la porta a farsi immortale. L'illusione consiste nella filosofia della realtà che sperimentiamo come uomini che vivono e muoiono, in un mondo che si dispiega nel tempo e che ha un inizio e una fine. La caratterizzazione di questa filosofia della realtà come illusione trae la sua giustificazione dall'esperienza di una realtà superiore, di un fondamento immortale nel mondo mortale. Il conflitto risale, ultimamente, all'esperienza delle due componenti dell'anima, quella mortale e quella immortale. 82
Esse agiscono sulla stessa realtà, come aspetti di uno stesso mondo, che viene conosciuto in due diverse tipologie d'esperienza, entrambe umane. Fra le due dimensioni, del cosmo illusorio e dell'Essere, Platone pone il Demiurgo, in funzione mediatoria, che incarna nel mondo il paradigma eterno.83 Ma le due dimensioni, entrambe reali, di una stessa realtà appartengono a questa unità totale, inclusiva dell'Essere, entro la quale la stessa doxa, intesa come Mito, diventa immagine di verità, dove l'alternativa verità-doxa di Parmenide viene superata attraverso la via della fede (pistis), diversa dalla via speculativa del Logos,84 quella della rivelazione. Il luogo della rivelazione è l'anima, la dimensione interiore che non può essere confinata nella finitezza fisica dell'uomo e che travalica i suoi confini in un Oltre. “Con la coscienza parmenidea della vita che porta verso i confini della trascendenza, l'anima stessa fa il suo ingresso all'interno della sfera della conoscenza filosofica. La speculazione sull'Essere trascendente è resa possibile dal fatto che l'anima è il sensore della trascendenza”.85 Il passo ulteriore è compiuto da Eraclito, la cui speculazione sull'anima si eleva al di sopra della verosimiglianza. Nel pensiero omerico non è ancora un pensiero dell'anima, pur esistendo la parola psyché, che in Omero è un'ombra 82
Ivi, pag. 224. Ivi, pag. 225. 84 Sul rapporto tra logos e pistis in Aristotile, ved. M. Heidegger, Grundbegriffe der aristotelischen Philosophie (1924), tr. it., Milano, 2017, pagg. 154 sgg. 85 Ivi, pag. 230. 83
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che appare nei sogni ma non è un'anima immortale.86 L'idea di un'anima immortale appare ai pensatori intorno al 500 a. C., derivata da Pitagora e dalla metempsicosi. Il daimon pitagorico e l'ethos di Eraclito, per cui l'immortalità non è più legata al daimon, ma diventa dimensione umana. Ethos non è il mero carattere di una persona ma la sua “natura”, che può riferirsi anche a quella di un dio. Anche l'uomo, come il dio, è sophon; ma la sua sapienza che regge il mondo è divina, mentre lo gnome umano consiste nella conoscenza della sapienza che regge il mondo è solo del dio.87 Sono due tipi diversi da sapienza, l'umana e la divina. L'umana è quella che riconosce il limite rispetto a quella cosmica divina, “separata da tutte le cose”. La sapienza umana non consiste in un possesso ma in un processo (…) dal molteplice all'Uno, che deve essere trovato in tutte le cose. (…) Noi siamo dell'avviso che Eraclito abbia sviluppato una filosofia dell'ordine, il cui 86
“Psyché significa in Omero vita, concetto della vita, ma non mai come designazione della forza dell'anima durante la vita”. Nella cultura omerica “l'uomo muore quando esala l'ultimo respiro: ora la psiche è appunto questo alito, questo soffio d'aria, che non è un nulla (come non lo sono i venti, suoi parenti), ma un vero corpo, anche se invisibile agli occhi di coloro che son desti: la sua natura di immagine dell'uomo si dà a conoscere nelle visioni che si hanno in sogno”. Si potrebbe immaginare una vita indipendente dal disfacimento del corpo, “ma il poeta omerico non è giunto tant'oltre: la psiche è e rimane per lui soprattutto un essere reale, un secondo io dell'uomo”: E. Rohde, Op. cit., pagg. 383 e 46. 87 E. Voegelin, Loc. cit., pag. 219. Aristotele, Rhetorica, A 3, 1358 a 37 sgg. E. Voegelin, Loc. cit., pag. 221. Ivi, pag. 224. Ivi, pag. 225. Sul rapporto tra logos e pistis in Aristotile, ved. M. Heidegger, Grundbegriffe der aristotelischen Philosophie (1924), tr. it., Milano, 2017, pagg. 154 sgg. Ivi, pag. 230. “Psyché significa in Omero vita, concetto della vita, ma non mai come designazione della forza dell'anima durante la vita”. Nella cultura omerica “l'uomo muore quando esala l'ultimo respiro: ora la psiche è appunto questo alito, questo soffio d'aria, che non è un nulla (come non lo sono i venti, suoi parenti), ma un vero corpo, anche se invisibile agli occhi di coloro che son desti: la sua natura di immagine dell'uomo si dà a conoscere nelle visioni che si hanno in sogno”. Si potrebbe immaginare una vita indipendente dal disfacimento del corpo, “ma il poeta omerico non è giunto tant'oltre: la psiche è e rimane per lui soprattutto un essere reale, un secondo io dell'uomo”: E. Rohde, Op. cit., pagg. 383 e 46. E. Voegelin ag. 234.
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centro era l'ordine dell'anima, e che, a partire da esso, si allargava all'ordine della società e del cosmo. Si tratterebbe di tre tipi di ordine interrelati, in quanto il principio ordinatore del cosmo veniva inteso alla stregua di una sostanza intelligente, e l'ordine dell'anima come facente parte dell'ordine cosmico.88
Emerge dunque un'idea di Ordine che dà senso al molteplice e lo porta ad unità significativa, cioè razionale. Il Logos è “l'ordine che pervade ogni cosa”, anche se gli uomini non se ne avvedono e non agiscono tenendone conto.89 La realtà politica come dimensione collettiva della esistenza umana entra in relazione dialettica con la visione spirituale di poeti e filosofi, i quali tracciano un orizzonte valoriale di motivi significativi per la vita umana, che nei loro auspici goda di stretta coerenza tra pensiero e azioni. A partire dal Mito per proseguire con la sua elaborazione razionale, l'intuizione del mondo (noema) della coscienza teoretica viene assunta nella cultura greca classica come la verità ideale del mondo, la cui fonte e organo cognitivo è l'anima. Ma per diventare davvero forma di civiltà, la tensione dev'essere qualcosa di più di un pungolo che alcuni individui eccentrici esercitano sulla polis. Per creare una società di persone deste, capaci di rispondere alle due grandi sollecitazioni lanciate dai filosofi – la scoperta della profondità dell'anima e l'attrazione amorosa che l'uomo avverte per il sophon – c'era bisogna di una sorta di grande risveglio,
che avviene nel V secolo con l'esperienza spirituale e politica di Atene.90 Con le guerre persiane e la tragedia di Eschilo, infatti, spirito e potere si congiungono storicamente. La fede di Solone nella Dike e nella misura invisibile fu la stessa di Eschilo. Dopo le riforme, prese il potere il dittatore Pisistrato (561 a. C.), il cui governo democratico si propose di privare la casta nobiliare del suo potere sacerdotale, elevando Dioniso a dio comune e culto pubblico.91 Nasce col carro di Tespi e i tragodoi la tragedia come culto popolare. Caduto Pisistrato, nel 508 a. C., si realizzano le riforme di Clistene in senso democratico. 88
Ivi, pagg. 234, 235 e 239. Ivi, pag. 240. 90 Ivi, pag. 253. 91 Ivi, pag. 254. 89
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Dopo Maratona prese il potere Temistocle, leader popolare e stratega. Nelle Rane (405) Aristofane traccia un ritratto maligno di Socrate esprime su di lui pressocché le stesse critiche che Platone muoverà ai Sofisti, tanto che verrà accusato nell'Apologia di avere la maggiore responsabilità della morte del filosofo.92 Nella stessa tragedia un giudizio severo verrà riservato anche a Euripide, corruttore dei costumi morali di giovani. Per Aristofane infatti il poeta è il didaskalos degli adulti in materia etica e politica, e pertanto i poeti tragici vengono raffigurati come gli educatori del popolo, coloro che tengono alto un modello di umanità da ammirare; la qualità del popolo dipenderà direttamente dal genere di umanità che gli verrà presentato nelle grandi rappresentazioni teatrali incluse nelle feste dionisiache. 93
La tragedia dunque con Aristofane si fa strumento pedagogico di massa, una “terapia psicologica” degli spettatori, per cui “gli eventi rappresentati sulla scena provocano in loro pietà, paura e altre emozioni, offrendo così una valvola di sfogo a passioni accumulate fino a un punto di saturazione”.94 Ma con la funzione catartica, descritta da Aristotile nella Poetica, si dissolve lo spirito della tragedia, e il poeta non racconta più, come fa invece lo storico (historikos) semplici eventi, ma qualcosa “di più filosofico e di più serio” della storia, qualcosa di “generale” che viene legato ad aspetti essenziali e di necessità. Se lo storico narra fatti, “il poeta crea un'azione che convoglia una visione generale” che inerisce alla verità, ossia offre una visione del mondo, un ordine ideale della vita, una rappresentazione simbolica, tale che la verità dell'anima trovi una corrispondenza nella realtà pratica. Non una verità contemplativa e distante dal mondo-della-vita. “La verità della tragedia è essa stessa azione, una azione secondo quel nuovo livello appena raggiunto dei moti dell'anima, che culmina nella decisione (prohairesis) dell'uomo maturo e responsabile”.95 La tragedia rappresenta l'azione della coscienza che lotta per decidere. La decisione è tanto più sofferta in 92
L. Robin, La pensée grecque et les origines de l'esprit scientifique (1923), tr. it., Torino (1951), 1969, pagg. 190-191. 93 E. Voegelin, Loc. cit., pag. 256. 94 Ivi, pag. 258. 95 Ivi, pag. 259.
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quanto l'azione è simbolicamente significativa della verità che rappresenta. Verità dell'anima, che va colta come dramma esperienziale, come vicenda di vita. Le vicende tragiche espongono situazioni rappresentative di reali condizioni spirituali, inevitabilmente connesse con le vicende politiche. La carriera di Eschilo “coincide esattamente con la fase più antica e più dinamica della storia della democrazia ateniese, che va grosso modo dal 480 al 440 a. C.: era quindi inevitabile che egli partecipasse agli accesi dibattiti del suo tempo”.96 Nelle Supplici (463 a. C.) la decisione del re di Argo di ospitare le Danaidi in fuga dai pretendenti egiziani diventa questione di governo condivisa col popolo (demos). Pelasgo non è un re assoluto dell'età del bronzo, ma una sorta di re-cittadino la cui rappresentazione pubblica anticipa di due anni le riforme democratiche di Efialte e di Pericle, sicché “è difficile non trarne la conclusione che l'opera e la riforma fossero in qualche modo ideologicamente collegate”.97La Dike è nella solidarietà degli intenti, non in un principio ideale astratto. La decisione di governo non scaturisce da un ragionamento di cui essa è la conclusione logica, ma da una considerazione di giustizia, maturata all'interno dell'anima. Non ogni tipo di condotta è azione giusta, ma solo quella maturata da una decisione di coscienza. Non ogni situazione, parimenti, è tragica, ma solo quella in cui per la decisione si deve ricorrere a Dike. “La funzione della tragedia è la sofferenza rappresentativa che lega l'anima al suo destino, e non la catarsi aristotelica che opera tramite pietà e paura”.98 Eschilo scoprì la funzione politica della psyché come fonte significativa dell'Ordine per la polis storica e dalla sua tragedia Platone trasse la sua filosofia della storia. Come scrive Voegelin, Eschilo si è servito della forma tragica per presentare il dramma storico dell'anima. L'ordine dell'anima in evoluzione storica (…). L'esperienza della storia cresce proprio sull'humus della tragedia. Perché il significato dell'azione tragica possa irradiarsi sull'ordine dell'esistenza umana nella società e la illumini, è necessario che si sia prima pienamente sviluppata 96
P. Cartledge, Utopia e critica della politica, in Le savoir grec (1996), tr. it., Torino, 2005, pag. 196. 97 Ibidem. 98 E. Voegelin, Loc. cit., pag. 263.
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l'idea completa dell'anima umana, della sua discesa in sé medesima grazie alla riflessione, della decisione che viene presa da quella profondità e di un'azione di cui l'uomo sia responsabile. E anche l'ordine sociale acquista tinte di tragedia, quando lo si intende come opera dell'uomo, un ordine che l'uomo contende alle forze demoniache del disordine, e che è incarnazione precaria di Dike, conseguito e mantenuto grazie agli sforzi dell'azione tragica. Solo quando l'ordine dell'anima divenuta la forza che ordina una società, un corso di vicende umane potrà diventare il corso della storia, solo allora l'ascesa e la caduta di una forma politica verranno sperimentate nei termini di una crescita o di una disintegrazione della psyché.
Eschilo non fu Mosè, ma “fu l'interprete eletto del suo popolo, capace di trovare la forma adeguata per parlare a esso”.99 Con il suo sentimento tragico della vita, la ricerca dell'Ordine spirituale diventa questione sociale, attestando surrettiziamente i limiti di una teoresi circoscritta alla coscienza soggettiva, di un'etica non socializzata; e non perché non estesa ancora alla moltitudine profana, ma in quanto non ricavata dal pluralismo delle molteplici istanze della gente, che sono pratiche in quanto valicano la mera coerenza formale dei costrutti razionali, circoscritti a una conoscenza limitata alla determinazione esclusiva di altre possibilità, che proprio la tragedia mette in luce. Se è vero che “i confini della nostra conoscenza finiscono là dove cominciano le contraddizioni inconciliabili”,100 la tragedia è il luogo in cui l'Io del Logos soggettivo confina col Noi dell'ethos comunitario, nella consapevolezza che “l'autodeterminazione dell'uomo trova i suoi limiti nel divino ordine cosmico, in cui è inserito”.101 Nel suo discorso agli Ateniesi del 430 a. c., riportato da Tucidide, Pericle afferma che che la partecipazione alla vita della polis sia un dovere di ogni cittadino. Partecipazione politica (isonomia) e virtù morale sono collegate strettamente, come l'ordine del discorso e la coerenza etica. Tucidide riporta anche l'Assemblea di Atene tenutasi nel 427 a. C. in cui Cleone denuncia lo scadimento del dibattito 99
M. Pohlenz, Die grieschiche Tragoedie (1930), tr. it., Brescia, vol. I, 1961, pagg. 5051. 100 L. Sestov, La filosofia della tragedia (1903), tr. it., Lungro di Cosenza, 2004, pag. 151. 101 M. Pohlenz, Loc. cit., pag. 62.
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politico a sfoggio retorico. La manipolazione della parola, già stigmatizzata da Eschilo, viene attribuita da Tucidide a una degenerazione dei valori politici, i cui codici vengono utilizzati a scopo propagandistico di parte.102 L'origine del disordine civile (stasis) è dunque verbale, inerente la sconnessione tra pensiero e azione, tra logos ed ergon. Il disordine intellettuale come la fonde di quello etico è l'oggetto precipuo del discorso socratico, la cui portata politica era dovuta alla generale considerazione delle precarie condizioni in cui versava la cultura politica ateniese del tempo, la cui riforma implicava la critica del sistema di formazione della coscienza civile, e dunque della coscienza comune, la stessa che, come Tribunale del Popolo, lo condannò a morte nel 399 a. C. E' ovvio che il problema della formazione culturale delle élite politiche cittadine fosse una implicita critica alla democrazia ateniese, caratterizzata dall'inettitudine, coperta dall'istanza della libera partecipazione alla vita pubblica. L'egalitarismo era un motivo ideologico pericoloso al bene comune, poiché, per Socrate e i suoi seguaci, era letteralmente assurdo che la maggioranza, composta di cittadini poveri, ignoranti, stupidi, ineducati e incostanti, potesse prevalere, semplicemente perché i suoi voti erano più numerosi, sulla minoranza, l'élite ricca, informata, intelligente, istruita e ragionevole, esercitando quindi su questa una tirannia collettiva.103
Ma saremmo sviati dalla considerazione sociale della componente elitaria se perdessimo di vista il senso della critica socratica a ciò che nel Gorgia viene indicata come “attività irrazionale” (alogon pragma),104 consistente in ciò che potremmo chiamare la riduzione di una attività virtuosa da artistica a mera tecnica. Ciò vale per l'arte oratoria come per l'azione politica. Non è la posizione sociale a determinare il ruolo istituzionale, ma la competenza derivata dall'educazione intellettuale e morale. La sua visione etica implicava certamente una “introspezione”, ma non “individualistica ed 102
Ved. P. Cartledge, Loc. cit., pag. 201. Ivi, pag. 205. 104 Platone, Gorgia, a. II, 465 A, 6. 103
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esoterica”,105 bensì critica e spiritualmente (non socialmente) aristocratica. La critica ai sofisti nasce sulla scorta di una visione teleologica della prassi politica, finalizzata al bene comune e guidata da principii etici razionali. La razionalità, che costituiva una discriminante qualitativa tra le attività umane, rappresentava anche la condizione di una universale partecipazione alla vita pubblica; non indiscriminata, in quanto legata al numero e alla favorevole considerazione ideologica di esso, ma potenziale, previa educazione intellettuale. Il discorso di Socrate con Polo è inequivocabile e paradigmatico della concezione socratica della virtù politica. Chi aspira all'arte di governo non può essere un “parassita” (kolax) della vita sociale, un opportunista che abbassa gli ideali nazionali a proprio vantaggio, come rappresentato umoristicamente da Aristofane nei Cavalieri (725 sgg.). Il giudizio di Socrate concorda con quello di Aristofane circa i politicanti (nyn politikoi).106 Il suo contrasto coi Sofisti nasce sulla loro indifferenza relativistica ai contenuti di valore e ai fini dell'educazione, mentre condivide con essi l'opportunità offerta a tutti i capaci e meritevoli di farsi avanti nella vita pubblica, a prescindere dal loro status sociale di provenienza. Da qui la critica dei conservatori. I Sofisti erano degli intellettuali, peroloppiù stranieri, che giungevano ad Atene per impartire a pagamento un'educazione intellettuale a chi era impegnato nella vita pubblica o volesse impegnarsi, mettendo “in ordine quelle aree del sapere che potevano tornare utili a un uomo ben educato in un società colta e competitiva”.107 Trivio (grammatica, retorica, dialettica) e quadrivio (aritmetica, geometria, musica e astronomia) furono creati da loro come curriculum intellettuale, a cui affiancarono la techne politiché, come disciplina specifica consistente in una teoria dell'educazione che prendeva avvio fin dalla prima infanzia e cercava di adattare un uomo ai costumi e ai modelli culturali della comunità alla quale apparteneva. E siccome le leggi costituivano la materializzazione dei principi ultimi sui quali riposava l'intero ordine della comunità, il coronamento del processo consisteva nell'impartire al giovane una 105
Come sostenuto da P. Cartledge, Loc. cit., pag. 205. Ved. A.E. Taylor, Plato. The Man and his Work (1926), tr. it., Firenze, 1968, pag. 197. 107 E. Voegelin, Loc. cit., pag. 283. 106
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conoscenza completa delle leggi della polis.108
Dall'educazione potenzialmente per tutti, impartita dai sofisti, nasce il contrasto con la tradizionale pedagogia aristocratica nel nuovo contesto democratico ateniese. L'appello all'autorità cessa di rifarsi alla condotta esemplare degli antenati e degli eroi, o alla aristeia paradigmatica, o alle sezioni parenetiche dell'etica, e si dirige, piuttosto, alle leggi della polis, intese come standard di condotta ultimamente vincolante circa l'esercizio del potere e il dovere dell'ubbidienza. La nuova educazione era circoscritta entro l'orizzonte della polis, il suo scopo consisteva nella formazione di cittadini responsabili e di successo. 109
Da Protagora a Platone c'è una continuità di idee e di teorie pedagogiche, storiche e politiche che nel Protagora Platone sintetizza affermando che la reverenza (aidos) e la giustizia (dike) sono potenze affettive dell'anima umana, senza le quali non è possibile mantenere l'ordine.110 Se l'educazione politica ed etica non coltiva queste qualità, ma semina acrimonia intellettuale e odio sociale, diffonde un fattore di destabilizzazione della vita comunitaria che comporta conseguenze gravi per l'ordine e la sicurezza dei cittadini. Questo atteggiamento anti-sociale e ideologicamente prevenuto è altamente biasimevole per tanto per Protagora quanto per Platone, il quale nelle Leggi prevede che “un uomo spiritualmente malato dovrebbe essere condannato a morte qualora tutti i tentativi rieducativi, protratti per cinque anni, dovessero rivelarsi inefficaci”.111 L'istruzione intellettuale era pertanto funzionale alla formazione virtuosa dei cittadini, ma non era bastevole ai fini della loro formazione educativa. Infatti, “quello che mancava alla Sofistica era il nesso fra i fenomeni ben osservati e catalogati dell'etica e della politica, e la 'misura invisibile' che irradia il proprio ordine sull'anima”, essendo perciò quello dei Sofisti “un mondo speculativo privo di ordine spirituale”, che Platone criticava come un grave limite.112 Il modo sofistico di argomentare sarà tipico del 108
Ivi, pag. 284. Ibidem. 110 Platone, Protagora, 320 d – 322 d. 111 E. Voegelin, Loc. cit., pag. 285. 112 Ivi, pag. 286. 109
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filosofare illuministico: una sorta di gesuitismo secolarizzato di razionalismo senza fede, di formalismo astratto, dove il pensatore opera su simboli elaborati da filosofi mistici, che cercavano di esprimere la loro esperienza della trascendenza. Il suo modo di procedere consiste nel recidere la parte esperienziale, separando i simboli dalla base come se essi avessero un significato indipendente rispetto all'esperienza che esprimono, e con logica brillante dimostrare che sfoceranno in contraddizioni (se riferiti) a oggetti della esperienza infra-mondana.113
In verità, questo procedimento argomentativo è riferibile generalmente alla filosofia, la quale assume i simboli teoretici a partire da dati definitori la cui realtà è riferita al loro essere oggetto di pensiero, e non in quanto prodotto di una situazione che li ha originati come risposte fornite di senso (razionale). Ciò che viene indicato come l'Essere è il dato del pensiero, il suo oggetto di coscienza astratto di determinazioni e scisso dal Divenire da cui proviene e del quale rappresenta la sola realtà razionalmente coerente alla premessa. Ma la lotta condotta in nome dell'Essere alla contraddittoria realtà molteplice del Divenire costituisce la cifra metodica di un pensiero incapace di pensare, col mondo-della-vita, il Tutto, che invece il racconto mitico rappresentava. La contraddizione cui approda il pensiero sofisticoilluministico investe dunque la stessa filosofia, la quale rappresenta la risposta possibile alla esperienza della trascendenza che la tragedia poneva come domanda irresolubile fuori della sua determinazione contingente. Da qui la centralità del bene come misura soggettiva propugnata da Socrate, che Platone invece ricercava come valore in sé, oggettivo e universale nel Clitofonte e nel II libro della Repubblica, dove la critica alla Sofistica tocca il suo vertice e rivela la preoccupazione di Platone per come la ricerca socratica possa suonare nella maggioranza: il pericolo è che la ricerca di Socrate non avendo già un suo contenuto, ma trovando il suo contenuto nella stessa ricerca, porti, per altra strada, al soggettivismo sofistico e all'impossibilità di un oggettivo ordine politico che abbia a suo fondamento un criterio di cui misura non sia l'uomo, ma un ordine super-umano, criterio di obbligatorietà, senza di cui il significato di Socrate si riduce, secondo Platone, ad una pura protrettica, a 113
Ivi, pag. 287.
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un'opera meramente purificatoria.114
La risposta deve assumere la veste della necessità, riconoscibile oggettivamente come fine superiore a ogni disputa eristica, spostando il problema della “virtù” dall'ambito sociologico della concorrenza tra classi tradizionali e nuove emergenti, in cui è necessaria la “prudenza” non soltanto nelle cose private ma anche negli affari pubblici,115 a un criterio di superiore eticità non accessibile per mera perizia tecnica e retorica, considerata da Platone anti-filosofica. Sicché “i Sofisti avevano distrutto la filosofia”, perché anziché socializzare il sapere trasformandolo in patrimonio comune di valore pubblico, lo deformarono il tecnica funzionale al potere, e perciò fruibile senza vincoli etici e veritativi, e per “riedificarla implicava far leva sul deusmensura dei filosofi, e la nuova filosofia doveva essere dichiaratamente un tipo di teologia”.116 In tal senso, l'ordine dell'anima doveva derivare da un'esperienza interiore della “misura invisibile”, non rinvenibile empiricamente o comparatisticamente da esperienza culturali diverse. L'ordine spirituale è universale per essenza, non per compendio dottrinale, come espressioni esterne e oggettive nello spazio e nel tempo di culture molteplici, ma come una intuizione mistica, razionalmente rappresentata. Il filosofo-mistico non offre informazioni ma soltanto comunica le proprie esperienze interiori perché vengano riprese da anime affini. L'insegnamento sofistico era informazione ed esercizio di abilità, ma non movimento interiore comunicato per farlo suscitare in altra anima e risvegliarla dal torpore al fine della sua crescita spirituale. La comunità dei sapienti sofisti è una sovrastruttura “naturale” (nel senso dell'Ippia del Protagora platonico), giustapposta a quella koinonia del nomos come una finzione del genere umano superiore al genere comune, cui va sostituita al potere. L'ovvio pericolo insito in un'evoluzione di questo tipo, nel caso che la società degli intellettuali debba diventare socialmente operativa, consisterebbe nella perdita della sostanza spirituale e nella sua sostituzione con informazioni 114
F. Adorno, Loc. cit., pag. 182. Platone, Protagora, 318 e -319 a. 116 E. Voegelin, Loc. cit., pag. 287. 115
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esterne, inadatte a edificare tanto l'ordine dell'anima quanto quello della società.117
Sappiamo che per costituire l'ordine politico occorrono le virtù della riverenza (aidos) e della giustizia (dike), che non sono però virtù dialetticamente ricavabili, ma elargite all'uomo dagli dèi. Secondo il razionalismo socratico, l'azione malvagia è legata alla ignoranza del bene. “Le cose sbagliate vengono preferite perché le loro conseguenze vengono mal valutate”.118 E' dunque l'ignoranza del futuro a rendere malvage le azioni presenti, la cui malvagità consiste nella assoluta irrelazione con le conseguenze future. La ragione del sapiente è la conoscenza dei nessi necessari tra gli eventi, e dunque la previdenza del futuro dalle azioni attuali. Il male è la sconsiderazione di tali relazioni e l'assolutezza del presente. Solo collegando le azioni presenti alla necessità (razionale) delle conseguenze, si può pervenire alla sapienza, la quale consiste dunque nella eliminazione della imponderabile libertà individuale degli uomini. La concezione opposta a quella del Protagora platonico è offerta da Agostino nelle sue Confessioni, a proposito del danno consapevole arrecato dai monelli all'agricoltore, che suscita in lui la riflessione sulla grazia come intervento divino riparatore dei limiti della ragione umana. La dottrina della grazia deriva dal presupposto che l'uomo non può sapere ciò che lui stesso realmente è solo attraverso l'uso della ragione. Essa coglie l'abisso che si apre tra ciò che noi siamo e ciò che sappiamo di noi stessi: però non vede come questo sapere appartiene alla stessa ragione e tolga all'uomo la possibilità di darsi da fare allo scopo di superare quell'abisso. Se la verità sugli uomini così come la loro salvezza possono venire sempre solo da un aldilà che non è in nostro potere, il passo successivo da compiere lungo questo itinerario acritico – in quanto non riflette il proprio fare – era la contrapposizione della conoscenza elargita da Dio agli uomini a tutto quanto il sapere accumulato su questa terra.119
117
Ivi, pag. 295. Ivi, pag. 300. 119 K. Flasch, Augustin. Einfuehrung in sein Denken (1980), tr. it., Bologna, 1983, pag. 252. 118
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L'azione malvagia presente, che risolve in sé stessa il piacere di commetterla, testimonia l'esistenza del male per il male. Agostino ammette la possibilità di evitare il male anche al presente, senza collegarlo alle sue conseguenze, facendo leva sulla responsabilità morale dell'uomo libero. Per Platone, invece, non vi è libertà al presente, ma essa è fornita solo dalla conoscenza del Bene, cioè dalla sapienza filosofica nell'arte di misurazione (metretike techne) della verità, per cui “essere sopraffatto dal piacere è essere sopraffatto dall'ignoranza”.120 La conoscenza dislocata dalla ricerca interiore guidata dall'intuizione unitaria della realtà (nous), fa del Logos lo strumento di accesso alla verità, intesa come cosmo di leggi necessarie di cui l'uomo può possedere la chiave per conformarsi all'ordine universale che l'ignoranza poneva come un mistero. In questa conoscenza l'uomo scopre la sua libertà dalla necessità che lo legava al solo presente. L'autonomia del Logos dal nous pone l'uomo come misura di tutte le cose (Protagora), e l'autonomia del Logos che esplora la verità dell'Essere trascendente diventa l'autonomia dell'uomo che esplora il mondo circostante, nella prospettiva di un radicale immanentismo.121 La verità come coincidenza tra enunciazione e contenuto enunciato (orthotes) nasce in Platone dall'esigenza di garantire al dialogo filosofico la conoscenza vera, che è l'Idea, e non già l'ente, per cui l'adaequatio (synfonein) dell'intelletto non è alla cosa, alla realtà ontica, lasciandola in sé esterna alla coscienza, che dubiterebbe sempre perciò della veridicità della sua conoscenza, che non può trovarsi negli enti ma nel pensiero.122 Agostino nelle Confessioni rigetta il concetto aristotelico di verità, per cui “verum mihi videtur esse id quod est”,123 asserendo che “nec quicquam est falsitas, nisi cum putatur esse quod non est”.124 L'id quod est, cioè Dio ovvero la norma ideale, “non è semplicemente l'oggetto, il ciò che è, ma ciò che deve esser ciò che è: la sua idea. La verità, pertanto, non è la verità logica di un pensiero che afferma semplicemente e realisticamente 'ciò 120
E. Voegelin, Loc. cit., pag. 300. Ivi, pag. 306. 122 Plotino, Enneadi, V, 5, 1, 28-32. 123 Aristotile, Metafisica, IX, 10, 1051 b 2 segg. 124 Agostino, Confessiones, VII, XVII, 23. 121
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che è', ma il principio che mostra (ostendit) come deve essere ciò che è e a cui il nostro pensiero deve conformarsi nel suo giudizio”, secondo un principio di rectitudo sola mente percepibilis che verrà adottato anche da Anselmo.125 Il mondo esterno perde dunque di sostanzialità, e perciò di normatività, essendo la verità un presupposto originario della conoscenza della realtà, indispensabile alla possibilità di pensarla unitariamente, che è l'unico modo di pensarla veramente. Ma pensare l'unità del Molteplice (illius unius cognitio) equivale a pensarne l'Idea, sicché “la nozione di unità ci appartiene prima di ogni esperienza ed è la condizione trascendentale perché la stessa molteplicità possa venire conosciuta”.126 In quanto presupposto, l'Idea non è derivata e risultata da una operazione empirica, ma assolutamente spontanea, e tale che la conoscenza della realtà non sia mai un procedimento analitico, che assuma cioè i dati nella loro singolarità, attribuendo qualcosa a qualcosa nella affermazione del giudizio, e negando qualcosa separandola da qualcos'altro,127 ma sia sempre una relazione che riferisce il dato della conoscenza ad altri dati,128 secondo quella modalità gnoseologica che noi chiamiamo “simbolica”, in cui non si offrono livelli separati di realtà sostanzializzati, ma solo livelli diversi di coscienza, in cui l'Idea non è una ipotesi cosmologica di una causa-mondo prodotta da un effettoDio, bensì è una intuizione eidetica unitaria intesa come il Bene che rende intelligibile la realtà molteplice, in sé insignificante. La diversità dei livelli di coscienza implica la questione sollevata da Platone nel Parmenide a proposito della natura del Molteplice, dove si afferma la impossibilità che i “simili possano essere dissimili”, mancando ad essi una comune determinazione,129 intesa in senso ontologico, ovvero tale che il giudizio logico determini anche l'appartenenza degli enti all'Essere, quale loro comune fondamento unitario. E' il giudizio logico che attribuisce realtà ontologica a ciò che non l'ha, ed è perciò ni-ente fuori del concetto, per cui il mondo 125
E. Samek Lodovici, Dio e mondo. Relazione, causa, spazio in S. Agostino, Roma, 1979, pag. 21. 126 Ivi, pag. 23. 127 Aristotile, De interpretatione, 6, 17 a 25-26. 128 E. Samek Lodovici, Loc. cit., pag. 25. 129 Platone, Parmenide, 127 e 1 segg. Ved. E. Samek Lodovici, Loc. cit., pag. 31 n. 20.
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assume la sua determinazione reale per mezzo del Logos, che agisce come creatore cosmo-logico, dell'ordine uni-versale. Questa funzione demiurgica del Soggetto trascendentale idealistico, trasferita da Dio all'uomo, fa della coscienza umana una potenza creatrice che, nel razionalismo moderno, eleva la coscienza umana a rango divino, assumendo la realtà esterna alla coscienza alla stregua di materia plasmabile ad libitum. L'Essere che si rivela al nous parmenideo non è l'essere dell'esperienza immanente, il quale è un non-essere rispetto alla realtà ontologica, ma è il Molteplice che esiste nella coscienza acritica come realtà logicamente indeterminata, in cui gli essenti sono appunto molteplici, ossia “contemporaneamente simili e dissimili”, e perciò esposti a molteplici determinazioni possibili, che nell'ottica idealistica di Platone sono all'origine della contesa (stasis) politica che nuoce alla comunità sociale. La ricerca platonica della concordia (homonoie) socio-politica coincide dunque con la determinazione univoca della realtà nell'ordine onto-logico, col conseguente superamento della coscienza comune attraverso il potere filosofico, in cui opera la coazione, non l'imitatio agostiniana, che è la “struttura fondamentale degli atteggiamenti dell'essente anche laddove apparentemente c'è un allontanamento” e relazione armonica della creatura all'esse inteso come originario Creator.130 L'unità dell'imitatio è relazione d'amore del molteplice con la sempiterna ratio dell'Uno. Per Agostino esistere non è null'altro che essere uno. Pertanto ogni cosa esiste in quanto tende verso l'unità…gli elementi semplici, infatti, derivano la loro esistenza da se stessi; quelli composti imitano l'unità con l'armonia delle loro parti e non esistono nella misura in cui pervengono a tale unità. 131
L'amicizia solidale tra i membri della società è data da Platone, secondo il modello fisiologico di Democrito, dal pensarla allo stesso modo (homophrosyne). Al bilanciamento (isonomia) delle forze fisiche corrisponde l'equilibrio politico.
130
H. Arendt, Liebesbegriff bei Augustin. Versuch einer philosophischen Interpretation (1929), tr. it., Milano, 2004, pag. 69. 131 Agostino, De moribus Manicheorum, II, 8.
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Democrito ha sviluppato il concetto di serenità (euithymia) come bene più alto conseguibile con la buona condotta, inaugurando in tal modo il grande dibattito filosofico sulla condotta che assicura l'eudaimonia. (…) L'idea medica di salute come costituzione equilibrata dell'organismo, determinerà il successivo corso dell'etica greca, specialmente nella concezione platonica di giustizia e nella forma mista di governo. 132
La filosofia trasferisce gli attributi divini nei simboli speculativi, iniziando quella elaborazione del Mito che apre il problema della costituzione politica come forma umana e soltanto umana di socialità. Esiste un nous comune (xynon) a tutti gli uomini ed è di origine divina che è il nomos. Accanto al nomos divino esistono molteplici nomoi umani. La legge umana giusta è quella che si nutre della legge divina, poiché il nomos divino è sorgente d'ordine, mentre quello umano lo è nella misura in cui vi partecipa. L'idea di physis, di natura come sorgente autonoma di ordine in competizione col nomos, può essere formulata solo quando l'idea di un nomos divino trascendente come fonte dell'ordine si è atrofizzata; e questo può accadere, in contesto teoretico, solo quando ci si sia allontanati dal filosofare nel suo senso esistenziale (…) verso la metà del V sec. con Protagora. 133
Protagora eliminò il theios nomos su cui si basava la speculazione di Eraclito sul nomos, che in seguito i Sofisti sostituirono con la physis.134 Il termine physis compare appunto in Protagora e, pur non essendo contrapposto a nomos, costituisce il “nesso intermedio fra l'antica etica aristocratica e l'utilizzo che ne fecero successivamente i Sofisti nella loro etica rivoluzionaria”.135 Per il filosofo, la phya è una dote naturale necessaria all'educazione (askesis) politica. Viene a perdere il carattere aristocratico di stirpe, come in Esiodo o in Pindaro, e acquista l'accezione di dote individuale predisposta all'arte politica, propria di una “aristocrazia naturale, atta a svilupparsi in coloro che 132
E. Voegelin, Loc. cit., pag. 315. Ivi, pag. 318. 134 “In Protagora fa la sua prima comparsa un tipo di pensatore che è scettico o agnostico riguardo alla realtà trascendente e, contemporaneamente, conservatore riguardo all'ordine storico (…) che nella civiltà occidentale si ripresenterà, dopo gli sconvolgimenti della Riforma, con Montaigne, Bayle e Hume”: Ivi, pag. 319. 135 Ibidem. 133
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guidano la polis e ne preservano il nomos”. Perduto il collegamento tra nomos e physis, questa diventa una fonte autonoma e autorevole di ordine.136 Il nomos diviene allora costume tradizionale, convenzione sociale. “La ricerca della vera natura (physis) delle cose ingaggiata dai filosofi forza il nomos – portato irriflesso di tradizioni culturali in senso lato – ad assumere il significato di credenze erronee della gente comune non istruita”.137 Solo le regole della Natura sono necessarie, mentre quelle umane sono convenzionali. Ma cos'è universalmente necessario? Il dislocamento dell'unità significativa del Molteplice dal regno celeste a quello fisico comporta anche la sua determinazione fisiologica, che da concettuale diventa biologica. Naturalmente necessario è per tutti la morte, cioè la conferma della costituzione finita di tutte le cose. Solo l'uomo, estraneo per la sua anima alla realtà naturale, pensa e opera in opposizione alla legge mortifera di Natura. Umano è ciò che contravviene alla Natura, nel tentativo di resistere alla legge di morte universale. Tanto più le leggi umane negano la necessità naturale, quanto più sono vicine alla condizione immortale, che è quella divina. Vincere la morte è somigliare a Dio. Tra le due normative, naturale e convenzionale, la differenza risiede nella diversa efficacia rispettiva. Infatti, se per le leggi naturali è indifferente la loro conoscenza da parte dell'uomo, per quelle artificiali è indispensabile che l'uomo le riconosca per applicarle a sé e agli altri, sicché il riconoscimento sociale delle norme ne costituisce la loro necessità. Il potere di chi stabilisce i termini di tale riconoscimento sostituisce la necessità naturale con quella della volontà. La necessità impersonale della Natura diventa umana e sociale, politica e dialettica. “Per i Greci ogni vera bellezza della vita scaturiva dall'intensissimo commercio delle forze spirituali nella società”, attuato attraverso “l'arte del dialogo”.138 Se la morte naturale consiste nella trasformazione di qualcosa in altra, la morte per l'uomo è la vittoria della Necessità sulla sua volontà. Tale forza vittoriosa si chiama Destino. Il destino di morte è il Kaos contro cui combatte l'Essere. Ma tale Essere, non essendo vincolato ad alcuna necessità, è legato e dipende solo dalla fede umana nella sua validità 136
Ivi, pag. 320. Ivi, pag. 321. 138 H. Lotze, Mikrokosmus (1856-64), tr. it., Torino, 1988, pag. 717. 137
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rispetto al disvalore mortale, che pure è necessario, perché indipendente dal riconoscimento umano e della intelligenza. Dunque ciò che non dipende dalla ragione umana dipende dalla Natura, le cui leggi dominano la realtà molteplice, il mondo della coscienza elementare, non pervenuta alla visione unitaria del Logos, tributaria di valore. Valido è ciò che riporta all'Essere. Questo valore è ciò che l'uomo di pensiero chiama Verità. Vero è ciò che di un ente corrisponde all'Essere. L'ente vero è quello di cui si può dire che è. Ciò-che-è appartiene all'Essere. La fede nella validità dell'Essere, come abbiamo visto a proposito del Parmenide di Platone, è che l'Essere sia Uno, ovvero il Tutto, e il non-essere sia il Nulla. Ma questo Nulla, nella trascrizione in termini di realtà fisico-esistenziale è nient'altro che la Natura con la sua necessità di morte. La metafisica platonica ha cercato di pensare la realtà priva di morte, affermando una dimensione dell'esistenza umana in cui viene rimossa la necessità, chiamandola “anima”. La vita dell'anima è quella in cui scompare l'ombra della morte, cioè la finitezza della condizione umana. La Morte è una condizione naturale che crea dolore all'anima umana, ma non è naturalmente né buona né cattiva, affermando soltanto la legge di universale necessità, che è appunto la finitezza. La Morte acquista valore di determinazione negativa in relazione alla Vita, che è la condizione dell'Essere. Ma solo la coincidenza di Vita ed Essere può legittimare quella tra Morte e Nulla, poiché in natura il Nulla in realtà è l'alterità rispetto all'unità dell'Essere. Ciò che il valore ontologico afferma è dunque il disvalore dell'Altro-da-sé, cioè la condizione di trapasso di ciò-che-è in ciò-che-non-è, ossia il Divenire. La Necessità, pertanto, è quella condizione onto-logicamente assurda in cui è possibile che qualcosa sia e non sia, cioè sia in divenire, che diventa il disvalore metafisico di ciò che non deve essere. La credenza nella validità dell'Essere implica l'impegno deontologico di negare la realtà del Divenire, per affermare di contro che soltanto l'Essere è valido. La coincidenza ontologica ed etica fa del Logos una determinazione non più solo teoretica e soggettiva, cioè privata del filosofo, ma bensì la condizione politica necessaria di validità del nomos razionale. In questo senso, la metafisica è la forma ideale dell'anima divina, cioè una teologia, o pensiero delle cose eterne, che non muoiono, estesa alla realtà umana in termini normativi e 54
costitutivi dell'Ordine politico-sociale razionale. Per trasformare la forma “ideale”, in sé sprovvista di alcuna necessità, in ordine normativo cogente, provvisto quindi di una sua necessità, interviene l'opera politica del Potere, atto a stabilire il valore universale dell'Essere come valore comune, pubblico, non più circoscritto alla coscienza dei filosofi. La filosofia, socializzata come ordine normativo della vita della polis, diventa ideologia, e la lotta contro la Natura diventa lotta politica contro l'errore. Il Potere sostituisce la fede nell'Essere e fa di questo un idolum tribus. L'idolatria ideologica è il surrogato di massa della fede destinata al merito di pochi, che Parmenide chiama “nous” e Agostino “grazia”: l'intuizione mistica illuminante, che nasce da dentro la coscienza ma che non è del mondo fenomenico. Cultori e interpreti del mondo fenomenico furono invece gli storici greci. Erodoto (Alicarnasso, 485-425 a. C.) visse tra le Guerre persiane e i primi anni della Guerra del Peloponneso. In lui è la consapevolezza della distanza, per il saggio dolorosa, tra l'ordine spirituale e quello sociale. A suo dire, “il dolore più grande che affligge l'uomo è sapere tanto, per potere su nulla” (IX, 16). la realtà sociale sfugge al controllo politico delle tradizionali aristocrazie, il cui rimpianto temporis acti non pregiudica il senso di continuità storica pur nel mutamento delle strutture socio-politiche. Nel trattatello attribuito a Senofonte sulla Costituzione degli Ateniesi (431-424 a. C.) si mette in risalto come i problemi peculiari del processo storico si rendono evidenti nel momento in cui un'unità politica concreta, pur continuando a mantenere la propria identità, muta rapidamente i suoi valori, nonché la struttura sociale e politica. La città di Pericle è ancora Atene, ma non è più retta dagli aristocratici che la fondarono e la forgiarono. Il popolo ateniese esiste ancora, più potente che mai, ma non accetta più l'ethos di Omero e di Pindaro (…). Lo spostamento dall'ethos al potere crea l'idea di storia come medium nel quale l'unità di potere permane identica nonostante il cambiamento dell'ethos, come pure quella di entità politiche che hanno una storia proprio in quanto il loro ethos muta.139
Il potere democratico, per quanto in mano ai poneroi, cioè ai membri delle classi inferiori anche moralmente, viene legittimato in funzione 139
Ivi, pag. 353.
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della possibilità offerta ai peggiori di migliorare attraverso il loro coinvolgimento alle responsabilità pubbliche. Non è l'ethos della virtù l'accesso al potere, ma è il potere che crea la virtù civica. “Platone comprese che il processo significava il declino di una civiltà”.140 La syngraphe di Tucidide (Atene, 460 ca. - 399 a. C.) sugli eventi bellici tra Peloponnesiaci e Ateniesi rappresenta la visione unitaria di eventi tra essi slegati ma congiunti da un'unità storica, cioè logica, che egli chiama kinesis, costituito dal più grande episodio della storia ellenica, durato 27 anni, dal 431 al 404. Come egli scrive, “mai prima d'ora tante città greche erano state conquistate, distrutte e spopolate; mai si erano avuti così tanti caduti in battaglia; mai si erano avute tante condanne all'esilio e tanto spargimento di sangue, causati da guerre civili interne alle poleis (1, 23)”. Tucidide intende fare un resoconto minuzioso e credibile, non fantasioso, destinato a rimanere per sempre. “Il rifiuto del passato in quanto privo di grandezza è strettamente connesso alla consapevolezza di un metodo nuovo, che permette di rendere la verità con maggiore esattezza (saphes)”.141 L'esattezza era legata alle manifestazioni visibili della realtà fisica. Nel trattato Sulla natura dell'uomo, Ippocrate rigetta le speculazioni eleatiche e ioniche sulla costituzione metafisica dell'uomo per trattare di questioni attinenti alle condizioni mediche e alle cause prossime delle malattie. Similmente, Tucidide, rigetta le ipotesi di una legge di compensazione sottesa al saliscendi delle cose umane, assunta (da Erodoto, sulla stregua di Anassimandro e di Eraclito) come principio esplicativo del corso delle vicende. Per Tucidide, come per gli autori ippocratici, le ipotesi ioniche sono inutili quando si devono indagare le cause prossime di un fenomeno, sia che si tratti di un movimento (kinesis) che di una malattia (nosos).142
Tucidide fu influenzato dai metodi della scuola ippocratica, assumendo il concetto medico come modello per il suo concetto di kinesis. Egli però, se è più efficace di Erodoto a spiegare la condotta reale della guerra, ossia la causa prossima (aitìa), diversamente dal grande predecessore non riesce a spiegare le origini remote 140
Ivi, pag. 354. Ivi, pag. 359. 142 Ivi, pag. 361. 141
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(alethestàte pròphasis) del conflitto tra Atene e Sparta. Egli intende descrivere la guerra tra due leghe e nient'altro, essendo la sua opera solo “uno studio sul governo politico e sul comando militare”.143 Il suo concetto di logos interno ai fenomeni molteplici consisteva nella ricerca di un legame più psicologico che strutturale, ricercato invece da Platone, il quale pure non poteva fare a meno dei dati reali, sicché “se il metodo di Tucidide, intimamente connesso alla psicologia sofistica, poteva condurre a ricercare un eidos o idea dei fenomeni sociali, la ricerca platonica dell'idea dev'essere stata in debito rispetto all'empirismo sofistico, ben più di quanto comunemente non si ritenga”.144 D'altronde, ove non vigesse una scienza empirica, le ipotesi filosofiche sui fenomeni umani e naturali trovavano accoglimento anche da parte degli analisti empirici. La scienza empirica costituisce un fattore indipendente nella storia intellettuale dell'uomo (…) rispetto allo sviluppo della filosofia (…), in quanto una conoscenza più o meno estesa di cause ed effetti nel mondo circostante costituisce una condizione inevitabile della sopravvivenza umana, perfino ai livelli primitivi di civiltà. (In ogni civiltà) la scienza empirica non trae origine dalla filosofia, ma dalla conoscenza di quanti praticano l'arte,
i quali, dotandosi di un metodo, organizzano le conoscenze in una forma scientifica.145 Circa la scienza politica, i suoi artigiani avevano distrutto l'ordine ateniese, anziché edificarlo, per cui non potevano costituire quel paradigma di esperienza funzionale al modello politico. “La scienza di Tucidide esplorava unicamente l'idea della kinesis, ovvero del perturbamento dell'ordine; Platone esplorava invece l'idea stessa di ordine”.146 Tucidide creò “la scienza empirica della malattia letale per l'ordine; Platone creò l'altra metà della politica, la scienza empirica dell'ordine”, utilizzando “i medesimi termini di eidos e idea utilizzati dai medici e da Tucidide” In tal senso, anche Platone fu “l'artigiano empirico che cercò di definire e di dar forma all'eidos dell'ordine nella società, legando l'ordine immanente alla sua origine 143
A. Momigliano, “Alcune osservazioni sulle cause di guerra nella storiografia antica” (1954), in Id., Storia e storiografia antica, Bologna, 1987, pagg. 52-53. 144 E. Voegelin, Ivi, pag. 362. 145 Ivi, pag. 363. 146 Ivi, pag. 364.
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trascendente nell'agathon”.147 La differenza di prospettive è però enorme. L'artigianato empirico si fondava infatti sul vissuto, selezionato in funzione dello scopo pratico, laddove il modello platonico era una forma ideale meta-empirica, la cui funzionalità pratica nessuno aveva sperimentato. La struttura del mondo naturale e la struttura dell'anima non obbedivano allo stesso ordine ideale. La validità dell'ordine platonico era legata alla fede teoretica nella verità della ricerca dialettica, e su nient'altro. Tucidide intendeva per “guerra” un processo ideale avente un significato unitario, la cui trama coinvolgeva aspetti militari e morali, dove la potenza si intrecciava con la decadenza di una civiltà, quella ateniese, in cui l'esito politico era inscritto nella crisi dell'ethos. Il rapporto tra etica e politica passa attraverso l'istanza di salvare il potere costitutivo dell'ordine socio-politico, civile, e i costi morali di tale necessità. L'ordine della necessità non coincide con l'ordine della moralità, poiché essi ubbidiscono a criteri diversi di valore. “Al conflitto non v'è soluzione. Lo strato più profondo a cui si perviene nella teoria della kinesis è quello della disperazione. Atene non può che andare avanti sotto l'urto della necessità, e ogni nuovo passo la fa sprofondare ancora di più nella palude dell'ingiustizia”.148 Tucidide non colse il nesso organico fra razionalità e moralità, non più dei Sofisti suoi contemporanei. Non si avvide quindi che la sfera del potere e del razionalismo pragmatico non è autonoma, ma parte dell'intero dell'esistenza umana, il quale comprende in sé anche la razionalità propria dell'ordine spirituale e morale. Se si arriva al collasso dell'ordine impresso da questa componente, la formulazione dei fini nell'ordine pragmatico cadrà sotto il controllo dell'irrazionalità delle passioni, e anche se la coordinazione mezzi-fini potrà restare razionale, l'azione diverrà, ciononostante, irrazionale, perché quei fini saranno estranei alla logica dell'ordine spirituale e morale. 149
Tucidide non cerca di razionalizzare le antinomie tragiche dell'esistenza storica, lasciandole sussistere per denotare il carattere dilemmatico dell'esperienza politica collettiva, sicché “per questo suo 147
Ivi, pag. 365. Ivi, pag. 369. 149 Ivi, pag. 370. 148
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merito, egli va considerato come il vero erede della tradizione tragica”, segnando nel contempo “la fine formale della tragedia, in quanto racconta la morte dell'eroe che un tempo aveva rappresentato l'ordine di Zeus contro il disordine della hybris del potere”.150 L'unità drammatica in cui si contendono i termini della necessità e dell'ethos non viene rappresentata in forma discorsiva di una mera narrazione di eventi, ma attraverso dei discorsi che, come i cori tragici, facevano risaltare il dilemma alla coscienza. “La realtà di Tucidide è, pertanto, drammatica, nel senso che le azioni non sono riportate come meri eventi nello spazio e nel tempo, ma lasciano trasparire il dramma dell'anima proprio ricorrendo allo stratagemma del discorso”, il quale era riportato per dare il senso logico unitario degli eventi molteplici (erga), in modo tale che “i discorsi (logoi) sono inseparabili dagli eventi”.151 La realtà avvenimenziale viene a formalizzarsi attraverso tipologie di azioni e stili antropologici che nell'epos omerico fino a Tucidide segnano i paradigmi di realtà della cultura greca, attraverso un repertorio di saggezza e di eventi eroici che fungono da griglia mimetica per la comprensione analogica degli avvenimenti storici nuovi. In questo senso, letteratura e vita si riflettono in un richiamo mimetico che è a un tempo realistico e ideale, pragmatico e formale, sicché “sviluppare la teoria in modo da accentuare finemente l'aspetto tipico della realtà può dirsi l'essenza della cultura classica”.152
2. Rispetto al razionalismo antico, quello moderno, autocentrato sulla ragione, trova la sua legittimazione razionale nella compiutezza sistematica del discorso, per cui, come notato a suo tempo da Stahl, nel libero svolgimento dello spirito greco ogni teoria filosofica, anzi ogni asserzione sta da sé ed ha, per così dire, una vita propria e sostanziale; e si può intendere e giudicare l'Etica di Platone o di Aristotile, senza considerare come si debba spiegare, secondo le loro idee, l'esistenza e l'armonia del mondo. Non è così nella filosofia moderna. La quale si sforza di conseguire 150
Ivi, pag. 371. Ivi, pagg. 372-373. 152 Ivi, pag. 375. Ma anche della cultura moderna alla fine della sua parabola di civiltà, se pensiamo solamente a Max Weber. 151
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tutte le sue cognizioni col solo mezzo d'una deduzione logica, rigorosa e severa; per modo che il particolare non ha altro fondamento stabile, che il valore delle premesse o prime proposizioni. Ogni parte della scienza sta e cade insieme colla idea filosofica, che le serve di principio. 153
Da questa rappresentazione conchiusa nei termini della corrispondenza tra premessa ontologica e giudizio di realtà la differenza tra soggetto e oggetto di giudizio è garantita dalla intenzionalità, la quale però, proprio perché interviene su dati della coscienza già acquisiti, non va considerata un fenomeno primario della coscienza, qual è invece la dimensione storica, la quale è la categoria fondamentale inscritta nella natura della coscienza in quanto evento, in quanto principuo attuoso che accade in una realtà della quale soggetto e oggetto anticipatamente partecipano: “l'esistenza consapevole dell'uomo è un evento all'interno del reale e la coscienza dell'uomo è 154 coscienza di essere costituita dalla realtà di cui è cosciente”.
Questa coscienza di base è coscienza di partecipazione all'Essere. La realtà dell'Essere è costituita dalla coscienza di tale realtà. In tal senso, l'uomo è una parte dell'Essere, che si sperimenta come uomo attraverso l'esperienza simbolica; i simboli sono il dato originario da cui partire per la conoscenza dell'Essere, quale attività di intelligenza espressa per analogia attraverso i simboli. “La prospettiva antropologica risulta dunque essenziale per comprendere l'ontologia del reale, perché l'uomo è quel punto della realtà in cui essa si autocomprende”.155 L'autocomprensione dell'uomo che partecipa all'Essere è consapevolezza del suo Ordine, dell'ordine dell'Essere, che è (anche) politico-esistenziale, derivante dal fatto che “a ogni società spetta il compito di creare, nelle proprie condizioni concrete, un ordine che conferisca significato, vale a dire fini umani e divini, alla sua esistenza”.156 L'opera storiografica è il prodotto di un'autoriflessione sul senso di un ordine rispetto a un altro, in base a 153
F.J. Stahl, Op. cit., pag. 94. E. Voegelin, Order and History, vol I, Israel and Revelation (1956), tr. it., Milano, 2009, Intr. di N. Scotti Muth, pag. XVI; da ora IaR. 155 Ivi, pag. XVII. 156 Ibidem. 154
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criteri di valutazione esterni a quelli dominanti in un determinato contesto storico-ideale. Il senso nuovo emerso nella cultura di Israele e di Grecia è che “il divino non è parte del cosmo, e che la struttura dell'anima consiste nell'essere il sensore del Trascendente”.157 L'Ordine vegliato dal nomos divino è garantito non dalla sua struttura razionale, ossia dal suo ordinamento formale, ma dalla sua corrispondenza tra eventi reali (contingenti) e significati ideali (eterni). Il senso della partecipazione è nella possibilità che il significato delle relazioni umane trascenda le condizioni di determinazione relativa alla posizione degli attori, in modo tale da conferire ad esse un valore meta-storico, che funge da criterio assiologico e perciò derimente nelle vertenze umane. Il deus ex machina della situazione tragica non era un artificio di comodo che garantisse il lieto fine, ma indicava la necessità di spostare l'asse delle valutazioni umane nell'ambito dell'eterno. Ciò implicava che la risposta alla crisi della civiltà non poteva essere posta sul mero piano etico-politico, ma doveva coinvolgere la radice religiosa dello spirito umano, che la crisi aveva intaccato e sostituito con un surrogato ideologico. La critica platonica alla Sofistica è anzitutto liberazione dalle posizioni ideologiche in vista di una idea di giustizia che sia conformità tra ordine morale (interiore) e ordine sociale (politico). Lo scopo della filosofia era in questo disvelamento del senso comune ai due piani di realtà. Il discorso dialettico e sintattico è misura ma tale che “per essere oggettiva ha da fondarsi su trame oggettive coincidenti con le stesse trame del pensiero”. E allora questa misura, che si coglie mediante l'approfondirsi del pensiero a se stesso, è una misura che còlta interiormente, interiormente ci trascende, divenendo termine morale, dover essere, valore: il Bene; e, ad un tempo, causa prima e fine ultimo, la ragion d'essere, della trama su cui il tutto si scandisce.158
Concepire l'esistenza umana nei termini di una relazione con l'agathon la radica in motivi religiosi trascendenti che costituiscono ciò che Agostino chiama “la tensione al fondamento”, che precede ogni 157
Ivi, pag. XXIII. F. Adorno, La filosofia antica, cit., pag. 184.
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simbolizzazione culturale e storico-ideale, giungendo fino alla “verità dell'esistenza” (Voegelin). La crisi spirituale dell'Occidente risiede nella razionalistica “separazione di uno spirito divenuto ormai puramente mondano dal suo radicamento nella religiosità”, cioè dalla sua “caduta da Dio”. Lo spirito umano, in quanto consapevole della sua partecipazione all'Ordine, è apertura al trascendente e illuminazione circa la realtà, sicché il livello della sua autocoscienza è in relazione al grado di sviluppo che la sua esistenza ha raggiunto di fronte alla trascendenza. In questo senso, “la storia, pur non avendo un andamento semplice – né di progresso lineare, né ciclico – è pur sempre intelligibile come lotta per il vero ordine”, il quale non si identifica mai con l'ordine concreto di una società storica ma lo trascende in “una realtà la cui origine e fine è ignota e che proprio per questo non può essere trattenuta nella presa dell'azione finita. Noi possiamo conoscere unicamente quella parte del processo che si è dispiegata nel passato (…) nella misura in cui è accessibile agli strumenti conoscitivi che sono emersi dal processo stesso”.159 L'approccio gnoseologico di Voegelin è pseudo-storicistico. Voegelin ammette la trascendenza dell'ordine ideale ma lo conosce solo attraverso le manifestazioni reali, che pure ammette non siano corrispondenti. La questione verte sulla differenza tra l'ordine dell'Essere e l'ordine della verità. Solo l'ordine dell'Essere può interpretarsi attraverso il processo storico, mentre l'ordine della verità si può cogliere solo intuitivamente, sia pure in riferimento ai documenti indiziarii che lo testimoniano empiricamente nel suo contesto fenomenologico. L'ordine dell'Essere presuppone la verità sull'Essere, ossia che l'ordine ontologico sia quello vero. Ma questo è il campo di ricerca di una cultura storica determinata, il cui sviluppo giunge a quella identità di Essere e Verità che poi viene assunta come valore universale per interpretare ogni pensiero di verità relativo alle culture storiche oggetto di analisi. Uno storicismo che potremmo chiamare anti-storico, un meta-storicismo, che Voegelin chiama “lo studio filosofico dell'ordine”.160 Il processo che porta all'ordine dell'Essere è millenario e, dopo la fine della civiltà illuministica, veicolato dalla cultura cristiana, la quale, 159
E. Voegelin, IaR, pagg. 5 e 6. Ivi, pag. 8.
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sotto forma di Cristo-logia, ha prodotto un paradigma simbologico di portata universale, assunto a modello di paragone culturale anche dalle culture tradizionali di ordine cosmologico, mutando il senso del filosofare in direzione di una totalità meta-ontica. Nella nuova consapevolezza aperta dalla prospettiva cristiana, “la filosofia è amore all'essere raggiunto attraverso l'amore all'Essere divino quale fonte del suo ordine. Il Logos dell'Essere è il vero oggetto dell'indagine filosofica, e la ricerca della verità dell'ordine dell'essere non può essere condotta senza diagnosticare i modi dell'esistere nella nonverità”.161 La partecipazione all'Essere è la stessa esistenza. “Non esiste un punto di vista privilegiato esterno all'esistenza dal quale guardare il suo significato e progettare un comportamento secondo un piano preciso”, anche se “la partecipazione dell'uomo all'Essere non è cieca, ma illuminata dalla coscienza”.162 La sua “tensione riflessiva” pone l'uomo in bilico nella decisione fra libertà e necessità, assegnando alla sua esistenza un significato sconosciuto che viene a esplicare il suo senso attraverso il corso della sua storia. La conoscenza dell'uomo a se stesso è il mistero in cui egli è immerso vivendo l'esperienza dell'Essere, quale essenza di una totalità entro la quale l'esistenza è parte. Anche se “la conoscenza del tutto, d'altra parte, è destinata a rimanere preclusa in virtù del fatto che conoscente e partner coincidono, mentre l'ignoranza dell'intero preclude, a sua volta, la conoscenza essenziale della parte”.163 Da questa ignoranza nasce l'angoscia esistenziale. La relazione che la coscienza ha con l'Essere si determina come conoscenza della distinzione fra il conoscibile e l'inconoscibile, attraverso un processo culturale di simbolizzazione con la quale rendere intelligibile quella relazione.164 “L'essere esibisce i lineamenti di una gerarchia di esistenze, dall'effimera vita dell'uomo su su fino alla eternità degli dèi, (la quale) può e deve diventare una forza ordinatrice dell'esistenza umana”, appresa appunto dall'ordine
161
Ivi, pag. 10. Ivi, pagg. 15 e 16. 163 Ivi, pag. 16. 164 Ivi, pag. 17. 162
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dell'Essere.165 La stessa durata dell'uomo è in rapporto di accordo con gli ordini più durevoli della struttura cosmica e sociale, poiché “ciò che dura e che passa, ovviamente, è esistenza, ma siccome l'esistenza è partecipazione all'Essere, il permanere e il perire rivelano qualcosa dell'Essere. L'esistenza umana è di breve durata, ma l'Essere al quale partecipa non cessa con la esistenza”.166 Per i Greci, “consapevoli della ricchezza della loro lingua (…), il dono della parola (è considerato) una grande grazia divina. Poter esprimere se stessi, ecco il carattere specifico dell'uomo; spiegazione razionale e guida degli animi con l'eloquenza, ecco il pensiero fondamentale della loro evoluzione successiva”.167 Il confine della conoscenza è lo stesso del linguaggio. Al confine avviene l'Incontro tra il mondo conosciuto attraverso il linguaggio, e la realtà ignota non de-finita dal linguaggio e meta-linguistica. Per i Greci, l'ordine dell'Essere era l'ordine della parola, il pensiero. “Il pensiero si sviluppa propriamente nella filosofia”. Ma cosa significa “pensare”?, si chiede Heidegger. “Il pensiero pensa quando risponde al più considerevole e il più considerevole preoccupante nel nostro tempo è il fatto che noi ancora non pensiamo”.168 Che cosa non pensiamo? Alcuna cosa è pensabile come “più considerevole”, se non all'interno del Finito, che è l'orizzonte conosciuto dal linguaggio che lo esprime, e dunque il limite della coscienza rappresentativa. Ma il Finito non è Tutto, bensì solo il conosciuto, al quale è proprio il tempo passato. Al limite del conosciuto e dell'ignoto avviene l'Incontro che rivela la Differenza tra il Finito (conosciuto) e l'In-finito (mistero) che è il Verbo trascendente divino. La parola dell'uomo che de-finisce il mondo come realtà pensabile ha come limite il Verbo in-finito divino, che è oltre il linguaggio conosciuto. L'Incontro che rivela la Differenza si compie con l'invenzione (poiesis) della parola poetica, che manifesta il Mystero, la verità che va oltre la finitezza del Logos, del detto. Tale Incontro è chiamato da Heidegger Ereignis, l'Evento. Questo evento si può esperire appunto come Incontro nella Differenza. In questo Incontro avviene la donazione del significato da parte del Verbo, che 165
Ivi, pag. 18. Ibidem. 167 ,H. Lotze, Loc. cit., pag. 717. 168 M. Heidegger, Was heisst Denken? (1954), tr. it., Varese, 1996, pagg. 39 e 51. 166
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si rivela nella parola. La “luce che illumina il pensiero” non proviene dalla “riflessione”, ma “dal pensiero stesso”.169 Il donarsi del Verbo è la rivelazione del Mystero divino nella parola creatrice. Il dono creatore di verità è l'Amore, quale evento che rivela il divino nel Finito. “Al pensiero appartiene l'enigma di venir portato nella luce che gli è propria solo quando e solo finché esso è un pensiero e si mantiene libero dal fermarsi su ogni ragionamento intorno alla ratio”.170 Ossia la libertà del pensiero consiste nel trascendere l'astrattezza della parola finita, dominata dal Logos. L'essenza della filosofia astratta consiste “nel riconoscere solamente ciò che viene dalla ragione”, ciò che è logicamente necessario. A lei non basta che una cosa sia; ma bisogna che non si possa pensare il contrario. Ora, ogni contenuto, materia o obbietto della cognizione, del quale si occupi la ragione, le apparisce come assolutamente accidentale, e tale che potrebbe anche essere altro da quello che è. Ciò che essa non può pensare altrimenti o in modo diverso, se vuol essere ancora ragione, è soltanto essa stessa, ciò che essa è, le sue proprie leggi, forme e determinazioni(…). Per modo che il carattere della necessità logica non appartiene, che al contenuto proprio di queste leggi o determinazioni. Il dire: qualche cosa viene dalla ragione, è il medesimo che dire: ogni altro, ogni diverso a quello distruggerebbe le leggi del pensiero, le leggi logiche. Laonde la ragion pura – il pensiero considerato in sé stesso e prima di ogni contenuto esteriore al pensiero – è il principio della filosofia 171 astratta.
Il male del mondo moderno è ciò che Agostino, sulla stregua del suo maestro Ambrogio, chiama “l'orgoglio della mente” (superbia animi), che nasce dalla stessa libertà umana e caratterizza l'essenza peccaminosa universale dell'uomo, il vitium originis,172 dal quale ci si può emendare facendo entrare la luce divina: “intret in animam tuam Christus, inhabitet in mentibus tuis Jesus” (sal. CXIX, esp. IX, 26). Rifiutarsi a tale emendazione è una superbia umanistica propria del moderno razionalismo, ma che affonda le sue radici nell'eresia 169
Ivi, pag. 51. Ibidem. 171 F.J. Stahl, Loc. cit., pag. 95. 172 A. Harnack, Lehrbuch der Dogmengeschichte (1886-1890), tr. it., Mendrisio, 1914, vol. V, pag. 68. 170
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pelagiana, della quale rappresenta la versione aggiornata più estrema e radicale, di volere fare da capo e in proprio la creazione storica e divina del mondo, ritenendola difettosa e impropria alle esigenze dello spirito auto-poietico del soggetto moderno, artifex mundi, demiurgo laico: “quando crea il cosmion dell'ordine politico, l'uomo ripete analogicamente la creazione divina del cosmo”. Infatti, “stabilire un governo significa cercare di creare un mondo”.173 Così come la “morte” non è la mortalità, la fine dell'esistenza, ma “la caduta spirituale dall'essere”.174 L'”evento” (Ereignis) è per Heidegger il passaggio all'Essere, in cui “vibra l'essenza di ciò che parla come linguaggio e che una volta fu chiamato la casa dell'Essere”.175 Ma proprio perché non può essere oggettivato alla stregua di un ente, “né come un fatto né come un avvenimento”, l'Evento, in quanto “realtà semplice in sé”, è un evento intuitivo, il quale, nondimeno, non nasce ex abrupto, ma in conseguenza di un processo spirituale che non si realizza come fattualità oggettiva di un giudizio logico, ma come illuminazione di un compimento che giunga alla sua verità. In questa “situazione” si verifica la condizione spirituale di cui parla Heidegger in relazione alla I Tessalonicesi, in cui non è in risalto la fatticità storica e il mondo-ambiente di Paolo, ma inerisce a “connessioni che possono essere mostrate nell'esperienza effettiva della vita”, e la cui comprensione non ha carattere gnoseologico ma origina dalla “inversione da ciò che è storicamente obiettivo a ciò che è relativo alla storia dell'attuazione”, in cui il senso degli eventi è più originario della sua trascrizione teoretica obiettiva.176 Orbene, il processo politico è il riflesso temporale dell'ordine cosmogonico, e la “simbolizzazione cosmogonica non è né una teoria né un'allegoria (ma) è l'espressione mitica della partecipazione, vissuta come reale, dell'ordine sociale a quell'essere divino che ordina anche il cosmo”. In tal senso, “l'ordine 173
E. Voegelin, IaR, pag. 35. Ivi, pag. 41. 175 M. Heidehher, Identitaet und Differenz (1957), tr. it., Milano, 2009, pag. 48. 176 M. Heidegger, Phaenomenologie des religioesen Lebens, 1. Einleitung (1920-21), tr. it., Milano, 2003, pagg. 126-133. In considerazione di questa condizione spirituale, ogni tentativo di commisurare la “situazione” con le ricostruzioni storiche di impianto storicistico-positivistico cade miseramente nell'incomprensione degli eventi religiosi. Ved. Ch. Guignebert, Jésus (1933), tr. it., Torino, 1950. 174
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geografico terrestre è immagine di un prototipo celeste”.177 La loro distinzione concettuale e fattuale non inficia l'intima unità di un ordine comune che le coinvolge entrambe e che tutto comprende. A unire le due parti è un simbolo che le connetta fisicamente e che Voegelin chiama omphalòs, ombelico, il quale rappresenta “il punto in cui le forze trascendenti dell'essere raggiungono l'ordine sociale”.178L'omphalòs ellenico era la pietra di Delfi, che segnava il centro dell'universo, così come il Foro romano lo era per l'impero mondiale. Esso costituiva anche la misura simbolica della prossimità dalla presenza divina. Il fiume d'essere divino che dalla sua divina fonte rifluisce, attraverso l'omphalòs, all'ordine sociale, non penetra nel mondo uniformemente fino all'angolo più remoto: l'omphalòs è un centro civilizzato dal quale la sostanza dell'ordine s'irradia verso la periferia con forza man mano decrescente. 179
Se trascriviamo il senso del processo di civilizzazione in relazione al grado di razionalizzazione della vita politica e civile, possiamo stabilire anche i termini della dialettica interna ai fenomeni politicoculturali che trovavano il filosofo al displuvio della loro intersezione storica. L'ostacolo che si frappone a alla razionalizzazione era, evidentemente, la difficoltà di esperire nella pienezza del suo significato l'abisso fra l'essere divino, creatore e trascendente rispetto al mondo, e l'essere dell'esistenza creata e mondana (…). Nella pratica politica la razionalizzazione delle forze dell'essere, non ancora differenziate in “religiose” e “politiche”, è condizione della costruzione di un impero. Il mondo della politica è essenzialmente politeistico nel senso che ogni centro di potere, per quanto piccolo e insignificante, ha la tendenza a porsi come entità assoluta rispetto al mondo, senza curarsi della contemporanea esistenza di altri centri che si considerano altrettanto assoluti. Perciò un costruttore di imperi deve affrontare, ineluttabilmente, il compito di inventare una gerarchia delle forze che permetta di fondere unità fino ad allora indipendenti in un unico cosmion politico.180 177
E. Voegelin, IaR, pagg. 47 e 48. Ivi, pag. 48. 179 Ivi, pag. 49. 180 Ivi, pag. 59. 178
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Con Dilthey la storicità viene elevata da problema metodologico a problema ontologico, essendo il tempo la forma di tutte le strutture costitutive dell'essere dell'uomo. Ma il tempo segna il processo di ciò che procede nella finitezza e giunge a compimento col suo inizio, secondo un ciclo che non è solo naturalistico ma simbolicoesistenziale. Il simbolismo delle forme esistenziali rappresenta l'esperienza culturale istituzionalizzata in ordine cosmico necessario alla comprensione del significato degli eventi. Una civiltà rifratta per mezzo di un'altra, si trasforma adattando i valori antichi alle nuove forme, ovvero le forme antiche ai nuovi valori. Nel primo caso, la trasformazione culturale è conservatrice; nel secondo caso è innovativa o dissolutiva. Anche la realtà politico-religiosa ha una duplice movenza, integrativa ed esclusiva. L'individuo, quand'è scacciato dagli altari domestici, escluso dai templi della sua città, interdetto sulla terra della patria, è tagliato fuori dal mondo divino; perde allo stesso tempo il suo essere sociale e la sua essenza religiosa; non è più niente. Per ritrovare la sua condizione d'uomo, dovrà presentarsi, in veste di supplice, ad altri altari, sedere al focolare d'altre case e, integrandosi a nuovi gruppi, ristabilire, con la partecipazione al loro culto, i legami che gli danno radici nella realtà divina.181
Ma accanto all'esperienza integrativa esisteva anche una dissociativa, che si rivolgeva “a coloro che non possono inserirsi interamente nell'organizzazione istituzionale della polis”, come le donne, le principali fruitrici del culto di Dioniso, Eleutherios, e attraverso lui della libertà, che è delirio e follia rispetto all'ordine costituito informato al valore civile della sophrosyne. Infatti, quel che il dionisismo apporta ai fedeli – anche controllato dallo stato, come lo sarà nell'età classica – è un'esperienza religiosa opposta al culto ufficiale: non più la sacralizzazione d'un ordine al quale bisogna integrarsi, ma l'affrancamento da quest'ordine, la liberazione dalle costrizioni che, sotto certi rapporti, esso presuppone. Ricerca d'un radicale spaesamento, lontano dalla vita quotidiana, dalle occupazioni ordinarie, dalle servitù obbligate; sforzo mirante ad abolire tutti i limiti, a far cadere tutte le barriere che 181
J.P. Vernant, Op. cit., pag. 362.
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caratterizzano un mondo organizzato: fra l'uomo e il dio, il naturale e il soprannaturale, fra l'umano, l'animale e il vegetale, barriere sociali, frontiere dell'io.182
La logica dualistica, inclusiva/esclusiva, caratterizza l'intero percorso dialettico della filosofia classica e quindi della metafisica occidentale, in cui l'errore profano e la verità sacra orientano sin dalle origini il pensiero teologico, di ogni cultura religiosa. Le esperienze religiose che si manifestano nella teologia dualistica hanno plasmato la storia intellettuale dell'umanità molto al di là della loro area d'origine siriaca. L'esperienza del cosmo come lotta fra le forze del bene e del male ricompare non solo nelle diverse varianti della gnosi antica ma anche nei movimenti politici occidentali dall'Alto Medioevo in poi; e nella politica contemporanea al simbolismo di Verità e Menzogna predomina ovunque, col risultato che i principali movimenti e credi politici interpretano se stessi come rappresentanti della Verità e i rispettivi avversari come rappresentanti della Menzogna. Alla base c'è un tipo di esperienza che è una delle grandi forze spirituali rivali del Cristianesimo e della tradizione classica. 183
L'appartenenza all'ordine politico-religioso implica l'integrazione socio-culturale al cosmo della tradizione, alle sue forme cardinali intorno ed entro cui si muove la realtà e i suoi termini significativi, la cui persistenza non è pregiudicata neppure da rivolgimenti istituzionali, legati alle dinamiche interne del Potere. Le istituzioni possono sicuramente crollare per difficoltà di natura economica o perché cambia la distribuzione del potere, ma quando la società colpita dal crollo trova la forza per ridarsi delle istituzioni, le nuove apparterranno allo stesso tipo formale delle vecchie, a meno che non ci sia stato un cambiamento rivoluzionario anche nell'esperienza d'ordine. Finché le esperienze d'ordine conservano una struttura compatta, la forma, nonostante quei fenomeni di corrosione che spingono verso una nuova differenziazione, sarà conservata; una società può essere scossa fin dal profondo dagli sconvolgimenti istituzionali e ciononostante preservare, all'apparenza, una stabilità formale millenaria.184 182
Ivi, pag. 363. E. Voegelin, IaR, pagg. 73-74. 184 Ivi, pag. 84. 183
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La “esperienza d'ordine” è l'intuizione del mondo, l'immagine dell'ordine cosmico, che legittima la struttura e le funzioni del Potere. La filosofia con Platone si pensò come un correttivo trascendente alla crisi etico-politica del tempo, e dei valori tradizionali che non l'avevano evitata. La filosofia è a un tempo la ricerca e la ricetta della stabilità dell'Essere. La costruzione dei tipi empirici di civiltà non dà ragione della loro realtà ideale. L'ordine intelligibile della storia non può essere scoperto classificando i fenomeni; va cercato attraverso un'analisi teoretica delle istituzioni e delle esperienze d'ordine, nonché della forma che risulta dalla loro compenetrazione. (…) Le regolarità storiche altro non sono che manifestazioni delle costanti della natura umana, in tutto il loro ventaglio di compattezza e differenziazione (…). Una civiltà non è un'unità a sé stante che ripete uno schema di crescita e declino; una civiltà è la forma in cui una società partecipa, nel suo modo storicamente unico, al dramma universale che sovrasta tutte le civiltà: quello dell'approssimazione al giusto ordine dell'esistenza mediante un'armonizzazione sempre più differenziata con l'ordine dell'essere. Una forma di civiltà possiede una singolarità storica che le regolarità fenomeniche non potranno mai assorbire, perché la sua forma costituisce un atto di quel dramma dell'umanità imperscrutabilmente proiettato verso il futuro.185
Questa condizione presuppone, per un verso, che l'equilibrio d'ordine sia una acquisizione derivata alla società politica da un ordine cosmico assunto a modello ideale di quello storico, e per l'altro che l'ordine acquisito vive una sua insuperabile instabilità legata al rinnovamento generazionale delle forme di compensazione tra conservazione e rinnovamento che necessitano di una formula religiosa di difesa del limite che disegna l'emisfero della sicurezza antropologica dal rischio della perdizione nel caos pre-politico. Tale formula, che Dilthey chiama “significatività” (Bedeutsamkeit), possiede un suo statuto di realtà, che è supportato da dati empirici ma da una valenza oggettiva che li trascende e che funge da confine per ogni divagazione soggettiva,186 e approda a una Weltanschauung della finitezza 185
Ivi, pagg. 87-88. Ved. H. Blumenberg, Arbeit am Mythos (1979), tr. it., Bologna, 1991, pagg. 96-97.
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costituita da una descrizione cosmologica che è insieme un racconto della salvezza dell'uomo dal Nulla. Essa è una esplicazione di senso circa il significato delle esperienze particolari in relazione alla vita, personale e cosmica, e dunque generale. È significativo ogni evento con cui è possibile stabilire una relazione di senso col significato generale della vita, ossia con l'ordine totale unitario del cosmo. Il mito cosmogonico è un modo più antico e comprensivo di esprimere l'ordine dell'essere, e da questo mito la speculazione ionica estrae per differenziazione l'idea di un essere e divenire chiuso agli dèi, e che proprio per questa chiusura richiede un'interpretazione in termini di forze immanenti. Questo atto di differenziazione per cui è il filosofo a creare un mondo con un ordine dell'essere immanente è una conquista specificamente ellenica. 187
Perché ellenico è il simbolismo verbale, nel cui orizzonte, come sappiamo, viene a dispiegarsi il percorso periegetico della salvezza che, per motivi topici, offre un significato agli eventi essenziali dell'esistenza. Considerare il Mito come una evocazione fantastica di realtà immaginarie è sbagliato quanto ignorare la derivazione da esso di ogni differenziazione razionale dei suoi singoli elementi costitutivi, che coesistono in esso. In tal senso, come giustamente ribadito da Voegelin, “il mito ha una vita e una virtù propria (che) non è priva né di verità né di movimento intellettuale”; anzi, il suo contenuto è “assai più ricco di tutte le simbolizzazioni parziali che ne sono derivate”.188 Nella sua forma compatta il mito contiene tanto quel blocco esperienziale da cui gli Ionii e i loro successori ricavarono una metafisica dell'essere immanente al mondo, quanto quell'altro blocco, trascurato dalla loro speculazione, da cui derivò la fede in un essere trascendente il mondo. (…) Il mito tiene insieme quei blocchi che nella storia successiva non solo verranno distinti, ma tenderanno addirittura ad allontanarsi. Se seguiamo le due linee di differenziazione man mano che emergono dal mito (…) fino ai due estremi di una fede radicale ed estranea al mondo da un lato e di una metafisica agnostica dall'altro, e riflettiamo sul disordine che ne seguirà, inevitabilmente, per l'anima dell'uomo e per la società, i rispettivi meriti di compattezza e differenziazione ci appariranno sotto una nuova luce. La 187
Ivi, pag. 111. Ibidem.
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differenziazione – bisogna pur dirlo – non è puro e semplice bene, ma porta con sé il pericolo di una dissociazione radicale dei blocchi esperienziali che il mito teneva insieme, nonché quello di perdere l'esperienza della consustanzialità. E il pregio del mito cosmogonico sta, viceversa, proprio nella sua compattezza: il mito ha origine da una comprensione globale dell'ordine dell'essere, ci fornisce dei simboli che esprimono adeguatamente una molteplicità di esperienze dotate di un suo equilibrio interno ed è una forza vivente che preserva quest'ordine equilibrato nell'anima del credente.189
La consustanzialità, nell'economia del Mito, è un principio unitivo che stabilisce l'ordine fra i diversi ordini dell'Essere, ai quali è legato il coordinamento delle funzioni interne alla società politica che istituzionalizzandosi divengono strutturali.190 Nell'ambito della sua rappresentazione metafisica, la comunità dell'Essere viene esperita come una comunità di sostanza divina che permea il mondo, la società e l'uomo.191 Da qui l'ordine gerarchico: la sostanza fluisce dal divino al mondano, al sociale e all'umano. L'ordine dunque è essenzialmente gerarchico, in quanto costituito di connessioni funzionali alla sua determinazione unitaria comune, storicamente concreta. Ed è a partire da questa concretezza esistenziale, etica e religiosa che si sviluppa il discorso filosofico, che certifica la situazione critica di “scissura tra le aspirazioni interiori e la realtà esteriore”, che determina la dissoluzione delle antiche forme etiche e religiose.192 L'aspirazione all'unità esprime una istanza d'ordine divinamente garantita, la cui figura varia dal Dio ebraico al Leviatano di Hobbes, ma che è espressiva di una tendenza monoteistica che si riflette nella struttura politica.193 Questa istanza logicamente unitaria rinviene il suo referente dialettico nella tendenza tipicamente razionalistica di costituire l'unità in senso formale, da cui discendono valori assoluti non collidenti, a fronte di una concreta molteplicità di doveri etici tra 189
Ivi, pag. 112. Ved. W. Dilthey, Loc. cit., pagg. 264-274. 191 E. Voegelin, Loc. cit., pag. 112. 192 G.W.F. Hegel, Vorlesungen uber die Geschichte del Philosophie (1833), tr. it., Firenze, 1930, vol. I, pag. 64. 193 Ved. E. Voegelin, IaR, pag. 114. Sulla relazione tra Mito e mito-logia filosofica in riferimento al monoteismo religioso, abbiamo discusso in altro luogo. Ved. J. Assmann, Die Mosaiche Unterscheidung oder der Preis des Monotheismus (2003), tr. it., Milano, 2011. 190
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loro in collisione perché contraddittori.194 Questa consapevolezza ha condotto alcuni pensatori recenti a mettere in questione il presupposto ontologico che sta a fondamento di ogni filosofia politica.195 Ma ogni posizione etica richiama una decisione ontologica, di per sé esclusiva di altre non omologabili entro la sua universalità, sicché ogni ipotesi di co-essenza deve poter includere l'alterità estranea alla sostanza del mondo rappresentata dall'altra, depotenziando così il Logos regionale della sua assolutezza. Infatti se si ammette che l'immagine ideale della coscienza sia della stessa sostanza del mondo rappresentato in essa, il mondo deve la sua realtà all'idea che lo pensa come una struttura di relazioni ideali. Il mondo non esiste se non come immagine ideale di un cosmo strutturato da relazioni significative. È l'immagine ideale la sostanza del mondo, per cui il mondo è la realtà fenomenica di una idea di mondo, e l'essere del mondo è la sua idea. Il mondo è in quanto essere dell'idea, e l'essere dell'idea è la forma (o essenza) del mondo. La sostanza unitiva del mondo, che lo rende tale, può essere di tipo naturalistico o idealistico, ma in ogni caso l'unità è costituita dalle interne corrispondenze simboliche tra eventi e significati, tali che le res gestae e la historia rerum gestarum ubbidiscano a uno stesso ordine cosmologico. Il passaggio da una rappresentazione pragmatica della storia a una spirituale avviene col popolo di Israele, al quale “fu concesso per elezione divina di compiere il salto verso un'armonia più perfetta con l'essere trascendente come fonte dell'ordine nell'uomo e nella società”, la cui conseguenza storica fu la “rottura col modello dei cicli di civiltà” e l'apparizione di “un nuovo agente storico che non è né una civiltà né un popolo appartenente, come gli altri, a una civiltà – e per questo possiamo parlare di civiltà egizia o mesopotamica, ma non di civiltà israelitica”.196 Così nasce la Storia come fenomenologia di eventi della coscienza spirituale. Solo Israele si costituì raccontando la propria genesi in quanto popolo come un evento dal significato speciale nella storia, mentre le altre società 194
Ved. F. Hegel, Differenza tra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling (1801), tr. it. di R. Bodei, Milano, 2019, pagg. 58 sgg. 195 Ved. j.-l. Nancy, Etre singulier pluriel (1996), tr. it., Torino, 2001, pag. 53 passim. 196 E. Voegelin, IaR, pag. 159.
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mediorientali si costituirono in analogia con l'ordine cosmico. Solo Israele ebbe la storia come propria forma interna, mentre le altre società esistevano nella forma del mito cosmologico. Concludiamo perciò che la storia è una forma simbolica di esistenza, così come lo è la forma cosmologica, e che nella forma storica la narrazione paradigmatica è l'equivalente del mito nella forma cosmologica. Sarà quindi necessario distinguere le società politiche secondo la loro forma di esistenza: la società egizia esisteva in forma cosmologica, quella israelitica in forma storica.197
La differenza tra le due forme di esistenza non risiede dunque tra rappresentazione mitica e rappresentazione filosofica, ma tra referente significativo naturalistico e referente divino trascendente. Soltanto il riferimento a un valore extra-mondano in-finito e creatore del Finito poteva garantire uno svolgimento storico dell'esistenza singolare e collettiva emancipato dal ciclo della necessità vita-morte della finitezza, e dove le azioni individuali e sociali sono significative non dei loro precedenti esperienziali tradizionali, ma nella relazione con la volontà di Dio e coi suoi piani per l'uomo. L'eterno non è più conseguito nell'identità della fine con l'inizio, ma con la destinazione trascendente stabilita per volontà divina. Quando è esperito in questo modo, il corso degli eventi diviene Storia Sacra, mentre i singoli atti diventano paradigmi del processo di Dio con l'uomo in questo mondo. I criteri di verità validi per eventi paradigmatici in questo senso del termine non possono essere uguali a quelli validi per gli eventi pragmatici: un evento esperito in relazione alla volontà di Dio sarà raccontato in modo veritiero se la sua essenza paradigmatica sarà stata elaborata fedelmente, e la precisazione intorno ai dettagli pragmatici relativi al tempo, al luogo, ai personaggi che hanno preso parte all'evento e alle loro azioni e parole sarà molto meno importante di quella intorno alla volontà di Dio in quella particolare occasione.198
Ciò che cambia con la forma storica è il protagonismo degli attori della scena del mondo, che da divini diventano umani, senza perdere la relazione col significato eterno degli eventi, riservato dalle cosmogonie alla sola realtà divina. In seguito, col Cristianesimo, la storia di Dio si immedesima con quella dell'uomo e dell'umanità 197
Ivi, pag. 160. Ivi, pag. 157.
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storica, secondo un modello di rispecchiamento tra fenomeni e significati che verrà acquisito dal procedimento teoretico delle moderne filosofie immanentistiche. La cd. “linearità” della visione cristiana non stabilisce soltanto una modalità di scansione cronologica che ha per terminus a quo la nascita di Cristo e come terminus ad quem la sua passione, ma “rappresenta il senso ultimo e il criterio di tutta la storia anteriore e posteriore”, tale che la “storia diviene per il cristiano anche il metro della storia generale così detta profana”, la quale perciò viene inclusa nel processo soteriologico della storia sacra e “cessa per lui d'esser profana”.199 Questa inclusione rappresenta un processo di progressiva co-appartenenza delle determinazioni culturali particolari dell'umanità che è in contro-tendenza rispetto all'”esclusivismo con una civiltà, un popolo o anche successive generazioni, hanno concentrato la loro attenzione su questo o quell'aspetto dell'attività umana”, secondo una dinamica di assolutizzazione del relativo, tipica della razionalizzazione della vita moderna, che costituisce “uno degli aspetti paradossali della Storia”,200 in quanto il senso di essa viene declinato in termini formali, e non esistenziali. Rispetto alle altre forme religiose, Cristianesimo, incentrato sulla “fede in un evento, quello della resurrezione di Cristo”, “costituisce una irruzione di Dio nella storia, che modifica radicalmente la condizione umana e costituisce una assoluta novità”.201 Il cambiamento della condizione umana è rappresentato dal superamento della forma dell'anaciclosi cosmologica, che legava l'uomo alla necessità della Natura, ossia al suo destino di morte. Codesta liberazione dalla Necessità, attraverso la vittoria del Cristo sulla morte, è la condizione di una storicità dell'esperienza umana di carattere spirituale, non soltanto aperta al trascendente, ma intrisa di significato trascendente. Come ha giustamente ricordato Voegelin, “una società politica che intenda il proprio ordine come partecipazione all'ordine cosmico-divino non esiste in forma storica”, anche se non sono “prive di storia”. In esse, però, “la storia è presente tanto quanto la speculazione metafisica e teologica, ma è vincolata dalla 199
O. Cullmann, Christus und die Zeit (1946), tr. it., Bologna, 1965, pagg. 42 e 43. H. Butterfield, Christianity and History (1948), tr. it., Alba, 1959, pag. 94. 201 J. Daniélou, Essai sur le mystère de l'Histoire (1953), tr. it., Brescia (1957) 2012, pag. 121. 200
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compattezza di una forma cosmologica non ancora differenziata”, come invece apparirà solo con l'esperienza di Israele. La differenziazione acquista anche valore temporale, in quanto la centralità del presente, caricato di valenza mistica nel senso del compimento della volontà di Dio, diventa il riferimento mediano tanto del processo escatologico che di quello ermeneutico, sicché la relazione di compimento o defezione dalla volontà di Dio “crea un presente storico la cui forma si irradia su un passato che nel proprio presente non era consapevolmente storico” e che “viene incorporato in un flusso di eventi che ha il proprio centro di significato nel presente storico”.202 Il referente di significatività trascendente, trascendendo la finitezza della condizione umana, consente la rappresentazione della Storia, intesa come forma di esistenza di una società che si definisce nel suo rapporto con Dio, in termini di esperienza universale, inclusiva di tutto il genere umano, “una storia mondiale”. Secondo le parole di Voegelin, “la storia crea l'umanità come comunità di uomini che, di epoca in epoca, si approssimano al vero ordine dell'essere che ha la propria scaturigine in Dio”, ma non per destinazione necessitata da un processo ineluttabile scandito da tappe prevedibili e impersonali, bensì attraverso un travaglio di libertà che costituisce il contenuto concreto di quel processo storico, che si rifrange come elemento visibile del mistero escatologico divino, per cui “nello stesso tempo l'umanità crea la storia attraverso il suo reale approssimarsi a un'esistenza sotto Dio”.203 Il presente diventa la coscienza critica del passato, inteso come processo ad quem verso il presente. La continuità del processo, divenuto evidente alla ragione, cioè oggettivo, lo trasforma in un processo ideale, che da implicito diviene esplicito. E in tale coscienza storica consiste la “realtà” della storia umana, che Voegelin indica come “realtà ontologica”, ontologicamente reale. E in questo stesso senso va inteso il Mito, la cui “realtà” non va confusa con una rappresentazione poetica o un insegnamento dottrinale, che sono esperienze legate alla soggettività della coscienza, ma con la totalità dell'esistenza, dove “parola, rappresentazione mitologica ed essere oggettivo sono un'unica cosa”. È infatti nella “totalità dell'esistenza, illuminata e ordinata da un preciso punto di vista” che “il caos è 202
E. Voegelin, IaR, pagg. 164-165. Ivi, pag. 165.
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bandito e la possibilità della vita assicurata”.204 Perciò il presente richiama il passato come il suo inizio significativo, intrinseco al senso (significato e direzione) della sua vicenda; anzi, “ogni presente ha il proprio passato, ed esistono per di più anche le relazioni fra i diversi presenti, nonché fra le storie da essi creati”.205 Il presente della pienezza esistenziale non va dunque confuso con la “contemporaneità” della storiografia razionalistica e pragmatica,206 ma come “esperienza del presente sotto Dio”, come rivelazione dell'Essere. La forma storica, intesa come esperienza del presente sotto Dio, apparirà soggettiva solo se la fede è interpretata, scorrettamente, come esperienza “soggettiva”; se invece è intesa come il salto nell'Essere, come l'entrata dell'anima nella realtà divina prodotta dall'entrata della realtà divina nell'anima, la forma storica, lungi dall'essere un punto di vista soggettivo, è un evento storico ontologicamente reale (che mantiene un suo statuto di legittimità oggettiva) finché basiamo la nostra concezione della storia su un'analisi critica delle fonti letterarie che raccontano l'evento stesso e non vi introduciamo la nostra soggettività attraverso congetture arbitrarie e ideologiche. Ma se sono gli uomini cui l'evento accade a spiegare il suo significato per mezzo di simboli, la spiegazione getterà un raggio ordinatore di verità oggettiva sul campo storico in cui l'evento stesso è oggettivamente accaduto.207
La storicità che è rivelata dalla presenza divina non è il mero registro fattuale di un processo avvenuto nel tempo, ma lo sfondo significativo da cui emergono gli eventi singolari nel loro rapporto con la verità trascendente, di natura religiosa. La totalità entro la quale l'evento storico è realtà di verità religiosa è il Mito. I miti sono la realtà del mondo religiosamente formata e illuminata. Ma, a loro volta, sono esperienza religiosa che si accende nell'incontro con gli oggetti e i processi del mondo, che viene dischiusa da questi e riempita del loro contenuto. Quindi sono modi in cui l'uomo entra in rapporto con la 204
R. Guardini, Der Mythos und die Wahreit der Offenbarung (1950), tr. it. in Filosofia della religione. Religione e rivelazione, Brescia 2010, pag. 63. 205 E. Voegelin, IaR, pag. 167. 206 Ved. B. Croce, Teoria e storia della storiografia (1915), Bari (1917), 197611, pagg. 4 sgg. 207 E. Voegelin, IaR, pag. 167.
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propria esperienza religiosa, la forma, la esprime, la trasferisce in azioni e figure simboliche; per contro si tratta di modi in cui egli, a partire da impulsi religiosi e da forze della stessa Natura, entra in rapporto con il mondo, gli dà forma, padroneggia l'esistenza.208
L'esperienza religiosamente vissuta come evento di verità, custodisce al suo interno, quale premessa significativa di qualunque processo storico particolare, una sua necessaria fonte di determinazione di giudizio, che non è l'Essere dell'ontologia greca, ma è l'Essere trascendente della realtà divina, la realtà di Dio, la quale pertanto diventa altrettanto necessaria quanto la realtà della Storia stessa delle Sue manifestazioni. Lo spostamento dall'Essere ontologico delle antiche cosmologie, all'Essere antropologico della Rivelazione storica, determina una dislocazione di senso dell'esperienza esistenziale dell'uomo che va dalla Natura allo Spirito, ovvero dalla Necessità alla Libertà. Nella nuova dimensione religiosa della Libertà, l'etica della decisione per l'Essere non è più deontologia della corrispondenza formale tra pensiero e vissuto, ma responsabilità della scelta morale come riconoscimento del valore trascendente dell'esistenza divinoumana, cioè dedicata al riconoscimento della verità dell'Essere quale fonte significativa della realtà storica. La realtà oggettiva di questo orizzonte di coscienza si conforma a una unità che non è la libera soggettività hegeliana che domina il finito attraverso un atto di riconciliazione con sé stesso dello spirito razionale, presso cui “Dio è la libera soggettività nella quale il finito è posto solo come il segno con cui appare lo spirito” (206), il quale è la stessa libertà riconciliata con sé stessa attraverso “la mediazione negativa del mondo”.209 Hegel intende lo “spirituale” in senso greco, come esclusione dell'idea di corpo, laddove la lezione paolina intende “corpo spirituale”, che rinasce dalla morte grazie allo Spirito Santo (aparché),210 lungo un processo che secondo il Nuovo Testamento va “in un tempo intermedio fra la risurrezione di Gesù, che è già
208
R. Guardini, Religion und Offenbarung (1958), tr. it. in Loc. cit., pag. 225. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione (1824-31), tr. it. Roma-Bari, 1983, vol. 2 La religione determinata in part. Pagg. 205-302; le cit. sono a pagg 206 e 301. 210 Paolo, I Cor. 15,25; 2 Cor. 4,16; Eph. 3,16. 209
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avvenuta, e la nostra risurrezione, che avverrà solo alla fine”.211 In questo “tempo intermedio” procede la Storia spirituale dell'umanità redenta dalla Rivelazione, che sancisce quel “salto nell'Essere” in cui la dimensione naturalistica è superata non per scissione della coscienza ma per libera adesione al disegno della salvezza divino. Pertanto, ciò che è determinato storicamente per mezzo della incarnazione del Cristo non è l'oggetto della coscienza logica del soggetto trascendentale che si è liberato dalla finitezza del mondo nel concetto, bensì l'evento della compiutezza escatologica, conseguibile attraverso la fede, nella Storia, intesa appunto come lo scenario fenomenologico nel cui orizzonte significativo l'esperienza dell'uomo si fa storia spirituale, cioè “realtà presente sotto Dio”. L'atto fondativo di questa realtà, costitutivo del primo fatto storico, è la Creazione divina del mondo, che l'AT include in una narrazione che possiamo indicare come “mondiale” in quanto il suo resoconto storico “lo contempla tutto, dalla solitudine creatrice di Dio fino al compimento, che è l'insediarsi di Jahwe nella terra promessa”.212 E in tal senso, la costruzione della storia mondiale dà svolgimento al significato che si irradia dai centri fondativi dell'esperienza, e poiché quelli che vengono esperiti sono il volere di Dio e il suo atteggiamento verso l'uomo, la storia mondiale ha un significato nella misura in cui rivela la volontà ordinatrice di Dio in ogni sua fase, compresa la creazione del mondo. 213
I centri fondativi dell'esperienza storica sono significati dai riti e dalle liturgie, in cui l'ordine divino del mondo viene esperito e rivelato nei modi vari e propri della volontà di Dio ricevuti dal Cristianesimo, in forza dei quali “l'esperienza dell'esistenza sotto Dio si dispiega nel significato della storia mondiale, e l'argomento della narrazione biblica è appunto l'emergere di un ordine pieno di significato da un contesto più povero di significato.”214 Su tale emersione di senso dal minore al più saliente si costruisce la vicenda drammatica del processo della sua acquisizione e della perdita, secondo quanto rappresentato 211
O. Cullmann, Immortalité de l'ame ou résurrection des mortes? Le témoignage du Nuoveau Testament (1956), tr. it. Brescia, 1967, pag. 44. 212 E. Voegelin, IaR, pag. 175. 213 Ivi, pagg. 178-179. 214 Ivi, pag. 179.
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paradigmaticamente nel Genesi, dove si delinea la possibilità di valicare in senso degenerativo il confine pre-istorico, in direzione di una caduta della civiltà spiritualistica nel ciclo naturalistico. L'interesse per i cicli di civiltà ha le sue radici nel timore suscitato dalla possibilità che la forma storica, così come è stata conquistata, possa andare perduta se l'umanità e la società invertissero il salto nell'Essere e rifiutassero una esistenza sotto Dio (…). La storia è esodo dalle civiltà; e le grandi forme storiche create da Israele, dai filosofi greci e dal Cristianesimo non hanno creato società del “tipo-civiltà”, sebbene le comunità da esse sgorgate, che sono ancora quelle su cui si regge la storia, debbano farsi strada attraverso il sorgere e il declinare delle civiltà.215
Resta significativo che le narrazioni storiografiche di tipo pragmatico dell'epoca delle grandi sistemazioni razionali della società politica moderna, in conseguenza della loro “contemporaneità” di coscienza, che riporta alla sintesi del giudizio attuale le antinomie del mondo reale, non siano in grado di darsi ragione delle crisi che attraversano in modo drammatico e cruento i processi statuali, sicché gli eventi rivoluzionari e bellici, eversivi dell'ordine stabilito, vengono rimossi o espulsi come accidentalità insignificanti rispetto ai movimenti razionali della coscienza trascendentale, identificati col contenuto del processo storico.216 Dalla rimozione consegue che con i contenuti allotrii viene a perdersi anche il significato dei relativi eventi stratificato nel tempo, la cui memoria non è rinvenibile dai reperti filologici che fungono da materia del discorso storiografico della storia pragmatica. Diversamente, l'unità del significato simbolico, riferibile alla storia paradigmatica, non è riferibile ai soli eventi storici, ma all'esperienza stratificata dei significati nel tempo, non determinabile nei soli termini della stratificazione narrativa. Infatti, nella dimensione pragmatica è possibile distinguere la storia dalla storiografia solo in base alla posizione relativa di un documento nella stratificazione narrativa: un documento sarà 215
E. Voegelin, IaR, pag. 171. La Storia d'Italia (1929) e la Storia d'Europa (1933) del Croce sono tipiche rappresentazioni di questa mito-logia storiografica di impostazione razionalistica in cui il movimento spirituale si risolve in dialettica della coscienza soggettiva.
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storiografia in rapporto alla sua materia prima specifica, ma passerà nella posizione di materia prima storica rispetto a un lavoro storico successivo che assorbirà tale materia prima, con la forma letteraria datale dal lavoro storiografico precedente.217
Laddove, l'unità di significato rinvenibile in un testo in riferimento a una teoria delle forme simboliche è costituita, non dal fondamento ontologico dell'essere degli eventi, ossia dalla loro fatticità presente alla coscienza come suo oggetto teoretico, ma dal significato stesso presupposto come valore ermeneutico. L'idea di storia, nella prospettiva paradigmatica o mitogenica, nasce dall'alleanza di Israele con Dio, per cui “dopo tre millenni di defezioni e ritorni, di riforme, rinascite e revisioni, di conquiste cristiane e perdite di sostanza moderne, noi viviamo ancora nel presente storico dell'alleanza”, grazie alla quale “Israele è diventato il genere umano”.218 Da quel momento, gli eventi della storia sociale non furono più esperiti come parte dell'ordine cosmico-divino, ma come simboli della realtà trascendentedivina. Questo provocò l'isolamento della comunità israelitica, indicata come “popolo sui generis dalle società cosmologiche circostanti – cioè, data l'epoca, dal resto del genere umano”.219 Di converso, per il suo valore simbolico universale e paradigmatico, “l'oggetto della storiografia israelitica è la storia del mondo nel senso forte dell'emergere nel mondo e nella società, grazie ai suoi atti di creazione e alleanza, di un ordine voluto da Dio”.220 La storia paradigmatica diventa la narrazione delle vicende relative alla relazione dell'umanità con Dio, i due protagonisti del dramma. I simboli di questa rappresentazione storica sono Berit (alleanza), torot (comandamenti) e toledot (generazioni).221 Sia il mito che la storia sono parti della narrazione della verità espressa per simboli, per cui l'opera storiografica contiene dunque autentici miti, storia autentica, e quello strano intreccio di storia, mito e messa in scena di quest'ultimo (in cui) i tre 217
E. Voegelin, IaR, pag. 188. Ved. la distinzione di “cronaca” e “storia” in B. Croce, Teoria e storia della storiografia, cit. pagg. 3-17. 218 E. Voegelin, IaR, pag. 207. 219 Ivi, pag. 208. 220 Ivi, pag. 209. 221 Ivi, pag. 216.
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tipi di contenuto si fondono in un nuovo tipo di storia che non è né mito né storia pragmatica ma quella “storia mondiale” la (cui) riabilitazione è data dalla speculazione sulle origini dell'essere e le epoche della storia mondiale.222
La narrazione, pertanto, ha assorbito diversi materiali connettendoli in una forma simbolica sui generis, priva di oggetto ma dotata invece di un suo proprio significato, che si rifà alle originarie esperienze narrate. Nondimeno, ciò che permane come oggetto problematico irrisolto è la relazione fra vita dello spirito e vita del mondo, la cui soluzione può essere solo temporanea e contestuale a un'epoca. Si possono trovare, e sono stati trovati, degli equilibri che funzionano per un certo tempo: ma l'abitudine, la istituzionalizzazione e la ritualizzazione presto o tardi degenerano inevitabilmente, per la loro stessa finitezza, in una cattività dello spirito, che è infinito, e a quel punto è giunto il tempo di spezzare un equilibrio che è diventato carcere demoniaco. 223
La lotta dello spirito contro i vincoli riduttivi delle forme istituzionali storiche e le organizzazioni sociali particolari tratta di una tensione universale, che conferma la presenza dell'eternità nel processo storico, in cui l'operare della perfezione trascendente attraverso il divenire mondano resta un paradosso insondabile, che pure ha i suoi protagonisti storici, e addirittura un personaggio eponimo rappresentativo di un evento storico-simbolico. La sensibilità spirituale dell'uomo che aprì la sua anima alla parola di Jahwe, la fiducia e la forza d'animo indispensabili per fare di questa parola l'ordine di un'esistenza in opposizione al mondo, e l'immaginazione creativa usata per trasformare il simbolo della servitù della civiltà in quella della liberazione divina formano, nel loro insieme, un evento tra i più rari e grandi della storia dell'umanità; e questo evento porta il nome di Abramo. 224.
Ora possiamo meglio focalizzare il significato storico del “salto nell'Essere”, come esperienza da parte della coscienza dell'essere divino in quanto trascendente il mondo. Tale trascendenza costituisce 222
Ivi, pag. 229. Ibidem. 224 Ivi, pag. 245. 223
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il Limite dell'esperienza finita del mondo, che trova in quel riferimento trascendente il suo intrinseco significato di verità,225 non contingente e relativo alla circostanza fenomenica, ma simbolico e dunque universale in senso trascendente. La rimozione della realtà invisibile, se non dall'esperienza esistenziale dell'uomo, dalla coscienza pubblica sviluppa, col realismo storico, anche la memoria epica degli eroi valorosi, provocando come ricaduta “dialettica” di contrappasso un nichilismo positivo legato all'edonismo esistenzialistico.226 Di conseguenza, la frattura storicistica fra la vita e la morte schiaccia l'esperienza al presente, negando tradizioni e retaggio ideale del passato, ossia quella “memoria storica” che costituisce lo stesso orizzonte ermeneutico della storicità.227 Nell'eroe si compendia il valore simbolico definito dal concetto, ma espresso in termini di esperienza fattuale. La fattualità eroica incarna il simbolismo dell'azione insieme significativa e misteriosa, legata a un disegno trascendente la volontà umana che l'interpreta in chiave paradigmatica, anche prima di pervenire alla sua oggettività razionale. Il passaggio dalla coscienza immediata alla autonomia dell'oggettività, implica la liberazione della soggettività nella determinazione della persona ideale, distinta dall'essere in sé. È questa la “sfera del fine” in cui “l'agire secondo il fine è agire saggio, essendo saggezza agire per fini che hanno una validità universale”.228 Sicché, per quanto riguarda la visione filosofica della storia interna all'orizzonte di coscienza mitogenetico, la sua prospettiva implica la scissione della coscienza razionale dall'unità originaria della coscienza mitica, per cui la philia che tende al sophon presuppone un'anima personalizzata, sganciata dalla sostanza di ogni gruppo umano particolare quanto basta per vivere una 225
A proposito del rapporto della verità come “valore universale di scienza”, e l'intuizione spirituale come “sentimento meramente soggettivo e individuale”, ved. la critica di Schelling al teosofismo di Jacobi, il cui pensiero è indicato come il “punto di passaggio dal razionalismo all'empirismo”, in Zur Geschichte der neuren Philosophie (1861), tr. it. Lezioni monachesi e altri scritti, NapoliSalerno, 2019, pagg. 199-223. 226 Ivi, pag. 293. 227 Ved. H.G. Gadamer, Wahrheit und Methode (1960), tr. it., Milano, 1983, pagg. 355361. 228 G.W.F. Hegel, Lezioni sulla fil. d. religione, cit., pagg. 213 e sgg.
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comunione con altri uomini fondata sulla comune partecipazione al Nous divino. Finché la vita spirituale dell'anima è talmente indefinita che il suo essere sotto Dio può essere esperito solo in modo compatto, attraverso la mediazione di clan e tribù, l'amore spirituale di Dio non può diventare il suo centro ordinatore. (…) Solo quando l'uomo, pur vivendo insieme ai suoi simili nella comunità dello spirito, ha un destino personale davanti a Dio, l'erotismo spirituale dell'anima può raggiungere quell'autointerpretazione che Platone chiamava filosofia.229
Finché la ruach di Jahwe è presente nei membri della comunità “in quanto rappresentanti della comunità, ma non in quanto forza ordinatrice presente nell'anima di ogni uomo” non può sorgere una coscienza filosofica, e con essa l'autodeterminazione necessaria a emancipare con la coscienza individuale anche la stessa persona esistenziale dalla dipendenza dal Potere dei rappresentanti della coscienza collettiva, i quali sono legittimati da questo ruolo rappresentativo alla funzione di governo. Ecco dunque come la dinamica interna all'unità religiosa crea le premesse theo-logiche della struttura politica del gruppo sociale, garantito nella sua sopravvivenza bio-politica in quanto non pervenuto alla relazione individuale con Dio che consente l'articolazione della storia spirituale collettiva in storia della coscienza personale. Questo “salto” coincide con il superamento dell'orizzonte politico come salvaguardia dell'esperienza umana dal suo destino di Morte, cioè dalla sua dipendenza cosmologica dalla Natura. Il destino spirituale personale non può realizzarsi senza un superamento della frattura tra vita e morte dell'uomo. Deviare la esperienza di vita nella realtà sociale collettiva non consente la relazione personale con Dio ma propizia l'identità di gruppo, l'integrazione nel collettivo. Questa integrazione di contenuto e significato religioso costituisce un ordine teocratico, la cui idea “non è una dottrina inventata da un pensatore in un momento storico preciso ma un simbolo che dà espressione a un'esperienza vissuta, quella della tensione fra costituzione umana e divina della società”.230 Nella Risposta al signor De Broglie, che recensendo criticamente il suo saggio su Le catholicisme, le libéralisme et le socialisme lo aveva accusato di propugnare un regime politico di tipo medievale, Donoso 229
E. Voegelin, IaR, pag. 296. Ivi, pag. 303.
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Cortes afferma che la questione in gioco tra Stato e Chiesa non è la supremazia tra sacerdozio e Impero, ma “di accertare se conviene o no alla società civile di prendere dalla Chiesa i grandi principi dell'ordine sociale, e se le conviene o no essere cristiana”. Il contenzioso, in altri termini, non verte sul riconoscimento della posizione spirituale della Chiesa, acquisita per decreto divino e non oppugnabile dalla volontà umana, ma sulla conferma della relazione dell'uomo con Dio, indispensabile alla trasformazione della sua esistenza, ritenendo tale trasformazione acquisita irreversibilmente etsi Deus non daretur, secondo uno statuto storico che esonera l'ordine religioso nell'ambito della costituzione civile. E aggiunge infatti significativamente: Il grande peccato di questi tempi mi sembra consista nel vano intento delle società civili di formare per loro proprio uso un nuovo codice di verità politiche e di principi sociali; nel vano intento di sistemare le proprie cose attraverso concezioni puramente umane, facendo una assoluta astrazione delle concezioni divine. (Dividendo la creazione in tre imperi indipendenti) l'uomo impererà su tutto quello che c'è tra il santuario e il cielo, ed in questo vastissimo impero tutto si ordinerà attraverso le concezioni umane. Da qui quella grande esplosione di attività intellettuale (…), il ritorno all'idolatria della propria grandezza (…) e il culto che le genti hanno verso gli uomini (d'ingegno, e la) fiducia insensata dell'uomo negli altri uomini e in sé stesso, che mi fa tremare per la sua imperturbabilità, anche di fronte al naufragio universale di tutti i suoi vani pensieri e di tutte le sue vane illusioni (…). L'orgoglio è sempre punito con le catastrofi ed è sempre causa di fallimenti (…). le società dei nostri tempi, tornate all'infanzia, avevano finito di credere che avrebbero potuto evitare gli sguardi di Dio (…) che vive in tutte le parti dall'eternità.
Da questa prospettiva escatologica, Donoso misura in termini regressivi l'emancipazione moderna dalla relazione con Dio, che ha trasformato in un grande equivoco tra il fondamento teologico dell'ispirazione religiosa del corpo mistico cristiano, e la costituzione teocratica dello Stato. Come la sottomissione ai precetti divini non porta con sé, né esplicitamente né implicitamente, la istituzione di un Governo teocratico, così il riconoscimento, in teoria e in pratica, delle verità fondamentali di cui è depositaria la Chiesa, non porta con sé, né esplicitamente né implicitamente, 85
la sua dominazione negli affari temporali. La Chiesa giammai ha confuso queste due cose, così differenti fra loro. Per questa ragione, mentre cerca e chiede per i suoi dogmi, e anche per i suoi principi, l'impero del mondo, perché questo non può sussistere senza sottomettersi a quelli, ha mostrato non solo indifferenza, ma orrore, ad ingerirsi nella direzione temporale delle cose umane. (E seppure in casi eccezionali la Provvidenza) mise lo scettro, la corona e la porpora ai piedi dei suoi Pontefici (ciò avvenne perché essi erano) gli unici che allora erano sulla terra pacifici e giusti (tanto che possiamo dire che) senza quella suprema giurisdizione, conferita per consenso universale alla Chiesa, l'Europa e la civiltà sarebbero perite insieme. 231
La querelle si gioca su due piani: l'uno storico-politico, in cui prevale la preoccupazione delle nuove istanze razionalistiche di preservare un ordine istituzionale autonomo nei suoi fondamenti di legittimità; l'altro simbolico-religioso, in cui prevale, di contro, il riconoscimento della condizione umana emancipata da un atavico ordine cosmologico, la cui ricaduta viene paventata come una condizione di regresso spirituale. Tra le due istanze ormai culturalmente incomunicanti si frappone la questione (rimossa) del fondamento di legittimità del Potere, che un acuto lettore di Donoso come Carl Schmitt riproporrà in pieno XX secolo; questione che diventa improponibile fuori dal linguaggio del Mito, che, come osservato da Voegelin, “è motivato, caso per caso, dall'esperienza dell'ordine, e non ha niente a che fare con le dimensioni o il successo dell'unità sociale che lo usa”.232 Questa preoccupazione politica rimane comunque secondaria rispetto alla questione del fondamento di legittimità, che permane anche a forme di convivenza umana mutate, poiché le condizioni di esistenza dell'uomo rimangono le stesse, in quanto costitutive della ragione della Storia, ossia dell'ordine divino. “Un popolo che non comprende (le cose divine) va a precipizio”,233 sicché per ristabilire l'ordine del mondo, decaduto per hybris umana, occorre ristabilire l'ordine divino (apokatastasis). Ma in cosa consiste l'ordine divino? È la stessa libertà dell'uomo, la quale non consiste dunque nell'ordinamento razionale del mondo pensato dall'uomo, ma appunto nell'ordine voluto da Dio. Il 231
La Risposta data il 15 novembre 1852, la tr. it. in J. Donoso Cortés, Il potere cristiano, Sesto s. Giovanni, 2020, pagg. 124-125. 232 E. Voegelin, IaR, pag. 354. 233 Osea, 4, 14.
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primo grado di coscienza di tale ordine divino nasce con la filosofia, “dall'idea di una psyché immortale come luogo del giusto ordine”,234 dislocato altrove rispetto alle istituzioni politiche, in una regione normativa regolatrice delle volontà, a rimedio del kaos. Da qui il bisogno di un ordine legale, di una legalità divina liberatoria. La Legge non è affatto quel fardello per cui spesso la scambiano i pensatori cristiani ma, al contrario, la grande liberatrice dalla tensione dell'esistenza al cospetto di Dio (…). E' l'espressione simbolica di una nuova esperienza d'ordine in cui l'irruzione dello Spirito Santo è diventata qualcosa di meno intenso – esegesi ispirata dalla parola scritta.235
La stessa definizione della religione nasce dalla concezione della sua funzione sociale, che sin dalle origini si è riflessa, non solo nella storia di Israele ma anche in quella del Cristianesimo, come teoria sullo Stato,236 in quanto “lo Spirito vive nel mondo come forza ordinatrice” dell'esistenza umana, che attraverso la fede, viene trasformata in una forma storica, che ha il suo fulcro nella relazione dell'uomo con Dio.237 Lo statuto legale di questa relazione è possibile a partire dalla condizione di uguaglianza di tutti gli uomini al cospetto di Dio, compresi i re, e per essi le tutte le classi dirigenti storiche, su cui ricade la custodia dell'ordine e dei deboli.238 L'uguaglianza di fronte a Dio è il riconoscimento di una potestà divina superiore a quella umana, che ne costituisce perciò il limite insuperabile, ossia il fondamento morale della volontà, singola e politica. Nel loro creativo progetto di uno Stato di diritto i codificatori (israeliti) riuscirono a tradurre l'ordine divino dell'amore in modello istituzionale, rendendo così impossibili tanto l'apoteosi dello Stato quanto l'idea di una legge e un governo laici, isolati dall'ordine spirituale. Ma questa traduzione ha senso solo se è qualcosa di più di un puro e semplice legalismo, ed è per questo che al centro dell'intera concezione sta l'obbligo personale di ogni membro della comunità di obbedire alle leggi di Dio: la chiamata e l'impegno 234
E. Voegelin, IaR, pag. 438. Ivi, pag. 444. 236 Ved. E. Troeltsch, Die Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen (1923), tr. it., Firenze, 1941, vol. I, pagg. 14 sgg. 237 E. Voegelin, IaR, pag. 446. 238 Deuteronomio, 17, 14 sgg. Ved. E. Voegelin, IaR, pag. 447. 235
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personale di Deuteronomio 6,5 garantiscono la sopravvivenza dell'ordine non per mezzo di una sicurezza esterna, ma attraverso la convinzione di coloro che sotto tale ordine vivono.239
Le potenze del mondo, per quanto vittoriose pragmaticamente, vengono sottoposte a giudizio morale, il cui tribunale trasforma le vittorie in sconfitte. Nel giudizio si misura la permanenza o l'assenza del “salto nell'Essere”, che rappresenta la frattura spirituale interna all'esistenza umana, e l'inaugurazione della sua condizione storica. “La rivelazione (divina) crea la storia come forma interna dell'esistenza umana nel presente sotto Dio e perciò deve inevitabilmente produrre, in qualsiasi tempo abbia luogo, uno strappo con lo stadio di sviluppo”.240 Questo “strappo” è appunto costituito dal “salto” ontologico, che rappresenta la vera rivoluzione spirituale della coscienza antropologica e insieme della esistenza umana. Come scrive Voegelin, “Il primato dell'esse divino, contrapposto al primato platonico del bonum divino, non solo è il punto fondamentale della filosofia cristiana riguardo all'essenza di Dio, ma lo è in modo talmente netto da essere stato chiamato, giustamente, filosofia dell'Esodo.”241 Il nesso tra Rivelazione e Storia spirituale diventa valore religioso con la consapevolezza della non-autointelligibilità (Nicht-Selbstvertaendlichkeit) della esistenza umana, la quale pertanto “non può essere compresa da se stessa”242, in quanto agisce in essa la libertà spirituale, che costituisce una minaccia potenziale ben più grave di ogni determinazione fisica sul corpo, la minaccia del disordine, che “appare come una potenza che l'uomo alla fine non riesce a domare, ed è in questo contesto che il concetto di caos acquista un particolare significato”, di forza negativa da domare. 243 Questo sforzo si compendia, nella coscienza individuale, come incontro col divino trascendente, in cui “l'uomo vede Dio e nella sua anima avviene il salto nell'Essere”, che non comporta avvenimenti
239
Ibidem. Ivi, pag. 483. 241 Ivi, pag. 482. 242 K. Jaspers, Der philosophischer Glaube angesicht der Offenbarung (1962), tr. it., Milano, 1970, pag. 167. 243 R. Guardini, Loc. cit., pagg. 172-173. 240
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esterni, ma mutamenti nel “modo di comportarsi”;244 e nella dimensione della Storia, come “compito perpetuo di riconquista dell'ordine sotto Dio dalle pressioni dell'esistenza mondana”.245 Ed è in questa “tensione della risposta alla rivelazione senza tempo ed eterna di Dio” che si dispiega l'esperienza storica dell'uomo e di una civiltà nel tempo.246 L'ordine cui perviene il risultato storico di questa tensione è di carattere religioso. L'ordine religioso consente all'uomo di pervenire a un livello di appagamento spirituale che nessun altro valore è in grado di assicurargli, poiché “il religioso ha il carattere dell'autentico e del definitivo, in misura tale che per suo tramite tutto può essere svalutato”, in quanto il suo valore assoluto, cioè sacro, “non spiega se stesso, né giustifica a partire da qualche altra istanza la propria pretesa, ma si rende evidente per se stesso”, in quanto verità che “non dimostra il suo senso, ma si manifesta e proprio per questo risulta indiscutibile”.247 Il risultato cui perviene l'uomo entro l'ordine religioso è “la salvezza” dalla finitezza,248 che è a un tempo riconciliazione spirituale con Dio e con gli altri uomini. Cos'è dunque storico? Storica è la vicenda spirituale dell'uomo intrattenuta sulla relazione della singola coscienza con l'esperienza della sua esistenza nel tempo. Storico è il rapporto che l'uomo intrattiene con la Verità nel tempo della sua vicenda esistenziale. Non vi è Storia senza tale rapporto, che dunque presuppone due termini di relazione: la coscienza di sé, come coscienza di libertà, e la consapevolezza di ciò che divinamente la trascende, ossia la Differenza. Il “salto nell'Essere” è anch'esso relativo, perché inerisce appunto alla relazione tra la coscienza della finitezza e la realtà trascendente. L'essere di Sé e l'essere dell'Altro stabiliscono una relazione, un con-essere, in cui la realtà del soggetto discopre se stessa attraverso la realtà dell'Altro. Mentre nella negazione dialettica dell'Altro si costituisce la “volontà di potenza” della coscienza razionale, nella negazione del Sé si costituisce il Mystero dell'amore di Dio. In entrambi i casi non vi è Storia, ma 244
E. Voegelin, IaR, pag. 499. Ivi, pag. 493. 246 Ivi, pag. 506. 247 R. Guardini, Loc. cit., pag. 201. 248 Ivi, pag. 202. 245
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postulato dogmatico dell'Essere, decisione ontologica che assicura, con esiti opposti, la realtà di uno solo dei due termini relativi. Il tempo dell'essere-per-sé è quello biologico della finitezza naturalistica; il tempo della Verità è invece eterno. Storico è solo il tempo della relazione, in cui tempo ed eternità si fondono nel kairòs, nel tempo buono. Se si isola la temporalità al solo ed esclusivo ambito ontologico dell'Essere di sé, la astratta storicità che ne emerge è la tensione verso la morte, il predominio della esistenza biologica destinata alla consunzione. Su questa premessa naturalistica si dispiega la concezione storicistica del razionalismo moderno. Infatti, la metafisica razionalistica è fondata sull'ontologia della Natura, del tempo finito che si perpetua nel ciclo eterno dell'uguale, in una cosmologia. Il processo del pensiero finito mina la stessa stabilità etica dell'Essere, poiché fonda l'Ordine esterno dell'esistenza biopolitica sulla corrispondenza forzatamente indotta mercé il Potere tra il modello razionale e l'analogo istituzionale, la cui funzione è di assicurare la resistenza dell'inevitabile esito nichilistico. Da qui la conversione dialettica dell'astratto ideale in opposto concreto, con conseguente dissoluzione di ogni opera umana, anche momentaneamente grandiosa. Dal tentativo di conformare il disordine reale all'ordine ideale nasce la volontà rivoluzionaria della deontologia razionalistica, la quale rappresenta la versione degenerata e velleitaria della Metastasi che avevan in mente i profeti dell'Antico Testamento quando intendevano trasformare la costituzione dell'Essere. La costituzione dell'Essere è come è, e non può essere modificata dalle fantasie umane; perciò la negazione metastatica dell'ordine dell'esistenza mondana non è né una proposizione vera in filosofia, né un programma d'azione eseguibile. La volontà di trasformare la realtà in qualcosa che per essenza essa non è, è ribellione contro l'essenza delle cose, disposta da Dio. 249
Si apre un abisso tra il mondo storico e la sua immagine trasfigurata secondo il piano divino. Nella varietà delle forme simboliche “è riconoscibile una sostanza comune, la volontà metastatica di trasformare la realtà per mezzo di fantasie escatologiche, mitiche o storiografiche, o anche abbassando la fede a strumento dell'azione 249
E. Voegelin, IaR, pag. 532.
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pragmatica”.250 L'insoddisfazione per tale distanza genera il progetto rivoluzionario di ricomporre il kaos eliminando il referente divino trascendente e fondare su uno statuto solamente razionale il mondo, inteso quale contesto storicistico dell'opera umana. La condotta umana non viene più giudicata sul presupposto di un ordine divino, che è ordine ontologico, ma sul presupposto della sua giustificabilità razionale. La compattezza cosmologica si sviluppa in differenza storica e ideale del processo unitario in elementi astrattamente particolari, e nell'ambito della manifestazione empirica dell'ordine unitario si è così potuto sostituire all'origine divina la volontà di pianificatori ideologici, spostando il significato della Storia da esistenza nell'Ordine dell'Essere divenuto evidente dalla Rivelazione, a ordine razionale pianificato dall'ideologia umana: un Ordine non più dunque trascendente ma del tutto immanente e “storico” nel senso di relativo al tempo, rimuovendo la conquista spirituale della coscienza religiosa per cui “l'esistenza in forma storica presuppone tanto il Dio che trascende il mondo quanto il fatto storico della sua rivelazione”, e che pertanto “l'uomo esiste dentro l'ordine dell'Essere, e non c'è storia fuori della forma storica sotto la rivelazione”.251 La partecipazione esistenziale alla parola di Dio è la fede, la quale perciò non è un mero culto confessionale o un segno di identità culturale, ma la condizione stessa della costituzione storica dell'esistenza, che ne dipende come dal significato dell'evento per la sua comprensione. Sicché l'Ordine nella società e nella Storia dipende dalla fede. L'Ordine dell'Essere, pertanto, non ha uno statuto formale e astrattamente giuridico, ma è quell'ordine al quale l'uomo partecipa con la sua stessa esistenza, un ordine esistenziale: ciò comporta che la storia spirituale dell'uomo singolo diventi il nucleo di realtà concreta della vita umana, i cui atti vanno interpretati, non sulla base della loro razionalità rispetto ai fini, ma alla luce del loro valore simbolico, espressivo della storicità o relazione con l'Ordine dell'Essere, sul cui metro le potenze del mondo, per quanto vittoriose pragmaticamente, vengono sottoposte come al loro tribunale morale, che può trasformare le vittorie in sconfitte. Alla luce della coscienza religiosa, “l'interesse fondamentale dell'uomo è l'armonizzazione della sua esistenza presente con l'ordine 250
Ivi, pag. 533. Ivi, pagg. 544 e 545.
251
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dell'Essere”.252 Ma la distanza tra l'Ordine vero e quello storico realizzato dalle società concrete non è colmabile. Ciò comporta che l'ordine generico si concentra nella volontà di Dio, così come il destinatario collettivo si determina nella volontà individua del profeta, che partecipa con la sua esistenza alla “sofferenza di Dio”.253 Il nucleo di verità di tale partecipata sofferenza è “la terribile verità: che l'esistenza di una società concreta con un suo ordine ben definito non risolverà mai il problema dell'ordine nella storia, che nessun Popolo Eletto sarà mai, in nessuna forma, l'ompholòs ultimo del vero ordine dell'umanità”.254 La finitezza dell'uomo rimane la sua dimensione esistenziale in sé intrascendibile, ma correggibile mercé l'intervento della Grazia, che parla per la bocca dei profeti, cioè con linguaggio umano simbolico, che rappresenta l'altra via di accesso alla Verità, la via mitica, rispetto a quella filosofica della conquista, anziché della evocazione, della parola. “Quando è l'uomo a cercare Dio, come nell'Ellade, la saggezza conquistata resta genericamente umana; quando è Dio a cercare l'uomo, come in Israele, colui che riceve la rivelazione e le sa rispondere diventa storicamente unico”.255 Ciò comporta che la verità in senso greco diventa di per sé comunicabile, a prescindere dal suo scopritore e dai suoi destinatari, in quanto formula razionale generale, mentre , nel caso della rivelazione divina, la mediazione profetica diventa indispensabile a dar vita alla Parola di Dio. In questo caso, non si ha una espressione dottrinale ma una esperienza esistenziale, una storia vissuta nella verità spiritualmente partecipe, dove “l'esperienza è inseparabile dalla sua espressione simbolica”.256 La verità interna all'orizzonte di senso religioso dell'esperienza esistenziale e sociale dell'uomo è esattamente il modello di storicità che la cultura razionalistica moderna ha rigettato in nome dell'autodeterminazione dell'intelligenza umana, ovvero come autoaffermazione della ragione, primieramente filosofica e quindi scientifica. Ma se “la scienza non ha nulla a che fare con la fede 252
Ivi, pag. 564. Ivi, pag. 570. 254 Ivi, pag. 573. 255 Ivi, pag. 578. 256 Ivi, pag. 579. 253
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rivelata, la filosofia sì”. La fede, infatti, inerisce la rivelazione nei termini in cui questa “deve essere soltanto creduta e non conosciuta mediante prove storiche”, ossia mediante quella “fatticità (Sachlichkeit) del presunto sapere oggettivo” che elimina il mystero “in tutto il rigore della sua incomprensibilità”,257 che non equivale al Nulla, ma bensì a quella Totalità che il pensiero razionale non può conoscere, né dunque garantire. Dunque il pensiero razionalistico, rigettando il Mystero della Rivelazione cristiana, opera anche implicitamente una rinuncia, a con-prendere l'unità di senso dell'esperienza finita nella relazione con la Verità trascendente, ripiegando su un sapere mondanizzato che limita la possibilità dell'uomo di progettarsi autonomamente nel mondo nei termini di ciò che Heidegger chiama “l'esserci” (Dasein). In cosa consiste il progetto d'essere dell'esserci, la sua progettualità? Progettarsi è inserirsi nel Divenire come volontà razionalizzante. Il Divenire va inteso come il mutamento della forma dell'Essere a opera dell'uomo, in concorrenza od opposizione alla volontà della Natura. La forma dell'Essere, conseguente all'intervento dell'uomo sulla materia informe, in quanto volontà che modifica l'Essere, come tale è una volontà caduca e reversibile, perché priva di necessità, che è l'attributo dell'eterno. La materia è informe non in quanto, come fenomeno, non presenti delle analogie formali con qualcos'altro da sé, ma esse sono mere fisionomie somiglianti, non vere forme, prodotte da una volontà. La volontà della Natura non è una vera volontà, perché essa agisce razionalmente a caso, e prevedibilmente secondo le sue necessarie premesse; vera volontà, libera di determinarsi secondo un progetto teleologico, è soltanto quella umana, che destina la materia a un fine razionale (telos), che, trasformando la materia, la libera dalla sua eterna necessità d'essere ciò che è. Ma proprio tale intima necessità destina la materia alla alterazione, anziché a un vero cambiamento, per cui in Natura tutto si altera restando lo stesso. E poiché ciò che rimane è eterno, solo ciò che muta e si trasforma cade nel tempo. E ciò che muta è pertanto la forma dell'Essere, non già l'Essere stesso. La trasformazione dell'Essere nella forma della volontà umana inscrive l'Essere nel tempo, configurando la durata del prodotto umanizzato. È la forma che cambia e diviene. Il Divenire non va 257
K. Jaspers, Loc. cit., pagg. 120-124.
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inteso come l'alterazione della materia naturale, ma come l'opposizione tra questa alterazione e le trasformazioni impresse dall'uomo alla materia. Qual è il senso delle trasformazioni della materia a opera dell'uomo? L'uomo, attraverso la forma dell'Essere intende affermare la sua volontà. Tale volontà non persegue il disegno spontaneo della Natura, come avviene nelle altre specie viventi, ma lo modifica secondo un progetto razionale dell'uomo, legato alla sua antropologica incompiutezza. Il riconoscimento di questa condizione è lo stesso riconoscimento del Mystero divino, che ha stabilito il segno dell'eternità nella Materia, che è la sostanza che non muta ma solo si modifica, e il segno della precaria libertà nello spirito umano, che informa l'Essere secondo un fine razionale di umanizzazione della Natura, ma informandolo lo acquisiscono secondo la finitezza propria della condizione umana, che è intrascendibile, e perciò abbisognevole della relazione con Dio. Le forme spirituali che si strutturano come volontà derivate da una intuizione fondamentale della vita costituiscono le culture umane nel tempo. Le civiltà che si rapportano al trascendente in virtù del “santo nell'Essere”, sono quelle la cui esperienza si dispiega nella Storia. Le forme apparenti della civiltà sono espressive della cultura simbolica che progetta razionalmente una realtà di coesistenza sociale durevole. Non esiste un fenomeno umano che non sia espressivo di una volontà che lo ponga in essere, ossia di una forma simbolica significativa di senso razionale in relazione a come appare, per cui le forme in cui si realizza l'esperienza umana sono le manifestazioni della sua volontà d'essere ciò che appare. In questo senso l'essere è sempre l'essere di un ente. Ma non tutte le manifestazioni della volontà esprimono la realtà nella sua relazione con l'Essere. La distanza che la civiltà razionalistica moderna ha segnato tra le forme simbolico-culturali della volontà trasformatrice della materia dell'Essere, e la relazione che la coscienza personale ha con il suo referente divino, che è l'Essere eterno, segna la crisi epocale della civiltà cristiana europea, la quale si connette strettamente con la nascita nel sec. XVI della civiltà economica nota come Capitalismo moderno, il cui “centro geografico e morale di irradiazione è l'Inghilterra puritana del XVII secolo” e che nella sua forma pura di capitalismo industriale, caratterizzato dall'iniziativa 94
individuale e dal controllo privato della produzione della ricchezza indiscriminata, ha il suo apogeo intorno alla metà del sec. XIX.258 Questa civiltà, rispetto alla società medievale, avendo perso una visione religiosa della esperienza e della Storia umana, predilige a un principio di socialità basato sulla comunità spirituale la struttura formale dello Stato politico, il cui scopo di principio è di garantire all'uomo la pace sociale, e di fatto il potere di controllo sulla Natura e la produzione indefinita di beni materiali, utili al miglioramento delle sue condizioni di vita. Tale impianto strutturale, conseguente al processo di razionalizzazione della vita sociale moderna, ha come presupposto ontologico la concezione dell'Essere come struttura formale, interconnessa nei suoi distinti momenti categoriali secondo criteri di funzionalità relativa alla plausibilità pratica dei loro contenuti ideali, ossia alla loro reciproca coesistenza storica. Sicché gli elementi ideali incompatibili con tale coesistenza vengono espunti dalla vita pubblica e consegnati, nel migliore dei casi, alla coscienza privata. Persino l'idea di Dio viene fatta dipendere dalla sua sostenibilità con la struttura formale dell'Essere sociale.259 3. L‟analisi di K. Mannheim parte dalla duplice convinzione che l‟epoca attuale sia priva di originali contenuti artistici, di pensiero e di fede, per cui la prevalenza teorica vada alle strutture formali dell‟Essere, e che, in particolare il pensiero filosofico nel suo insieme “si muove su un piano di doppia riflessività”, una di tipo logico e metodologico, l‟altra di tipo strutturale,260 per cui “come guidato da una mano invisibile, l‟intero apparato delle scienze dello spirito è all‟opera nel tentativo di cogliere il fenomeno della cultura, nel suo divenire storico e nelle sue caratteristiche sistematiche”.261 Da qui la 258
A. Labriola, Le crepuscule de la civilisation, Parigi, 1936, pagg. 67 e 68. Ved. B. Groethuysen, Origines de l'esprit bourgeois en France, I L'Eglise et la bourgeoisie (1927), tr. it. Torino, 1949, pagg. 119-150. 260 K. Mannheim, Una teoria sociologica della cultura e della sua conoscibilità. Pensiero connettivo e pensiero comunicativo (1924), tr. it., condotta sull‟ed. inglese Structures of Thinking (1982), in Le strutture del pensiero, Roma-Bari, 2000, pag. 147. Da ora in poi indicata come Una teoria sociologica della cultura. 261 K. Mannheim, Il carattere specifico della conoscenza sociologico-culturale (1922), tr.it. in Le strutture del pensiero, cit., pag. 5. 259
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ripresa dei classici, senza che nessun epigono voglia riprenderli “parola per parola”, ma con l‟intento “piuttosto, di riscoprire sempre di nuovo la fecondità di punti di partenza sistematici, la fecondità dei metodi di queste filosofie”.262 Ma la rivisitazione dei classici del pensiero filosofico non si fermava a Kant e ai romantici e a Hegel, andava sino alle radici della modernità, e al filosofo che più di tutti aveva segnato la svolta metafisica caratteristica del pensiero moderno, Cartesio, che sarà oggetto di una profonda rivisitazione da parte del fondatore del metodo fenomenologico, Edmund Husserl. Vi è da dire, peraltro che ogni fissazione di un limite epocale, e di un relativo esponente eponimo, preludeva, nel prosieguo delle analisi, a uno spostamento sempre più a ritroso nel tempo, fino a lambire, con Heidegger, come abbiamo visto, i fondamenti stessi del pensiero filosofico della nostra tradizione. Lo stesso Heidegger, d‟altro canto, nel definire gli assetti strutturali della sua ontologia fenomenologica, non poté fare a meno di soffermarsi sulla metafisica di Kant, proponendone una rilettura critica molto diversa da quella che era stata, non solo la lezione neo-kantiana della Scuola di Marburgo e la sua risoluzione del trascendentale nella logica, ma della stessa lettura del suo maestro Husserl nel primo decennio del Novecento, il cui “kantismo” è probabilmente all‟origine della “riduzione fenomenologica” come analisi dei soli Erlebnisse della coscienza trascendentale, e non, come sarà invece per Heidegger, come ontologia fondamentale, ossia comprensione dell‟essere degli enti.263 Se non si trattava, dunque, di una ripresa pedissequa, non era neppure una rivisitazione erudita dei classici, bensì la rivisitazione nasceva dalle stesse esigenze di ripensare i fondamenti epistemici del pensiero filosofico, che pareva aver esaurito nel corso dell‟età moderna la sua ragion d‟essere dopo la definizione totalistica dell‟Essere come ente, e la conseguente affermazione esclusiva delle scienze fenomeniche nel campo della conoscenza, dove, proprio con Kant, la gnoseologia aveva soppiantato ogni possibile ontologia.
262
K. Mannheim, Una teoria sociologica della cultura, tr. it. cit., pag. 145. Ved. M. Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia (lezioni del 1927; ed. 1975), tr. it. a cura di A. Fabris, 1990. 263
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Intorno al 1850 la situazione è tale che tanto le scienze dello spirito quanto quelle della natura hanno preso possesso della totalità del conoscibile, per cui sorge la questione: che cosa rimane ancora alla filosofia, se la totalità dell‟ente è stata spartita tra le scienze? Le rimane soltanto più la conoscenza della scienza, non la conoscenza dell‟ente, e questo punto di vista è determinante per il ritorno a Kant.264
Secondo Mannheim, il comportamento umano si inscrive in una “struttura spirituale” che indirizza non soltanto l‟azione ma la vita nel suo complesso attraverso la selezione di un ordine di importanza delle cose per cui “l‟uomo non solo pensa, ma esperisce gerarchicamente”. All‟interno di tale struttura gerarchica, l‟ordine valoriale si definisce sulla base di una derivazione e giustificazione reciproche, che fanno capo a un principio di legittimazione che “deve fornire da sé la sua propria legittimità”. Ciò potrebbe indurci a credere che tale Grundnorm goda di uno speciale statuto di auto-evidenza, tale da non consentire alcuna resistenza umana alla sua vigente effettualità erga omnes. In realtà, ciò che si presenta come l‟origine e il principio all‟interno del sistema prodotto dal pensiero, e che giace alle spalle di ogni fondazione teorica, riceve la sua autolegittimazione all‟interno del processo storico vitale dalla coscienza comunitaria volta a volta presente in un determinato tempo, e può essere visto come non problematico proprio solo a partir da quest‟ultima.265
E‟ “all‟interno” di una “coscienza comunitaria” che un principio gerarchico trova il suo valore sociale, che dunque ha un valore assoluto solo relativamente al contesto fideistico, ma che non è un valore assoluto all‟esterno della comunità dei credenti. E‟ chiaro pertanto che il principio fondativo dell‟ordine assiologico gerarchicamente valido entro una determinata “struttura spirituale” è un valore (per la comunità dei credenti), mentre non lo è per gli esterni, per gli extra-comunitari, verso i quali esso ha un valore relativo. Il che vuol dire che la negazione in senso logico è immanente a una relativa determinazione, mentre nel senso dell‟ontologia sociale la stessa negazione si determina come esclusione pratica. La 264
M. Heidegger, Dibattito di Davos tra Ernst Cassirer e Martin Heidegger (1929), tr. it. come Appendice in M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica (1929), tr. it. a cura di V. Verra, Roma-Bari (1981), 2000, pag. 219. 265 K. Mannheim, Il carattere specifico della conoscenza sociologico-culturale, tr. it. cit., pag. 7.
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conversione dell‟essere in avere costituisce l‟essenza dell‟attività pratica dell‟uomo, che trasforma il “valore” ideale in “potenza” economica. Per definizione la potenza è sempre relativa all‟altro, al distinto; così come la determinazione dell‟essere è sempre relativa alla opposta negazione logica. Voler concepire la differenza tra la “logica dei distinti” e la “logica degli opposti” come una differenza interna alla struttura spirituale, e quindi le sue rispettive contraddizioni derimibili entrambe col metodo logico, è il limite di ogni idealismo, il quale coniuga tutta l‟esperienza umana col verbo dell‟essere. Viceversa, assumere l‟Essere nei soli termini delle sue possibilità d‟essere, senza considerare ciò che dell‟Essere sussiste oltre ogni determinazione pratica, ogni possibile trasformazione, è il limite di ogni pragmatismo, il quale coniuga tutta l‟esperienza umana col verbo dell‟avere. Ma i due elementi dell‟Essere, ossia l‟unità della sua ontologica sussistenza, e la molteplicità delle sue determinazioni storiche, non sono comprimibili e assimilabili reciprocamente, ma emergono al di sotto di ogni tentativo assimilatore. Si prenda il caso del materialismo di Lukàcs, quando afferma che La prassi viene determinata dall‟essere, dall‟essere sociale […]. La prassi tuttavia postula, di per sé, necessariamente, una immagine del mondo con cui possa armonizzarsi e a partire dalla quale i complesso delle attività della vita si organizzi in un contesto fornito di senso. E‟ chiaro che la scienza e la connessa filosofia in primo luogo sono chiamate a dare una risposta adeguata, oggettivamente corretta: in quanto parti – e parti attive, non funzionali senza attività – dell‟intera realtà sociale, esse non possono ignorare tali richieste provenienti dalla vita quotidiana; anche una risposta negativa, un rifiuto, rappresenta, dal punto di vista del problema che qui ci interessa, una reazione al mandato sociale.266
L‟impostazione onto-sociologica afferma il presupposto che siano “i fatti sociali” a rendere vere o false le teorie, e non già le teorie vere o false a rendere veri o falsi i fatti. La preferenza ad una o ad altra ipotesi, nasce sul diverso presupposto che si stabilisce in merito al rapporto di derivazione originaria. La risposta alla domanda “cosa è originario?”, determina conseguentemente la modalità d‟essere 266
G. Lukàcs, Per Zur Ontologie des gessellschaftlichen Seins, tr. it. Roma, 1976, vol. I, pag. 9.
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dell‟Essere, ossia la sua “validità” assiologia. Ed è tale opzione originaria a determinarne la validità ontologica. Orbene, questa opzione originaria, in quanto tale, non è, per chi l‟adotta, derivata da altri presupposti, ma è valida in sé. Viceversa, la stessa opzione, per chi la scarta, è relativa a ciò che Lukàcs chiama “contesto fornito di senso” e che Mannheim attribuisce a ogni “struttura spirituale” dell‟uomo. Ma, in conseguenza della possibilità che i credenti oltrepassino, per le ragioni più diverse, il confine della fede e ne smarriscano perciò il suo valore assoluto, essi acquisiscono la consapevolezza della relatività della credenza e della sua auto-referenzialità all‟interno del suo [della fede] contesto di senso. Da questa condizione relativistica, da cui nasce lo scetticismo, nasce anche come suo correttivo il bisogno di una definizione assoluta che risolva in senso epistemico le possibili negazioni pratiche. I “problemi della vita quotidiana che emergono nella situazione storica data”, argomenta a proposito Lukàcs, non ricevono sempre “risposte soddisfacenti” da parte degli uomini nel quadro della loro “vita terrena”, provocando così la forza che possiedono le religioni viventi di progettare una ontologia la quale provveda un quadro adeguato al soddisfacimento di quei desideri: una immagine del mondo in cui i desideri che trascendono l‟esistenza quotidiana degli uomini, insoddisfatti nella vita quotidiana, acquisiscono la prospettiva di venir appagati in un aldilà fatto valere con pretesa ontologica. L‟ontologia religiosa sorge dunque per la via opposta a quella dell‟ontologia scientifico-filosofica: questa indaga la realtà oggettiva per scoprire lo spazio reale per la prassi reale (dal lavoro all‟etica); quella muove dai bisogni di un comportamento verso la vita, dai tentativi di dare un senso alla propria vita da parte dei singoli uomini della quotidianità e costruisce una immagine del mondo che, semmai, potrebbe costituire una garanzia di appagamento per quei desideri che si fanno sentire nel bisogno religioso.267
Se fosse vero, come Lukàcs afferma, che “la prassi viene determinata dall‟essere sociale”, allora non si comprenderebbe il bisogno umano di “progettare una ontologia” che li rassicuri di fronte agli scacchi della vita, ossia alla constatazione dei limiti connaturati alla loro condizione di esseri finiti. Il concetto di finitezza, infatti, si oppone a quello di totalità; e se ciò è vero, come è vero, la stessa finitezza deve essere 267
G. Lukàcs, Op. cit., pagg. 9-10.
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delimitata dalla sua negazione, ossia da ciò che finito non-è, ma è assoluto. La domanda a questo punto è la seguente: può l‟essere finito, anche se inteso collettivamente come essere sociale, determinare un valore di natura assoluta, ossia infinita? Se la risposta è negativa, per cui si afferma che l‟uomo non sia in grado di assicurare la sua vita relativa a valori che non siano relativi, allora il bisogno di trascendere la finitezza umana è una superstizione da combattere. Ma il “combattere” non equivale al comprendere, e perciò riguarda un‟attività diversa da quella del filosofo, il quale invece è chiamato al compito di spiegare quel bisogno umano. E che si tratti di un bisogno assolutamente umano, e non relativo a un determinato “contesto di senso”, lo conferma lo stesso filosofo materialista ne ricostruisce la storia. Fino a Socrate, scrive Lukàcs, l‟oggettivismo del “monismo cosmico” pensato dai filosofi “restò predominante nella cultura greca”. Ma la situazione spirituale, che aveva fino ad allora confutato i miti dei poeti con argomenti razionali, cambia con “la crisi della polis”, con la quale “il peso assunto dai problemi morali, pongono al centro della filosofia l‟umano, il problema della prassi corretta”. Platone è il primo filosofo che, per rispondere alla domanda “che fare?” nella polis in dissolvimento, come base dei suoi tentativi di soluzione progetta una ontologia la cui concezione della realtà, la cui immagine del mondo vuol garantire che i postulati morali ritenuti indispensabili per la salvezza della polis possono essere fissati come possibili e necessari. Per tale via entra nella vita europea il dualismo ontologico che caratterizza la massima parte delle religioni e in primo luogo il cristianesimo: da un lato il mondo degli uomini, da cui montano i bisogni religiosi e l‟anelito verso una loro appagabilità, dall‟altro lato un mondo trascendente il quale, con la sua costituzione ontologica, è chiamato a fornire prospettive e garanzie di tale appagabilità”.268
In realtà, questa ricostruzione non chiarisce, con la genesi storica, le ragioni del dualismo ontologico, per la semplice e già nota ragione che dai “fatti” non si possono inferire le “realtà spirituali”, ossia le essenze. Per cui, le religioni nascono dal bisogno di definire l‟Essere in termini essenziali, e la scoperta del bisogno, ossia l‟occasione storica della sua coscienza, non è il fondamento ontologico del 268
G. Lukàcs, Op. cit., pag. 11.
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bisogno, ma soltanto il suo inizio di validità. Ritenere che la genesi dell‟essere (nella fattispecie, il bisogno di trascendenza) sia lo stesso della sua ragione essenziale, è la credenza di ogni storicismo, che è una forma di “monismo cosmico”, che riduce l‟Essere alla sua realtà molteplice, cioè ai suoi fenomeni. Tra tali fenomeni, privi di ogni qualità essenziale, rientra anche i “fenomeni culturali”, intesi quali “tipi specifici di relazione esperienziale”, e come tali analizzabili fenomenologicamente alla stregua di ogni altro “fatto” umano. Il rischio che si annida in questo tipo di analisi - lo abbiamo ricordato supra con le obiezioni di Lukàcs al metodo inaugurato da Husserl – è che la dialettica delle forme di coscienza si trasformi in “lotta delle sfere culturali”,269 con la conseguenza che si viene a perdere così la relazione, o “mediazione”, che sempre esiste tra il bisogno d‟essere come contenuto ideale, e la sua espressione formale, legata alla sua relativa possibilità d‟essere. La dialettica tra l‟Essere (che è Uno e non altro) e il molteplice poter-essere (così anziché altrimenti) è la dinamica stessa della storia umana, individuale come delle culture storiche; dinamica che l‟analisi fenomenologica “mette tra parentesi” perché dell‟esperienza vissuta considera e analizza come suo oggetto la cultura in quanto “immagine del mondo” astratta dal suo contesto valoriale, cioè effettuale, e non come concreto “valore” produttivo di reale senso esistenziale. Ora, considerare un “concetto” come un “fatto” significa attribuire al concetto i caratteri di possibilità di trasformazione pratica propri dei prodotti molteplici, ovvero al fatto i caratteri di totalità propri all‟idea, con il rispettivo esito di considerare come idea compiuta un processo storico che per definizione è diveniente, e quindi possibile allo stesso modo di sviluppo e di reversioni. Senza la dialettica dell‟esser e del divenire, non si comprende, non già e non tanto il mutamento culturale, ma il senso del suo processo non pre-determinabile e quindi non necessario. Cioè i senso della libertà. La prova della unilateralità del metodo fenomenologico è offerta dallo stesso Mannheim allorquando afferma che il “processo” spirituale diventa “accessibile alla riflessione” 269
K. Mannheim, Il carattere specifico della conoscenza sociologico-culturale, tr.it. cit., pag. 7.
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dal momento in cui la scala delle valutazioni e delle attribuzioni di senso non si presenta più come una realtà fissa e stabile, nata con le cose stesse, ma diviene afferrabile in quanto mutamento di valutazioni e attribuzioni di senso verificabile all‟interno della vita di una singola generazione.270
Ciò vuol dire che l‟originaria “realtà fissa e stabile”- ossia assunta nella fissità e stabilità di un‟idea, di una entità ideale – si afferra quando “diviene” altro-da-sé, ossia muta appunto in uno dei possibili fenomeni molteplici, per cui non si ha più un valore ideale ma più fatti sociali. E solo dopo la riduzione del processo ideale alla molteplicità delle sue forme storiche, interviene l‟analisi scientifica dei fenomeni stessi. Ma non era questo, a noi pare, l‟intenzione metodologica di Husserl, la cui riduzione fenomenologica del suo oggetto d‟analisi era una operazione della coscienza, e non una condizione sociologica di empirica “verificabilità” del dato, ontologicamente considerato sussistente e non ricavato attraverso l‟èpoché. Nei processi culturali dell‟età moderna vengono isolati tre “tipi fondamentali di stabilizzazione della coscienza del mondo” corrispondenti a quelli “illuministico, romantico e dinamico”, che hanno prodotto i rispettivi “valori” essenziali intorno ai quali si è strutturata la forma o l‟ordine del mondo: il tipo illuministico, la “cultura come un fine in sé”; il tipo romantico, la cultura come “dimensione storica”; il tipo dinamico “costituisce una sintesi delle prime due soluzioni” e concepisce il processo del divenire “come un valore in sé”.271 La esperienza di un fondamento culturale considerato valido “in sé”, è consentita da un vissuto in cui “la cultura non è esperita come cultura” ma come “una seconda natura”, alternativa a quella originaria contro cui si oppone la cultura in quanto tale, ma avente lo stesso grado di immedesimazione spontanea del soggetto col suo mondo. Non è difficile rintracciare in questo mondo spontaneo il mondo-della-vita, nel quale la cultura non viene concepita come un valore dissociato dall‟esistenza ma come semplicemente esistente.272 Il concetto di cultura “emerge” quando “un‟esperienza culturale data si è già completamente vanificata”, per cui se essa un tempo era esperite 270
Ivi, pag. 8. Ivi, pagg. 9-11. 272 Ivi, pag. 14. 271
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come natura, ora viene esperita come fosse “un prodotto”. In altri termini, “la cultura diventa un valore quando ha cessato di esistere come tale”, sicché il “valore” è una acquisizione succedanea alla “sfera dell‟essere”.273 Rispetto al tempo serotino della coscienza filosofica secondo Hegel, il tempo del “valore” qui inteso non chiude il ciclo dell‟auto-coscienza ma subentra come un “dopo” al “prima” dell‟esperienza vissuta, per cui la coscienza culturale non è un succedaneo logico ma storicosociologico, non un‟operazione della riduzione fenomenologica del suo oggetto dal mondo-della-vita, ma una delle dimensioni fasiche del divenire della realtà ontica, dove i momenti della coscienza vengono oggettivati in determinazioni storiche reali. Ed è questa operazione di oggettivizzazione dei momenti della coscienza in fasi storicoesistenziali od ontico-sociologiche, propria di ogni scienza empirica, a spostare la dimensione pre-razionale dell‟esperienza umana dal mondo sociale o mondo-della-vita alla natura, intesa come opposizione ontologica alla cultura, rispetto alla quale essa si concepisce come la realtà “che non può essere penetrata dalla dimensione spirituale, che è indifferente al valore e che non è sottoposto al processo storicospirituale”. Da queste premesse oggettivistiche, il processo di autocoscienza razionale cui è identificata la fase “culturale” dell‟esperienza umana, si dispiega come lo stesso processo di umanizzazione della natura, trasformata in prodotto esistentivamente opposto, e cioè in “cultura”, per cui di conseguenza “quanto più l‟uomo diventa consapevole della sua determinatezza storica, tanto meno gli è possibile cogliere ciò che gli si presenta nel suo mondo interno o esterno come qualcosa di stabile nel modo della natura”.274 Si noti l‟asserita in distinzione tra il “dentro” e il “fuori” della coscienza umana e il parallelo ricostituirsi della dicotomia dell‟Uno e del Molteplice, identificati il primo con la natura e il secondo col divenire dei processi spirituali. Ma, considerata la stabilità naturale, come si spiega il passaggio culturale? Infatti, non si spiega, ma semplicemente si postula come condizione negativa funzionalmente opposta all‟emersione della condizione positiva.
273 274
Ivi, pag. 15. Ivi, pag. 16.
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Anche se il senso storico nel suo sviluppo costante rende mobile ogni cosa, mostrando come nulla rimanga identico a se stesso, eternamente fisso e come tutto sia sottoposto ad un costante cambiamento […], le credenza in un‟eterna uguaglianza della natura umana persiste ancora per lungo tempo. Ed è proprio solo tale credenza a rendere possibile qualcosa come una psicologia statica. Ma quanto più il concetto di cultura è concepito come essenzialmente storico, tanto più il modo storico di guardare alle cose, e di conseguenza lo storicismo, diventano il modo per eccellenza di considerare il mondo interno. […] il concetto di cultura, nella sua espansione, assorbe sempre più questo fatto, e ciò che viene lasciato fuori è uno strato minimo, la nostra vita istintiva e la nostra sensibilità. Ora solo questa dimensione è chiamata natura, non sulla base di una valutazione [si noti!], ma a causa della sua estraneità al mondo del significato e della sua a-storicità.275
La conseguenza essenziale della oggettivazione pragmatistica dell‟esperienza umana è la negativizzazione ontica della opposizione logica, tale che i processi ideali della coscienza, divenuti esistentivi, vengono realmente negati nei termini del loro annullamento pratico. E dove la mediazione logica diventa funzione pratica, ciò che era la sintesi ideali diventa il dominio socio-politico, e gli enti di ragione, ipostasi ideologiche. A questo punto diventa imprescindibile chiarire il discorso fenomenologico di Husserl, al fine di una formale o implicita comparazione con gli sviluppi delle analisi che ad esso in guise diverse si rifanno. Nelle tesi di Mannheim, come abbiamo visto, il pensiero valutativo è un succedaneo storico del pensiero ingenuo e pre-razionale, solo che, dal punto di vista della metodica scientifica, il pre-scientifico è il pensiero filosofico, così come rispetto a questo era stato il pensiero mitico. Ora, esattamente questa prospettiva scientistica, che, com‟è noto, era stata la teoria caratteristica del positivismo, prima, e poi del pragmatismo, viene messa in radicale discussione dal discorso ontologico di Husserl, che si dispiega come la critica filosofica più radicale del pensiero (pseudo-)scientifico moderno. Il “significato positivo” del sapere scientifico moderno va posto, secondo il fondatore del pragmatismo, Peirce, in relazione al “modo di agire che è stato in grado di provocare questo pensiero”.276 La conoscenza ridotta a modalità dell‟azione, significa che l‟oggetto della 275 276
Ivi, pagg. 16-17. M. Scheler Erkenntnis und Arbeit, tr. it. cit., pag. 118.
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conoscenza, ovvero ciò che si indica con questa, coincide con la “rappresentazione” degli “effetti pratici” di tale oggetto, cioè con le sue “conseguenze”,277 per cui il rapporto verità/errore si risolve nei termini del successo/insuccesso nell‟agire sul mondo, determinato sulla base di una produzione di ipotesi fondate su teorie sostenute da relative “condizioni di verifica”, comprovanti il loro carattere scientifico.278 La condizione di validità della conoscenza scientifica è tutta interna a questa “spiegazione” pratica dei fenomeni reali, in cui il “progetto concettuale – azione, sensazione, osservazione, nuova azione – si plasma allo stesso tempo come un mondo del senso e dei fatti (come un cosmo)”.279 La crisi di una tale prospettiva gnoseologica, per la sua stessa caratteristica pragmatistica escludente ogni invalidazione teorica di tipo razionalistico, non investe la sua “scientificità”, cioè “il modo in cui si è proposta i suoi compiti e perciò in cui ha elaborato la propria metodica”, ma ciò che “le scienze in generale hanno significato e possono significare per l‟esistenza umana”,280 ossia il loro stesso carattere eudemonistico. Il “punto di partenza” della crisi delle scienze è la loro incapacità a garantire il mantenimento e la crescita di quella “prosperity” che aveva promesso all‟umanità e che questa aveva accolto come una fede religiosa. La affermazione generale di questa moderna fede ha come premessa il “rivolgimento rivoluzionario” praticato nel Rinascimento dei modi di esistenza proprii del cosmo medievale, che ha affermato forme nuove ispirate all‟antropologia razionalistica classica. La nuova cultura considera essenziale dell‟uomo antico […] nient‟altro che la forma “filosofica” dell‟esistenza: la capacità di dare liberamente a se stessa, a tutta la propria vita, regole fondate sulla pura ragione, tratte dalla filosofia. La prima cosa è la teoresi filosofica. Dev‟essere messa in atto una considerazione razionale del mondo, libera dai vincoli del mito e della tradizione in generale […] che proceda in un‟assoluta indipendenza dai pregiudizi […]. La filosofia, in quanto teoria, non rende libero soltanto il filosofo, ma anche qualsiasi uomo che si sia formato sulla filosofia. All‟autonomia teoretica succede quella pratica. Nell‟ideale del Rinascimento l‟uomo antico è quello che 277
Ivi, pag. 119. Ivi, pag. 120. 279 Ivi, pag. 122. 280 E. Husserl, Die Krisis der europaischen Wissenschaften und die traszendentale Phanomenologie (1954), tr. it. cit., pag. 35. 278
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plasma se stesso esclusivamente in base alla libera ragione. Per il rinnovato “platonismo” ciò significa: occorre riplasmare non soltanto se stessi eticamente, ma anche l‟intero mondo circostante, l‟esistenza politica e sociale dell‟umanità in base alla libera ragione, in base alle intellezioni di una filosofia universale. 281
Il concetto moderno di filosofia ha progressivamente perduto l‟originario senso classico di “scienza onnicomprensiva, di scienza della totalità dell‟essere”, fino a giungere, col positivismo, a un concetto residuale, che “ha lasciato cadere tutti quei problemi che erano stati inclusi nel concetto […] di metafisica” e che si rapportano a “una loro inscindibile unità”, in quanto “contengono i problemi della ragione in tutte le sue forme particolari”. Infatti, La ragione è il tema esplicito delle discipline della conoscenza […]; la ragione è cioè un titolo sotto cui si raccolgono le idee e gli ideali “assolutamente”, “eternamente”, “sopra-temporalmente”, “incondizionatamente” validi. Se l‟uomo diventa un problema “metafisico”, specialmente filosofico, lo diventa in quanto essere razionale; se è in discussione la storia, si tratta sempre di riconoscerne il “senso”, di riconoscere, nella storia, la ragione […]. Tutti questi “problemi metafisici” […], filosofici nel senso corrente, travalicano il mondo in quanto universo di meri fatti. Lo travalicano appunto in quanto problemi che mirano all‟idea della ragione.282
In tal senso, afferma Husserl, “il positivismo decapita per così dire la filosofia”, concentrandosi, a scapito di ogni altra modalità di conoscenza, sulla osservazione sensibile allo scopo unico di decidere il valore scientifico-positivo di un problema, che pertanto diventa il senso stesso di esso. E‟ infatti proprio il compito specifico di ogni scienza positiva quello di escludere tutte le questioni essenziali, tutte le questioni relative alla costituzione del mondo, per conservare, nell‟ambito delle questioni sensate, solo quelle per la cui risoluzione può essere fissata un‟azione che decida le due conseguenze di una alternativa oppure di una completa disgiunzione, permettendo di accertare la reazione da attendersi dal mondo (alla nostra azione) [con lo scopo] di far giungere l‟essere delle cose solo fin dove le cose agiscono sulle nostre possibili azioni, determinandole in modo diretto o indiretto.283
281
Ivi, pag. 37. Ivi, pagg. 38-39. 283 M. Scheler Erkenntnis und Arbeit, tr. it. cit., pag. 126. 282
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La rinuncia alla conoscenza dell‟essere delle cose, ossia alla metafisica conoscenza delle sue strutture essenziali, coincide con la rinuncia a pensare il mondo come totalità, rispetto alla quale il soggetto e ogni suo possibile punto di osservazione sono altro da ciò che il mondo è. Ciò che la metafisica pone positivamente come essente assoluto – e non solo per la possibile azione e reazione di un essere vitale rispetto ad un mondo relativo circa il suo esistere ed essere-così – si rivolge solo al senso e al significato di quelle intuizioni e di quei pensieri che hanno a che fare con la struttura essenziale della totalità del mondo, vale a dire a quel pensiero essenziale del mondo che rimane lo stesso anche dopo ogni possibile trasformazione pratica del mondo legata ai nostri interventi.284
Ciò vuol dire che la rimozione del problema delle conoscenze ontologiche della realtà fa della conoscenza scientifica un azzardo, un pari la cui “ipotesi” è destinata a essere confermata o smentita in relazione alla sua conformità o non a un fondamento d‟essere che rimane ignoto e misterioso, e che si rivela empiricamente solo a posteriori, come evento decisivo e risolutorio della scommessa teorica. E‟ questa modalità gnoseologica a trasformare la cultura scientistica in irrazionalismo e superstiziosa attesa di una esaudizione delle previsioni che sa di attesa miracolosa in quanto ignota la struttura logica della sua fenomenologia. Ed è in questa eterogenesi dei fini che va rinvenuta la crisi del razionalismo moderno, generatore di mostri. La ricaduta religiosa della moderna conoscenza scientifica è conseguente alla rimozione del sapere come mediazione tra la coscienza razionale del mondo e l‟essenza del reale. Il sapere, vale a dire lo scopo di ogni “conoscenza” come attività spontanea, non è raffigurazione né della cosa stessa, né delle sue relazioni […]. Il sapere è piuttosto in senso assolutamente formale partecipazione di un essente all‟esser-così di un altro essente, senza modificazione di questo esser-così. Soltanto l‟esistenza di una cosa rimane sempre e necessariamente al di là del sapere e della coscienza ed è come tale trasintelligibile.285
L‟esteriorità alla coscienza della esistenza non significa, però, inconoscibilità dell‟esser-così delle cose se non per “immagini”, come pensa il realismo critico; così come 284
Ivi, pag. 126. Ivi, pag. 135.
285
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altrettanto falso, come pensa qualsiasi tipo di idealismo della coscienza, non solo considerare l‟essere stesso delle cose (dove l‟idealismo rispetto ad ogni realismo critico ha ragione) ma anche l‟esistenza come ciò che può essere posto in mente, perciò negando ogni realtà trascendente al sapere e alla coscienza (nella qual cosa l„idealismo rispetto al realismo critico è in errore). Ora, non riconoscendo questa idea di sapere, anche il pragmatismo non ha fatto altro che sopprimere la stessa “ragione umana”. Per entrambe le teorie – il realismo critico e l‟idealismo della coscienza – il proton pseudos è appunto l‟inseparabilità dell‟esser-.così e dell‟esistenza in rapporto “all‟essere in mente”, vale a dire in rapporto alla relazione di entrambi (dell‟esser-così e dell‟esserci) con lo spirito. Se l‟intero fenomeno intuitivo di un oggetto ed il suo pieno senso intellettuale coincidono, allora è proprio questa coincidenza il criterio del fatto che l‟essere così dell‟oggetto “stesso” s‟illumina nel nostro spirito; “l‟evidenza” del sapere è soltanto il sapere riflessivo di questo essere “evidente” dell‟oggetto. 286
La legittima critica alla “cosiddetta teoria della raffigurazione del sapere” a opera del pragmatismo, viene estesa però anche al rapporto ontologico col mondo, ossia a quel significato oggettivo che precede ogni nostra significazione concettuale, e che rende il sapere “adeguato o non adeguato, in relazione alla pienezza dell‟essere-così dell‟oggetto”, essendo false o vere “soltanto le proposizioni, vale a dire i correlati di senso ideali immanenti ai nostri giudizi”,287 a seconda che siano in concordanza o meno con l‟evidente essere-così del loro oggetto di conoscenza. A titolo di verifica della veracità di una ipotesi conoscitiva, e cioè di una proposizione, il pragmatismo introduce il criterio delle “conseguenze pratiche effettive o solo pensate del pensiero oppure dell‟intuizione, la possibile trasformazione del mondo attraverso queste”, ossia sostituendo al criterio della verità con quello della utilità, intesa come “incremento alla vita”.288 Ma, potendo essere questo criterio non coincidente con una prospettiva vitale concorrente, il relativismo della conoscenza si traduce in conflittualità di interessi nelle relazioni pratiche, in economicismo, dove viene a cadere ogni tensione sintetica verso l‟unità di senso ed etica, sostituita con il compromesso pattizio, che è il correlativo pratico dell‟accordo teorico convenzionale in sede scientifica. 286
Ivi, pagg. 135-136. Ivi, pag. 136. 288 Ibidem. 287
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La “fondazione originaria” dell‟epoca moderna è costituita da “un ideale definito”, che è quello di una “filosofia universale e di un metodo adeguato”. La “dissoluzione” di quell‟ideale fece sì che al suo posto sorse “una serie di filosofie sistematiche molto imponenti ma disgraziatamente incapaci di giungere a un accordo, anzi reciprocamente ostili”, determinando “un sentimento sempre più inquietante di fallimento”, la cui conseguenza fu “un curioso mutamento di tutto il pensiero” che investiva, cn la possibilità della metafisica, la stessa “possibilità di tutta la problematica razionale” 289 Infatti, Il problema della possibilità della metafisica implicava eo ipso anche quello della possibilità delle scienze di fatto, che appunto nell‟inscindibile unità della filosofia avevano il senso della loro relazione, il senso di verità valide per meri settori dell‟essere. E‟ possibile separare la ragione e l‟essente se è proprio la ragione che, nel processo conoscitivo, determina ciò che l‟essere è? 290 La filosofia, come
strumento di rinnovamento dell‟umanità europea moderna, è la ragione stessa del suo carattere universale, per cui la sua crisi diventa una crisi, dapprima latente e poi sempre più chiaramente evidente, dell‟umanità europea, del significato complessivo della sua vita culturale, della sua complessiva “esistenza”. La scepsi rispetto alla possibilità di una metafisica, il crollo della fede in una filosofia universale capace di guidare l‟uomo nuovo, indica appunto il crollo della fede nella “ragione”, nella ragione intesa nel senso in cui gli antichi contrapponevano l‟episteme alla doxa. […] Così cade anche la fede in una ragione assoluta che dia senso al mondo, la fede nel senso della storia, nel senso dell‟umanità, nella sua libertà in quanto attiva possibilità dell‟uomo di conferire un senso razionale alla sua esistenza umana individuale e umana in generale.291
Non si tratta più di uno scacco occasionale, ma di uno scacco fondamentale, riguardante cioè i fondamenti stessi del sapere razionale, a partire dall‟unicità del mondo, lacerato dalla “discrepanza delle nostre validità d‟essere”, e costituito dalle “stesse cose, le quali, semplicemente, appaiono in modo diverso”.292 Occorre perciò ricuperare il “senso autentico del razionalismo” che allontani dalla 289
E. Husserl, Die Krisis der europaischen Wissenschaften und die traszendentale Phanomenologie (1954), tr. it. cit., pagg. 40-41. 290 Ivi, pag. 141. 291 Ivi, pag. 42. 292 Ivi, pag. 53.
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“irrazionalità” in cui infine consiste “la cattiva razionalità della ragione pigra, che si sottrae alla lotta per il chiarimento dei dati ultimi e dei fini e dei mezzi che essi suggeriscono in un modo definitivamente e veracemente razionale”.293 Nel procedere alla disamina della fondamentale impostazione husserliana del metodo fenomenologico, che è alla base delle successive letture filosofiche di Scheler e di Heidegger, ci occorre ricordare che tale metodo, definito dal suo stesso autore “scettico ma non negativo”, si proponeva di provocare “un mutamento fondamentale ed essenziale del senso complessivo della filosofia” moderna, mostrando “come tutta la filosofia del passato fosse orientata, anche se non coscientemente, verso questo [nuovo] senso della filosofia”, ricavato penetrando “attraverso la crosta dei „fatti storici‟ esteriori della storia della filosofia, indagandone, provandone, verificandone il senso intimo, la nascosta teleologia”, rivelandone quindi – e qui sta l‟aspetto problematico sul quale è necessario riflettere - “la possibilità pratica di una nuova filosofia: di una filosofia – precisa Husserl – che va attuata attraverso l‟azione”.294 Il richiamo alla “azione” nel contesto della crisi dei fondamenti epistemologici dello scientismo moderno non va considerato una superfetazione enfatica di un programma di ricerca teoretica, senza credibili conseguenze sulla generale concezione dello stesso metodo fenomenologico. Esso, di contro, va còlto come la confessione incidentale del proposito di riprendere l‟originaria ispirazione del pensiero moderno di riallacciarsi allo spirito della filosofia antica oltre la parentesi della sua fallimentare piega scientistica anti-metafisica. In altri termini, l‟intento di Husserl fu quello di superare la crisi del pensiero moderno contendendo ad altre ipotesi rivoluzionarie la ridefinizione razionale del cosmo europeo-universale, considerando pacificamente assodata e irreversibile la frattura operata dal razionalismo moderno, idealmente eversiva dell‟ordine cosmologico cristiano, fondato sulla divisione razionalmente insuperabile della sfera del pratico da quella del teoretico. In questo preciso senso totalistico, il riconfermato recupero del pensiero antico costituisce una indiretta denuncia del carattere anti-filosofico dell‟età cristiana, 293 294
Ivi, pag. 45. Ivi, pag. 47.
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incapace di pensare in termini di totalità, e quindi di corrispondenza necessaria tra il mondo delle essenze e quello fenomenico, tra quello della coscienza razionale e quello della realtà mondana. Il superamento di ogni “ingenuità” del razionalismo moderno si deve quindi leggere come la confutazione di ogni residuo religioso nel pensiero filosofico. E non c‟è chi non veda l‟analogia di questa prospettiva di Husserl con quella avanzata dall‟altra grande personalità filosofica tedesca di origine ebraica, con quella di Marx. Alla dialettica marxiana tra uomo e natura, Husserl afferma la contrapposizione tra la realtà “ingenua” del mondo-della-vita e coscienza fenomenologica, alle cui rispettive appartenenze corrisponde una precisa divisione del lavoro socio-teoretico, e alla marxiana “produzione materiale” la husserliana “esperienza trascendentale”. In entrambi i casi, il totalismo delle rispettive prospettive si costituisce come identità dell‟unità filosofica del reale con la molteplicità del mondo fenomenico, per cui l‟opposto approccio teoretico delle due prospettive totali risolve la distinzione ontologica originaria dell‟Idea unitaria e del mondo molteplice in una interscambiabile relazione di corrispondenze logico-razionali tali da individuare nella prospettiva prescelta come modello metafisico la sfera privilegiata di commisurazione veritativa, entro la quale omologare il diverso molteplice riducendolo all‟eterno stesso, o viceversa. La “società borghese” di Marx è la società moderna di Husserl, entrambe fondate su un‟antropologia di tipo individualistico il cui “astratto” o “ingenuo” razionalismo rappresenta l‟elemento comune o “produzione in generale” da cui partire per una critica dei suoi costrutti gnoseologici e la definizione del rapporto esistente tra la “rappresentazione scientifica” del mondo e il “movimento reale” della società, attraverso la individuazione e la critica di supposte “leggi universali umane” (Marx) e delle “strutture formali-generali del mondo-della-vita” (Husserl). Alla affermazione marxiana del primato del lavoro, per cui “ogni produzione è appropriazione della natura da parte dell‟individuo entro e mediante una determinata forma di società”,295 corrisponde in Husserl l‟affermazione che 295
K. Marx, Introduzione a “Per la critica dell‟economia politica”, tr. it. di E. Cantimori Mezzomonti, in Per la critica dell‟economia politica, Roma (1957), 1979,
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soltanto attraverso un mutamento totale dell‟atteggiamento naturale, un mutamento per cui noi non viviamo più come prima, in quanto uomini dell‟esistenza naturale, nella costante partecipazione alla produzione delle validità del mondo già dato […] possiamo penetrare ciò che il mondo è in quanto terreno di validità della vita naturale,nei suoi propositi e nelle sue attuazioni e, correlativamente, ciò che la vita naturale e la sua soggettività in definitiva sono, la soggettività in quanto pura soggettività che funge nella produzione delle validità. La vita che attua la validità del mondo nella vita mondana naturale non può essere indagata restando nell‟atteggiamento della vita naturale mondana. Occorre un rivolgimento totale, un‟epoché universale assolutamente peculiare.296
La epoché quale messa in parentesi della storia può sembrare un movimento opposto a quello marxiano di storicizzazione dei rapporti di produzione, in realtà, però, operano entrambi nel senso del superamento “rivoluzionario” dei concreti rapporti storici tra gli uomini entro il loro concreto e mutevole Horizonthaftigkeit della relativa vita mondana. Lo Smith di Marx è stato il Galileo di Husserl, e il Ricardo dell‟uno il Cartesio dell‟altro. Galileo, infatti, definisce attraverso la matematica una metodica tesa a superare la “relatività del‟apprensione soggettiva” propria del mondo empirico-intuitivo, al fine di giungere a “una verità identica”, cioè alla conoscenza, progressiva e migliorativa, di un “essente in sé”. Ed è a questo punto che si stabilisce quella corrispondenza tra “forme astratte puramente ideali” e “forme empiriche reali o possibili” quali “forme” intuitive di una “materia” costituente “un plenum sensibile”, entro il quale “i mutamenti […] non sono casuali o arbitrari, bensì reciprocamente ed empiricamente dipendenti, in modi sensibilitipici”,297 e tali da stabilire la loro “inerenza reciproca” tra “ciò che lega il loro essere e il loro essere-così (Sosein)”. Se prendiamo il mondo intuitivo nella sua totalità […] esso ha la sua “abitudine”, la tendenza a continuare e esistere così come adesso è. Così il nostro mondo circostante empiricamente intuitivo ha un suo stile empirico complessivo. Anche se noi possiamo pensare questo mondo fantasticamente mutato e anche se possiamo cercare di pag. 175. 296 E. Husserl, Die Krisis der europaischen Wissenschaften und die traszendentale Phanomenologie (1954), tr. it. cit., pag. 176. 297 E. Husserl, loc. cit., pag. 59.
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rappresentarci il futuro decorso del mondo, in ciò che ci è ignoto, “così come potrebbe essere”, nelle sue possibilità: necessariamente noi ce lo rappresentiamo nello stile in cui noi abbiamo il mondo e in cui l‟abbiamo avuto finora. Possiamo giunger a un‟espressa coscienza di questo stile nella riflessione e attraverso una libera variazione di queste possibilità. Possiamo così tematizzare lo stile generale invariabile in cui questo mondo intuitivo persiste nel flusso dell‟esperienza totale. Appunto così ci accorgiamo che, in generale, le cose e gli eventi non si manifestano e nn si sviluppano arbitrariamente, che sono bensì legate “a priori” da questo stile, dalla forma invariabile del mondo intuitivo; in altre parole: che attraverso una regolamentazione universale causale, tutto ciò che è insieme nel mondo ha un‟inerenza reciproca generale, mediata o immediata, per cui il mondo non è soltanto una totalità, bensì un‟unità totale (Alleinheit), un tutto (anche se infinito).298
Ora, se questo “stile causale universale del mondo circostante intuitivo” consente le “ipotesi” scientifiche, ossia “le induzioni, le previsioni su ciò che ci è ignoto del presente, del passato e del futuro”, nella “vita conoscitiva pre-scientifica” nn ci è concesso di andare oltre il “tipico”, entro la cui “vaga coscienza della totalità” siamo “impigliati”. Per superare la “evidenza della vuota generalità” e giungere a una “conoscenza scientifica del mondo” occorre una “filosofia” che superi i limiti della obiettivazione del mondo consentita dalla “geometria ideale”, consistenti “nel fatto che quei plena materiali che integrano concretamente i momenti spaziotemporali delle forme del mondo corporeo […] non possono venir trattati direttamente come le forme stesse”. Ma, poiché Tutti i momenti dell‟intuizione esperiente manifestano qualcosa di questo mondo [che è] unico e medesimo […], esso diventa raggiungibile per la nostra conoscenza obiettiva quando quei momenti […] che noi astraiamo, e che non sono direttamente matematizzabili, diventano appunto matematizzabili indirettamente.299
Che cosa rende “impossibile di principio una ma tematizzazione diretta”? E che cosa “produce l‟esattezza” delle “qualità specificamente sensibili dei corpi”? Tenuto conto che “noi abbiamo soltanto una forma universale del mondo, e non due, disponiamo soltanto di una e non di una duplice geometria dei plena”. [Ivi, pag. 64.] La risposta di Galileo è, com‟è noto, che è la matematica a consentire il “regno della conoscenza autentica e obiettiva” dell‟uomo 298 299
Ivi, pag. 60. Ivi, pag. 63.
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“moderno”, costituendo il “punto focale” imprescindibile “per la conoscenza filosofica del mondo e per una prassi razionale”. La “totalità”, propria del pensiero filosofico, viene dunque concepita come una corrispondenza nel mondo fenomenico dell‟unità ideale della coscienza teoretica, per cui il metodo matematico veniva esteso in senso “universale”. Galileo non considerava “un‟ipotesi” quella che “un‟induttività universale domina il mondo intuitivo”, ma “ammetteva come ovvio che la matematica pura fosse universalmente applicabile”. Infatti, per lui Devono esistere metodi di misura per tutto ciò che la geometria e la matematica delle forme comprendono nella loro idealità e nel loro a-priori. L‟intiero mondo concreto deve dimostrarsi matematizzabile-obiettivo, purché si risalga alle singole esperienze, e si misuri realmente tutto ciò che di esse si deve presupporre subordinato alla geometria applicata, se si elaborano cioè adeguati metodi di misura. Se si fa questo, il lato degli eventi specificamente qualitativi deve matematizzarsi indirettamente.300
L‟ovvietà galileiana includeva anche l‟affermazione di una “causalità esatta universale […] che precede e guida tutte le induzioni di causalità particolari”,301 la quale non era molto dissimile da quella teleologia che lo stesso Husserl, come abbiamo visto, voleva ricercare sotto i fenomeni storici, e che rappresenta il retaggio secolarizzato della volontà provvidenziale per cui ogni evento va riportato alla volontà del suo artefice, essendo la “causa” la proiezione fenomenica della stessa “volontà” dell‟agire razionale, cioè prevedibile e tipico. Questa causalità universale idealizzata abbraccia nella sua infinità idealizzata tutte le forme e i plena fattuali. […] Le singole cose e i singoli accadimenti pienamente concreti, oppure i modi in cui i plena e le forme fattuali stanno in un rapporto di causalità, devono essere assunti nel metodo. L‟applicazione della matematica ai plena realmente dati della forma pone, già in virtù della concrezione, presupposti causali, che devono essere portati alla determinatezza. 302
La universalizzazione del metodo di misura rientra nella ipotesi ideale della matematizzazione di ogni forma geometricamente pensabile, per
300
Ivi, pag. 67. Ivi, pag. 68. 302 Ivi, pag. 69. 301
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cui essa costituisce un autentico postulato “a-priori”,303 pur restando una “ipotesi” scientifica, soggetta a una “verificazione infinita”.304 Questa caratteristica si riflette sul procedimento metodico stesso della scienza naturale, la quale esprime nel contempo “un senso generale per quanto abbia sempre a che fare con qualcosa di individualefattuale”,305 per cui i riscontri empirici conseguiti dall‟indagine naturalistica sono il risultato conforme di quanto già formulato astrattamente dall‟ipotesi generale. L‟operazione decisiva […] è quella di una reale coordinazione delle idealità matematiche, le quali dapprima vengono sustruite ipoteticamente nella loro indeterminata generalità, ma poi vanno rilevate nella loro determinatezza […] e in base a ciò si possono abbozzare le regolarità empiriche che ci si può aspettare nel mondo pratico della vita. In altre parole: una volta approdati alle formule, sono già possibili le previsioni praticamente desiderate attorno a ciò che ci si può aspettare nella certezza empirica, nel mondo intuitivo della vita concretamente reale, nell‟ambito del quale la matematica non è che una prassi particolare. 306
Ne consegue che a partire da Galileo avviene “una sovrapposizione della natura idealizzata a quella intuitiva pre-scientifica”, tale che ogni riconsiderazione occasionale (e anche “filosofica”) che risalga al di là delle regole d‟arte con cui si svolge un certo lavoro, al suo senso proprio, si arrestò sempre alla natura idealizzata, senza penetrare radicalmente fino al fine ultimo che la nuova scienza e la geometria da essa inseparabile […] doveva fin dall‟inizio perseguire [e] che non poteva che riferirsi al mondo-della-vita [nel quale] non troviamo nessuna idealità geometrica, non troviamo né lo spazio geometrico né il tempo matematico con tutte le sue forme. […] Qualsiasi arte noi elaboriamo, qualsiasi cosa facciamo, questo mondo realmente intuitivo, realmente esperito ed esperibile, in cui si svolge praticamente tutta la nostra vita, resta, nella sua propria struttura essenziale, quello che è, immutato nel proprio stile causale. Esso non muta dunque nemmeno se noi escogitiamo un‟arte particolare, per es. quell‟arte geometrica galileana che chiamiamo fisica [e con la quale] operiamo […] una previsione ampliata all‟infinito [sulla quale] si fonda tutta la vita.307
303
Ivi, pag. 67. Ivi, pag. 71. 305 Ivi, pag. 70. 306 Ivi, pag. 72. 307 Ivi, pagg. 79-80. 304
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I due piani, quello ideale e quello fenomenico, vengono fatti coincidere nella “formula” esplicativa del loro senso matematico, la cui esattezza razionale viene assunta come realtà logico-fattuale, operando una sintesi cognitiva che risponde solo alla congruenza coi proprii postulati ipotetici, così da vedere nelle formule matematiche e nel loro senso “il vero essere della natura stessa” e nella matematizzazione della natura “l‟operazione decisiva” della conoscenza, “per la vita” stessa dell‟uomo.308 E‟ pur vero, come afferma icasticamente Husserl, che “l‟abito ideale” confezionato da ciò che “si chiama matematica e scienza naturale matematica” non è il “vero essere” ma “è soltanto il metodo”, il quale “rappresenta il mondo della vita […] per gli scienziati e per le persone colte, in quanto „natura obiettivamente reale e vera‟”;309 ma ciò che Husserl non dice è che la rappresentazione unitaria del mondo quale universalizzazione del pensiero cognitivo, è un ideale che la scienza moderna ha ereditato dalla filosofia quale scienza appunto universale o degli universali, e che la materia del contendere, tra scienza e filosofia, non verte sul principio dell‟universalità della conoscenza scientifica (in senso empiristico o trascendentale), ma sul “metodo” per conseguirla. In altri termini, né la scienza né la filosofia mettono in discussione che l‟essenza della conoscenza razionale, e quindi metodica, consista nel riportare all‟unità ideale il molteplice, ossia nell‟idealizzare l‟esperienza fenomenica rifacendosi alla sua implicita essenza. Conservata questa premessa metodologica, la ricognizione di Husserl dei fondamenti teorici del pensiero moderno si dispiega in un continuum di acquisizioni teoriche progressive in sé lineare e consequenziale ma che, nondimeno, rimane a-storico, in quanto disancorato dai processi culturali e spirituali entro i quali esso ha conservato la sua permanente validità applicativa. Diversamente dalla filosofia stessa, la quale, come è comprovato dalla posizione di Husserl medesimo, non può prescindere da quei processi culturali per definire la sua pregnanza spirituale, essendo partecipe intimamente di essi. Infatti, come ha chiarito Mannheim,
308
Ivi, pagg. 72-73. Ivi, pag. 80.
309
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La conoscenza scientifico-naturale è legata alla sua propria storia solo nella misura in cui si può sostenere che la conoscenza successiva presupponga tutti i risultati scientifici precedenti come sue necessarie premesse. Al contrario, la conoscenza che ha a che fare con la realtà storico-culturale è così strettamente legata nella sua struttura alla posizione spirituale da cui viene conseguita che, per tutte queste scienze, corso e struttura dello sviluppo sono del tutto diversi rispetto alle altre scienze. Si può osservare questa mancanza di linearità nella storia della filosofia, dal momento che, per quanto riguarda i suoi risultati, possiamo parlare di una continua rinascita e non di una continuità lineare.310
L‟efficacia del metodo scientifico, rispetto a ogni analisi veritativa di tipo metafisico, è legata alla possibilità che la scienza ha di uniformare – sia pure in termini di astrazione ipotetica – la molteplicità della realtà fenomenica in “una forma universale del mondo”; possibilità che, come abbiamo detto, viene rivendicata dalla filosofia come scienza universale, ma che è preclusa alla filosofia in quanto conoscenza metafisica dell‟essere. Husserl confonde i due piani, e intende fondare una ontologia come scienza della verità dell‟essere, contendendo perciò alla scienza naturale la sua analoga pretesa teoretica, senza metterla in dubbio. Ora, proprio questa pretesa totalistica e universalistica viene ribadita dal metodo fenomenologico, il quale, non diversamente dalla scienza matematizzante, trascende i processi in divenire della realtà fenomenica, ossia da quella “totalità” che è il contenuto della conoscenza metafisica, per concentrarsi sull‟analisi di particolari aspetti dell‟esperienza vissuta, considerati come tali, cioè oggettivati attraverso quella peculiare presa di distanza che è l‟epoché fenomenologica. Questa operazione scientifica è possibile nei limiti di una ideale “rappresentazione” del mondo che, rispetto ad altre rappresentazioni, offra un grado di maggiore universalità, e cioè unità razionale, ottenuta sempre a condizione di trascendere la reale molteplicità fenomenica, che la cognizione formalizzata assume come un piano di realtà informale e quindi non-vero. In tal senso, l‟unità formale conseguita dalla scienza attraverso il suo metodo razionale universale, si lascia dietro l‟informe molteplicità del mondo fenomenico, che viene metodicamente recuperato alla “verità” 310
K. Mannheim, Il carattere specifico della conoscenza sociologico-culturale, tr. it. cit., pag. 80.
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scientifica attraverso la sua trasposizione oggettivata nel campo ideale unitario, facendogli cioè perdere quel carattere intuitivo-soggettivo caratteristico dell‟esperienza comune, pre- ed extra-scientifica. Il dualismo tra mondo informale e cosmo metodico viene rimosso nella preferenza valoriale tributata al mondo razionale oggettivo su quello soggettivo, preferenza essa stessa di carattere culturale e solo in tale ambito “universale”, ma non metafisicamente risolto. Infatti, la dottrina galileana della soggettività delle qualità specificamente sensibili, fu “ripresa da Hobbes e diventò la dottrina della soggettività di tutti i fenomeni concreti della natura sensibilmente intuibile e del mondo in generale”,311 facendo nascere appunto il problema della validità dell‟esperienza mondana extra-scientifica. Galileo, considerano il mondo in base alla geometria, in base a ciò che appare sensibilmente e che è matematizzabile, astrae dai soggetti in quanto persone, in quanto vita personale, da tutto ciò che in un senso qualsiasi è spirituale, da tutte le qualità culturali che le cose hanno assunto nella prassi umana. Da questa astrazione risultano le pure cose corporee, le quali però vengono prese per realtà concrete e che nella loro totalità vengono tematizzate in quanto mondo. Si può ben dire che soltanto con Galileo si delinea lidea di una natura concepita come un mondo di corpi realmente circoscritto in sé. Oltre che la ma tematizzazione […], ciò ha come conseguenza una causalità naturale in sé conclusa, entro cui qualsiasi accadimento è preliminarmente e univocamente determinato. Evidentemente ciò prepara anche quel dualismo che si presenterà ben presto con Cartesio.312
L‟idea moderna di una natura unitaria come “mondo di corpi realmente e teoreticamente in sé concluso”, lascia fuori di esso il “mondo psichico”, il quale, però, “dato il suo specifico riferimento alla natura, non porta a una mondanità autonoma” che infici la credenza nuova che “la scienza naturale matematica [sia] il modello esemplare di qualsiasi autentica conoscenza”, ma anzi, in base a quel modello, tutta “la conoscenza doveva diventare, anche al di là della natura, un‟autentica scienza”, seguendo “l‟esempio della matematica pura”, reso allettante dai suoi “successi teoretici e pratici”. E così
311
E. Husserl, Die Krisis der europaischen Wissenschaften und die traszendentale Phanomenologie (1954), tr. it. cit., pag. 83. 312 Ivi, pagg. 88-89.
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il mondo e, correlativamente, la filosofia assumono un volto completamente nuovo. Il mondo deve essere in sé un mondo razionale, razionale nel senso nuovo proprio della matematica e della natura matematizzata; corrispondentemente, la filosofia, la scienza universale del mondo, deve poter essere costruita “more geometrico”, come una teoria unitariamente razionale.313
Ma la ricerca teoretica dell‟unità razionale del mondo nasce dalla vocazione della filosofia come “scienza universale”, il cui metodo viene modernamente acquisito nel senso della esemplarità della logica matematica, che consente la costruzione more geometrico del cosmo razionalizzato, ma la cui tendenza fondamentale è immanente al pensiero filosofico in quanto pensiero della totalità, che coinvolgeva non soltanto i rapporti formali tra i fenomeni naturali, ma che si estendeva, come abbiamo visto in Hobbes, agli stessi rapporti intersoggettivi, della coesistenza sociale. La matematizzazione della natura […] implicava la supposizione che la coesistenza della totalità infinita dei suoi corpi […] fosse, in sé considerata, una coesistenza matematicamente razionale; senonché le scienze naturali, in quanto induttive, potevano avere appunto soltanto un accesso induttivo ai nessi che in sé erano matematici.314
E da qui l‟esigenza di estendere il modello razionale per eccellenza, quello appunto matematico, a qualunque conoscenza che volesse accreditarsi come scientifica. Husserl imputa alla scienza moderna ciò che invece è proprio della filosofia, cioè la tendenza a proporsi come conoscenza universale, e pare non cogliere che la riuscita del proponimento alla scienza moderna sia legata alla sua capacità metodica di eludere in senso unitariamente razionale la differenza ontologica tra l‟Uno (ideale) e il Molteplice (fenomenico) attraverso una rappresentazione fisicalistica del mondo sull‟analogia del cosmo naturale, le cui leggi relative sono le uniche leggi dell‟unico mondo razionalmente pensato come “oggettivo”. Da qui il tentativo di definire una psicologia unitaria che superasse ogni differenza tra vitale e meccanico, tra logico e fisiologico, tra mondo naturale e realtà storica, tra livello sociale e livello spirituale. E il fondamento unitario dei due termini fu trovato, 313 314
Ivi, pagg. 89-90. Ivi, pag. 89.
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modernamente, nella soggettività, così come in passato era stato trovato nella socialità. L‟originario genio fondatore della filosofia moderna nel suo complesso [fu] Cartesio. Se poco prima Galileo era giunto alla fondazione originaria della nuova scienza, fu Cartesio a concepire e ad avviare una realizzazione sistematica della nuova idea della filosofia universale nel senso di un razionalismo matematico, o meglio fisicalistico, di una filosofia come “matematica universale”.315
Nelle sue Meditazioni Cartesio fornisce, insieme ai “fondamenti radicali del razionalismo”, anche un pensiero fornito di una sua “nascosta duplicità”, tale da prefigurare una possibilità di lettura “di cui soltanto una rivestiva per Cartesio il carattere dell‟ovvietà”, lasciando nell‟ombra l‟altra, più “essenziale”, che l‟avrebbe condotto, se svolta radicalmente, a un “ filosofico”. Infatti, stupito di fronte a quest‟ego scoperto nell‟epoché, egli si chiede di quale io si tratti […]. Poi esclude il corpo proprio – in quanto, come il mondo sensibile in generale, soggiace alla epoche – e l‟io viene così a determinarsi per Cartesio come mens sive intellectus.316
Cartesio non si avvede, secondo Husserl, che nella epoché la concezione dell‟anima “non ha senso”, così come non ce l‟ha la considerazione del proprio corpo. Infatti, l‟ego non è un residuo del mondo, è bensì la posizione assolutamente apodittica, che è resa possibile soltanto dal‟epoché di tutte le validità del mondo, l‟unica che da essa sia resa possibile. Ma l‟anima è il residuo di un‟astrazione preliminare del puro corpo; dopo questa astrazione essa non è che un elemento integrativo del puro corpo. Ma quest‟astrazione non risulta dall‟epoché; essa è un prodotto dell‟atteggiamento del naturalista o dello psicologo che operano sul terreno naturale del mondo già dato, ovviamente essente. [Perciò] tra le considerazioni fondamentali delle Meditazioni e le conseguenze che ne derivano si produce una frattura determinata appunto dall‟identificazione di quest‟ego con la pura anima. 317
Il percorso soggettivistico cartesiano, pur fondato sul soggetto coscienziale, in realtà “si mantiene nel puro obiettivismo”, in quanto 315
Ivi, pag. 102. Ivi, pag. 107. 317 Ivi, pag. 108. 316
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La mens, che nell‟epoché stava dapprima per sé e fungeva da terreno assoluto di conoscenza per la fondazione delle scienze obiettive [cioè della filosofia], sembrava insieme fondata in essa stessa, cioè nella psicologia. Cartesio non si rende conto come sia impossibile che l‟ego, il suo io demondanizzato attraverso l‟epoché, nelle cui attive cogitationes il mondo ha tutti i sensi d‟essere che può avere, si presenti come tema nel mondo, poiché tutto ciò che è mondano e quindi anche l‟essere psichico proprio, l‟io in senso usuale, attinge il proprio senso appunto alle funzioni dell‟ego. [E non considera] che l‟ego, l‟ego essente per sé, quello che viene in luce nell‟epoché, non è ancora affatto “un” io che possa avere fuori di sé altri, molti altri io. Egli non comprese come tutte le distinzioni tra l‟io e il tu, tra l‟interno e l‟esterno si “costituiscono” soltanto nell‟ego assoluto.318
Partendo dal presupposto che “ogni cogitatio ha un proprio cogitatum”, Husserl giunge alla definizione della legge fondamentale della “vita egologica” come “intenzionalità”. Ogni cogitatio è, in senso largo, un supporre [e] perciò implica un modo di certezza [cui sono legate] la verifica e la confutazione, la distinzione del vero e del falso […]. D‟altra parte quella che egli [Cartesio] presumeva [essere] una fondazione della nuova filosofia universale a partire dall‟ego può essere caratterizzata come una “teoria della conoscenza”, cioè una teoria dei modi in cui l‟ego, nell‟intenzionalità della sua ragione (attraverso gli atti della ragione), riesce ad elaborare una conoscenza obiettiva […] che in Cartesio equivale a una conoscenza che trascende metafisicamente l‟ego.319
Il razionalismo moderno, che da Cartesio discende a Kant, è dominato “dalla convinzione di poter attingere attraverso il metodo del “mos geometricus” una conoscenza assolutamente fondata e universale di un mondo che è pensato come un „in sé‟ trascendente”. Tutta la reazione empiristica, a partire da Hobbes e procedendo attraverso Locke, Berkeley e Hume, mira a confutare questo “trascendentalismo falsato in senso psicologico di Cartesio” a favore di uno “più genuino”, mettendone in risalto i limiti metafisici, senza per altro superandolo.320 Infatti, Lo scetticismo empiristico mette in luce ciò ch‟era già contenuto, per quanto implicitamente, nelle fondamentali considerazioni cartesiane, come cioè la 318
Ivi, pag. 110. Ivi, pagg. 110-111. 320 Ivi, pagg. 111-112. 319
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complessiva conoscenza del mondo, quella pre-scientifica come quella scientifica, sia un enigma inaudito. [Ciò nonostante,] il controsenso che poteva derivare dalla peculiarità dei presupposti, [lasciava trapelare] una nascosta verità […] che era impossibile non considerare, [ossia] un modo completamente nuovo di giudicare l‟obiettività del mondo nel suo complessivo senso d‟essere e, correlativamente, quella delle scienze obiettive [nelle] loro pretese filosofiche, metafisiche. 321
La critica all‟obiettivismo, sia “dogmatico” che “in generale”, muove attraverso la coscienza filosofica che le scienze, nella loro pretesa razionalizzante, non avevano considerato che “la vita di coscienza è una vita operante”, che, “bene o male, produce un senso d‟essere” sia nel campo dell‟intuizione sensibile che in quello della vita scientifica.322 La “missione storica di Kant”, afferma Husserl, non era quella di prendere atto della demolizione dell‟obiettivismo e continuare l‟opera di Hume, ma di fondare un “nuovo tipo di soggettivismo trascendentale”, che in seguito si svilupperà nell‟Idealismo tedesco, e che realizza una “rivoluzione teoretica” che prende di mira non l‟empirismo quanto “la mentalità teoretica del razionalismo postcartesiano, il cui grande punto d‟arrivo è costituito da Leibniz e che aveva trovato la sua forma sistematicamente scolastica e più attiva in Christian Wolff”.323 Con Cartesio, dunque, si era imposta “la nuova concezione di un mondo corporeo, concluso in quanto natura”, che portava “la concezione correlativa di una psiche chiusa e il conseguente compito di una nuova psicologia elaborata secondo un metodo razionale sull‟esempio della matematica”. Ma, ciò premesso, la riflessione sulla conoscenza non era una riflessione trascendentale bensì praticoconoscitiva […] che si esprime nelle proposizioni generali di una dottrina dell‟arte pratica [che costituiva] quella che noi usiamo chiamare logica, anche se in una accezione estremamente ristretta e tradizionale. Per questo è lecito dire che si trattava di una logica concepita come una dottrina normativa e come una dottrina dell‟arte metodica, nella massima universalità e al fine di realizzare una filosofia razionale. 324
321
Ivi, pagg. 117-118. Ivi, pag. 118. 323 Ivi, pag. 119. 324 Ivi, pag. 120. 322
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La razionalità qui contemplata, in considerazione della accezione metodica, non è costitutiva della filosofia in quanto tale, ma soltanto di quella filosofia strutturata in senso razionalistico. Ed è qui che si infrange il continuum del rapporto filosofia-scienza che Husserl stesso aveva supposto per indicare la svolta epocale della scienza moderna. Della sua pretesa universalistica e totalistica la aggiornata coscienza filosofica lascia cadere il “metodo” naturalistico geometricomatematico, al quale la gnoseologia kantiana, la dialettica e la fenomenologia opporranno di volta in volta il loro, ma fa ancora salva quella pretesa. Anche la teoria filosofica razionalistica, alla luce di una più comprensiva coscienza teoretica, viene confutata alla stregua di una “ipotesi” scientifica, e declassata a “dottrina normativa”, ossia a canone empirico convenzionale, valido nell‟ambito della sfera pratica, che è quella della realtà fenomenica del Molteplice. Ma quello che non emerge dalla disamina husserliana è la coscienza che il limite metodologico di ogni scienza è legato alla pretesa di riportare ad unità razionale la molteplicità insuperabile di questa realtà fenomenica, la quale, costituendo il processo stesso del divenire, non può rappresentare in universale ma solo in generale altro che quei dati di coscienza che l‟ipotesi scientifica pone come condizione di validità di quella corrispondenza entro i limiti della sua verificabile normatività. Il contesto normativo entro il quale è possibile verificare la corrispondenza di una ipotesi scientifica con la sua rappresentazione logico-fenomenica stabilisce la “concezione del mondo”325 in cui ha senso e valore l‟ipotetico costrutto metodico-razionale. Ed è tale concezione a costituire il fondamento epistemico di ogni ipotesi veritativa, che conserverà la sua validità metodica sino a quando sussisterà il suo fondamento ideale. Tale validità metodica viene messa in crisi dalla pretesa universalistica di costituirsi in termini 325
“Una concezione del mondo – di un‟epoca, di un gruppo etc. – è un insieme di contesti di esperienza strutturalmente interconnessi che costituisce la base comune per una molteplicità di individui a partire dalla quale essi fanno esperienza e penetrano la vita. Una concezione del mondo non è né la totalità delle formazioni spirituali presenti in un‟epoca né la somma degli individui presenti in essa,ma la totalità degli insiemi di esperienza strutturalmente interconnessi che possono essere determinati sia dalle formazioni sia dai raggruppamenti sociali”: K. Mannheim, Il carattere specifico della conoscenza sociologico-culturale, tr.it. cit., pagg. 70-71.
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ultra-rappresentativi rispetto al suo contesto di validità originaria, lasciando l‟adito alla concorrenza di altre ipotesi metodiche più rappresentative e comprensive in senso razionale. Ma questa pretesa universalistica non è immanente a ogni costrutto normativo, ma soltanto a quello scientifico-razionalistico, concepito in termini totalistici, e non nei termini proprii relativi a un determinato “contesto di esperienza” in cui si articola il mondo-della-vita. La rappresentazione di una “concezione del mondo” in termini universalistici e meta-empirici determina la perdita del suo rapporto di validità funzionale col contesto normativo di riferimento e la destina alla sua “confutazione”, che non è mai “empirica” – come vorrebbe l‟epistemologia empiristica – ma sempre razionale, perché relativa a un concorrente piano di formalizzazione della realtà più comprensivo, e cioè astratto, di quello confutato e alla luce del quale si fanno rientrare i fenomeni non più ragionevolmente spiegabile con le tradizionali ipotesi razionali. Ed è in questa elaborazione della crisi dei valori normativi tradizionali che consiste la critica filosofica ai “sistemi” razionali storici, commisurati a un piano di validità ideale più autenticamente universale. Questo piano non può essere quello relativo a una maggiore astrazione, in quanto il “più” rispetto al “meno” della teoria confutata incontrerà comunque il limite proprio a ogni struttura di coerenza interna al sistema delle forme razionali di riferimento, sistema costituente l‟orizzonte ideale della relativa concezione del mondo. Per superare la comparazione dei sistemi di pensiero, inclusi quelli relativi alle ipotesi scientifiche, bisognava orsi su un piano essenziale, che non era quello della “coerenza”, proprio delle strutture logico-normative, ma quello della “verità”, proprio della ontologia. La metodica razionalistica cartesiana includeva un duplice orientamento tematico: da un lato si tendeva a un universo sistematico di “leggi logiche”, alla totalità teoretica di tutte le verità chiamate a fungere da norme in tutti quei giudizi che devono poter essere obiettivamente veri; tra queste leggi logiche rientrava […] in generale qualsiasi a-priori puro. […] Dall‟altro [lato], l‟orientamento tematico tendeva a considerazioni generali sui soggetti del giudizio in quanto miranti a un‟obiettiva verità, tendeva cioè a scoprire come essi debbano usare normativamente quelle leggi,
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e perciò come possa presentarsi quell‟evidenza in cui si produce un giudizio obiettivamente vero [e] scoprire i modi e le motivazioni di una mancata riuscita. 326
Il metodo della scienza naturale era inficiato da un interno dualismo che “apriva un abisso incomprensibile” tra “le pure verità di ragione e l‟obiettività metafisica”, finendo per trasformare “l‟esemplare razionalità delle scienze naturali matematiche […] in un enigma”.327 Evidentemente – spiega Husserl -, tutte le leggi “logiche” in senso largo, a cominciare dal principio di non contraddizione, includevano eo ipso una verità metafisica. La teoria di queste leggi, sistematicamente elaborata, aveva da sé il significato di una ontologia generale. I risultati scientifici erano esclusivamente opera della ragion pura, la quale operava con i concetti nnati all‟anima conoscitiva. Che questi concetti, che queste leggi logiche, che la pura legalità della ragione in generale avessero una verità metafisico-obiettiva era “ovvio” […] [Ma] accanto alla facoltà del pensiero puro a priori, alla facoltà della ragion pura, stava la facoltà della sensibilità, la facoltà dell‟esperienza interna e dell‟esperienza esterna. Il soggetto che nell‟esperienza esterna esibisce affezioni dall‟ “esterno”, attraverso quest‟esperienza diventa certo di oggetti che producono le affezioni, ma per riconoscerli nella loro verità ha bisogno della ragion pura, cioè del sistema di norme in cui questa si manifesta, della “logica” necessaria a qualsiasi conoscenza vera del mondo obiettivo.328
Kant, attraverso Hume, si rese conto “dell‟impossibilità di capire come queste verità di ragione potessero venire impiegate per la conoscenza delle cose”. Infatti, la scienza naturale non è puramente razionale in quanto ha bisogno dell‟esperienza esterna, della sensibilità; ma tutto ciò che in essa è razionale deriva dalla ragion pura e dalle sue norme; soltanto attraverso queste norme può esistere un‟esperienza razionalizzata [mentre invece] si procedeva come se il mondo pre-scientifico dell‟esperienza dell‟uomo – il mondo non ancora logicizzato dalla matematica – fosse il mondo dato attraverso la mera sensibilità.329
Hume comprese la convenzionalità dei rapporti causali e la falsa credenza intuitiva dei loro supposti effetti necessarii, ma anch‟egli, giustapponendo la percezione ai dati sensibili, “non si avvede che 326
E. Husserl, Die Krisis der europaischen Wissenschaften und die traszendentale Phanomenologie (1954), tr. it. cit., pag. 120. 327 Ivi, pag. 121. 328 Ivi, pagg. 120-121. 329 Ivi, pag. 121.
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questi oggetti dell‟esperienza rimandano a una nascosta operazione spirituale [la quale] renda l‟esperienza pre-scientifica capace di essere conosciuta mediante la logica” matematica, tale da condurre a una “validità obiettiva”, cioè a una “necessità vincolante che possa essere ammessa da chiunque”.330 La “necessità” consisteva nella corrispondenza tra le intuizioni che stanno alla base della esperienza del mondo sensibile, e la struttura obiettiva della verità che sottostà a quelle intuizioni. Ma questa corrispondenza è impedita dall‟insuperabile differenza, cui abbiamo accennato sopra, tra la “scienza obiettiva”, che sulla scorta dell‟universalismo filosofico aveva cercato di penetrare la “cosa in sé”, e la sua “teoria filosofica”, che ci rivela i limiti della conoscenza scientifico-obiettiva, che non riesce a dare ragione causale della “molteplicità di fatto”. Occorreva riprendere in termini nuovi il tema della soggettività della coscienza, nei termini di un “soggettivismo trascendentale”,331 che radicalizzasse il “problema di Hume” circa la possibile certezza del mondo-della-vita che sta a fondamento delle costruzioni teoretiche che lo riguardano, posto che ogni esperienza conoscitiva sia interna alla soggettività teoretica. Ma Kant, a parere di Husserl, pur costituendo “la svolta più significativa nell‟ambito della storia della filosofia moderna” per aver costruito un sistema di “soggettivismo trascendentale”, che in forma scientificamente rigorosa ha cercato di comprendere il mondo a partire dalla “soggettività conoscitiva quale sede originaria di ogni formazione obiettiva di senso e di validità d‟essere”,332 si muove ancora entro il razionalismo della linea Cartesio-Leibniz-Wolff, e “non è mai giunto ad afferrare questo problema”.333 La problematica trascendentale è quella di una “filosofia universale” fondata sulle “sorgenti” della soggettività, e che si svolge intorno al rapporto che l‟io cosciente ha, in origine, con la sua “anima”, e quindi col mondo oggetto della sua conoscenza. [Ivi, pag. 125.] Su questa traccia problematica si muovono i sistemi dell‟idealismo tedesco, i quali, come in Kant, ritengono l‟evidenza del metodo scientificopositivo “un problema”, dal momento che “il metodo delle scienze 330
Ivi, pagg. 121-122. Ivi, pag. 123. 332 Ivi, pag. 127. 333 Ivi, pag. 124. 331
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obiettive si basa su un fondamento soggettivo profondamente nascosto e mai indagato, la cui illuminazione filosofica rivela il vero senso delle attuazioni delle scienze positive e, correlativamente, il vero senso d‟essere del mondo – appunto in quanto senso d‟essere soggettivo-trascendentale”.334 Con l‟impostazione critica di Kant dei suoi fondamenti, avviene il “crollo del razionalismo”, [Ivi, pag. 133.] ma non si perviene a una compiuta fondazione del senso di verità delle scienze, che superi la presupposizione del mondo-della-vita in cui lo scienziato si muove al pari di ogni uomo. All‟uopo, bisogna partire dalla percezione del mondo quale modalità originaria della “intuizione”, in cui ci si presenta la differenza tra i mutevoli contenuti dell‟oggetto della percezione, e “l‟evoluzione dei modi di apparizione” dell‟oggetto in relazione al mutare dell‟ “atteggiamento” di chi percepisce. Nell‟atteggiamento riflessivo noi non ci troviamo di fronte a un che di uno ma a un che di molteplice, è il decorso stesso delle apparizioni ad essere tematico, e non ciò che appare in esso. [Ma] oltre a questo esistono altri modi di intuizione, i quali, in se stessi, hanno per la coscienza il carattere di evoluzioni di questa “auto-presenza”. […] Così la coscienza del mondo è in un movimento costante; il mondo è sempre presente alla coscienza attraverso le strutture oggettuali e nell‟evoluzione dei diversi modi di coscienza (intuitivo, non-intuitivo, determinato, indeterminato), ma anche nell‟evoluzione dell‟affezione e dell‟azione […]. Ovviamente ciò non vale soltanto per l‟io singolo; nella vita che conduciamo insieme noi abbiamo in comune un mondo già dato, il mondo che è e che vale per noi, il mondo di cui noi, anche nel nostro vivere-insieme, facciamo parte, il mondo per tutti noi, il mondo già dato in questo senso d‟essere. E in quanto fungiamo sempre nella vita desta, noi fungiamo insieme, nei molteplici modi di considerare insieme gli oggetti che ci sono già dati, di pensare insieme, di valutare insieme, di progettare e di agire insieme. E ciò comprende anche quell‟evoluzione della tematica attraverso la quale la soggettività del noi […] diventa oggettuale, e attraverso la quale diventano tematici anche gli atti in cui essa funge, malgrado il residuo non-tematico, per così dire anonimo, costituito dalle riflessioni fungenti in questa tematica.335
Si delinea pertanto la nuova metodologia fenomenologica husserliana, originale rispetto a ogni scienza obiettiva, a ogni psicologia e a ogni filosofia del passato, nessuna delle quali “ha mai tematizzato questo regno del soggettivo, e perciò non l‟ha mai veramente scoperto. 334 335
Ivi, pag. 127. Ivi, pag. 135, 138 e 139.
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Nemmeno la filosofia kantiana”.336 L‟enfasi è proporzionale al motivo programmatico di una fondazione della “scienza in generale” in quanto “filosofia universale” ribadito da Husserl come “senso teleologico unitario che attraversa tutti i tentativi sistematici della storia della filosofia”, intesa nel senso di “un‟unica scienza […] in quanto totalità di tutte le conoscenze”, resa possibile dal “fatto che tutte le scienze si basano su un unico fondamento”, il quale “va indagato scientificamente prima di tutti gli altri”, il fondamento della “soggettività anonima”, che costituisce “l‟inscindibile unità della compagine di senso e di validità che accompagna tutte le operazioni spirituali […] che noi uomini compiamo in questo mondo sia in via singolarmente personale sia nella dimensione culturale”.337 Ecco esplicitato il leit-motiv di tutta la ricerca husserliana, tesa a ricondurre ad unità fondamentale la molteplicità dei costrutti cognitivi in cui la ragione umana raccoglie e interpreta l‟esperienza vissuta. Unità di senso e universalità formale sono le endiadi che stanno a insegna della ontologia fondamentale ricavata dallo scandaglio della soggettività trascendentale attraverso il nuovo metodo fenomenologico. Tutte le operazioni spirituali dell‟uomo, ci dice Husserl, “sono sempre precedute da un‟operazione universale che è presupposta da qualsiasi prassi umana e da qualsiasi vita pre-scientifica”. Lo stesso mondo, che ci si presenta “nell‟evoluzione costante dei suoi modi di datità”, non è altro che “un prodotto universale spirituale [in] divenire, in quanto unità di una forma spirituale, in quanto formazione di senso – in quanto formazione di una soggettività universale nel suo fungere ultimo”.338 Il soggetto coscienziale diventa la “soggettività” trascendentale, una ipostasi universale che insieme è “sorgente” del fare spirituale, anima del mondo, unità di ogni soggettività empirica e di ogni formazione culturale collettiva, e insomma una totalità comprensiva dell‟unità ideale e della molteplicità fenomenica, rappresentata come la congerie empirica dei dati di coscienza.
336
Ivi, pag. 141. Ivi, pag. 142. 338 Ivi, pagg. 142-143. 337
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Inerisce per essenza a questa operazione costitutiva del mondo il fatto che la soggettività si obiettivizzi in soggettività umana, che diventi un elemento del mondo. Qualsiasi considerazione obiettiva del mondo è considerazione di qualcosa di “esterno” e coglie solo “esteriorità”, oggettività. La considerazione radicale del mondo è una considerazione sistematica e interna della soggettività che si “esteriorizza” nell‟esteriorità. E‟ come per l‟unità di un organismo vivente, che naturalmente si può osservare e articolare dall‟esterno, ma che può essere compreso soltanto se si risale alle sue radici nascoste, se si persegue sistematicamente e in tutte le sue operazioni la vita che si agita in lui, che tende in avanti, che lo plasma. 339
Il cosmo geometrico-matematico, nella nuova prospettiva, diventa spirituale e la struttura formale della soggettività la conforme struttura ontologica de “il” mondo, con una piena identificazione tra soggetto coscienziale e ambiente storico-sociale, con le relative conformazioni culturali. Significativamente, Husserl imputa a Kant una caduta “in un nuovo tipo di discorso mitico”, per via del suo “modo di soggettività che non può essere reso intuitivo, né attraverso esempi fattuali né mediante adeguate analogie”, che ci conduce “nella sfera umana personale, nella sfera psichica, psicologica”, [Ivi, pag. 143.] da cui non si può evadere, perché questa “soggettività trascendentale non è ancora realmente apodittica”, e dalla quale pertanto non si può costituire una “apparizione obiettiva” del “mondo scientificamente vero”. A Husserl non basta una “certezza dell‟essere obiettivo nel senso della scienza”, ma la certezza “apodittica” propria del “terreno universale […] necessario e ultimo di qualsiasi obiettività scientifica e che la renda comprensibile”.340 A Husserl pare sfuggire la circostanza che ogni relazione tra il soggetto coscienziale e le formazioni spirituali entro la quale si determinano i processi culturali, è fondata da un criterio di legittimità razionale che produce, all‟interno della sua sfera valoriale, una “struttura gerarchica della vita” che si assume di carattere non problematico, e cioè “apodittico”, (solo) all‟interno della “coscienza comunitaria” che condivide quel criterio legittimante. Per cui, come ha spiegato Mannheim, “finché questa valutazione è realmente sostenuta dalla coscienza comunitaria […] l‟immagine del mondo 339 340
Ivi, pag. 143. Ivi, pag. 144.
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ruota attorno ad una concezione chiusa relativamente stabile”, entro il cui “sistema” di valori gerarchicamente disposti dalla vigente “struttura spirituale”, l‟uomo “si orienta nell‟azione, nella vita e nell‟esperienza”.341 In altri termini, la ricerca husserliana del “fondamento dell‟intenzionalità dell‟essere spirituale nella sua proprietà assoluta, definitiva”342 è, nella sua auto-rappresentazione intuitiva, un dato “originale” solo per il soggetto della coscienza attuale, cioè nell‟esperienza interna, ma è derivato in rapporto all‟esperienza esterna del mondo-della-vita, che perciò dev‟essere rimossa dall‟epoché fenomenologica, che, conseguentemente, pone come originario il darsi di ciò che è culturalmente un dato derivato. Pertanto, l‟unità fondamentale della coscienza trascendentale si ottiene per mezzo di una soggettivazione dei dati della coscienza asserita come il luogo della validazione scientifica della realtà, secondo un movimento di riduzione del molteplice all‟unità del fondamento ideale che è proprio di ogni scienza che si voglia universale. Ciò, quindi, che Husserl indica come “intuizioni originarie e assolutamente evidenti”, sono in realtà, come pure egli li chiama, “concetti intuitivi”,ossia dati dell‟esperienza teoretica assunti come evidenti.
I processi spirituali, spiega Husserl, hanno la funzione di costituire forme di senso,343 ma Il fatto che si tratta di funzioni spirituali che operano in qualsiasi esperienza e in qualsiasi pensiero, anzi in qualsiasi attività che rientri nella vita umana nel mondo, di funzioni attraverso le quali il mondo dell‟esperienza, in quanto costante orizzonte delle cose, dei valori, dei progetti pratici, delle opere, ecc., ha per noi in generale un senso e una validità, dovrebbe bastare a far capire come a tutte le scienze obiettive mancasse la nozione essenziale, la nozione di ciò che potrebbe assegnare alle strutture teoretiche del saper obiettivo un senso e una validità, e perciò la dignità di un sapere radicato in fondamento ultimo.344
341
K. Mannheim, Il carattere specifico della conoscenza sociologico-culturale, tr. it. cit., pag. 7. 342 E. Husserl, Die Krisis der europaischen Wissenschaften und die traszendentale Phanomenologie (1954), tr. it. cit., pag. 145. 343 Ivi, pag. 141. 344 Ivi, pag. 148.
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Infatti, egli afferma, tutta l‟esperienza umana, pratica come teoretica, “rimane nell‟ambito della superficie”, senza andare in profondità, oltre “il mondo dell‟esperienza nel senso naturale della parola”. E Husserl imputa questa superficialità al “peso dei pregiudizi storici” che sempre e ovunque giocano un “ruolo determinante”, a partire dal pregiudizio più pervasivo nel nostro universo culturale, quello che “domina tutti noi a partire dalle origini della scienza moderna”,345 e che definisce “il” mondo comune e già dato come “una sorgente costantemente disponibile di ovvietà” a cui attingere per la vita quotidiana e per la scienza.346 Mondo che pre-esiste a qualunque scienza, compresa quella “obiettiva”, che non comprende il concetto di scienza in generale. L‟assunzione del mondo-della-vita come oggetto a se stante dell‟analisi fenomenologica, consente a Husserl di operare una critica radicale della “scienza obiettiva” moderna, che sul fondamento di quel mondo naturale costruisce le sue “ingenue” conoscenze pseudorazionali. Anziché porsi la domanda circa la ragione delle distinte formazioni culturali, e quindi sul loro carattere storico, socio-genetico, ricerca di esse un fondamento universale, non considerando la “duplice stratificazione dei contenuti culturali: da una parte, la funzionalità accumulata in essi; dall‟altra, il contenuto di senso oggettivo”, ossia che accanto al “significato” immanente ai sistemi culturali, questi esistenzialmente vengono “esperiti” entro i relativi contesti di esperienza.347 I due momenti non sono separabili se non mettendo tra parentesi l‟approccio non interessante, per cui l‟analisi della validità presuppone la “messa tra parentesi” della funzionalità, e viceversa, ma ogni contenuto di validità di un sistema culturale è strettamente legato al suo contesto di esperienza da una relazione di funzionalità, per cui lo stesso approccio storico-genetico “può spiegare una formazione [culturale] solo nella misura in cui quest‟ultima è un risultato, e cioè il risultato di un contesto di esperienza psicologico-sociale”. Ciò vuol dire che, qualunque sia la modalità di analisi del “processo del pensare 345
Ivi, pag. 149. Ivi, pag. 151. 347 K. Mannheim, Il carattere specifico della conoscenza sociologico-culturale, tr. it. cit., pagg. 55-61. 346
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e del conoscere”, anche “le forme più generali di pensiero”, così come i suoi “concreti contenuti” sono concepiti come “risultati di costellazioni extra-teoriche”348 L‟analisi ingenua e non riflessiva tende a imputare i contenuti spirituali esperiti alla propria soggettività, mentre il loro riferimento funzionale a un contesto d‟esperienza sociale o a un sistema culturale, si rende possibile solo attraverso un trascendimento dell‟orizzonte valoriale di riferimento immanente a quel contesto d‟esperienza o a quel sistema. L‟oggettualizzazione della realtà spirituale, e la sua riduzione a oggetto di pensiero al pari di ogni altro fenomeno, avviene attraverso l‟esaurimento spontaneo della validità della credenza immanente al sistema valoriale oggetto di analisi, ovvero attraverso l‟operazione volontaria della epoché fenomenologica. In entrambi i casi, il dimensionamento dell‟oggetto al campo di pensiero del soggetto coscienziale comporta la rimozione del campo di senso “originario”, quello storico, che è il-mondo-della-vita. Questa dimensione viene assunta da Husserl come l‟universalità ingenua opposta alla vera universalità della scienza, rispetto alla quale il Lebenswelt viene assunto come il contesto di rimozione operato dall‟analisi fenomenologica. Ma la stessa caratterizzazione negativa del mondo-della-vita in riferimento alla positività della altra dimensione, quella appunto scientifica, cui si attribuisce valore universale, presuppone la sua considerazione unitariamente anch‟essa universale, anche se di una falsa universalità, per cui, secondo Husserl stesso, se esiste un orizzonte di esperienza “universale”, questo è appunto il mondo-della-vita, che diventa il fondamento mobile di ogni successiva analisi teoretica, e sulla cui “ovvietà” le scienze “costruiscono” i loro costrutti teorici, “attingendo ad esso tutto ciò che volta per volta è necessario ai loro scopi”. Il mondo-della-vita come tale […] è l‟universalmente noto, l‟ovvietà che inerisce a qualsiasi vita umana [e] che ci è sempre familiare attraverso l‟esperienza. […] Alla vita pre-scientifica questa conoscenza basta, come le basta il suo modo di trasformare la non-conoscenza in conoscenza e di attingere occasionalmente una conoscenza sulla base dell‟esperienza e dell‟induzione (di un‟esperienza che continuamente viene verificata e che esclude costantemente le apparenze). Ciò basta alla prassi quotidiana.
348
Ivi, pag. 58.
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Si noti come l‟orizzonte del mondo-della-vita viene presentato nella sua unità funzionale alla prassi intesa come dimensione routinaria di vita “quotidiana” in cui non interagisce strutturalmente la presenza rilevante di formazioni di validità meta-prassica. Ma è questa assunzione del mondo-della-vita come un orizzonte in sé chiuso e auto-referente a motivarne la rimozione metodica a opera dell‟analisi scientifica. E infatti, per pervenire a una conoscenza “scientifica”, che cosa può essere messo in discussione se non gli scopi e le operazioni della scienza obiettiva? […] Un‟autentica e piena scientificità esige che questi compiti [scientifici] vengano trattati tutti insieme secondo l‟ordine essenziale della loro fondazione, e che non si proceda a trattarne scientificamente uno solo, quello logico-obiettivo, trascurando completamente gli altri. Perciò non si è mai indagato scientificamente il modo in cui sono fondate le sue molteplici validità pre-logiche rispetto alle verità logico-teoretiche. E probabilmente la scientificità, richiesta dal mondo-della-vita come tale e nella sua universalità, è una scientificità peculiare, non di ordine logico-obiettivo, una scientificità che, per essere definitivamente fondante, è la più alta nella scala dei valori. Ma come realizzare questa diversa scientificità, a cui fin‟ora s‟è sempre sovrapposta quella obiettiva? L‟idea di verità obiettiva, nel suo stesso senso, è sempre stata determinata dal contrasto con l‟idea di verità propria della vita pre- ed extra-scientifica. Quest‟ultima ha una fonte ultima e profonda di verificazione nell‟esperienza “pura” […], [senza] subire interpretazioni derivanti dalla scienza obiettiva. […]
La critica allo scientismo obiettivistico, che è scienza-della-vita e non già scienza-del-pensiero, non può rimuovere il campo di validità dell‟esperienza comune, oltre che nell‟epoché fenomenologica, anche in senso esistenziale, per cui si commisurano i due livelli cognitivi a due realtà ontologiche, in cui “vita” e “scienza” diventano realtà antitetiche e speculari, anziché elementi oppositivi di uno stesso processo culturale. Il primum reale è l‟intuizione “meramente soggettivo-relativa” della vita prescientifica del mondo, [entro la quale esso perde] la sfumatura di spregio che esprime la diffidenza tradizionale per la [e] sta a indicare una sicura verificazione, un complesso di conoscenze predicative controllate e di verità precisamente definite secondo le esigenze imposte dai progetti pratici della vita, i quali ne determinano il senso. […]349
Il “mondo comune a tutti, della esperienza”, in cui anche lo scienziato, come ogni uomo, è incluso, e nel quale rientrano tutti gli eventi che, “ 349
E. Husserl, Die Krisis, tr. it. cit., pagg. 153-154.
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a seconda del bisogno vengono adoperati per scopi scientifici o di altro genere”, ha come “marchio” del “meramente soggettivo-relativo” anche nella ricerca orientata all‟obiettività scientifica, per cui, se da un lato l‟operazione di obiettivazione scientifica si basa sul suo fondamento di validità d‟essere, dall‟altro la ricerca di una verità obiettiva entra in contrasto con tale prospettiva soggettivo-relativa, implicando necessariamente il suo superamento. Lo scienziato è occupato in questa operazione, che assegna all‟elemento soggettivorelativo un essere-in sé ipotetico quale “substrato di „verità in sé‟ logico-matematiche, alle quali ci si può avvicinare mediante sempre nuove e sempre migliori configurazioni ipotetiche costantemente verificate nell‟esperienza”. D‟altro canto, questa operazione di obiettivazione dell‟elemento soggettivo-relativo si basa, come abbiamo detto, proprio sul suo fondamento di validità d‟essere di qualsiasi verifica obiettiva, costituendo il soggettivo-relativo “quale sorgente di evidenza” e insieme “sorgente di verificazione”, per cui “ciò che è realmente e che è valido nel mondo della vita costituisce una premessa” non illusoria ma reale di quella verificazione obiettivizzante. [Ivi, pag. 155.] Il passaggio dall‟elemento relativo al soggetto a quello scientificamente obiettivo avviene trasferendo il soggettivo alla dimensione psicologica, intendendo la psicologia alla maniera moderna dell‟obiettivismo come scienza anch‟essa “obiettiva” della soggettività. Al fine di non “travisare” nel senso della scienza obiettiva quanto fa parte del mondo-della-vita, occorre sottolineare il contrasto tra soggettività e obiettività come “uno degli elementi determinanti del senso fondamentale della scientificità obiettiva”, senza però indulgere alla “grande tentazione di sostituirle l‟una all‟altra” dimensione cognitiva, recuperando così a una migliore fruizione teoretica il sostrato d‟esperienza affermato come universale, e perciò idealmente più comprensivo della particolare ipotesi di scienza. L‟idea di una “scienza obiettiva” dominante “l‟universitas delle scienze positive della epoca moderna e il senso della parola „scienza‟ nel‟uso comune”, non è altro secondo Husserl che “un tipo di naturalismo” che si rifà alla “scienza naturale galileana, per cui il 134
mondo scientificamente „vero‟, il mondo obiettivo è sempre preliminarmente pensato come natura”. Il contrasto tra l‟elemento soggettivo del mondo-della-vita e del mondo “obiettivo” e “vero” sta semplicemente in questo: che quest‟ultimo è una sustrazione teoreticologica, la sustrazione di qualche cosa che di principio non è percettibile, di principio non esperibile nel suo essere proprio, mentre l‟elemento soggettivo del mondo-dellavita si distingue ovunque e in qualsiasi cosa proprio per la sua esperibilità,350
che fa sì che esso, il mondo-della-vita, sia “un regno di evidenze originarie”, in grado di “fondare la conoscenza” sulla base di un “diritto originario” (Urrecht) rispetto alla conoscenze delle “evidenze logico-obiettive”, per cui ogni altra modalità di intuizione del mondo è un atto di presentificazione di ciò che “è dato in modo evidente” dalla percezione. E “qualsiasi conoscenza mediata che rientri in questa sfera […] ha il senso di una induzione di qualcosa che è intuibile”, così come “qualsiasi verifica pensabile riconduce a questi modi dell‟evidenza”, dal momento che ogni loro singolo contenuto “sta in queste intuizioni come un elemento realmente esperibile e verificabile in modo intersoggettivo, e non è una sustruzione concettuale”, la quale, per altro, “può attingere la sua reale verità soltanto riportando sia queste evidenze [originarie]”.351 Occorre mostrare in un‟evidenza definitiva, come qualsiasi evidenza delle operazioni logico-obiettive su cui si fonda, sia per la forma sia per il contenuto, qualsiasi teoria obiettiva, abbia le occulte fonti di fondazione nella vita ultima operante in cui la datità evidente del mondo-della-vita ha attinto e sempre di nuovo attinge il suo senso d‟essere pre-scientifico. Dall‟evidenza logico-obiettiva (della “visione intellettuale”) […] la strada riconduce all‟evidenza originaria, in cui il mondo-della-vita è costantemente già dato.352
Husserl non nega “il contrasto tra i gradi di evidenza”, ma nega la legittimità dell‟asserzione degli scienziati empiristi secondo cui le scienze naturali siano fondate sull‟esperienza della natura obiettiva, in quanto “l‟obiettività, in se stessa, non è esperibile”. Il loro carattere sperimentale va inteso invece nel senso che “l‟esperienza è 350
Ivi, pag. 156. Ivi, pag. 156. 352 Ivi, pag. 157. 351
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un‟evidenza che si presenta puramente nel mondo-della-vita e come tale è la fonte di evidenza delle constatazioni obiettive della scienza, le quali, dal canto loro, non sono mai esperienze dell‟obiettività”.353 In senso logico, cioè in termini universali, la “teoria obiettiva” è dunque “radicata e fondata nel mondo-della-vita, nelle sue evidenze originarie”, e ciò consente alla scienza obiettiva di contare su “una costante relazione di senso col mondo in cui sempre viviamo”, pur nella differenza che le teorie logiche conservano rispetto alle “cose”, essendo esse rappresentazioni “in sé”, cioè “unità ideali di significato, la cui idealità logica è determinata dal loro telos verità in sé”354 Il mondo-della-vita e il mondo scientifico-obiettivo sono dunque per Husserl “due mondi che stanno in relazione”, in cui il sapere scientifico si fonda sull‟evidenza del mondo-della-vita, che è già dato ma su cui pure “viene costruito un che di nuovo e di diverso”, tanto che l‟intera scienza, come totalità delle teorie predicative e dei relativi sistemi logici, viene fatta rientrare da Husserl all‟interno dell‟universo “meramente soggettivo-relativo”. Egli infatti identifica il mondodella-vita, oggetto della esperienza e della intuizione, con la realtà soggettiva, “ingenua” ma pur sempre coscienziale, contraddicendo la datità della sua totalità extra-coscienziale, “in sé” costituente una realtà strutturata; e, in quanto “data”, strutturata non dalla coscienza soggettiva bensì costituente una realtà impersonale e in quanto tale avente una sua “obiettività” diversa da quella logico-scientifica. Infatti, il mondo soggettivo-relativo è in realtà una totalità strutturata obiettiva, nella quale rientra (dialetticamente) l‟esperienza storica concreta degli uomini, e non può essere identificato né con l‟esperienza soggettiva e neppure con i dati della coscienza teoretica, ossia con “le proposizioni, le teorie, e l‟intero edificio dottrinale delle scienze obiettive”, il quale si è costituito attraverso l‟operato degli scienziati, ossia di una comunità ideale le cui attività “presuppongono sempre gli esiti delle precedenti”.355 Rispetto alla compattezza razionale di questa struttura storico-ideale, la realtà soggettiva del mondo-della-vita è “relativa”, nel senso che non si inscrive in un 353
Ivi, pag. 157. Ivi, pag. 158. 355 Ivi, pag. 159. 354
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processo lineare di sviluppo razionale, tale che l‟esperienza delle generazioni successive sia fondata dai risultati ottenuti dall‟esperienza di quelle che le hanno precedute. La “relatività” dell‟esperienza umana consiste proprio nel suo carattere indeterminato, non presupponente e contestuale al livello di coscienza storica presente in essa. L‟indeterminatezza del sapere presupposto dall‟agire umano concreto, lo destina a una imprevedibilità o “libertà” alla quale sono chiamate a corrispondere in senso regolativo le istituzioni sociali, che formalizzano il comportamento umano in senso socializzato, cioè ossequiente delle regole normativamente preordinate e perciò “obiettive”. Ed è tale preordinazione a rendere correttive le norme sociali rispetto a quelle soggettive eventualmente difformi, e non la verifica empirica dei loro esiti volitivi, secondo quanto avviene invece nel campo delle scienze. Quando Husserl sostiene, dunque, che “il concreto mondo-della-vita” sia “il terreno su cui si fonda il mondo scientificamente vero, e che insieme lo include nella propria concrezione universale”, [Ivi, pag. 160.] allude a un fondamento naturale di esperienza comune che in realtà non esiste “in sé” ma solo in quanto “dato” della coscienza che lo pone come suo oggetto unitario e astratto dalla sua reale e complessa determinazione storica. Assunto come un prius per la coscienza critica, esso in realtà è un posterius, in quanto dato ideale in seguito presupposto. Non a caso sorge il problema di “come riconoscere sistematicamente, attraverso una scientificità adeguata alla sua essenza, il modo d‟essere del mondo-della-vita che, paradossalmente, si annuncia onnicomprensivo”, e che in verità non può esserlo, se è vero che fa sorgere il bisogno filosofico di definirlo attraverso un concetto più comprensivo di esso. Husserl riconosce che ci troviamo di fronte a un “paradosso” che rende “enigmatico” il “mondo” e il “senso del suo proprio essere”, col che si evidenzia a suo dire la “mancanza di fondamento e all‟astrattezza del nostro precedente filosofare”,356 che diventa irrazionale rispetto al fine totali stico della conoscenza filosofica. Il problema è dunque metodologico, ma non implica il dato originario su cui si fonda la scienza, quello del mondo-della-vita. La “scientificità richiesta per la soluzione di questo enigma”, afferma Husserl, “è una scientificità nuova, né di tipo matematico e neppure 356
Ivi, pag. 160.
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logica in senso tradizionale”, in quanto le scienze obiettive in senso tradizionale sono diventate esse stesse un problema e perciò “non possono fungere da presupposti usabili come premesse”.357 Questo, se da un lato apre la questione della pluralità delle dinamiche storiche e dei rispettivi “tipi di sapere”, confermandoci indirettamente quanto acquisito dalla riflessione sociologica, e cioè che “all‟interno dello stesso periodo cronologico e persino di un singolo corpo storico, vivono diverse concezioni del mondo”;358 dall‟altro lato ridiscute la possibilità di un sapere veritativo unico e universale, perciò razionalmente inclusivo degli altri saperi particolari. Infatti, afferma Husserl nello stesso luogo, esiste un duplice ordine di verità: da un lato la verità pratico-quotidinana della situazione, che è sì relativa, ma che è proprio quella che la prassi, nei suoi progetti, persegue e adopera costantemente. Dall‟altra parte, le verità scientifiche; la loro fondazione riconduce alle verità di situazione ma in modo tale che il metodo scientifico non ne è affatto intaccato nel suo senso peculiare perché esso vuole e deve usare proprio queste verità.359
A questo punto ci si rende conto che tutti i modi di intuizione della conoscenza sono relativi al mondo-della-vita in generale, il quale, nondimeno, “malgrado la sua relatività, ha una propria struttura generale”, alla quale “è legato tutto ciò che è relativo” e che “non è a sua volta relativa”. Il mondo in quanto mondo-della-vita ha già in via pre-scientifica le “stesse” strutture che le scienze obiettive presuppongono parallelamente alla loro sostruzione di un mondo che è “in sé”, che è determinato attraverso le “verità in sé”, e che dispiegano sistematicamente nelle scienze a priori, nelle scienze del logos, delle norme metodiche universali a cui va connessa qualsiasi conoscenza del mondo “obiettivamente essente in sé”. Nella dimensione pre-scientifica, il mondo è già un mondo spazio-temporale […] I corpi che ci sono familiari nella dimensione del mondo-della-vita sono realmente corpi, ma non corpi nel senso della fisica. Lo stesso va detto della causalità [etc.]. La struttura categoriale del mondo-della-vita ha gli stessi nomi, ma non bada
357
Ivi, pag. 160. K. Mannheim, Il carattere specifico della conoscenza sociologico-culturale, tr. it. cit., pag. 117. 359 E. Husserl, Die Krisis, tr. it. cit., pag. 161. 358
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affatto alle idealizzazioni teoretiche e alle sustruzioni ipotetiche del geometra o del fisico.360
L‟unità del mondo, garante dell‟unità della conoscenza universale, viene garantita da una “struttura” ontologica del mondo, la quale appare molteplice nelle sue determinazioni logico-fenomeniche, e cioè culturali, ma che è fondamentalmente unitaria. Allo stesso modo essenziale della “natura” per gli empiristi. Se tutti gli altri oggetti, gli altri interessi pratici e le loro realizzazioni rientrano nel mondo-della-vita, presuppongono il terreno del mondo-della-vita, lo arricchiscono attraverso l‟azione, ciò vale anche per la scienza, in quanto progetto e prassi umana. E ciò vale per qualsiasi a-priori obiettivo nel suo necessario riferimento a un a-priori corrispondente nel mondo-della-vita. Questo riferimento equivale a una fondazione di validità. Ciò che realizza la massima fondazione di senso e la validità d‟essere dell‟apriori […] obiettivo, è un‟operazione idealizzante fondata sull‟a-priori del mondodella-vita.361
Il mondo-della-vita costituisce l‟a-priori di ogni fondazione di senso dell‟agire e del pensare pratico-obiettivo, per cui “l‟a-priori universale del grado logico-obiettivo […] è fondato su un a-priori universale che in sé è precedente, appunto sull‟a-priori del puro mondo-della-vita”, dal quale perciò non si può prescindere per la fondazione di validità delle singole scienze empiriche, compresa la logica. La logica presuntivamente autonoma […] che vuole essere una scienza fondamentale, universale e a priori rispetto a tutte le scienze obiettive, non è altro che un‟ingenuità. La sua evidenza rinuncia a fondarsi scientificamente sull‟a-priori universale di quel mondo-della-vita che essa presuppone costantemente sotto forma di ovvietà mai formulate universalmente, mai tradotte nell‟essenziale generalità scientifica. Soltanto una volta attuata questa scienza radicale del fondamento, la logica stessa può diventare scienza.362
L‟ingenuità equivale alla non comprensione della condizione di non fondamento delle scienze obiettive tradizionali. Tale ingenuità si può per Husserl superare attraverso il “compito di indagare come sia possibile la propria fondazione […] non più “logica”, bensì risultante 360
Ivi, pag. 167. Ivi, pag. 168. 362 Ivi, pag. 169. 361
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dal riferimento all‟a-priori universale pre-logico, in base al quale si definisce il senso proprio di qualsiasi logica”, e che costituirà “l‟edificio complessivo di una teoria obiettiva in tutte le sue forme metodiche, e che dunque deve determinare le norme proprie di qualsiasi logica”. Questo compito, precisa Husserl, investe la distinzione di principio tra l‟a-priori logico-obiettivo e l‟a-priori del mondodella-vita, per tendere infine alla realizzazione, attraverso una riflessione radicale, del grande compito di una teoria dell‟essenza del mondo-della-vita. […] L‟elemento formale-generale, l‟elemento invariabile nell‟evoluzione delle relatività del mondodella-vita [che] per noi, nella vita, determina in via esclusiva il senso di qualsiasi discorso sul mondo [è] il mondo [quale] titalità delle cose, distribuite nella forma spazio-temporale del mondo, [ossia] è la totalità degli “onta” spazio-temporali. Ciò pone il compito di una ontologia delmondo-della-vita, intesa come una teoria concretamente generale dell‟essenza di questi onta.363
L‟universo ontico è il mondo già dato, quel mondo-della-vita, appunto, che è “il terreno universale” e “l‟orizzonte” di “qualsiasi prassi reale o possibile”, sia “teoretica che extra-teoretica”, ossia della stessa coscienza. Vivere (erleben) è dunque per Husserl sinonimo di avere coscienza del mondo, e la vita non è altro che un “vivere-lacertezza-del-mondo”, che è insieme un “modo di attuarla”.364 La “certezza”, che è un dato cognitivo, diventa una modalità d‟essere nel mondo, anche se occorre distinguere tra “i modi della coscienza del mondo e della coscienza delle cose”. Gli oggetti, infatti, sono dei “dati” della nostra coscienza che appartengono però alla realtà del mondo, che è il nostro “orizzonte” di vita, di cui abbiamo coscienza appunto attraverso gli oggetti particolari, senza i quali il mondo non potrebbe diventare “attuale”, poiché di essi consiste. Ma “d‟altra parte il mondo non è essente nel senso in cui lo è un oggetto qualsiasi”, ma lo è “in una singolarità per la quale qualsiasi plurale sarebbe senza senso”, dal momento che “qualsiasi plurale e qualsiasi singolare che ne derivi presuppongono l‟orizzonte del mondo”. Ed è questa differenza tra la coscienza dell‟unità del mondo e quella delle sue determinazioni singolari a prescrivere “una fondamentale diversità dei modi correlativi di conoscenza”.365 363
Ivi, pag. 170. Ibidem. 365 Ivi, pag. 171. 364
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Il primo modo, quello che Husserl chiama “naturalmente normale”, è quello che precedere tutti gli altri modi in quanto si ferma alla “vita normale diretta e ininterrotta dentro l‟orizzonte del mondo”, nella cui “unitarietà sintetica che attraversa tutti gli altri modi”, tutti i nostri interessi “hanno la loro meta negli oggetti”, non avendo la coscienza “ininterrotta e unitaria […] alcun fine che la travalichi”, di cui non riusciamo neppure a immaginare l‟esistenza. Entro questo modo di coscienza delle cose del mondo “derivano tutte le affezioni che costantemente si traducono in azioni”.366 Ciò che colpisce in questa rappresentazione del mondo non è tanto che la prospettiva immanentistica venga presentata come un “dato” naturale od originario dell‟esistenza, essendo questa una costante di ogni immanentismo,empiristico come spiritualistico, ma che tale “dato” venga assunto come interno al mondo, ossia come la condizione originaria e fondativa dell‟essere stesso nel mondo, e non già come una possibilità d‟essere e di conoscere. Per cui, entro tale orizzonte mondano, che costituisce il fondamento di ogni conoscenza, ossia di ogni altra modalità, esperienza e rappresentazione, si configura e si delimita ogni possibilità d‟essere del mondo. In altri termini, è proprio la originaria condizione d‟essere del mondo a definire il suo orizzonte ideale e a fondare ogni conoscenza relativa a esso. E‟ dalla premessa ontologica che deriva la “normalità” dei “modi” d‟essere e di agire delle condizioni esistenziali. Condizioni che non sono trascendibili entro quell‟orizzonte. E infatti, è lo stesso Husserl ad ammettere che “può esistere un modo completamente diverso di vita desta nell‟aver coscienza del mondo […] capace di dirompere la normalità di questo vivere-verso (Dahinleben)” le cose del mondo; un modo nel quale “gli oggetti non ci sono soltanto già dati, in un mero avere, quali substrati delle loro proprietà, bensì noi diventiamo coscienti di essi (e di tutto ciò che è supposto onticamente) attraverso modi soggettivi di apparizione e di datità, anche se noi non vi badiamo affatto”.367 Relativamente al “come, al modo in cui sorge per noi la validità unitaria universale”, esso si costituisce attraverso la definizione dei suoi “modi di apparizione e di validità” sulla base di “una precisa 366 367
Ivi, pag. 172. Ivi, pag. 172.
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decisione volontaria” che li raccoglie in “una unità sintetica inscindibile”, grazie alla quale ci è possibile appropriarci conoscitivamente di quanto ci era ignoto, consentendoci di scoprire “per la prima volta che e come il mondo, in quanto correlato di un‟universalità indagabile di operazioni sinteticamente connesse, ottiene il suo senso d‟essere e la sua validità d‟essere nella totalità delle sue strutture ontiche”. Ed è così che la “vita operante universale” in cui il mondo ci è già dato “ottiene il suo senso d‟essere e la sua validità d‟essere nella totalità delle sue strutture ontiche”.368 Il mondo “già dato” costituisce la “totalità delle realtà realmente essenti”, a esclusione di quelle realtà che sono “meramente supposte, dubbie, discutibili”, per cui tale “totalità” è tutta interna alla realtà della sua “unità ideale”, che è quella del permanere entro la “semplice vita dentro il mondo”. Ora, questa datità non può servirci allorquando “tentiamo di attuare un mutamente universale degli interessi”, il quale richiama la necessità di una “nuova espressione” modale dell‟essergià-dato del mondo. Da qui l‟interesse, che per Husserl diventa “esclusivo”, alla “evoluzione soggettiva dei modi di datità, dei modi di apparizione, degli impliciti modi di validità in cui si produce, costantemente fluendo, connettendosi costantemente e sinteticamente nel flusso orientato direttamente sul mondo, la coscienza unitaria del semplice „essere‟ del mondo”. Nell‟ambito dello “universo della soggettività” va incluso anche l‟uomo, il suo agire e il suo patire, oggetto “tra gli oggetti del mondo-della-vita” naturale-normale, intesa come universo semplice e indistinto, dove la “molteplice soggettività rimane costantemente e necessariamente nascosta” e va perciò “esplicitata”.369 L‟unità ideale del mondo-della-vita viene ottenuto attraverso la categoria della soggettività, che costituisce quindi “l‟universale essere-terreno per qualsiasi oggettività”, e la relativa “scienza dei fondamenti ultimi, a cui qualsiasi fondazione obiettiva attinge la sua vera forza, in quanto è quella che le conferisce il suo senso ultimo”. E in tal senso “il mondo già dato” costituisce quel “terreno universale”,
368 369
Ivi, pag. 173. Ivi, pag. 174.
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non soltanto “di tutte le scienze obiettive”, ma anche di “qualsiasi prassi obiettiva in generale”.370 Non è difficile comprendere che ogni operazione di trascendimento della dimensione della mondana soggettività deve operarsi attraverso un “mutamente totale dell‟atteggiamento [dato come] naturale”, e a tal fine l‟epoché con la quale ci si sottrae al “terreno di validità di tutte le scienze obiettive” non basta più. Infatti, Operando questa epoché noi continuiamo a mantenerci sul terreno del mondo. Il mondo è [bensì] ridotto al modo-della-vita pre-scientifica, [ma] noi ci imitiamo ad evitare di assumere quale premessa il sapere che deriva dalle scienze e a considerare le scienze semplicemente come fatti storici, senza prendere posizione riguardo alla loro validità. […] Questo mondo ridotto rientra nella tematica della obiettiva, nella tematica degli storici, i quali devono pur ricostruire il mondo circostante dei popoli e delle epoche di cui volta per volta si occupano. Il mondo già dato continua a valere come terreno, e non è ancora ricndotto all‟universo della pura soggettività, a questa peculiare connessione
che deve ora occuparci. La tematizzazione delle varie epoche e dei diversi popoli, come di tutto il mondo spazio-temporale nell‟unità di una considerazione sistematica, “presuppone una validità obiettiva, presuppone, per noi che siamo gli osservatori, il terreno generale della validità del mondo”.371 Ed è questa la ragione per cui la vita che attua la validità del mondo nella vita mondana naturale non può essere indagata restando nell‟atteggiamento della vita naturale mondana. Occorre un rivolgimento totale, un‟epoché universale assolutamente peculiare […] capace di raggiungere le massime profondità filosofiche [e attraverso la quale] è possibile un mutamento radicale di tutta l‟umanità. […] Grazie ad essa lo sguardo del filosofo si rende veramente libero, libero specialmente dai vincoli più forti e più universali, e perciò più occulti, dai vincoli dell‟esser-già-dato del mondo [rimossi i quali, il filosofo si libera] da quell‟atteggiamento che inerisce costantemente alla storicità, alla vita e alla scienza.372
Il ruolo della filosofia non è dunque quello di liberare l‟uomo dalle contraddizioni che ne inibiscono la coscienza razionale dei limiti della vita al fine di superarli attraverso una coscienza affinata, ma di liberare l‟umanità dalla stessa falsa universalità dei dati del mondo370
Ivi, pagg. 174-175. Ivi, pag. 175. 372 Ivi, pag. 176-179. 371
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della-vita, assunti tradizionalmente e non già in considerazione di un processo ideale di validazione. L‟atteggiamento filosoficamente rivoluzionario consiste non soltanto nell‟astensione dal partecipare alla “produzione delle validità del mondo già dato”, mettendo tra parentesi e rigettando le forme teoriche elaborate dalla scienza obiettiva, ma, definendo una dimensione più radicale del senso della vita ricavato dalla ricognizione delle strutture ontiche del mondo, nella costruzione di un atteggiamento totalmente diverso da quello “naturale”. Questa liberazione equivale alla scoperta della correlazione universale, in sé assolutamente conclusa e assolutamente autonoma, di mondo e di coscienza del mondo […]intesa nel senso più vasto, come correlazione dell‟essente di ogni genere e in ogni senso, da un lato, e di un‟assoluta soggettività dall‟altro, i quanto è costitutiva del senso e della validità d‟essere. [Quanto alla coscienza del mondo, essa] non è altro che la vita di coscienza della soggettività che produce la validità del mondo, la soggettività che nelle sue continue attuazioni ha sempre un mondo ed sempre attivamente formatrice.373
Lo sforzo filosofico è di riportare ad unità il molteplice attraverso un‟operazione di soggettivazione del mondo-della-vita, che viene trasformato in cosmo coscienziale, fornito di quei fondamenti di validità di cui la vita spontanea, “ingenua” e “naturale”, della dimensione comune, è sprovvista. Il senso di questa trasformazione del mondo-della-vita in mondo-di-coscienza è quello stesso che animava l‟idealismo filosofico, che, come abbiamo ricordato con Hegel, “non riconosce il finito come un vero essere”.374 La scienza obiettiva di Husserl è la conoscenza dell‟intelletto di Hegel, così come l‟assoluto dell‟essere della ragione hegeliana è la “correlazione universale di mondo e di coscienza del mondo” husserliana. La “dialettica” di questa trasformazione del mondo del finito in mondo della coscienza assoluta è di “realizzare” la positività della “vera ragione”, che per Husserl e la “pura soggettività”, andando oltre il mondo dell‟esperienza, ossia della logica finita dei mezzi e dei fini pratici. Anche per Husserl, come per Hegel, la verità è dunque la realizzazione della ragione, cioè la filosofia che si traduce in realtà. Il “metodo”, però, non è la logica dialettica, ma la “riduzione 373 374
Ivi, pag. 179. Hegel, La scienza della logica, tr. it. cit., vol. I, pag. 169.
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trascendentale”,375 attraverso la quale tutti i “dati” mondani della coscienza comune vengono ripensati in senso inverativo. L‟epoché dischiude al filosofo un nuovo modo di esperienza, un nuovo modo di pensare, di teorizzare, in cui egli, posto al di sopra del suo essere naturale e al di sopra del mondo naturale,, non smarrisce nulla del suo essere e delle sue verità obiettive, nulla dei risultati spirituali della sua vita nel mondo e della vita storica della comunità; egli si impedisce soltanto – in quanto filosofo, nella peculiarità dell‟orientamento dei suoi interessi – di persistere nell‟atteggiamento naturale della sua vita nel mondo, di porre cioè sul terreno del mondo dato problemi, domande sull‟essere, problemi di valore, problemi pratici, domande attorno al‟essere e al non-essere, attorno alla validità, all‟utilità, al bello, al buono, ecc.376
Ma l‟operazione teoretica è tutt‟altro che circoscritta alla sfera di validità filosofica. “infatti”, come afferma lo stesso Husserl, “tutti gli interessi naturali sono posti fuori gioco”, poiché “la coscienza del mondo”, ossia “la vita di coscienza della soggettività” è quella che “produce la validità del mondo”. Husserl parla a proposito di “attuazioni” (Erwerben) della soggettività mediante l‟epoché, con la quale “io sto al di sopra del mondo e il mondo diventa per me un fenomeno in senso assolutamente peculiare”.377 L‟attuazione del rivolgimento totale consiste in questo: l‟infinità dell‟esperienza reale o possibile del mondo si trasforma nell‟infinità di un‟esperienza “trascendentale” reale o possibile, in cui viene esperito innanzitutto il mondo e la sua esperienza naturale in quanto “fenomeno”. 378
L‟unità di senso del mondo viene ottenuto attraverso la rilevazione, dietro i modi non riflessivi di rappresentazione delle cose, dell‟esistenza delle accennate “correlazioni essenziali” che costituiscono “un a-priori molto più ampio e universale” dell‟”orizzonte” dell‟esperienza e degli impliciti “modi di apparizione e di sintesi di validità” che vi sottostanno.379 La percezione, spiega Husserl, “si riferisce soltanto al presente”, sottintendendo però che prima di esso esista “un passato infinito e, davanti a sé, un aperto 375
E. Husserl, Die Krisis, tr. it. cit., pag. 180. Ivi, pag. 179. 377 Ivi, pag. 180. 378 Ivi, pag. 181. 379 Ivi, pag. 186. 376
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futuro”, per cui la sua astratta considerazione ci rivela che la relativa “operazione intenzionale è la presentazione” (Gegenwartingung) del suo oggetto, la cui “presenza” (Prasenz) “ha un‟estensione e una durata” che si protende in continuità al passato e al futuro.380 Nell‟indagine dei modi di datità e delle intenzionalità della coscienza ci si rivela il “come” della presenza degli oggetti nel mondo e del mondo stesso, “i quali hanno il senso e il modo d‟essere in cui si definiscono e si sono definiti attraverso queste operazioni soggettive”.381 Jung, trattando degli archetipi dell‟inconscio come “fattori autonomi e costanti” della rappresentazione della “coppia divina” del Logos maschile e dell‟Eros femminile, afferma che non soltanto nelle culture religiose più arcaiche ma anche nel Cristianesimo tale sizigia “occupa il posto più alto, quello di Cristo e la Chiesa sua sposa”.382 Ma, al fine di una comprensione della sua teoria psicologica della divina coppia, è necessario risalire ai fondamenti epistemici della sua analisi, che ruota intorno alla complessa figura dell‟Io. L‟Io è “quel complesso fattore al quale si riferiscono tutti i contenuti consci e che rappresenta i centro del campo della coscienza”, ovvero, “il soggetto di tutti gli atti personali consci”; è “l‟ambito del soggetto”, delimitato dalla “zona dell‟ignoto”, composto da “due gruppi di oggetti: i fatti esterni, che si possono sperimentare attraverso i sensi, e quelli interni, sperimentabili direttamente. Il rimo gruppo rappresenta l‟ignoto del mondo circostante, il secondo quello del mondo interno”, altrimenti detta “inconscio”.383 Il livello di coscienza dominato dall‟Io è quello razionale, il quale non è l‟intero campo della coscienza. La tendenza della coscienza razionale è di definirsi come totalità, ossia di negarsi come coscienza razionale rispetto all‟inconscio. L‟inconscio è composto di “tre gruppi: il primo, formato da contenuti temporaneamente subliminali, cioè riproducibili volontariamente (memoria); il secondo, formato da contenuti inconsci del tutto incapaci di giungere alla coscienza […]. Il terzo gruppo è ipotetico, una conseguenza logica dei fatti che costituiscono la base del secondo gruppo; esso 380
Ivi, pag. 187. Ivi, pag. 188. 382 C.G. Jung, Aion, Beitrage zur Symbolik des Selbst (1951), tr. it., Torino, 1982, pag. 21. 383 Ivi, pag. 3. 381
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comprende infatti quei contenuti che non sono ancora penetrati nella coscienza o che mai vi penetreranno”.384 L‟inconscio costituisce dunque l‟ambito negativo che delimita la coscienza consentendole di produrre la positività dei suoi contenuti razionali, ossia di determinarsi. Esso completa la soggettività fornendole la materia della sua elaborazione razionale. La sua polarità dialettica rende l‟inconscio ineliminabile dalla stessa coscienza, e quindi costituisce la sua stessa risorsa vitale, senza la quale il processo di razionalizzazione, completandosi in una totalità, si annullerebbe nel suo opposto. Da qui la necessità di mantenere una distanza psichica dall‟Io, e quindi di nascondersi alla coscienza per consentirle di sussistere. In questo senso, la parte inconscia della personalità è “inafferrabile”, ossia non totalmente oggettivabile dalla coscienza razionale, della quale costituisce il sostrato ctonio indefinitamente da illuminare. Il primo gruppo rientra nella disponibilità della coscienza quale potenziale strumentale volontariamente disponibile. Il secondo gruppo non giunge direttamente alla coscienza, ossia per atto volontario, in quanto non è un‟esperienza diretta dell‟Io, ma acquisita dalla esperienza della socialità come esperienza di gruppo. Esso perviene alla coscienza soggettiva attraverso un esercizio di razionalizzazione collettiva affidato a fonti mnestiche impersonali di natura sociale che sono le istituzioni, attraverso le quali la memoria viene socializzata e portata alla duratura coscienza di tutti e di ognuno del gruppo. Le istituzioni trasformano l‟esperienza della coscienza individuale in coscienza collettiva, e quindi spersonalizzano i dati di coscienza e li fissano in forme socializzate di memoria tese a stabilizzarla. Le istituzioni sono le fonti pubbliche della memoria collettiva, ossia ciò che di questa va conservato come significativo ai fini della sussistenza della coscienza di gruppo. Le forme della memoria collettiva sono culturali, mentre i suoi contenuti sono politici. Il controllo delle forme istituzionali che selezionano e preservano i contenuti della memoria collettiva è l‟attività propria del Potere politico, che tende a costituirsi come il detentore del monopolio della coscienza collettiva. La coscienza critica verso questo monopolio tende soggettivamente a reinterpretare l‟inconscio in modo privato, cioè non conforme a quello socializzato, e quindi ad annullare l‟equivalenza stabilita dal Potere tra 384
Ivi, pag. 4.
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coscienza comune e coscienza individuale. Negando tale equivalenza, la coscienza individuale deve necessariamente affermare la distanza tra il livello conscio e il livello inconscio, che il Potere istituzionalmente tende a negare in nome della totalità socializzata di cui esso è artefice e custode. La distanza tra la coscienza socializzata pubblica e la coscienza critica privata non sarebbe determinabile senza l‟esistenza negativa del terzo livello dell‟inconscio, trascendente la stessa memoria collettiva, ossia il livello della coscienza comune, costitutivo dell‟orizzonte di senso simbolico espresso dal Mito. Il livello inconscio trascendente l‟orizzonte di senso mitico è quello assoluto della Verità indisponibile a ogni determinazione razionale e quindi indeterminabile e a priori, ossia antecedente ogni possibile determinazione di coscienza razionale. Questo livello originario e trascendente è in-finito, e come tale comprensivo sia del negativo dell‟inconscio che della positività della coscienza, ossia di ogni determinazione possibile. La sua assoluta e infinita possibilità è ciò che Cusano indica con Dio. La differenza radicale tra l‟Io cosciente e l‟Inconscio sta appunto nella indeterminatezza del primo e nella inconoscibilità del secondo, tale che la perfettibilità degli stati di coscienza non potrà comunque esaurire l‟infinitezza dell‟inconscio, che dunque è un mistero ma non svelabile e come tale assumibile solo come inconoscibile: un sapere di non sapere in cui consiste la “dotta ignoranza”. Scrive Jung che Nonostante l‟incalcolabile estensione delle sue basi, l‟Io non è né più né meno che la coscienza. Come fattore conscio, l‟Io potrebbe, perlomeno in teoria, essere descritto per intero. Ma con ciò non si otterrebbe nient‟altro che un quadro della personalità cosciente, al quale mancherebbero tutti i tratti ignoti al soggetto, o inconsci, che l‟immagine completa della personalità dovrebbe invece includere. Una descrizione totale della personalità è comunque assolutamente impossibile anche in via teorica, poiché la sua parte inconscia è inafferrabile. Quest‟ultima, come l‟esperienza dimostra a sufficienza, non è affatto insignificante; al contrario, qualità addirittura decisive d‟una persona sono spesso inconsce e osservabili soltanto dall‟ambiente: spesso devono addirittura essere accertate con fatica mediante un aiuto esterno. E‟ palese dunque che la personalità come fenomeno totale non coincide con l‟Io, cioè con la personalità conscia, ma costituisce un‟entità che dev‟essere distinta dall‟Io.385
Questa “personalità totale, presente benché non interamente afferrabile”, Jung la indica col termine di “Sé”, a cui l‟Io è “subordinato e si comporta 385
Ivi, pag. 5.
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nei suoi riguardi come una parte verso il tutto”.386 Quest‟ultima precisazione è notevole, in quanto, secondo Jung, “nell‟ambito della coscienza”, l‟Io può anche scegliere di determinarsi nella libertà del suo volere (“libero arbitrio”), ma non può non essere limitato dalla “necessità” del “mondo interiore soggettivo”, che è parallela a quella del “mondo esteriore oggettivo”, che il libero arbitrio “può ben poco alterare”.387 Teoria che è contraddittoria per più versi. Anzitutto, perché non coglie la differenza essenziale tra il carattere impersonale del dato “oggettivo”, che si manifesta alla coscienza come polarità storico-sociale, non disponibile al processo di razionalizzazione della coscienza attuale se non come realtà del passato, cioè come accadimento storico, nel cui senso passato l‟Io deve trovare la sua presente legittimazione razionale; e il carattere personale del dato “soggettivo”, la cui realtà attuale è parte integrante della sua manifestazione conscia. Jung tende a confondere in una stessa oggettività naturalistica il dato storico, che è positivo anche se soggettivamente ignorato, e quello propriamente inconscio, la cui negatività non è sopprimibile alla stregua dell‟ignoranza, ossia attraverso una completa positivizzazione della sua conoscenza. Ciò significa che la “personalità”, anche quando “cosciente”, non coincide con la coscienza dell‟Io, cioè con la soggettività, ma che questa è inscritta in un contesto di realtà inclusivo, che, anche se oggettivo, può rimanere celato alla coscienza soggettiva. Ciò, pertanto, che può restare inconsapevole alla soggettività cosciente, non perciò è necessariamente inconscio, ma può essere svelato dalla coscienza oggettiva e impersonale, oppure restare celato anche a questa. Jung, in altri termini, non distingue l‟Io empirico, cioè la coscienza del soggetto storico, dalla coscienza oggettiva del Soggetto trascendentale, il quale è impersonale in quanto la sua sussistenza prescinde dalla coscienza individuale. Questa dimensione di coscienza delimita storicamente l‟orizzonte di senso di una cultura e di una civiltà (Weltanschauung), ma non è condizionata dal livello di coscienza soggettivo, che può anche ignorarla senza che perciò essa sia inconscia. Inconscio è invece ciò che non è oggettivabile da alcuna razionalizzazione, ma solo costituire la indeterminata materia di ogni razionale determinazione. I suoi confini non coincidono con quelli della coscienza soggettiva, ma neppure con quelli della coscienza oggettiva, e 386 387
Ibidem. Ibidem.
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quindi sono indeterminati. E ciò che è indeterminato è il negativo di ogni determinazione attuale, ossia l‟inattualità non compresa dalla determinazione presente, e quindi astratta rispetto a questa. Una determinazione astratta dalla sua attualità, è una determinazione possibile, la cui inesistenza è relativa alla sua possibilità attuale. In tal senso, la sua attualità o inattualità è legata alla stessa sua possibilità. Il Sé di Jung, in quanto “totalità” indeterminata, rispetto alla quale l‟Io è una “parte”, coincide con l‟orizzonte simbolico del Mito, che egli chiama “archetipo”, la cui indeterminazione è oggetto della determinazione della coscienza razionale. Il Sé è il contenitore simbolico dell‟Io cosciente, rispetto al quale esso è, in quanto indeterminato, un Mito, e come tale razionalizzabile, cioè assumibile come oggetto di coscienza. L‟ inconscio collettivo di Jung è appunto la realtà simbolica del Mito, oggetto di possibile coscienza, soggettiva od oggettiva. Diverso è il caso del Mistero, che trascende ogni possibile determinazione come l‟infinito ogni indeterminata possibilità. Esso non è determinabile, cioè razionalmente con-prensibile, ma è ciò che eternamente pre-esiste a ogni determinazione come il suo trascendente Restante fuori di ogni possibilità. Rispetto al Mistero trascendente, la coscienza non è “parte” ma Altro. Non è, cioè, la “parte” nota di un insieme ignoto in cui è inserito, ma appartiene a un‟altra dimensione di realtà incommensurabile con ogni finitezza, con ogni possibile cosciente determinazione, i cui contenuti non possono giungere a coscienza perché non sono contenuti in alcuna coscienza, né soggettiva né collettiva, ma sempre la trascendono come l‟infinito il finito. E se la finitezza è la realtà della denominazione in cui sussiste la ragione de-finitoria quale orizzonte di relazione logica, l‟infinito è la irrealtà della innominabile Alterità, indicata negativamente come Mistero. E‟ chiaro che la coscienza, quale orizzonte di ragione, non si oppone dialetticamente al Mistero, in quanto non sussiste tra loro alcuna relazione accomunante, e che dunque esso non è l‟indeterminato “inconscio” (soggettivo o collettivo = archetipico) oggetto di coscienza. Parimenti, il Sé, in quanto totalità della realtà esperibile, coincide con la totalità dell‟Essere possibile, cioè con l‟Idea indeterminata, la Possibilità, della quale l‟Io cosciente è la realtà logicamente determinata. E in quanto totalità della coscienza e della incoscienza, il Sé junghiano coincide con l‟orizzonte simbolico del Mito (o Psiche), e non col Mistero, il quale non coincide neppure con alcuna storica determinazione religiosa del Sacro, 150
poiché la religione, per la sua funzione di legame etico-sociale, non può comprendere il trascendente ma solo evocarlo. La religione infatti è soggetta a mutare col divenire del mondo-della-vita e del relativo orizzonte di coscienza del Sacro () in cui essa stessa è compresa come forma ideale di santità (). L‟inconscio collettivo o Archetipo, è l‟orizzonte d‟esperienza entro il quale è esperibile ogni determinazione possibile, ossia è la Possibilità d‟essere di ogni ente possibile. Esso, scrive Jung, è a priori, ed è di tre tipi: l‟Ombra, l‟Anima e l‟Animus.388 L‟Ombra fa parte della personalità, quale suo “lato negativo”,389 e consiste in “proiezioni” di tipo emozionale e quindi inconsce che “prestano al mondo esterno il proprio volto, che è però sconosciuto”, e che perciò determinano uno stato “autistico” di “isolamento del soggetto dal mondo circostante, per cui, invece di un rapporto reale col mondo, c‟è un rapporto illusorio”, interpretato attraverso una sensazione di “malevolenza dell‟ambiente”.390 Mentre la parte conscia “si lamenta e impreca contro un mondo infido che si va sempre più distanziando”, è la parte inconscia “a tessere l‟illusione che gli [al soggetto cosciente] vela il mondo e sé stesso”.391 L‟Ombra, per Jung, non è che una errata rappresentazione della realtà, che non è però consapevole all‟attore dell‟atto rappresentativo. La sua natura erronea si svela dunque a posteriori, a opera di una coscienza oggettivante che rielabora alla sua luce razionale i pregressi contenuti di coscienza. In tal senso, l‟Ombra non è che la proiezione soggettiva del Mito, il suo lato individuale quale è presente alla coscienza del soggetto empirico. Tale teoria considera reale la sola determinazione dell‟Essere, la sola oggettività attuale, rispetto alla quale ogni inattuale soggettività acquisisce un carattere patologico di estraneazione dalla realtà. Secondo tale principio di realtà, la determinazione del possibile coincide con la stessa possibilità, oltre la quale c‟è l‟illusione proiettiva. Secondo questa prospettiva realistica, che assume solo il dato di realtà, cioè solo il fatto, la realtà condita e non quella condenda, la stessa civiltà umana sarebbe un evento illusorio, dal momento che essa consiste nell‟apporto di continue proiezioni di realtà inattuali. Ma, poiché l‟apporto individuale, rispetto al risultato complessivo oggettivo, è soggetto a inevitabili 388
Ivi, pag. 8. Ivi, pag. 10. 390 Ivi, pag. 9. 391 Ivi, pag. 10. 389
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difformità, ecco che il giudizio di realtà, commisurandone la sfasatura, imputa alla parte la colpa originaria di non essere il tutto. I limiti teoretici di una tale impostazione sono affermati indirettamente dallo stesso Jung allorquando confessa candidamente che i “concetti troppo vasti” da lui utilizzati per la comprensione di fenomeni troppo più vasti per essere contenuti in essi, si sono rivelati “strumenti inadatti, perché troppo vaghi e nebulosi”, per cui egli ha “avanzato la proposta di usare il concetto di psichico soltanto in quella sfera nella quale è evidente una volontà capace di modificare i processi riflessi o istintivi”.392 In altri termini, la Psiche, da luogo simbolico della Possibilità, viene ristretta alle sue determinazioni oggettive, ossia ai risultati delle volizioni dell‟Io conscio, “capace” di razionalizzare l‟informe inconscio, lasciando al metapsichico ogni pulsione inconscia idealmente non oggettivata. Ma l‟astrattezza di questa gnoseologia razionalistica è confermata dai suoi esiti contraddittori. Infatti, come sappiamo, il fondamento epistemico razionalistico costituisce la premessa di ogni esperienza metodica, i cui contenuti ideali non sono disponibili all‟attività umana. Il carattere “ideale” di questo fondamento consiste dunque nella sua meta-fisica indisponibilità a ogni mutamento empirico. Ciò vuol dire che a fronte della natura molteplice del reale, esiste una natura ideale unitaria. Dall‟unità discende la trascendenza dell‟essenza ideale, mentre dalla molteplicità deriva invece l‟immanenza e storicità dei caratteri reali dell‟Essere. in tal senso, l‟ordine ideale è sempre in contraddizione con l‟ordine reale, in quanto la natura delle idee è la loro quiete sistemica, il loro ordine razionale, mentre il processo reale è costituito dal suo stesso movimento legato alla natura instabile del Molteplice. Tanto più la realtà concorda con la forma ideale, tanto più essa è conformemente regolata, e perciò con-prensibile entro il suo ordine valoriale. Viceversa, quanto più il motivo reale fatica a conformarsi entro le forme legali della idealità, tanto più le sue contingenti espressioni particolari vengono svalutate per l‟incoerenza rispetto al loro presunto valore funzionale alla conferma del fondamentale principio di realtà. Ora, se il fondamento di realtà psichico è inconscio, come può modificarlo la volontà umana senza negarlo a favore di un principio coerente a quella modifica? Solo se il fondamento inconscio fosse razionale, la volontà potrebbe affermarlo nella coscienza senza contraddirlo. Ma in tal caso, l‟inconscio non sarebbe altro che il lato 392
Ivi, pag. 4. Il corsivo è nostro.
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umbratile della stessa coscienza razionale, la coscienza ignorata, per cui la stessa realtà inconscia sarebbe nient‟altro che il risvolto ignoto della realtà conscia. In tal caso, però, la difformità rispetto alla realtà esterna alla personalità sarebbe dell‟intera personalità, anche di quella conscia, il cui “isolamento” potrebbe essere superato soltanto negandosi a favore della realtà altra-da-sé, quella sociale e comune, esterna alla coscienza del soggetto personale, che costituirebbe pertanto la vera realtà, il Sé collettivo in nome del quale immolare la (alterità della) coscienza individuale. E‟ nella natura delle cose – scrive Jung – non poter dare dell‟Io alcuna descrizione generale che non sia formale. Qualunque altro modo di considerarlo dovrebbe tener conto dell‟ individualità che è inerente all‟Io come sua caratteristica principale. I numerosi elementi che compongono questo complesso fattore, pur essendo ovunque gli stessi, variano tuttavia all‟infinito [e ]il risultato della loro composizione, l‟Io, è perciò, per quanto è possibile stabilirlo, qualcosa di unico e individuale, che rimane entro certi limiti identico a sé stesso [ma] la sua stabilità è relativa, poiché in certi casi possono intervenire mutamenti profondi della personalità che, ben lungi dall‟essere sempre patologici, sono legati allo sviluppo e rientrano quindi nell‟ambito del normale.393
La domanda, a questo punto, è : lo “sviluppo” di che? E‟ Jung stesso a risponderci. Come punto di riferimento del campo della coscienza, l‟Io è il soggetto di tutti i tentativi di adattamento, in quanto realizzati dalla volontà. […] La sua posizione vi è talmente importante che il pregiudizio che l‟Io sia il centro della personalità oppure che la coscienza coincida tout court con la psiche non è affatto privo di validi fondamenti. [Infatti, con la scoperta empirica della] esistenza di una psiche fuori [della coscienza] la posizione dell‟Io, fino allora assoluta, è diventata relativa: se esso conserva la propria caratteristica di centro del campo della coscienza, è divenuto dubbio come centro della personalità. Fa, sì, parte di questa, ma non ne costituisce il tutto.394
La normalità è il referente psichico della coscienza razionale, le cui oscillazioni, se contenute entro la forma stabilita (“stabilità relativa”) – stabilita evidentemente dalla volontà formalizzante dell‟Idea, cioè, storicamente, dal Potere istituzionale -, esse vengono ammesse come “rientranti nell‟ambito del normale”. In tal caso, l‟Io viene considerato 393 394
Ivi, pag. 6. Ibidem.
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stabilizzato, ossia socializzato entro le forme del sistema ideale. Ma l‟Io non è tutta la personalità. Esiste una parte deviante di essa che va condotta a regime psichico, ossia vinta dalla potenza della ragione normalizzatrice che il sistema normativo della coscienza pone al “centro della personalità”. Ciò vuol dire che, al di là di ogni altra possibile considerazione filosofica e sociologica, la definizione della personalità è un derivato dal principio della coscienza, ossia un prodotto del modello ideale dal quale deriva ogni prescrizione deontologica di tipo psichico. Esso, cioè, non sussiste al di fuori della sua realtà normativa, ma è un derivato psicologico della psiche collettiva o Archetipo, che è l‟unica realtà dell‟inconscio che agisce come “fattore generatore di proiezioni”, personificandosi nelle due figure speculari dell‟Anima, che è l‟archetipo della Madre, e dell‟Animus, che è la figura archetipa del Padre. L‟Anima è la figura illusoria dell‟unità originaria e perduta alla quale l‟Io maschile si rapporta per un ideale e platonico completamento della sua personalità, altrimenti dissociata e in lotta con la realtà esterna, resistente alla sua volontà d‟essere. La Madre che si oppone ala figlio è la Terra che si lascia fecondare a fatica, la Storia collettiva che segue travolgenti percorsi impersonali, la Negazione che si oppone a ogni determinazione come suo risvolto ctonio e incontrollabile. Essa, insomma, è l‟Alterità che continuamente sfugge dal recinto di ogni razionale definizione. E‟ la Meta ignota che si agogna prima di ogni conoscenza, come la donna ideale che si ama quale Metà di noi stessi. Di fronte all‟ “indescrivibile appagamento” di questo miraggio di completezza offerto dal virtuale amplesso con la donna e madre ideale, Demetra e Persefone insieme, “che cosa ha da offrire”, in contropartita, la “banale realtà”, con le sue “manchevolezze […], gli sforzi e le fatiche dell‟adattamento, il dolore delle molteplici delusioni”?395 Troppa la differenza tra la molteplice e contraddittoria realtà della vita, e “quest‟immagine riflessa, propria alla più profonda natura [inconscia] dell‟uomo”.396 L‟inconscio dell‟uomo sarebbe, dunque, l‟Unità non rinvenibile nella realtà del Molteplice. L‟unità “personificata” nella donna, potenziale portatrice di vita. Il valore simbolico della donna ideale risiede appunto nella sua duplice acquisizione di essere femminile e di madre. A questo archetipo femminino, corrisponde uno speculare archetipo 395 396
Ivi, pag. 12. Ivi, pag. 13.
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maschile., per cui “come per il figlio il primo portatore del fattore generatore di proiezione sembra essere la madre, così per la figlia tale portatore è il padre”, il cui Lògos corrispettivo all‟Eros materno Jung indica come Animus.397 L‟Animus è la tradizione del sapere alla quale la donna vuole appartenere e da cui viene esclusa, come rappresentato crudamente nel Fedone platonico, nel luogo in cui Socrate ingiunge alle donne di andarsene prima di continuare la discussione teorica.398 In realtà, l‟Animus non è propriamente il Lògos, che è l‟opposto della dòxa tradizionale, ma solo la sua proiezione femminile deformata, e perciò non vale confutarlo ma solo dominarlo con una “forza di persuasione” che non è quella della ragione, ma della potenza.399 L‟incontro di Anima e di Animus non è quasi mai sereno, per cui “la relazione sfugge interamente al controllo dei suoi attori umani”. Mentre nell‟uomo l‟annebbiamento animoso è fatto soprattutto di sentimentalità e di risentimento, nella donna esso si esprime in concezioni,opinioni, insinuazioni, ricostruzioni, interpretazioni erronee, che hanno tutte lo scopo, o il risultato, di troncare il rapporto fra due esseri umani. La donna, così come l‟uomo, è presa nel laccio del suo perturbante demone familiare e poiché, in quanto figlia, è la sola capace di comprendere il padre (e di avere quindi sempre ragione), è trasportata e imbrancata fra le pecore del pastore della sua psiche, l‟Animus.400
Ma qual è la funzione psichica dell‟Anima e dell‟Animus, il loro “aspetto positivo”? Secondo Jung consiste nella “personificazione” dell‟inconscio, e quindi nel suo ruolo “mediatore” fra questo e la coscienza. Come l‟Anima per mezzo del‟integrazione apporta Eros alla coscienza, così l‟Animus apparta Logos; e come l‟Anima presta alla coscienza maschile relazione e connessione, così l‟Animus presta alla coscienza femminile riflessività, ponderatezza e conoscenza. L‟effetto dell‟Anima e dell‟Animus sull‟Io è in linea di massima lo stesso. […] L‟archetipo è infatti presente a priori [ed esso] affascina la coscienza, la cattura, come per ipnosi [sottraendo] al rapporto umano un terreno solido su cui poggiare […].401
Due notazioni. La prima, riguarda il “prestito” che la coscienza maschile e quella femminile mutuamente contraggono nella loro relazione, 397
Ivi, pag. 14. Platone, Fedone, 116 b. 399 C.G. Jung, Loc. cit., pag. 15. 400 Ivi, pag. 16. 401 Ivi, pagg. 16-17. 398
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presupponendone la rispettiva mancanza. La seconda riguarda invece l‟equivalenza dichiarata da Jung tra i due opposti elementi archetipici della coscienza sull‟Io, il che presupporrebbe l‟equivalenza degli “umori irrazionali” degli uomini e delle “opinioni irrazionali” delle donne nell‟equilibrio naturale del “gioco empedocleo di neikos (odio) e philia (amore)”, che è opportuno non alterare con introspezioni che “porterebbero alla coscienza cose che in fin dei conti sarebbe stato meglio lasciar sepolte”,402 per la semplice ma essenziale ragione che l‟immagine psicologica personificata “non corrisponde alla realtà”, ma ne è solo una “elaborazione soggettiva”.403 Ciò evidentemente presume che la “realtà” di riferimento sia quella esterna e oggettiva della società, ossia quella rappresentata dalla “opinione tradizionale”, a fronte della quale si pone la illusione individuale. In altri termini, la privata filosofia del sapere non socializzato e perciò irreale. Ma l‟aspetto più problematico della teoria jungiana è la inevitabile destinazione dell‟Io a trovare nella società il suo equilibrio psicologico, tale che, senza la forma costituita della storia esteriore non sarebbe possibile alcuna storia interiore, rappresentata psicologicamente come un ambito di contrapposte e irresolute tensioni emotive delle quali gli archetipi sono figure ipostatiche. Nondimeno, però, tali antinomie psichiche non appartengono alla sola coscienza soggettiva, come esperienza psicologica individuale, ma alla soggettività, ossia alla forma ideale trascendentale a priori, che è essa stessa una proiezione ipostatica del soggetto empirico, la cui realtà sociologica “autonoma”, cioè astratta dall‟individualità psichica concreta, è l‟ “inconscio collettivo”, del quale le due figure archetipiche dell‟Anima e dell‟Animus “personificano i contenuti”. Questi contenuti, essendo oggettivati in valori comuni, sono rappresentati istituzionalmente da forme astratte impersonali, analoghe a quelle morali e legali, per cui, “una volta ritirati dalla proiezione”, ossia acquisiti soggettivamente come oggettivamente normativi, “possono essere integrati nella coscienza”404 come valori comuni. In caso di “tensione” assiologica tra i contenuti di coscienza e i contenuti oggettivati, l‟inconscio collettivo “si comporta pressappoco come un sistema distaccato dalla personalità”,405 i cui contenuti ideali “possono 402
Ivi, pag. 17. Ivi, pag. 18. 404 Ivi, pag. 19. 405 Ibidem. 403
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essere integrati” dalla coscienza, e quindi elaborati razionalmente in forme compatibili con le esigenze dell‟Io, mentre gli archetipi, quali forme inconsce trascendentali, “restano autonomi” e “al di là della portata dell‟intuizione e della volizione”.406 La loro funzione psichica, sostiene Jung, è di vigilare acché le spinte psicologicamente eversive della personalità inconscia soggettiva non superino il livello di guardia dell‟istinto naturale di conservazione, la cui condizione “ideale” di equilibrio si ha “là dove la vita è ancora tanto semplice e inconscia da poter seguire il serpeggiare dell‟istinto senza esitazione e titubanza”, ovvero negli stadi meno evoluti della civiltà, che corrispondono a quelli dove meno è distaccata la personalità cosciente da quella collettiva inconscia. Infatti, “più l‟uomo è civile, ossia più è consapevole e complicato, meno sa seguire l‟istinto”, cioè si abbandona al retaggio delle più elementari esperienze acquisite comuni. Laddove invece “le sue complesse condizioni di via e l‟influenza dell‟ambiente son così forti da soverchiare l‟esile voce della natura, allora opinioni e convinzioni, teorie e tendenze collettive si fanno avanti in sua voce e danno il loro appoggio a tutte le aberrazioni della coscienza”.407 Ossia le superfetazioni della cultura iper-civilizzata deflettono la coscienza dai suoi naturali percorsi inconsci che la stabilizzano psichicamente. Come si può notare, l‟idealismo della coscienza soggettiva si converte nel naturalismo dell‟inconscio collettivo, che Jung assume come il paradigma archetipico della stessa realtà psichica, assumibile in una totalità che egli chiama “Sé” e che egli identifica con la stessa “immagine della divinità”.408 La distanza tra la coscienza soggettiva e quella collettiva rappresenta il diverso percorso che l‟inconscio opera in senso, nel primo caso, ideologico, e, nel secondo caso, conforme alle indicazioni istintuali. Forse senza volerlo, Jung rappresenta in questa drammatizzazione della psiche umana la dialettica spirituale della civiltà, protesa per un verso, quello soggettivo, verso un esito liberale della vita, rispettoso dei sentimenti che nutrono in interiore le motivazioni personali dell‟esistenza; e per l‟altro verso, impersonale e collettivo, protesa ad assorbire le dinamiche individuali nelle ragioni economiche comuni della vita naturale. la prima tensione, a seguito della incessante innovazione dei motivi esistenziali dei singoli nel tempo, risulta destabilizzante verso l‟ordine costituito, il quale, di converso, ne valuta l‟apporto in funzione della stabilizzazione sociale. 406
Ivi, pag. 20. Ibidem. 408 Ivi, pag. 22. 407
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Dalle parole di Jung, emerge che la problematicità del conflitto psichico, in gran parte garantito dall‟inconscio, sia ascrivibile a una perdita di orientamento antropologico della civilizzazione umana, anziché costituire, di per sé, il fondamento culturale della stessa esperienza umana. Infatti, in quella distanza razionalmente incolmabile tra Natura e Spirito, si annida l‟esigenza religiosa di una mediazione atta a spostare in direzione del Sacro il thàuma della sua constatazione. Ed è appunto nella prospettiva tremenda del Sacro che va considerata ogni elaborazione mitica e conseguente rielaborazione logica della rappresentazione del Sé come icona sacra della totalità. Questa immagine, sostiene Jung, “rimane ferma nell‟inconscio”, e quindi separata dall‟Io cosciente, che, trovandosi “in uno spazio assoluto e in un tempo assoluto”, non deve cadere nell‟orbita del Sé, e provocare perciò una “catastrofe psichica”. Da qui la “massima importanza che l‟Io si ancori nel mondo della coscienza e che questa si fortifichi per mezzo di un adattamento il più preciso possibile”.409 Ossia resti distaccato dal lato ctonio dell‟inconscio grazie a una forte integrazione nella realtà sociale. La dicotomia coscienza-inconscio riflette in Jung quella tra veglia e sogno, in cui agisce nei rispettivi casi una “autorità” diversa: la volontà razionale dell‟atteggiamento morale, e l‟istinto naturale. Ma “l‟uomo civile” moderno “ha una tale paura del crimen laesae maiestatis humanae che, quando è possibile, indulge a una colorazione retrospettiva dei fatti, per nascondere a sé stesso la sensazione di aver subito una sconfitta morale” lasciandosi soggiogare dall‟impulso naturale, per cui preferisce attribuirlo alla “volontà di Dio”, rivestendo così “il lassismo morale col manto della virtù”.410 Ma, restando secondo Jung “ignote le radici del senso di libertà morale”, non è possibile a suo dire stabilire “fino a che punto la decisione, apparentemente libera, abbia una motivazione causale, magari inconscia”, ed è psicologicamente opportuno perciò “spiegare come „volontà di Dio‟ le forze della natura che si manifestano per noi come impulsi”, al fine di trovarsi “in armonia con l‟habitus della vita psichica ancestrale”, rappresentando “come l‟uomo ha funzionato dovunque e in ogni tempo”.411 La verifica empirica della positività biologica dell‟adattamento psicologico agli impulsi naturali/divini è per Jung la migliore “garanzia” della sua veridicità, per cui “essi devono essere considerati non come 409
Ivi, pag. 24. Ivi, pag. 26. 411 Ibidem. 410
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desideri e voleri arbitrari, bensì come dati assoluti [che] la volontà è capace di dominare solo parzialmente”, senza poterli veramente reprimere, poiché “ciò che è stato represso, ricompare in altro luogo e in forma mutata, ma questa volta aggravato da un risentimento che ci inimica l‟impulso naturale, in sé innocuo”.412 Ci si chiede, al dunque, il perché della repressione, se è vero che tali impulsi siano “innocui”. Evidentemente la violazione della loro presunta innocenza consiste nella volontà di controllare con la coscienza anche l‟area di necessaria disponibilità dell‟inconscio. E poiché, per quanto detto, non è possibile ben delimitarle, occorre rifarsi all‟esperienza comune, in cui ad agire non è la sola decisione etica ma anche il daimon socratico, poiché “il fenomeno psichico nella sua totalità […] non consiste unicamente in significato, ma anche in valore, che dipende dall‟intensità della tonalità affettiva che l‟accompagna”, per cui non lo si può cogliere attraverso il solo “intelletto”.413 Si noti come al concetto di “valore” si dia un‟accezione piuttosto affettiva, distinta da quella intellettuale, e la cui importanza psicologica è riposta nel fatto che esso “dà la misura dell‟intensità di un‟idea, di una rappresentazione” che esprime il suo “grado di efficacia”, a seconda dei casi positiva o negativa, in dipendenza sia allo stato di veglia o di sonno del soggetto, e sia relativamente alla sua condivisione sociale.414 Infatti, gli “ideali collettivi” sono provvisti di “valore affettivo” indipendentemente dal grado di partecipazione emotiva soggettivo, alla cui “reintegrazione nel contesto archetipico” provvedono i poeti e i profeti.415 E‟ interessante notare, al di là della incongruenza logica del costrutto teorico – in cui si confonde la cogenza sociale del “valore” etico con la responsabilità razionale della decisione morale, dislocando nell‟ambito “affettivo” anche l‟elemento normativo socializzato in senso istituzionale dal Potere politico e non psichico-, che il concetto di “valore” acquisti un significato psicologicamente positivo in relazione al grado di integrazione dell‟Io con gli “ideali collettivi”, intesi ubicuamente sia come archetipi inconsci che come prodotti “morali, estetici e religiosi” della coscienza spirituale, dando surrettiziamente a intendere – ancora una volta - la necessità di una loro corrispondenza culturale ai fini dell‟equilibrio psichico dell‟uomo singolo come dell‟intera società. 412
Ivi, pag. 27. Ibidem. 414 Ivi, pag. 28. 415 Ivi, pag. 29. 413
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In realtà, proprio in considerazione della distinta ma imponderabile influenza dell‟elemento cosciente su quello inconscio, gli “ideali collettivi” conservano il loro tasso di stabilità in relazione all‟incidenza che su di essi esercita sia la partecipazione soggettiva (ossia la fede nel loro valore morale) che la loro conferma istituzionale performativa della volontà individuale. Nei due casi, il riferimento agli archetipi è radicalmente diverso. Infatti, gli “ideali” se “collettivi” non possono essere inconsci, ma definirsi contenutisticamente di termini condivisi, cioè razionali in senso mitico o filosofico. Condividere, anche in senso mistico, equivale a rappresentare un valore in termini ontologicamente reali. In tal senso, soltanto il prodotto di coscienza può essere condiviso e diventare “ideale collettivo”. Gli archetipi, invece, sono suscettibili di storica e culturale definizione ma non sono reali indipendentemente dalla fede nella loro veridica rappresentazione della realtà. E‟, cioè, la fede a rendere “reali” gli archetipi attraverso la rappresentazione (mitica o filosofica) che di essi se ne dà. Un “ideale collettivo” è il prodotto culturale della fede nella veridicità della rappresentazione formale degli archetipi, la quale fede attribuisce valore simbolico alla rappresentazione. Formale equivale a ideale, nel senso del significato, e a simbolico nel senso del significante. Gli archetipi, per la loro natura inconscia, appartengono alla dimensione simbolica, non a quella ideale, dovendo essere idealmente interpretati per acquisire un valore riconosciuto. Fintantoché restano meri simboli, essi sono forme di pensiero prive di significato ideale. Ora, culturalmente, non sono i simboli a mutare, ma i significati ideali, per cui la persistenza degli archetipi è relativa al mutamento dei suoi significati ideali, ossia, nel nostro caso, del loro valore religioso. Ciò che è il significato per la coscienza filosofica, è la fede per la coscienza religiosa, per cui gli “ideali”, anche quelli “collettivi”, si costituiscono di contenuti significativi condivisi o per fede o per ragione. In tal senso, sia la fede religiosa che la ragione filosofica sono le imprescindibili mediazioni ideali attraverso le quali i simboli archetipici vengono formalmente rappresentati come prodotti reali elaborati dalla coscienza storica, di un soggetto individuale o collettivo. Nel caso in cui “l‟inconscio prende il sopravvento” sull‟Io cosciente, avviene che i simboli archetipici hanno perduto il loro significato ideale e non sono più rappresentativi del loro valore religiosamente o filosoficamente significativo. In questo caso, la incoscienza degli archetipi è dovuta alla loro condizione idealmente muta, non più 160
espressiva cioè di fede o di pensiero. Essi si ritirano dalla coscienza culturale, di un singolo, di un popolo o di una intera civiltà, e abbandonano la realtà umana al suo destino naturale. Affermare, come sembra fare Jung, che la condizione naturale dell‟uomo non sia una condizione astratta ma invece sia una “totalità” oggettiva che “fronteggia il soggetto in modo autonomo” alla stregua dell‟Animus o dell‟Anima ma a questi superiore come l‟intero alle parti, e in quanto empiricamente anticipata nella psiche da “simboli spontanei”, equivale ad attribuire ad essa la stessa considerazione riservata al concreto e stabile collettivo sociale rispetto all‟astratta e volubile coscienza soggettiva. Il ché lascia supporre la preferenza ideologica dell‟Uno naturale rispetto al Molteplice storico. Come egli scrive, infatti, “unità e totalità si trovano sul gradino più alto della scala dei valori oggettivi e perciò i loro simboli non possono più esser distinti dalla imago Dei”, per cui “tutte le enunciazioni, le attestazioni, concernenti l‟immagine di Dio valgono quindi senz‟altro anche per i simboli empirici della totalità”.416 Jung assume la realtà dell‟Uno come un‟esperienza, e non un‟esigenza, e non sa darne ragione, sicché la ragione del fatto diventa il suo non senso, la sua mancanza di ragione. Non pensa, come Pascal, che lo stesso silenzio della ragione dovesse indurlo a ritenere che il Tutto non potesse essere un “fatto”, cioè un prodotto della coscienza umana, una sua proiezione, ma fosse invece una esigenza spirituale, quella di ritrovare oltre le forme empiriche, il non-luogo dell‟Infinito, incommensurabile e ineffabile, intuibile solo col “cuore”. Di conseguenza, il suo Tutto, in realtà, coincide con la sua rappresentazione mitologica, appunto con un “fatto” storicoreligioso, che “si rivela, attraverso le sue qualità empiriche, come l‟eidos di ogni suprema rappresentazione di totalità e di unità”.417 Appunto. E l‟eidos non è, come invece Jung ritiene, un “accadere psichico”, bensì una “proiezione metafisica”, i cui contenuti, diversamente dagli archetipi, sono storici, e come tali, rappresentativi di un orizzonte simbolico espresso in “concetti” appunto meta-fisici, cioè simbolici, i quali una volta che “hanno perduto la capacità di riportare alla memoria e di evocare l‟esperienza originaria, non soltanto diventano inutili, ma si rivelano veri e propri impedimenti sulla via che porta a un ulteriore sviluppo”.418 Ciò significa che i concetti rappresentativi sono derivati (razionali) e non 416
Ivi, pag. 31. Ivi, pagg. 33-34. 418 Ivi, pag. 34. 417
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originari (ontologici), in quanto forme dell‟Essere espresse in simboli significanti, in narrazioni e concetti, il cui significato può culturalmente variare, ossia essere rielaborato per un “ulteriore sviluppo” razionale. Ma la loro stessa disponibilità a essere rielaborati attesta inequivocabilmente che il Tutto di cui parla Jung non è trascendente la realtà finita, ossia il Molteplice, e che dunque non è l‟Uno infinito e negativo di Dio. La mitologia non ha dunque nulla che vedere con i “sogni”, così come in genere non ne ha l‟orizzonte religioso, e segnatamente quello cristiano, sicché il motivo per il quale “neppure nei secoli della ragione e dell‟illuminismo il mito e il mondo suo proprio hanno perso nulla della loro vitalità”, [Ivi, pag. 35.] è dovuto alla incomprensione del rapporto indissolubile tra Mythos e Logos, momenti entrambi costitutivi di uno stesso orizzonte di senso rappresentativo della coscienza umana, e ritenuti invece dal razionalismo scientista e dal misticismo religioso come esclusivi. Secondo Jung, “Cristo è il mito ancora vivente della nostra cultura”, “l‟eroe civilizzatore che, indipendentemente dalla sua esistenza storica, incarna il mito dell‟uomo primordiale divino, del mistico Adamo”.419 Abbiamo sottolineato l‟inciso in quanto da esso si desume l‟incomprensione razionalistica dell‟identità della “esistenza storica” con la sua “incarnata” rappresentazione mitica. Infatti, la rappresentazione, al di là dei suoi contenuti più o meno mitici, più o meno razionali, è di per sé un avvenimento storico, dotato di senso, mitico o razionale relativamente al livello di coscienza ermeneutica dell‟interprete. Credere nell‟esistenza di Cristo ed affermarlo in termini idealmente rappresentativi, appartiene allo stesso processo gnoseologico, in base al quale l‟affermazione logico-esistentiva presuppone una fede ontologica nell‟Essere di ciò-che-è, ossia un contenuto o significato simbolico, affidato al simbolo e da questo custodito. Soltanto la mancanza di fede in Cristo può rendere la sua esistenza insignificante, priva cioè di valore simbolico, e quindi la sua stessa storicità un evento privo di ogni valore mitico. In termini generale, i miti perdono di valore rappresentativo allorquando viene meno la fede nel loro significato razionale, ossia quando non sono più simboli significativi inscritti in un orizzonte di senso che ne costituisce la loro verità. In questo senso veritativo “Cristo è in noi e noi
419
Ivi, pag. 36.
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siamo in lui,420 all‟interno dello stesso orizzonte simbolico, significativo della fede ontologica e della sua corrispondente rappresentazione razionale. Se è vero, come afferma Jung e come noi riteniamo, che “Cristo rappresenta in concreto l‟archetipo del Sé”,421 allora la sua rappresentazione non è il Sé, ma appunto solo la sua concreta manifestazione, ossia la sua forma ideale, archetipica, la quale è soggetta a mutamenti rappresentativi, che lasciano in ogni caso impregiudicata la natura trascendente del Sé divino o Dio. Perché l‟archetipo cristiano possa identificarsi con Dio, con il Sé divino trascendente, occorre uscire dall‟Uno, ek-sistere, ossia proiettare nel mondo la propria immagine generativa, poietica; in una parola: amare. L‟amore di Dio è la sua generazione, ossia figliolanza. Cristo, “figlio di Dio”, perviene all‟esistenza come uomo. La forma umana è la forma possibile di Dio, il cui archetipo è Cristo. Posto che l‟intera creazione sia opera di Dio, qual è la differenza tra il Cristo e ogni altra creatura divina? E‟ la stessa che tra l‟uomo e ogni altro essere vivente, ossia la coscienza che egli ha di sé come “microcosmo” del Sé divino. In tal senso, l‟uomo è, in sé, tutto ciò che può essere l‟universo. E tutto ciò che può essere universalmente è la Possibilità, cioè la potenza spirituale che l‟Essere possibile diventi essere attuale, ente. La creazione, come atto d‟amore, costituisce l‟attualità della Possibilità, ossia la sua riduzione alla dimensione della finitezza. La differenza tra l‟infinita Possibilità e la finitezza reale risiede nella condizione stessa che determina ogni realtà finita, la sua molteplicità, ossia il suo trapassare in altro da sé, che riflette in scala naturale lo stesso passaggio dal Sé divino all‟immagine cristica. In altri termini, l‟atto generativo d‟amore che crea il Molteplice dall‟Uno con-siste nella duplice condizione di Vita e di Morte, indissolubilmente congiunti nello stesso processo genetico. L‟intima natura contraddittoria dei due elementi fondamentali della generazione viene rappresentata archetipicamente dal simbolo del Cristo, dalla sua divino-umanità. Cristo viene al mondo come creatura divina da madre mortale, e muore come uomo che rinasce nell‟eternità di Dio. Egli pure, come ogni altra creatura, segue il percorso insito nella stessa generazione, nello stesso atto d‟amore, caratterizzato dalla nascita, vita e 420 421
Ibidem. Ivi, pag. 37.
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morte. Questo percorso segna la sua natura finita, non ancora la sua natura elettiva, ciò che lo accomuna al destino umano, costituendolo come suo archetipo antropologico. L‟elemento elettivo di Cristo, che fa di lui l‟archetipo, ossia il modello ideale di Uomo, non è la sua finitezza, comune a tutto il creato, e neppure dunque il suo percorso naturale che dalla nascita lo conduce alla morte. L‟elemento elettivo che fa di Cristo l‟archetipo dell‟Uomo è la coscienza della sua duplice natura, tale da porlo nella condizione di scegliere quale delle due far prevalere entro il percorso naturale al fine di determinarlo nella persistente direzione del finito, ovvero di emanciparlo nel senso dell‟infinito trascendente. Scegliere la finitezza, significa sottostare alle leggi della natura, della naturalità umana della condizione sociale, sopprimendo nel proprio sé l‟elemento spirituale e singolare che consente l‟unione col Sé trascendente e divino. La “integrazione” nel regno di Cesare. Scegliere, viceversa, l‟elemento infinito del sé, comporta emanciparsi dal senso della finitezza, aderendo al senso della infinita realtà di Dio. Cristo, diversamente da ogni uomo finito, non si emancipa soltanto dal “senso” della finitezza, cioè dal suo valore significativo, ma dalla finitezza stessa, ri-sorgendo dalla morte naturale nella deificazione spirituale. La condizione finita dell‟uomo gli consente una scelta tra realtà impari: quella per il regno di Cesare, che è la realtà stessa in cui l‟uomo si trova a vivere la sua condizione sociale, e quella per il regno di Dio, che è la condizione personale e immateriale in cui la sua coscienza lo accompagna nell‟intimità non socializzata, privata. Come essere privativo l‟uomo si isola dalla realtà comune e per raggiungere la realtà del suo sé. Questo sé immateriale, spirituale, non appartiene come una cosa soltanto all‟uomo finito, all‟individuo empirico e alla sua immaginazione. Il suo sé è invece la tessera simbolica di un Sé infinito, che trascende la finitezza della sua coscienza umana, e abbraccia ogni sé particolare, costituendolo come elemento di un Sé spirituale universale ed eterno, che è Dio. La realtà immateriale e invisibile del Sé è in interiore homine, nella stessa coscienza in cui germina la scelta essenziale, cioè quella libertà di essere sé anziché noi che le altre creature non hanno, soffocate dalla necessità della loro finitezza. Così come Dio sceglie amorevolmente di ek-sistere in Cristo, parimenti l‟uomo può scegliere – ed è in questa possibilità la sua libertà – di ek-sporsi a ciò che non-è naturale, al Mistero divino, che è lo stesso Spirito immateriale che è in lui. L‟Io, pertanto, non è solo il luogo naturale della finitezza, che la potenza 164
sociale può politicamente ed economicamente soggiogare e asservire alle ragioni della sopravvivenza; l‟Io è anche, e soprattutto, il luogo dell‟accesso all‟alterità, a quell‟Altro che non-è finito, ma che è possibile, la cui realtà possibile è molto più vasta di ogni impero umano, della stessa natura fisica, perché senza confini. L‟infinita Possibilità che è il regno spirituale di Dio, è quel Sé in cui ogni Io particolare si può riconoscere convertendo la sua natura finita nella sua infinita possibilità. L‟ “uomo totale” è nel contempo dimidiato dalla coscienza della duplice natura della sua totalità, la quale, più che “paradossale”, è misteriosa, e perché tale va esplorata dalla ragione, ossia dalla stessa coscienza. Ed è questo il senso della “scissione” cristiana dell‟archetipo “in due metà così inconciliabili da sfociare in un dualismo metafisico”.422 Scissione che è platonica, prima di essere cristiana, e nella quale si rappresenta l‟elemento dialettico insito nell‟Essere simbolicamente totale, la cui coscienza rielabora il Mito unitario archetipico. Col Cristianesimo siamo già oltre il Mito, e anche oltre la scissione dialettica, in quanto al pensiero antico mancava il concetto della totalità come sintesi degli opposti. La dialettica antica si ferma alla rappresentazione logica della dissociazione dell‟Essere e della sua Ombra negativa. Il pensiero cristiano, invece, pur ereditando il retaggio razionalistico greco, ossia pur pensando la scissione metafisica, pensa anche la Totalità come unità inclusiva, in maniera nuova rispetto al pensiero esclusivo greco, il quale opta per l‟essere scartando il nonessere, e facendo così del cosmo ideale una alternativa ontologica al mondo ontico reale. Il pensiero che ha Jung del simbolo cristiano della totalità, è ancora idealistico, è ancora platonico. Il Cristo di Jung è l‟imago platonica di Dio, una visione cioè ancora legata ai motivi della logica dialettica e della sua pensabilità esclusiva. Questa rappresentazione del Cristo è ancora a parte rationis, razionalistica, dissociando entro il Sé la finitezza umana e la spiritualità personale. Non è ancora una rappresentazione a parte spiriti, spiritualistica. E non lo è per il semplice motivo che il pensiero spiritualistico non può essere concepito come l‟irrazionale rispetto al razionale, come l‟inconscio rispetto alla coscienza, poiché tale dicotomia insiste ancora entro la scissione metafisica platonica, non la supera. Il pensiero spiritualistico, cioè, non è pensabile razionalisticamente, come il 422
C.G. Jung, Aion, tr. it. cit., pag. 41.
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pensiero del non-essere, poiché la forma astratta dell‟Essere, l‟Idea, è lo stesso Essere pensato come non-Essere, ossia nella sua convertita opposizione all‟ente, che ne è la “immagine”, o psicologica “proiezione”. Il pensiero del non-essere è il pensiero del non-ancora, dell‟ inattuale, e come tale concepito come della “immaginazione” o della “fantasia”, ossia del Mito rispetto al Logos. Il pensiero spiritualistico va pensato invece come intuizione della Totalità, dell‟Uno, comprensivo degli opposti e ad essi trascendente. E poiché pensare significa razionalisticamente distinguere, pensare spiritualisticamente è una contraddizione irresolubile dal pensiero logico della tradizione classica. Da qui l‟appello mistico a diffidare della ragione umana e affidarsi alla volontà di Dio. Anche la strada teoretica dello spiritualismo è stata battuta per tempo dalla cultura cristiana secolarizzata, che è ha potuto concepire, dopo una filosofia della Natura, una filosofia dello Spirito. Ma per tale percorso teoretico non si esce dal razionalismo dialettico, da quella “scissione metafisica” di cui parlava Jung. Occorre superare la scissione, che ha attraversato la stessa rappresentazione cristiana dell‟archetipo cristico in cattolica e protestante, e pervenire a una visione unitaria che non sia esclusivamente formale-istituzionale né ideale-spirituale, che vada oltre cioè la immagine di Dio e la sua storicità fenomenica, rappresentata dall‟archetipo di Cristo come ikone simbolica della sua Idea, nel senso invece di una rappresentazione della totalità di Cristo come dòkema, che non sia solo “visione” eidetica del fenomeno storico ma anche “apparizione” spirituale della natura divina, ossia una cristologia intesa come una ontologia della storicità, che abbia a suo fondamento non il contemplativo theorein, nella cui attività noetica si dichiara la differenza logica dell‟Essere, ma la sintetica dòkesis, nella cui intuizione del Possibile si riassume il triplice e congiunto senso della apparizione divina nella Storia, della credenza nella sua incarnazione nel Cristo e della decisione morale che in nome della fede cristiana costituisce l‟orizzonte spirituale dell‟uomo storico. Il pensiero eidetico della tradizione teoretica greca, procedendo per progressive distinzioni dell‟originaria unità mitica del Molteplice, indicata come l‟Idea o la Natura, ha parcellizzato il sapere sulla natura dell‟ente, giungendo alle ipotesi dei teoremi scientifici, tesi a discoprire le leggi dei processi regolari dei fenomeni naturali, al fine di prevederli e controllarli. Sia nel campo del sapere che in quello sociale, il principio regolatore del divide et impera ha funto da regola funzionale del controllo 166
dei fenomeni naturali, sicché l‟intero meccanismo vitale del Molteplice è diventato l‟oggetto della più particolare e settoriale disamina scientifica, ogni branca della quale ha concepito il suo campo di osservazione come fosse il Tutto, facendo del relativo scibile la logica settoriale di un sistema di relazioni razionali privo di fondamento ontologico e di destinazione finale, in cui i fenomeni, astratti dalla loro possibilità, vengono indagati nella loro pura attualità ontica, mondata di ogni valore significativo. La metodica logico-scientifica, trasferita entro l‟esperienza della civiltà umana, ha ricacciato progressivamente dal livello esclusivo di coscienza razionale ogni traccia di senso spirituale, facendo del suo sfumato orizzonte simbolico il regno umbratile dell‟inconscio mitico, l‟antro oscuro e impenetrabile degli arcani archetipi di un Essere immaginario, evocato dalla fantasia religiosa e poetica, ma ritenuto privo di alcuno spessore teoretico. Di conseguenza, la civilizzazione, concepita come razionalizzazione sistematica della vita umana, ha coinvolto nella sua metodica razionale anche il panorama naturalizzato dello Spirito, operando nella sua introspezione cognitiva nei termini dialettici della distinzione tra quanto risultasse compatibile con la ratio sistemica e quanto invece logicamente non ne rientrasse, considerando del Possibile solo la zona messa in luce dalla ragione, e lasciando invece nell‟ombra dell‟inconscio gli anfratti oscuri dell‟Io irrazionale. Ma la giustapposizione scientista del metodo naturalistica alla composita realtà umana, ha lasciato fuori dell‟uomo la sua stessa Storia spirituale, nel cui orizzonte di senso ricade non soltanto la simbologia di una forma religiosa particolare, il Cristianesimo, ma il significato stesso della complessiva esperienza umana. In ragione di ciò, la rappresentazione cristiana della Storia umana non avrebbe alcun valore simbolico fuori dell‟orizzonte della fede in Cristo se non contenesse l‟intuizione ultrarappresentativa dell‟uomo spirituale, la cui universalità non è meno ma più reale di quella della sua natura fisica, la quale, di per sé, non ha storia, cioè cosciente processo evolutivo, ma solo inconsapevoli persistenze e resistenze anti-evolutive. In questo senso, storicità e spiritualità sono congiunte nella stessa considerazione onto-antropologica dell‟uomo respons-abile della sua volontà morale, per cui la lettura semantica della sua complessiva esperienza esistenziale sia conformata non solo alle sue necessità naturali alla stabilizzazione e difesa delle sue finite condizioni biologiche, ma anche a quelle necessità innaturali che non possono essere riscontrate e quindi giudicate in base alla sua condizione fisica, le quali lo ek-spondono alla in-finitezza della 167
Possibilità. Soltanto una considerazione ontologica dell‟homo spiritualis può sollevare la sua conformazione antropologica dalle ristrettezze di una tipologia segnata da una cultura storica particolare, la cui assunzione universale risulti dunque costituire nient‟altro che una mistificante proiezione ideo-logica. L‟uomo cristiano, invece, non è soltanto l‟idealtipo culturale di una umanità contrassegnata da una credenza mitico-religiosa, ossia il soggetto storico della cristianità o dell‟eone cristiano. Egli è anche la forma storica che la Possibilità esprime divenendo processo spirituale, ossia realtà molteplice. In questo senso ontologico essenziale, l‟uomo cristiano è l‟uomo del processo della Storia spirituale, ossia l‟uomo storico universale che procede verso la compiuta coscienza del Sé. Lo spiritualismo razionalistico ha inteso questo Sé come il sé dell‟uomo naturale, ossia con la auto-coscienza della umanità empirica, concependo la Storia spirituale come un processo genetico necessario della specie umana, e non già come, in verità, lo svolgimento di una tensione morale sospesa tra le resistenze naturalistiche della realtà biologica, tendente all‟economia della stabilità della sopravvivenza, e le esigenze spiritualistiche della essenza privativa dell‟uomo, il cui grado di sviluppo evolutivo individuale non coincide mai con il grado di assestamento biopolitico del gruppo sociale. Non a caso la dottrina cristiana è fondamentalmente un messaggio privato all‟uomo personale depositario dello Spirito, la cui deformata fisionomia sociologica è quella dell‟individuo (egoista) contrapposto alla (benigna) società. In verità, l‟uomo spirituale del Vangelo è l‟immagine del Sé, quella imago Dei rappresentata archetipicamente dal Cristo quale corpus mysthicum. E mentre nessun individuo empirico è Cristo, in quanto persona spirituale, invece, ogni uomo è Cristo, e n questo senso spirituale la Sua storia rappresenta simbolicamente la stessa Storia dell‟umanità nel suo processo spirituale. Una Storia fatta di persone, cioè di esperienze spirituali soggettive, e non di enti individuali o collettivi. Le quali persone, ognuna secondo la sua possibilità, cioè il rapporto che il suo sé spirituale ha con lo Spirito totale o Dio, procedono verso la coscienza del Sé, ovvero verso l‟unità mistica divina, che ha carattere escatologico, e non temporale. Nell‟ambito della molteplice esperienza individuale o collettiva dell‟uomo naturale, non c‟è propriamente Storia in senso spirituale, cioè processo evolutivo della coscienza morale, ma soltanto di una dinamica 168
costituita da lotte e conflitti, ovvero pace e stabilità, in rapporto all‟ambiente fisico e sociale. Le relazioni economiche e politiche non costituiscono una Storia in senso spirituale e proprio, ma soltanto sequenza di avvenimenti dinamici, inesorabilmente instabili in quanto inscritti nella dimensione finita del Molteplice, e soggetti pertanto allo stesso ciclo naturalistico universale. Solo la Storia spirituale ha un senso escatologico, in quanto il suo processo è inscritto nella dimensione della possibilità, la quale, diversamente dalla necessità delle dinamiche naturali, non segue alcuna legge universale, ma riflette soltanto le scelte di libertà intraprese in virtù della personale responsabilità morale del sé spirituale nel senso del Sé divino (anziché in conformità di ogni altro indicatore empirico). Tutta la Storia spirituale dell‟uomo è nel rapporto che ogni sé ha con il Sé universale ed eterno, cioè che la persona singola intrattiene con il Dio di tutti. Rapporto che si compendia rappresentativamente nella vita, passione, morte e resurrezione di Cristo, l‟immagine umana di Dio o Spirito vivente, nel cui sé umano si rappresenta lo stesso Sé divino come Storia. Cristo è tutto ciò che può essere ogni uomo e che non è l‟umanità come specie o come ente collettivo, soggetto alla necessità della sua realtà finita. In questo senso precipuo, ogni unità empirica umana, anche se ispirata alla realtà spirituale, è destinata all‟imperfezione e al conflitto. Compresa la Chiesa, dunque, la cui umana imperfezione riflette la stessa compagine apostolica originaria, nella quale si perpetrò il tradimento di Giuda, cui seguì la fine inevitabile, in quanto sociale, della stessa unità carismatica, con la dispersione degli apostoli nel mondo. Le antinomie della rappresentazione razionalistica dell‟Essere oscillano a tratti nel senso della luce della ragione, e a tratti nel senso opposto dell‟oscurità dell‟irrazionale, secondo un movimento pendolare incapace di segnare, col proprio, anche il tempo altrui, ossia il trapasso del suo scorrere, perdendo pertanto la essenza stessa del Molteplice, del suo incessante divenire, e insomma la ragione della sua stessa finitezza. E con essa, di conseguenza, anche il valore dell‟infinita trascendenza, il “passaggio”, dalla necessità naturale alla libertà spirituale, la cui insopprimibile esigenza umana il razionalismo ha inteso in senso esclusivamente immanentistico, come liberazione dal trascendente, e sociale, come rivoluzione politica. liberazione teoretica e rivoluzione politica, sono i due aspetti speculari della fondamentale contraddizione interna alla logica dialettica. 169
La contraddizione è insita nella logica esclusivista e deriva dalla stessa sua assunzione dell‟Essere attuale come Totalità, che fa della sua esperibilità la conferma della sua realtà concettuale. Realtà ed esperibilità diventano pertanto i due elementi costitutivi e confermativi dell‟Essere conoscibile e perciò razionale, rappresentato come Idea o Natura. Realtà ideale e realtà naturale sono i termini stessi dell‟unica verità dell‟Essere considerato a parte subjecti e, rispettivamente, a parte objecti, i quali si riflettono reciprocamente come il modello noumenico riflette il dato fenomenico. In verità, la determinazione razionale dell‟Essere come unica verità possibile nell‟ambito delle sue premesse epistemologiche, è il portato di una lunga e travagliata fede ontologica, la quale, fondando i princìpi della conoscenza sui proprii criteri di realtà, ha fatto della sua rappresentazione dell‟Essere l‟orizzonte esclusivo di ogni sua possibile esperibilità. Questa credenza ontologica, nonostante ogni smentita pratica e spirituale, persiste culturalmente come il Mito fondativo della civiltà umana, dal quale si è sviluppata una complessa e raffinata mito-logia che l‟ha accreditato per lunghi secoli e millenni come l‟orizzonte di senso di ogni possibile processo evolutivo della cultura umana. Probabilmente la rappresentazione mitica della civiltà razionalistica avrebbe già compiuto il suo corso culturale con l‟estinzione della civiltà che l‟ha prodotta se non fosse intervenuto a inverarla nel proprio orizzonte di senso il Cristianesimo, che di quella civiltà razionalistica si è considerato la proiezione universale, unica ed eterna. Ed è tale “proiezione” del Cristianesimo, costitutiva della cristianità, ossia della civiltà cristiana, ad aver proseguito la mitologia razionalistica e ad essere entrata in crisi con la secolarizzazione moderna, che ha operato sul Mito cristiano come il suo Lògos filosofico. Ed appunto tale “eone” cristiano ad essere l‟oggetto di analisi del pensiero di Jung, in cui il Mito viene rappresentato come l‟elemento ctonio e inconscio, e il Lògos come quello solare e cosciente. La stessa figura di Cristo viene presentata a un tempo come “l‟incarnazione del Sé” e come “l‟eroe della civiltà”, interprete dunque dell‟elemento razionale del Tutto, per cui, in quanto “corrisponde, da un punto di vista psicologico, solo a una metà dell‟archetipo”, le viene contrapposta l‟opposta figura dell‟ “Anticristo”, rappresentativa il “suo lato oscuro”.423 L‟opposizione archetipa che contraddistingue la 423
C.G. Jung, Aion, tr. it. cit., pag. 43.
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contraddizione interna alla coscienza, “implica nientemeno che una crocifissione dell‟Io, la sua tormentosa sospensione tra due inconciliabili opposti”.424 Si noti come l‟Io, pur gravato dalla contraddizione, venga identificato con la sola coscienza razionale, per cui il suo opposto dialettico diventa un monstrum da eliminare, anziché l‟altro che la fede razionalista non riesce a includere nel suo sistema cognitivo, e che perciò demonizza. Questa rappresentazione del Sé come contraddittoria totalità razionale e positiva, fa del Cristo il nomen cristiano dell‟Idea platonica, ossia del modello antropologico dell‟ente privo di contraddizione, sola lux. E pertanto, sulla base di questa rappresentazione esclusiva, “per il cristiano né Dio né Cristo possono essere un paradosso: devono essere univoci, avere un solo significato”, quello indicato come summum Bonum, esattamente come nella logica dialettica, la quale “aveva spinto già gli antichi a dare una definizione filosofica di Dio tale da farlo in certo qual modo coincidere col sommo bene”.425 Questo innesto della logica dialettica greca nella rappresentazione cristologica realizza l‟incontro sincretistico del razionalismo greco-pagano entro l‟orizzonte di fede dello spiritualismo cristiano, che lo assume, non già come Mito idealtipico di una determinata civiltà naturalistica, ma come lo strumentario concettuale della ratio giustificatrice della propria fides, facendo dunque dipendere questa da quella, e così rovesciando l‟ordine dei fondamenti ontologici del sapere che, per l‟intima contraddizione della logica dialettica, la rielaborazione razionalistica dell‟umanesimo neo-naturalistico moderno ha ribaltato. Inserendosi nell‟universo di senso razionalistico greco, il Cristianesimo, quale fede ontologica spiritualistica, ne è diventato il contro-senso logico, il Mito da sfatare e condurre a ragione, anziché costituire esso la ragione del mondo, ovvero il “sale della terra”. Da questa posizione contraddittoria discende la concezione dialettica del Bene, che attribuisce a Dio “creatore del cielo e della terra” quanto di bene è riferibile al mondo (omne bonum a Deo), e tutto il male invece all‟uomo (omne malum ad homine).426 Trasferendo la contraddizione dialettica dalla logica all‟Essere, e quindi dall‟Essere naturale all‟Essere divino, la rappresentazione cristologica del cosmo ha confermato l‟ontologia razionalistica in termini di verità teologica, segnando così 424
Ibidem. Ivi, pag. 44. 426 Taziano, Oratio ad Graecos, cit. da Jung, Ivi, pag. 45. 425
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l‟intero processo della civiltà umana all‟interno dell‟orizzonte di senso tracciato dalla cultura greca, di cui il Cristianesimo è diventato la proiezione antropologica universale, la fede stessa dell‟Uomo di ogni tempo e di ogni civiltà. E su questo paradigma cristologico si è inteso interpretare l‟intera Storia dell‟umanità. Si comprende, quindi, come la rielaborazione del Mito cristologico a opera del razionalismo moderno abbia proceduto nel senso dialettico della distinzione critica del mitema divino dalla natura umana, assumendo questa come l‟elemento razionale da conservare e quello come l‟elemento fantastico da superare, offrendo così della originaria Storia teologica della salvezza una storia tutta umana, agìta da una intima dinamica naturalistica di tipo esclusivamente economico e politico, rispetto alla quale ogni proiezione spiritualistica è intesa come una superfetazione ideologica, ossia appunto mitica. E così come era avvenuto per la fede cristiana, che era stata giustificata dalla ratio, anche nel caso dello storicismo moderno sulla ratio è ricaduta la responsabilità di giustificare adeguatamente la nuova fede umanistica post-cristiana, imputando alle sue insufficienti elaborazioni teoriche la crisi di credibilità che contraddistingue anche l‟epoca post-moderna. Da qui il profluvio di riforme della dialettica che ne è seguito, fino all‟attuale assunzione di fede dell‟epistemologia contemporanea, la quale, anziché pervenire, attraverso la coscienza dei limiti insuperabili delle contraddizioni di ogni visione razionalistica del mondo e dell‟Essere, al superamento definitivo dell‟ontologismo di origine greca, ha fatto di tale coscienza dei suoi limiti la ragione stessa della sua validità di fede, ossia finito per accoglierla come alternativa alla stessa verità, facendo del suo relativismo l‟essenza stessa di ogni possibile conoscenza e il limite insuperabile della coscienza umana, condannata così, per fatale contraddizione, alla superstizione e all‟ignoranza, ossia alla credenza in un Bene fondato sull‟ignoranza del Vero. Di questa eterogenesi dei fini, che costituisce l‟esito contraddittorio della concezione dialettica dell‟Essere, è responsabile culturale, ancor più della civiltà greca, quella cristiana, che, pur presentandosi alle origini come affermazione di Verità eterne, ha inteso dimostrarle per via di ragione, contraendo un mutuo teoretico con la filosofia greca che non è riuscita poi ad estinguere e finendo così nella bancarotta religiosa della moderna scristianizzazione. La crisi, evidentemente, non è di una particolare disciplina o teoria gnoseologica, ma della stessa civiltà cristiana, la cui concezione del 172
mondo ha retto le sorti dell‟umanità civilizzata. Altrettanto ovviamente, questa crisi non è stata di un periodo o di una corrente di pensiero, e neppure di una particolare confessione religiosa infra-cristiana, ma ha attraversato l‟intero corso della civilizzazione, fino all‟esito contemporaneo, che comunque non ne ha segnato ancora l‟uscita con la sua soluzione. I tempi ideali della conflagrazione dell‟episteme cristiano sono stati scanditi dalla progressiva nientificazione dell‟elemento dialettico opposto a quello assunto come reale, tale che il suo annichilimento teorico si traducesse in neutralizzazione esistenziale delle sue espressioni fenomeniche. Il modo teoretico di procedere a questo progressivo annichilimento è la distinzione, la quale, riflessa nella realtà fenomenica del mondo-dellavita, si traduce nella relativa determinazione di una visione dell‟Essere astratta dalla sua possibilità, ossia dal suo stesso divenire, e tale che costituisca un modello idealistico di realtà “vera” iuxta propria principia, ossia la cui veridicità è solo interna al suo sistema di accreditamento razionale, e quindi tautologica. Per tale via, la cultura razionalistica moderna, a partire non a caso dall‟arte quale immagine estetica dell‟Essere, ha proceduto a distinguere dall‟Essere possibile un suo modello iconico ideale, metodologicamente accreditato come “scientifico”, e quindi sempre percettibilmente determinabile, il quale offrisse della realtà una rappresentazione ridotta rispetto a quella possibile, ma, nella sua parzialità, totale. Questa rappresentazione contraddittoria dell‟Essere ha potuto razionalmente sussistere sul fondamento fideistico che l‟Essere attuale – il fenomeno- fosse lo stesso Essere possibile, per cui la stessa possibilità d‟essere altro dall‟attualità è stata concepita come l‟ “Ombra” negativa dell‟Essere stesso, la sua contraddizione dialettica, contenuta nella stessa espressione d‟essere attuale dell‟ente reale. In questo modo il divenire della possibilità, ossia la stessa concretezza dell‟Essere molteplice, è stata rimossa come Negativo dialettico, il quale, rispetto alla coscienza di ciòche-è, appare il suo lato oscuro e inconscio, inerente appunto ciò-chenon-è attuale, ma possibile. Ma ciò che non è attualmente possibile è la stessa Possibilità, cioè lo stesso Essere nella sua totalità, ossia quella infinità con la quale il Cristianesimo ha indicato Dio. E perciò la razionalistica distinzione dialettica e riduzione idealistica dell‟Essere alla sua attualità ontologica ha proceduto di pari passo con la progressiva negazione di Dio, il totalmente Altro, e quindi la razionalizzazione del 173
sapere con il parallelo ateismo, e la conseguente civilizzazione delle culture umane con la loro scristianizzazione. Forse è opportuno ribadire ancora che la fine della civiltà cristiana, cioè della cristianità, non coincide con la fine del Cristianesimo quale ontologia spiritualistica, ma soltanto della sua versione greca e naturalistica interpretata dalla Chiesa cattolica romana, il cui monopolio ermeneutico della Verità evangelica ha inscritto nel suo orizzonte di senso mitologico ogni possibile cristologia, giudicandola ortodossa o eretica sulla base della sua compatibilità con il proprio fondamento di coscienza mitico, ritenendolo contraddittoriamente l‟unico possibile, e trasformando così la propria versione cristologica una ideo-logia fondata sul suo Mito religioso, ossia una mito-logia, rielaborata quindi dal razionalismo moderno alla stregua di ogni altra mitologia religiosa del passato. Il Socrate cristiano è stato Paolo di Tarso, e il suo Platone Agostino di Ippona, la cui Repubblica, il modello teoretico dell‟intera civiltà greca, è stata la sua Città di Dio, il modello teo-logico di tutta la storiografia della civiltà cristiana. La dialettica degli opposti, allorquando discende dal piano teoretico a quello pratico, genera una serie di coppie antagonistiche, la più importante delle quali è la distinzione tra il Bene e il Male, i quali essendo “logicamente equivalenti […] non discendono l‟uno dall‟altro, ma sono sempre contemporaneamente presenti”, ma pur tuttavia costituiscono “una conditio sine qua non di ogni atto di conoscenza”, che si risolve in un giudizio morale su “fatti” che “sono chiamati bene dagli uni, male dagli altri”, e di cui pertanto “accertare la responsabilità umana non è così facile”.427 Jung contesta la dottrina cristiana del Malum come privatio Boni, attribuendone l‟origine alla disputa della Chiesa contro il “dualismo manicheistico”,428 ma non coglie il fondo di verità che essa racchiude quale concetto del Bene come Tutto o Dio. In tal senso, il Male come “privazione” e non come “sostanza”, tende ad affermare che Dio non era, per riprendere le parole di Agostino, “una massa corporea”, come invece la “raffiguravano” i manichei, i quali rappresentavano anche il Male come “una sostanza di quel genere” che, avendo “corpo oscuro e deforme” era immaginato essere “uno spirito maligno strisciante sulla terra”.429 Ma era 427
Ivi, pag. 46. Ivi, pag. 47. 429 Agostino, Confessiones, V, X. 428
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invece il Tutto, il quale, non avendo in sé alcun limite, era perciò sommo Bene. Diversamente, la realtà finita, priva della infinitezza e totalità di Dio, era necessariamente maligna. Il problema sorge allorquando, come si diceva, dal piano della teoresi dialettica, in cui i due opposti sono “logicamente equivalenti”, si passa alla all‟accertamento pratico della responsabilità morale, ossia alla determinazione delle azioni umane intese come “fatti”, ossia come fenomeni naturali. In questo caso, o essi tutti, in quanto privi di totalità, e cioè astratti, sono tutti maligni; ovvero, in quanto totalità distinte, in sé concrete, sono compenetrate in egual misura di Bene e di Male. La teoria cristiana, come abbiamo visto, afferma la prima opzione, per cui omne bonum a Deo e omne malum ad homine, mentre il razionalismo moderno propende per la seconda, considerando ogni “atto” spirituale dell‟uomo alla stregua di un “fatto”, avente quindi in sé il suo dialettico opposto, tale per cui è impossibile dare di esso un giudizio morale, essendo morale la sua stessa esistente realtà ideale, pervenendo per tal via alla teoria della Wertfreiheit dei giudizi scientifici e quindi del relativismo morale e culturale. Solo il dualismo metafisico, ponendo Dio come l‟assolutamente Altro dalla finitezza naturale, poteva pervenire alla distinzione morale. Ma solo concependo tale distinzione come logica e non pratica, si poteva pervenire al concetto della totalità personale, e cioè spirituale, di Dio in Cristo, e di ogni uomo quale Sua “immagine” antropologica, nella quale coesistono come possibilità sia l‟infinito Bene divino che la finitezza del male naturale., per cui l‟uomo, agendo liberamente, decide responsabilmente nell‟uno o nell‟altro senso delle sue opposte e coesistenti nature del suo sé. La teoria tomista, secondo la quale “il male non è un ente, mentre il bene è un ente”430 ricalca l‟ontologia aristotelica e la teoria razionalistica del rispecchiamento pratico del pensiero logico, facendo del concetto cristiano della privatio l‟equivalente della teoria aristotelica della gradazione dei colori, per cui il Bene e il Male starebbero nello stesso rapporto di qualcosa che è bianca in quanto è meno mescolata col nero.431 Entro la dimensione ontologica monistica, e cioè entro l‟orizzonte del naturalismo greco, Jung ha buon gioco nel rilevare che, in virtù dell‟equivalenza logica dei due opposti, vale anche la reciproca, per cui il nero è in rapporto all‟assenza di bianco, sostenendo che 430 431
Tommaso, Summa theologica, I, q. 48.1; cit. da Jung, Ivi, pag. 49. Ibidem.
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“l‟argomentazione della privatio boni rimane una petitio principii eufemistica” e concludendo per la sua insostenibilità. Infatti, afferma di seguito, la psicologia non sa cosa siano in sé male e bene; essa li conosce unicamente come giudizi di relazione: è bene ciò che da un determinato punto di vista sembra confacente, valido, accettabile; è male il contrario. Se ciò che chiamiamo bene è per noi “realmente” tale, ci sarà pure un male dotato della stessa “realtà”. […] 432
In altri termini, è l‟esperienza il criterio di relazione tra i valori, e la sua relativa attribuzione. Ciò vuol dire che il giudizio di valore sorge come effetto di un‟azione verificata come buona o malvagia dal punto di vista del suo empirico fruitore, che ne diventa anche l‟accreditato interprete. La natura umana è capace di malvagità infinita, e le cattive azioni sono altrettanto reali di quelle buone, a quanto può giudicare l‟esperienza umana, ovvero la psiche che spontaneamente giudica tra bene e male. Soltanto l‟incoscienza non li distingue. […] Nessuno è in grado di dire quale potrebbe essere il bene in generale [ma] oggi è più che mai importante che l‟uomo non trascuri il pericolo del male che è in agguato in lui. Si tratta d‟un pericolo fin troppo reale: perciò la psicologia deve insistere sulla realtà del male e respinger qualsiasi definizione che lo consideri come insignificante o addirittura inesistente. La psicologia è una scienza empirica e verte sulle cose reali. Per questo, in quanto psicologo, io non ho né l‟intenzione né la competenza per immischiarmi di metafisica. Divento polemico solo là dove la metafisica usurpa il campo dell‟esperienza e dà a questa un‟interpretazione che non è in nessun modo empiricamente giustificata.433
Ma l‟attribuzione all‟analisi psicologica del campo dell‟esperienza è essa stessa una posizione metafisica, non scientifica, e fondata sull‟ipotesi che l‟unica realtà verificabile sia quella fattuale. La psiche, però, in sé non è un “fatto” né i fenomeni psicologici sono “cose reali” bensì sono “connessioni oggettive”. La natura ambigua della psicologia è riscontrabile sin dall‟antichità, sospesa com‟era tra il concetto di e quello di . Infatti essa non era compresa tra le discipline filosofiche autonome, che erano la logica, la fisica e l‟etica, ma faceva parte della fisica quale “scienza della natura vivente”. In senso moderno, a partire da Cartesio, essa divenne “scienza della coscienza”, ricadente in una “metodica delle scienze naturali, cosicché anche la connessione oggettiva che noi indichiamo come comprensibile fu interpretata nel senso di una 432 433
Ivi, pag. 50. Ivi, pag. 51.
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connessione naturale”.434 Infatti, il concetto empirico di Bene, e quello relativo di Male, essendo generalizzazioni di fatti tra loro incompatibili, trasformano il principio di non contraddizione in una “legge di natura”, la cui normatività viene riscontrata anche nei comportamenti pratici per qualificarli come “normali”. La pre-condizione della validità della legalità del pensiero è “l‟uniformità della costituzione della nostra natura e del nostro modo di pensare”, la quale fa supporre, per la conoscenza collettiva della realtà oggettiva, che anche nel mondo esterno viga la stessa necessità strutturale che ordina le rappresentazioni soggettive di ogni coscienza. Da qui l‟idea della logica come una “fisica del pensiero”.435 Ma da qui anche il carattere ipotetico e non assoluto su cui si fonda la necessità dei principi logici, condizionata dalla credenza nella immutabilità della nostra psiche, che fonda il principio della commutabilità o conversione di “leggi di fatti” in “verità di ragione”, per cui la contraddizione tra due affermazioni opposte sia ritenuta equivalente a un rapporto fattuali di azioni esistenzialmente incompatibili, riferibili anche a fatti psichici. In tal modo, la legalità logica diventa criterio di analisi sulla coesistenza di stati della coscienza.436 Come ha dimostrato Husserl nelle sue Ricerche logiche 437 L‟errore fondamentale dello psicologismo consiste nell‟interpretare il principio di contraddizione come un‟enunciazione su eventi psichici reali e nel non vedere il senso autentico di questo principio, che esso enunci qualcosa sull‟essere ideale, la possibilità simultanea e non simultanea della verità. poiché il principio si riferisce a rapporti ideali delle verità e non a comportamenti reali di fatti ed eventi della natura, né della natura fisica né di quella psichica, esso non potrà mai essere una legge naturale, una legge dell‟essere reale.438
La validità ideale dei contenuti di giudizio non ha niente a che vedere con la presunta legalità degli eventi psichici, individuali o collettivi, sicché il “carattere” delle manifestazioni psichiche, in quanto “leggi reali” tratte dell‟induzione, “è quello del presumibile”, ossia dalla condizionalità antropologica della sua presunzione di validità entro un determinato orizzonte di senso riconosciuto, mentre “il principio di contraddizione è in se stesso valido e nella sua validità indipendente dal fatto che un certo 434
M. Heidegger, Logica. Il problema della verità (1925-1926), tr. it., Milano, 1986, pagg. 25-26. 435 Ivi, pag. 29. 436 Ivi, pag. 32. 437 E. Husserl, Ricerche logiche, vol I (1913), tr. it. di G. Piana, Milano, 1968. 438 M. Heidegger, Logica, tr. it. cit., pag. 33.
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numero di uomini lo riconosca e lo porti a compimento”.439 Ciò vuol dire che la validità del principio logico di non contraddizione, non è condizionata dalla “organizzazione psichica dell‟uomo, giacché di tale organizzazione esso non contiene nulla. Quelli che potrebbero cambiare sono le possibilità psichiche dell‟intendere e i gradi dell‟originarietà del comprendere, e sono quelli infatti che cambiano”.440 La realtà del Bene, dunque, ancor prima di essere un fenomeno psichico, è morale, ossia inscritto in un orizzonte di senso riconosciuto come valore ideale, ossia come corrispondente a un modello d‟azione assunto come criterio assiologico di valutazione. Criterio che è soggettivo in riferimento all‟esperienza della coscienza individuale, non in riferimento ai suoi contenuti ideali, sicché i contenuti di coscienza soggettivi e quelli oggettivi non sono necessariamente gli stessi, ma la loro corrispondenza dipende dal giudizio (di conformità) morale, e quindi da uno stato ideale, e non fattuale. Il giudizio di conformità non è un giudizio di eguaglianza, poiché il modello ideale d‟azione, indipendentemente dalla sua forma logicodialettica o empirico-psichica, resta comunque distinto dal fatto del comportamento reale. Ma questa insuperabile difformità non deriva, in campo psicologico, dalla circostanza che la forma empirica dell‟Io, ossia la coscienza, costituisca una classe d‟azione anziché un concetto universale, ma dalla natura ontologicamente diversa della realtà di fatto dalla realtà ideale, la quale, astratta da ogni contingente divenire, ossia dello stesso negativo, è necessariamente vera, non potendo essere altro da ciò che è. Questa necessità, che è propria delle astratte nature ideali, non appartiene al mondo del Molteplice, che è immerso nel divenire e quindi nella opposizione. Dove agisce il negativo, infatti, agisce la casualità e la contingenza, e quindi l‟ipotesi empirica. La confusione delle due dimensioni, con il trasferimento della necessità logica nella realtà contingente, è quella che Aristotile denomina come metàbasis eis àllo ghénos,441 ossia una trasmutazione (Verwandlung) di genere. Il “passaggio” da uno ad altro genere, è simbolico, e non reale, ed è perciò mistico, legato cioè a una credenza ontologica, secondo la quale l‟Essere dell‟ente è l‟Idea (ragione e valore). Questa fede metafisica fonda il filosofare come “tecnologia del pensiero corretto”, cioè come logica, la quale, nella misura in cui esige di essere una “scienza normativa del 439
Ibidem. Ivi, pag. 34. 441 Aristotile, Organon, Secondi Analitici, I, 7, 75 a. 440
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corretto pensare”, è il presupposto dell‟etica quale “scienza normativa del corretto agire”. Ma tale disciplina teoretica, come ha dimostrato Husserl, “non potrebbe essere la psicologia”. 442 A fondamento del concetto morale di Bene vi è dunque una fede, non un‟esperienza. Le conseguenze di questa critica dello psicologismo si estendono all‟intera conoscenza scientifica come naturalismo, inteso qui come esperienza della esclusiva dimensione reale dell‟essere psichico (il ), a scapito di ogni considerazione della dimensione ideale dei valori (il ). Come rilevato da Husserl, per Natura ha da intendersi “unicamente ed esclusiva ente il mondo dei corpi spaziotemporale. Ogni altro essere individuale, vale a dire lo psichico, è natura in un secondo senso, e ciò determina differenze fondamentali tra il metodo delle scienze naturali e il metodo della psicologia”.443 Secondo Husserl Ogni tipo di oggetto, che deve diventare oggetto di un discorso razionale, di una conoscenza prescientifica e poi scientifica, deve manifestarsi nella conoscenza, dunque nella coscienza stessa e deve, in conformità al senso di ogni conoscenza, lasciarsi portare a datità. Tutti i tipi di coscienza, così come si ordinano per così dire teleologicamente sotto il titolo di conoscenza e, inoltre, si raggruppano secondo le diverse categorie d‟oggetto – in quanto gruppi di funzioni conoscitive ad esse specificamente corrispondenti – devono poter essere studiati nella loro connessione d‟essenza e nel riferimento alle forme di coscienza di datità che sono loro proprie. Così deve essere inteso il senso della questione concernente la legittimità, che deve essere posta per ogni atto di conoscenza, e deve potersi del tutto chiarire l‟essenza di ogni dimostrazione fondata di legittimità e della fondabilità ideale o validità, e ciò per ogni grado di conoscenza, in special modo per la conoscenza scientifica. Che cosa significhi che l‟oggettualità sia e si mostri nella conoscenza come essente ed essente così, deve risultare evidente, e pertanto del tutto comprensibile, puramente dalla coscienza stessa. E a tal fine è necessario lo studio dell‟intera coscienza, poiché essa entra nelle possibili funzioni conoscitive secondo tutte le sue forme. Ma, nella misura in cui ogni coscienza è “coscienza di”, lo studio dell‟essenza della coscienza include anche quello del significato e dell‟oggettualità della coscienza in quanto tali. Studiare un qualsiasi tipo di oggettualità nella sua essenza generale […] significa analizzarne i modi di datità e spiegarne appieno il contenuto essenziale nel relativo processo di “chiarificazione”.444
Si noti il rapporto tra “conoscenza” e “coscienza” (empirica o 442
M. Heidegger, Logica, tr. it. cit., pagg. 26 e 36-37. E. Husserl, Filosofia come scienza rigorosa (1911), tr. it., Roma-Bari, 2010, pag. 44. 444 Ivi, pagg. 26-27. 443
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fenomenologica) , e conoscenza razionale e “scienza”. Husserl giudica “assurda” una gnoseologia “ basata sulle scienze naturali”, poiché non si può spiegare come “l‟esperienza, intesa come coscienza” possa “incontrare un oggetto”. Se l‟enigma è immanente alla scienza, ogni soluzione le è trascendente, per cui tutto l‟ambito problematico interno alla scienza della natura equivale a un “muoversi all‟interno di un circolo vizioso”. Inoltre, essendo ogni tipo di relazione tra coscienza ed essere, sempre un “correlatum di coscienza”, “il metodo sperimentale è indispensabile se si tratta di fissare connessioni intersoggettive di fatti. Ma esso presuppone ciò che nessun esperimento è in grado di realizzare, l‟analisi della coscienza stessa”.445 La ricerca ontologica è certamente più originaria che la ricerca ontica delle scienze positive.[…] Il problema dell‟essere mira perciò alla determinazione a priori delle condizioni di possibilità non solo delle scienze che studiano l‟ente, che è tale in questo o quel modo, e che si muovono quindi già sempre in una comprensione dell‟essere, ma anche delle ontologie stesse che precedono le scienze ontiche e le fondano.446
La scienza non è che una progressiva chiarificazione razionale e metodica dell‟essere confusamente percepito dalla coscienza ingenua o comune. I presupposti del metodo sperimentale sono a priori e “non possono fondarsi da sé”, per cui, data l‟unità del mondo corporeo, l‟oggettività dipende dalla datità, “e più precisamente, da quel senso che conferisce loro, in base alla propria essenza, la relativa coscienza d‟esperienza (considerata come un‟intenzione volta precisamente a quell‟essente e a nessun altro)”.447 I mutamenti riguardanti l‟essere corporeo sottostanno a leggi riguardanti l‟identico, cioè la cosa, non per sé ma nel suo nesso unitario e oggettivo riguardante l‟unica natura. L‟unità dell‟identico non è determinabile dalle sue trasformazioni, e quindi neppure dalle leggi che le presiedono, ma solo “in riferimento a ciò che esso è”. E ciò che esso è, non dipendendo dal suo modo d‟essere altro, è altro dalle sue trasformazioni, cioè indipendente e originario: è un dato non di esperienza sensibile, ma ontologico. Solo stabilendo una relazione di coessenza tra l‟identico e le sue trasformazioni reali è possibile attribuire ai suoi diversi modi d‟essere la stessa essenza unitaria attribuita all‟identico. Ma questa relazione di “verità” tra l‟esperienza mutevole di qualcosa e la 445
Ivi, pag. 32. M. Heidegger, Sein und Zeit (1927), tr. it. di P. Chiodi, Milano, 1976, pag. 27. 447 E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa, tr. it. cit., pag. 44. 446
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sua essenza, tra le leggi causali e la sostanza immutabile delle cosenatura, è essa stessa una relazione indipendente da quelle leggi oggettive che cambiano col senso della relazione con la sostanza, cioè con identità individuale, cambiata la quale cambia anche il loro senso a esse relativo. In altri termini, è la relazione che dà senso al mutamento, perché essa costituisce il senso unitario, mentre “la coscienza naturale si limita a seguire coerentemente il senso di ciò che la cosa stessa in quanto esperita pretende per così dire di essere “.448 Ed è tale pretesa d‟essere a costituire il senso dell‟esperienza, che perciò è, in quanto altro all‟esperienza stessa, “ideale”. L‟idea di “natura” è dunque quella di un “essere che si manifesta in apparizioni”:449 una natura che si manifesta in molteplici apparizioni delle cose, le quali, nel loro mutare,, riportano tutte e sempre all‟identica unità naturale. Una cosa è ciò che è e rimane per sempre nella sua identità: la natura è eterna. Quali proprietà o modificazioni di proprietà reali spettino in verità ad una cosa - alla cosa della natura, non alla cosa sensibile della vita pratica, alla cosa “così come si manifesta sensibilmente” – può essere determinato in modo oggettivamente valido e confermato o corretto mediante esperienze sempre nuove.450
Ma ciò che è e rimane nella sua identità è altro dai fenomeni apparenti, i quali perciò possono mutare per nesso o determinazione reale. Obliando tale alterità, si attribuisce alla variabilità del mutamento l‟instabilità dell‟unità dell‟essere, ritenendola perciò immaginaria o inesistente. Al contrario, “non vi è nella sfera psichica alcuna distinzione tra apparire ed essere” e “tutto ciò che noi chiamiamo fenomeno psichico nel senso più ampio della psicologia, è, considerato in sé e per sé, propriamente fenomeno, e non natura”.451 Orbene, poiché “il pensare inizia con se stesso, cioè con la decisione di pensare”, la legge propria al pensiero è quella del suo movimento, la dialettica, la cui verità è dunque quella della sua autocoscienza come vita, non del soggetto pensante (la psiche), e neppure della soggettività dell‟autocoscienza (il Sé), ma dello Spirito (Geist) inteso come “razionalità di tutto il reale” e “fondamento del sapere”, ossia come
448
Ivi, pag. 47. Ivi, pag. 48. 450 Ivi, pag. 49. 451 Ivi, pag. 48. 449
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. 452 Il è quanto non è dato come visibile, è l‟interno essere di ciò che appare e si percepisce nella . Secondo quanto asserito da Aristotile, la facoltà sensitiva non è indipendente dal corpo, mentre l‟intelletto è separato. […] E poiché altro è la grandezza dall‟essenza della grandezza e l‟acqua dall‟essenza dell‟acqua […], l‟anima giudica l‟essenza della carne e la carne o con facoltà differenti o con la stessa ma altrimenti atteggiata […]. In generale, secondo il grado di 453 separazione degli oggetti dalla materia sono anche le operazioni dell‟intelletto .
Ma cos‟è ciò che non appare ed è oggetto dell‟intelletto? E‟ la realtà dell‟universale, ossia non ciò che comunemente e generalmente appare, ma proprio ciò il cui essere non è manifesto. Il non essere manifesto dell‟Essere è la sua realtà: una realtà nascosta, o almeno non visibile, che lascia alla realtà sensibile lo scenario dell‟attualità. Ma tale realtà invisibile, è anch‟essa contingente come quella visibile e mutevole delle apparenze, ovvero il suo restare implicito costituisce la sua necessità ontologica? Nella prima ipotesi, quella della sua contingenza, l‟invisibile è soltanto l‟inattuale rispetto al visibile attuale. Nell‟altro caso, l‟invisibile è il necessario permanere di ciò che contingentemente muta e diviene, ossia l‟essenza di ciò che è e appare come essere attuale. Nel primo caso, o ipotesi, il divenire è l‟unica essenza dell‟Essere che appare e che non si risolve nella sua attualità ma nel suo divenire stesso. Questa è la posizione storicistica classica, che risolve il divenire nelle sue manifestazioni storiche e la storia come successione di manifestazioni dell‟Essere. Ciò che permane è la realtà del divenire, nel senso che il divenire è una realtà immutabile. Qui abbiamo una sola realtà e due concetti: quello che coglie il divenire nelle sue manifestazioni sensibili, e quello che lo pensa come tale. Nel secondo caso, il divenire contingente è l‟irrealtà dell‟Essere permanente, assunto come “vero”. In questo caso abbiamo due realtà: una che diviene ed è manifesta, e l‟altra che è immobile e nascosta. Questa è la posizione religiosa, che ammette il mistero dell‟Essere “al di là”, e la posizione filosofica, che ne assume la ricerca. Se la scienza trae dal mondo-della-vita i suoi elementi di certezza, significa che l‟esperienza comune e ingenua del mondo contiene la 452 453
H.G. Gadamer, La dialettica. di Hegel tr. it., Genova, 1996, pagg. 10 e 11. Aristotele, Dell‟anima, III ( ), 4, 429 b, 5-15, tr. it. cit., pagg. 538-539.
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conoscenza scientifica, ossia è una conoscenza più ampia, anche se eterogenea, ossia frammista di certum e di verum, secondo la dicotomia vichiana. Secondo il Vico, com‟è noto, “auctoritas est pars quaedam rationis”, ossia il certo è parte della più ampia verità, intesa come razionalità riflessa. Nella visione di Husserl, il mondo-della-vita è la materia della riflessione razionale, il suo contenuto oggettuale. La percezione del mondo-dellavita coglie la realtà sensibile nei suoi nessi causali, relazionando i fenomeni alla loro origine prossima, appunto alla loro causa. Il rapporto causale presuppone che tali fenomeni siano di una stessa natura d‟essere, siano appunto “fenomeni”. Questo loro senso unitario fa sì che ogni percezione sia una intuizione, ossia una visione unitaria dell‟Essere fenomenico. La realtà del mondo-della-vita è dunque caratterizzata dalla realtà unitaria della sua fatticità. Il mondo-della-vita è la realtà dell‟esistenza, in quanto tutto ciò che ne fa parte esiste indistintamente, ossia a prescindere di ogni determinazione ontologica. Non essendo l‟esistenza un predicato, non inerisce l‟essenza dell‟Essere, per cui esiste non solo ciò che è, ma anche ciò che non-è, ovvero ciò che si crede esista. Il mondo-della-vita è dunque la realtà propria della apparenza, della credenza nell‟esistente, in ciò che appare. Esistenza di ciò che è e di ciò che non-è secondo la sua essenza. Ciò vuol dire che l‟esistenza prescinde dall‟essenza. La realtà che prescinde dall‟essenza reale, non è veramente reale, ma è creduto reale. Il mondo-della-vita è la realtà della credenza. La credenza che tutto ciò che esiste per la coscienza sia anche oggettivamente reale. Essendo la realtà esistenziale il contenuto della coscienza, questa è il luogo dell‟esistenza, il suo orizzonte fenomenologico. L‟orizzonte della coscienza esistenziale è la soggettività trascendentale. La epoché fenomenologica, così come il dubbio cartesiano, eliminando dalla coscienza ogni contenuto possibile, rimangono comunque all‟interno di essa, della coscienza soggettiva, scambiando la sua esistenza con la sua attività, e quindi il Soggetto coscienziale col cogito, attribuendo a questo i caratteri di quello. Da qui l‟equivoco del soggettivismo, per cui ogni filosofia sia idealismo. Chi pensa è il Soggetto, ma l‟attività del pensiero, ossia il pensare, non è necessariamente soggettivo. Soggettivo è solo quel pensare che ha per orizzonte fenomenologico la coscienza del Soggetto: il pensiero unitario, che vede nella soggettività della coscienza la fonte di tutta la realtà, unita appunto dalla comune appartenenza al Soggetto che l‟ha posta in essere, 183
che l‟ha creata. Il pensiero soggettivistico è creazionistico. Il soggettivismo è creazionismo, attività della mente creatrice, che Vico chiamava “sapienza poetica”, essendo il poeta, etimologicamente, il “creatore”. Il Creatore per antonomasia è Dio, per cui il soggettivismo filosofico è l‟espressione teoretica del pensiero e del sentimento religioso, così come il soggettivismo artistico ne è l‟espressione estetica, e il soggettivismo etico l‟espressione morale, e quello economico l‟espressione sociale. Il carattere essenziale del soggettivismo è l‟idea che la coscienza sia la fonte creatrice dell‟Essere, la cui esistenza viene dal Niente e dovrebbe essere destinata a ciò che è il volere del suo autore. La distanza tra la certa esistenza e l‟incerta destinazione viene intesa come la vicenda delle manifestazioni della coscienza. Se coscienza divina, abbiamo la Teodicea; se coscienza umana, abbiamo la Storia. Il passaggio dalla teologia alla antropologia non segna la fuoriuscita dal soggettivismo, ma solo la dislocazione della soggettività da Dio all‟uomo quale artifex mundi. Lo storicismo è la versione secolaristica della metafisica cristiana. La forma della rappresentazione soggettivistica dell‟Essere è il racconto, la narrazione degli eventi della coscienza. La narrazione dove gli elementi della coscienza storica sono rimasti indistinti da quelli della coscienza teologica, costituisce il contenuto del racconto mitico. L‟intreccio della rappresentazione ritenuta fantastica e di quella ritenuta realistica degli eventi della coscienza è il Mito, inteso come il genere narrativo in cui convive sia la credenza della soggettività teologica che quella umanistica, e dal quale si distacca la coscienza storica distinguendosi da quella teologica. Mitico è il racconto giudicato dalla coscienza della ragion storica, che è ragione distinguente, cioè razionalismo. Data la molteplicità ontologica dell‟Essere, l‟essere storico, quello effettualmente presente come fenomeno, è soltanto l‟essere attuale, che cela l‟immanente possibilità degli altri suoi modi d‟essere inattuali, per cui l‟accertamento storiografico, limitandosi alla sola possibilità attuale, non può conoscere tutto l‟Essere,ma soltanto, appunto, l‟essere attuale. Ed è da questa ignoranza che nasce l‟interrogativo filosofico relativo a ciò che è come non-essere attuale, come realtà essenziale non-apparente, per cui la questione che Platone poneva a Socrate nel Menone circa la possibilità o meno di ricercare ciò che non si conosce, e che egli risolveva con la teoria della reminiscenza delle idee, va inquadrata e risolta nella prospettiva qui indicata. Nel senso che il pensiero, insoddisfatto della sola 184
apparenza dell‟Essere, ossia della sua storicità, è da questa che prende le mosse per conoscere il non attuale,facendo della storia effettuale la “traccia” (non mnestica ma appunto storica) della conoscenza ideale di ciò che è pur non apparendo. E nello stesso senso, assumere la realtà problematica della storia come fondamento reale della sua riflessione ideale. Il nesso ontologico tra storia e filosofia è dunque non nel senso idealistico della risoluzione della forma ideale nel contenuto reale, ma bensì nella appartenenza della realtà storica all‟Essere totale di cui essa è attualità fenomenica, la quale è trascendibile dalla conoscenza teoretica del Tutto. Sicché la storicità, come dimensione dell‟attualità dell‟Essere, è “vera” solo nella misura della sua fatticità, cioè della certezza, ma non lo è, né potrebbe, nella dimensione ultronea della conoscenza del Tutto, il cui Essere non è, in quanto ideale, storico, ma storiche sono le sue sole determinazioni fenomeniche. La “verità” della storia, come realtà del certum, è circoscritta alla realtà pratica, dei fenomeni empirici, ma non può interessare la totalità dell‟Essere, che è per sua natura ontologica meta-storica. La Totalità non è la pluralità unificata. La pluralità unificata è l‟Unità. La Totalità è data dall‟Unità dell‟Essere e dal suo opposto Niente. Senza il Niente l‟Essere è ma non diviene, si coglie nello spazio ma non si coglie nel tempo. Il solo Essere, nella sua atemporale positività, è quello della logica formale, che distingue l‟Essere dal non-Essere ma non stabilisce alcuna relazione che non sia analogica (tra enti simili) o illogica (tra enti distinti) ma non dialogica (tra enti diversi). Se la analogia e la distinzione degli enti presuppongono un rapporto logico, la diversità degli enti presuppone la diversità dei loro esseri, cioè un rapporto ontologico. Il rapporto logico è tra enti dello stesso Essere (analogia) e tra Esseri opposti. Esistono due specie di opposizioni: quella logica e quella cd. reale. Quella logica, si esprime attraverso il principio di contraddizione, per cui un corpo o è in movimento o è fermo nello stesso tempo. Quella reale si esprime attraverso il principio di opposizione dei predicati, che però non si contraddicono, poiché un corpo che va in una direzione non contraddice un altro corpo che va in un‟altra direzione. L‟opposizione logica implica l‟essere ovvero il non-essere di alcunché, per cui posto il predicato come positivo (essere), il negativo viene escluso come inesistente. L‟opposizione reale non implica inesistenza, perché non comporta contraddizione ma possibilità. L‟opposizione logica comporta che la negazione sia una mancanza (defectus), e non richiede alcun fondamento positivo ma solo l‟assenza di esso. L‟opposizione reale 185
comporta invece una sottrazione (privatio), che ha una efficacia positiva, anche se è detta negativa in quanto toglie l‟effetto dell‟altra. L‟opposizione logica è attributiva o sottrattiva d‟essere: aut aut. L‟opposizione reale è distributiva, presupponendosi la pluralità dei predicati: et et. La opposizione logica afferma o nega, non la realtà dell‟Essere, il cui valore positivo viene presupposto come discriminante, ma le sue concrete determinazioni predicative, per cui anche se di un ente si afferma il suo non-essere, l‟ente è comunque un ente reale, cioè è qualcos‟altro. Se non è bello è utile, ma comunque è. La opposizione reale afferma o nega la congruità o giustezza di un predicato riferito all‟ente, ma non nega la realtà dell‟ente ma afferma la corrispondenza al suo Essere e non ad altro. Entrambe le opposizioni sono ontologicamente affermative. Costituiva un assioma del razionalismo dogmatico (Cartesio, Spinoza, Leibniz, Wolff) che la filosofia seguisse il metodo matematico. Kant invece afferma per la prima vota che i due metodi debbono essere dissociati. La matematica crea le sue definizioni con un legame arbitrario di concetti e procede per costruzioni concettuali. La filosofia al contrario, non diversamente dalla fisica, esordisce con l‟analisi del dato; il suo procedimento non è quello geometrico di Cartesio, ma quello analitico-sperimentale della fisica di Newton. […] Egli attribuisce alla filosofia e alla scienza il compito di analizzare i dati, cioè le sintesi sperimentali già in atto, per salvaguardarle dalle costruzioni arbitrarie della matematica. D‟altra parte vien fuori, quasi senza che Kant se ne accorga, un nuovo tipo di conoscenza. La matematica era stata finora considerata come una conoscenza analitica per eccellenza, e l‟apriorità dei suoi principi e delle sue dimostrazioni si fondava appunto su questo carattere. Kant invece la considera per la prima volta come una disciplina sintetica, procedente per costruzioni di concetti, e tuttavia apriori, perché il criterio costruttivo non è dato dall‟esperienza, ma da definizioni arbitrarie. Emerge così un tipo sui generis di conoscenza sintetica apriori, che fonde insieme, sia pure con atto di arbitrio, le due qualità dell‟analitico e del sintetico.454
La fenomenologia, che di quell‟assioma rappresenta la critica più radicale, portando in evidenza l‟essere delle cose, ne mostra la loro originaria datità, sì che la realtà del loro essere sia anteriore a ogni rappresentazione, che perciò diventa strumentale e succedanea e non costitutiva o mediatrice di senso. La terzietà dell‟essere elimina dunque ogni mediazione tra evento e senso, tra intenzione di significato e comprensione, e di converso elimina lo stesso problema ermeneutico della comprensione del valore di senso, che viene inteso come valore in 454
G. De Ruggiero, Storia della filosofia, cit., vol. VI, pag. 245.
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sé, ontologicamente originario, le cui modalità d‟essere vengono acquisite per diretta conoscenza esperienziale. Riportando all‟origine dell‟essere il suo apparire, ne viene esaltato l‟evento del suo essere-così-come-appare, cioè la modalità del suo essere apparente, del suo mostrarsi, privando il logos concettuale di ogni valore apofantico, e con esso la coscienza come luogo della rivelazione o illuminazione. Essendo le cose ciò-che-sono, i modi del loro apparire sono i modi stessi dell‟essere delle cose. Questa identità di essere e di apparire trasferisce il valore d‟essere delle cose sull‟evidenza, intesa come il loro modo d‟essere originario, per cui ogni apporto ermeneutico conferito dialetticamente su quella evidenza diventa ultroneo e residuale. Ciò vuol dire che il dato di evidenza è indipendentemente da ogni costrutto razionale de re, per cui la conoscenza espressa dalla coscienza del mondo costituisce il relativo culturale rispetto al suo fondamento ontologico essenziale, all‟in sé degli enti mondani. La realtà essenziale del mondo non è data dalla conoscenza razionale, ma si dà nell‟esperienza, la quale, nondimeno, ossia nonostante la riduzione dell‟essere al suo apparire, non può eludere il fondamentale dualismo insito in ogni atto di conoscenza tra ciò che si conosce e il modo della conoscenza, per cui anche la conoscenza intuitiva si scinde in attività del soggetto che esperisce, e in relazione impersonale con le cose. La distinzione, infatti, è essenziale alla stessa possibilità d‟essere delle cose, la cui modalità soggettiva deve contenere ciò che l‟essere in sé delle cose non può racchiudere nella sua evidenza originaria, ossia la possibilità del loro non-essere, la loro falsa apparenza, l‟errore. Il razionalismo pretendendo di anteporre il metodo, “cioè la coscienza d‟unità nel processo di ricerca”, al “lavoro sulle cose” (Sachen), inverte l‟ordine del processo della conoscenza. Infatti, “l‟effettiva unità della ricerca” è indipendente dalla “coscienza di questa unità” e dalla sua “traduzione in formule” e in “giudizi”, come attesta l‟inesistenza per la gran parte delle scienze naturali e umane di una “definizione riconosciuta”.455 In questo esito si consuma la parabola del moderno sqpere scientifico, che in nome dellla certezza della conoscenza ha sacrificato non solo la Verità, ma anche se stesso, diventando pura convenzione formalistica, e pura statuizione di potere legale.
455
M. Scheler, Phaenomenologie und Erkenntnistheorie (1913), tr. it. in Scritti sulla fenomenologia e l‟Amore, cit., pag. 55.
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II
Storia e spirito
1. Secondo Scheler, “in ogni spirito umano sano è presente la capacità di considerare gli stessi avvenimenti del mondo secondo prospettive di altezza fondamentalmente differente del suo sguardo spirituale”.456 Ciò vuol dire che la pretesa “oggettività” della visione scientifica del mondo è tutta relativa al metodo di analisi interno alla sua prospettiva fenomenistica. La comunanza di ogni prospettiva riguarda soltanto “gli stessi avvenimenti del mondo”, a segno che esiste “una” dimensione, per l‟appunto avvenimenziale, che costituisce il fondamento esistenziale di ogni distinta prospettiva spirituale. Ed è questa esistenza che, se da un lato libera la realtà fenomenica del mondo dai contenuti della coscienza individuale, dall‟altro consente di ritrovare da parte di ogni prospettiva spirituale un suo fondamento comune, a partire dal quale è possibile stabilire la comunicazione e sottrarsi perciò dall‟indeterminatezza del solipsismo, irrazionalistico o metodico che sia. Per tanto, il pluralismo delle prospettive spirituali si eleva dal piano fenomenico come ogni analisi razionale dal crogiuolo degli avvenimenti storici. Ma questa possibilità di mantenersi al livello delle distinzioni spirituali senza venir meno alla comunanza dei referenti avvenimenziali, è a sua volta legata, non già al cosiddetto “pluralismo” o “politeismo” dei “valori”, che rimanda a un presupposto relativistico proprio della gnoseologia empiristica, ma bensì alla diversa prospettiva ontologica dell‟analisi avvenimenziale, tale che il suo comune fondamento esistenziale venga assunto come non riducibile, come vorrebbe il cognitivismo idealistico, a un ente di coscienza, ossia a oggetto del pensiero, ma che tale riduzione sia la conseguenza propria del processo teoretico relativo alla prospettiva trascelta di riferimento. Prima di questa 456
M. Scheler, Die christliche Liebesidee und die gegenwaertige Welt (1917), tr. it. in L‟eterno nell‟uomo, Milano, 2009, pag. 881.
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riduzione della realtà avvenimenziale a oggetto del pensiero, la realtà esiste come mondo-della-vita, ossia come realtà complessa e razionalmente indeterminata. Il carattere di indeterminatezza razionale del mondo-della-vita è connesso a quello della sua complessità, che sono le caratteristiche proprie della Molteplicità che si oppone all‟Unità ideale della realtà. Se dunque l‟Unità ideale è conseguibile nella sola coscienza razionale, ossia come idea del soggetto teoretico (trascendentale ed empirico), la molteplicità della realtà avvenimenziale non può essere costituita dalla somma delle attività individuali dell‟uomo, come pretenderebbe ogni teoria soggettivistica della conoscenza, ma deve logicamente risultare dal processo stesso della molteplicità, ossia dalla realtà stessa della vita umana come attività pratica, distinta perciò da quella teoretica possibile solo ai singoli soggetti coscienziali. Il soggettivismo gnoseologico, estendendo alla vita pratica i caratteri della unità razionale della coscienza teoretica individuale, alla fine non si dà più ragione della realtà del mondo-della-vita, giungendo a considerarla come un‟astrazione o il semplice coacervo di moventi irrazionali la cui gratuita fenomenologia non è che la rappresentazione della loro assurdità e banalità. Da qui l‟esigenza di ogni razionalismo di piegarla a una superiore volontà razionalmente diretta a correggerne le storture, ovvero, secondo gli empiristi, a lasciarla essere nella sua imponderabile e incorreggibile spontaneità, interpretata come l‟essenza stessa della “libertà”. Il pensiero di Gentile è tutto interno alla prospettiva soggettivistica del razionalismo idealistico ed empiristico, per cui la sua analisi della realtà del mondo iniziava dalla sintesi concettuale della coscienza, rispetto alla cui attualità, il mondo non era altro che “natura” informe, pre-categoriale. Non già realtà “altra” da quella oggettivata dal pensiero, avente un proprio distinto statuto ontologico, ma realtà negativa, non-essere spirituale, privo della libertà creatrice propria dello spirito umano. L‟atto umano, spirituale, storico dell‟uomo, nella concezione idealistica corrisponde all‟azione economica della concezione empiristica. In entrambi i casi, sono atti e azioni individuali del soggetto. L‟idea universale di soggetto è la soggettività, il cui concetto richiama il fondamento razionale della natura umana. La logica astratta ha esteso l‟universalità del carattere razionale del concetto nel campo storicoempirico, facendo anche dell‟azione umana un atto razionale, giungendo perciò a concepire la storia come campo fenomenico di eventi razionali, e 189
in quanto tali individuali. Eliminata la differenza ontologica tra eventi soggettivi, di carattere razionale, ed eventi collettivi, di carattere economico, anche la sfera pratica è diventata mondo di realtà delle azioni dei soggetti razionali, la cui collettività è solo l‟intreccio armonico di singolarità individuali. Sicché, la razionalità, carattere proprio dell‟evento teoretico, diventa, nella prospettiva razionalistica, il fondamento anche di ogni agire pratico, per cui la storia intesa come processo di azioni soggettive diventa la rappresentazione di eventi individuali tutti razionali, in cui non si distingue più l‟essere ideale, e in quanto tale razionale, dall‟essere sociale, volto alla vita economica dei gruppi umani, cioè alla conservazione biologica della specie. La prospettiva soggettivistica, rendendo assoluto l‟atto umano anche nel crogiuolo del contesto socioeconomico collettivo, ha eliminato la differenza tra l‟ideale-razionale è il pratico-utile, uniformando astrattamente l‟azione sociale, collettiva, all‟evento di pensiero, per definizione individuale. Ora, dove tutto è spirito, niente è razionale, poiché l‟affermazione dell‟atto spirituale come evento razionale si fondava sulla sua distinzione rispetto al comportamento normale legato alle esigenze della sopravvivenza umana, a partire dalla vita sociale. Da qui la conversione del razionalismo astratto in irrazionalismo culturale, pervasivo di ogni ambito spirituale e sociale e l‟universalizzazione dei processi produttivi e trasformativi dell‟economia umana a criterio assoluto di valutazione dell‟agire razionale. Il “valore”, da concetto economico, diventa parametro di commisurazione di ogni attività umana, e criterio stesso della sua razionalità spirituale. Il concetto di soggettività, assolutizzato e confuso con quello genericamente antropologico di razionalità, viene ridotto razionalisticamente a quello della convertibilità economica di ogni prodotto spirituale dell‟uomo, il cui “valore” è appunto assunto nei termini relativi alla sua convertibilità economica. Pertanto, ciò che ha “valore” universale non è più il prodotto ideale, che, diversamente da quello pratico, caratterizza la soggettività spirituale, ma il prodotto economico, che sulla convertibilità universale poggia il suo valore specifico e relativo, e in quanto tale soggettivo. Soggettività e universalità diventano dunque caratteri del prodotto umano razionale, ossia universalmente convertibile in qualunque altro prodotto. Il prodotto umano universalmente scambiabile è il denaro, la cui astratta determinazione di valore costituisce la massima espressione della razionalità umana. Talmente astratta, che può prescindere dalla stessa soggettività, diventando così assolutamente impersonale e valida in sé. 190
Non a caso il valore assoluto del denaro prescinde sia dall‟uso che dall‟utente, essendo esso la fonte di trasmissione del valore. Se dunque l‟idea universale doveva necessariamente riferirsi al suo soggettivo creatore, ed essere limitata dalla storicità della sua produzione culturale, il prodotto della astratta universalità razionalistica realizza ciò che all‟idea non era consentito, ossia la stessa impersonalità, che è appunto la negazione della stessa soggettività, costituendosi insieme come l‟assoluta negatività e l‟assoluta razionalità. Va da sé che la negazione della soggettività coincideva con la negazione dello stesso pensiero, ossia della spiritualità teoretica dell‟uomo, che l‟aveva caratterizzato culturalmente rispetto alle altre specie viventi, biologicamente determinate alla prassi economica, e quindi incapaci di trascendere l‟azione finalizzata alla sopravvivenza. Il razionalismo, facendo dell‟economia una scienza razionale universale, ne annulla la differenza ideale rispetto all‟agire spirituale, e volendo emancipare l‟uomo dalla simbiosi con la natura rendendo ogni sua azione finalisticamente razionale, lo assoggetta alla natura artificiale dall‟uomo stesso creata, la società economicamente concepita come reticolo di interessi individuali auto-gestiti dall‟uomo, o come individuo indipendente dalla società, e perciò “libero”, ovvero come membro della comunità socio-economica collettiva, la sola a potersi definire propriamente “libera”. L‟individualismo e il collettivismo sono i due aspetti del razionalismo astratto e dell‟assoluto soggettivismo, l‟uno di tipo anarchico e l‟altro di tipo totalitario, ma perfettamente convertibili reciprocamente a seconda della prevalenza di una o altra declinazione ideologica. Ora, esattamente il problema della convertibilità è stato l‟oggetto della riflessione di Scheler, il quale, a proposito della prima Guerra mondiale, per rappresentare l‟immane tragedia morale del conflitto tra nazioni cristiane, parla di “disfatta del Cristianesimo”, ovvero di “abrogazione del discorso della montagna”. Che la cultura europea abbia radici cristiane, è un fatto. Che l‟Europa stessa si chiami “cristiana” e che da 2000 anni pretenda di educare i suoi figli secondo i principi cristiani, è un fatto. Ed è un fatto che uno dei risultati, uno dei frutti di questa educazione cristiana quasi bimillenaria, è una barbarie, come il mondo non ne ha mai viste, condotta con tutti i mezzi dell‟intelletto, della tecnica, dell‟industria, della parola. Questo, e solo questo, è il fatto che mi interessa. Questo chiamo “abrogazione
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del discorso della montagna” […].457
Questa “situazione complessiva di corruzione morale” è assimilata a quella di una “famiglia”, dove essa è in primo luogo un tutto indivisibile – indipendentemente da come si è formata, indipendentemente da chi ne è colpevole: se il padre, la madre, il trisavolo o chissà chi. Ogni esperienza umana più profonda insegna che una tale colpa dei gruppi e della totalità non può mai essere completamente suddivisa nella colpa dei singoli. Ogni esperienza attenta insegna che proprio ogni penetrazione più profonda nelle relazioni morali dei membri di una simile famiglia porta alla luce la reciprocità inafferrabile della colpa, tanto più quanto la penetrazione è profonda.458
Il concetto cristiano di “colpa collettiva” non va, per Scheler, considerato nel solo ambito dogmatico e circoscritto al solo “genere umano”, ma anche “in relazione all‟epoca, agli ambiti culturali, ai popoli”, in modo da considerare cristianamente “anche l‟anarchia europea di questa guerra, o meglio di questa guerra rivoluzionaria, come fondata sulle colpe collettive ed ereditarie degli ultimi secoli di storia europea”.459 Ma, aggiunge, solo “il non credente più radicale” può confondere il “fallimento del cristianesimo” a opera degli uomini con il fallimento della “morale cristiana”, cioè con “l‟ideale stesso di vita cristiana”, considerata inopportuna per la “natura dell‟uomo”, dalla quale “pretende ciò che l‟uomo non può dare”, e perciò quell‟ideale andrebbe ragionevolmente “sostituito con da un ideale diverso, più onesto, più attuabile”. E così, non potendo cambiare l‟uomo, bisognerebbe cambiare piuttosto “i criteri morali stessi”.460 Tuttavia, questo argomento è per Scheler, fallace e “degno di biasimo” anche quando può avere dalla sua “delle ragioni”, in quanto a suo dire, per quanto l‟idea chiara ed evidente del bene possa essere colta anche nel suo contenuto – cristianamente o non cristianamente -, mai essa può essere abbandonata solo per il fatto che gli uomini non la realizzano. L‟ideale non può mai essere adattato alla realtà e ridotto al suo livello. Il bene deve essere – anche se non si realizzasse mai e in nessun luogo, dice giustamente Kant. Ciò è insito già nella sua natura formale – non solo nel contesto che il comandamento cristiano dell‟amore gli conferisce. Se 457
M. Scheler, Op. cit., pagg. 883 e 885. Ivi, pag. 885. 459 Ivi, pag. 887. 460 Ibidem. 458
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l‟ideale cristiano è una teoria falsa, ciò non può essere per il fatto che l‟uomo finora ha soddisfatto così poco questo ideale o perché lo ha addirittura calpestato. Certo, sempre si è data questa tensione tra le leggi terrene della vita politica e sociale e il grande comandamento. Ma, per prima cosa, la tensione è una cosa diversa dalla conversione nell‟opposto. Tra le due cose c‟è una differenza essenziale, non quantitativa.461
D‟altronde, la stessa differenza “non deve frantumare la nostra unità vitale in due pezzi, in due metà”, tali che la parte corporea segua “gli istinti dl potere e dell‟orgoglio”, mentre come anime siamo chiamati ad aprirci “ai beni celesti solo nella fede o nella cosiddetta „intenzione‟ ”. Questa “falsa strada” che opera una separazione “tra Dio e mondo, tra anima e corpo, tra intenzione e azione, tra fede e opera, tra libertà esteriore politico-sociale e libertà „interiore‟, e anche scissione tra politica e morale‟”, costituisce per Scheler “il pericolo specifico dello spirito germanico”, la sua “tara ereditaria” che l‟insegnamento del “protestantesimo luterano” ha consentito si diffondesse a livello dottrinale.462 La questione, come si può intuire, è del tutto analoga a quella della “doppia verità” professata dalla dottrina cattolica, per cui l‟attribuzione di Scheler allo spirito tedesco appare una forzatura polemica rispetto all‟esigenza luterana di accreditare lo spirito dell‟intenzione rispetto allo spirito dell‟apparenza che animava la prassi ecclesiastica romana. Ma il punto decisivo riguarda la frattura interna alla morale cristiana tra la dimensione interiore, e cioè soggettiva, e quella esteriore, pubblica, politico-sociale, sottratta pertanto alla morale cristiana e abbandonata “al mero attacco e contrattacco delle forze terrene, insieme ad una politica di potere machiavellica”.463 La questione morale dell‟Europa moderna verteva dunque sulla ricomposizione della frattura intervenuta all‟interno della sintesi cristiana, in vista di un risorgimento della civiltà europea nel segno dello spirito cristiano. Se infatti Evitiamo questa falsa rinuncia all‟autentico innesto dello spirito cristiano nell‟esistenza pubblica e visibile, dunque anche nella realtà delle relazioni umane collettive, allora ai non credenti che intendono il “fallimento del Cristianesimo” in 461 462 463
Ivi, pag. 889. Ibidem. Ivi, pag. 889.
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modo tale da rivolgere l‟accusa alla morale cristiana stessa, dobbiamo rispondere che per questo innesto (Einbau) abbiamo davanti a noi ancora una smisurata storia futura, e che il Cristianesimo – se confrontato con le altre istituzioni terrene – è certamente antico, ma ancora giovane e nuovo per tutti coloro che hanno compreso con chiarezza il senso di durata che i valori religiosi possiedono per essenza, rispetto ai valori della cultura in generale.464
Se la cultura secolarizzata non riduce il “comandamento dell‟amore”, o meglio, non lo “indebolisce”, fino a farne una “superficiale morale del benessere”, escludendolo da “ogni realtà pubblica”, allora la sua eterna attualità consente di giudicare la vicenda della “storia europea” come una autentica “aberrazione”, che coinvolge, a secondo della prospettiva, tanto “coloro che amministrano la legge cristiana”, ossia “le Chiese” e i loro rappresentanti, quanto l‟atteggiamento di “apostasia” da esse assunte di fronte al “mondo moderno”, a significare che la questione in oggetto sia se “il cristianesimo è ancora il potere spirituale che di fatto guida in Europa, o non lo è”. Se è ancora il potere spirituale di riferimento, se è tuttora il nucleo e la sostanza dello spirito complessivo europeo, allora il cristianesimo ha fallito, almeno nei suoi rappresentanti e nelle grandi istituzioni che lo rappresentano. Solo se e nella misura in cui – cosa che sarebbe da dimostrare – il cristianesimo avesse perso questo suo ruolo guida, se lo avesse dovuto cedere ad altre potenze spirituali a lui nemiche, […] questa accusa potrebbe essere a buon diritto respinta e mutata nell‟altra accusa secondo la quale non è il Cristianesimo ad aver subito questo fallimento, ma lo spirito moderno a lui nemico.465
La complessità del problema morale dell‟Europa moderna impedisce di ridurre la questione del fallimento cristiano a singoli Stati, che si accusano reciprocamente in quanto nemici, inerendo essa “l‟orientamento fondamentale della storia dell‟Europa” che ha condotto alla Guerra. In questo orientamento “comune”, che coinvolge tutta l?Europa cristiana, aggiunge Scheler, la Germania va inclusa, senza però alcuna prerogativa di colpevolezza esclusiva. Un‟analisi seria deve partire dall‟onesto riconoscimento che “in Europa l‟ethos cristiano non è più il potere spirituale trainante”, per quanto sia vivo dottrinalmente, poiché esso “nella pratica” è trasgredito, e di conseguenza il suo “potere morale non è più la potenza vivente che orienta e conduce la vita pubblica e culturale 464 465
Ivi, pag. 891. Ibidem.
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dell‟Europa”. In altri termini, la trasgressione, che “c‟è sempre stata”, non è limitata e circoscritti a casi individuali e temporanei, ma investe “ i criteri, gli ideali, le norme cristiane stesse” regolatrici della “attività” umana, le quali norme “non animano né guidano più lo „spirito oggettivo‟ che prevale nelle opere, nelle forme, nelle istituzioni, nei costumi” della vita europea, avendo ceduto “il timone” della coscienza europea all‟ “ethos dello spirito moderno specificamente borghese e capitalista”.466 Questa determinazione storica di responsabilità morale, apre però la delicata questione della possibilità di incolpare di un processo storico, se non le Chiese e i singoli Stati cristiani, un indirizzo culturale che, per affermarsi su quello cristiano, ha dovuto misurarsi nei termini del suo accreditamento morale e intellettuale presso i popoli già cristiani e le loro classi dirigenti. Se, infatti, il complessivo “orientamento” è il risultato storico di una “tensione” morale di forze concorrenti all‟egemonia “religiosa” dell‟Europa, come si può non coinvolgere in quel risultato anche la posizione delle forze cristiane che hanno perso la loro supremazia? Come si potrebbe, insomma, considerare “complessivo” il fenomeno del “fallimento” cristiano, e quindi definirlo nei soli termini del suo risultato e non anche in quelli delle sue premesse, che in tal caso coinciderebbero per rovesciamento di prospettiva storica con l‟effettivo esito? L‟etica capitalistica si è affermata su quella cristiana superandone le resistenze, per cui la nuova egemonia è il portato dialettico di una tensione ideale di forze morali antagonistiche, le quali si sono vicendevolmente influenzate, oltre che combattute, essendo entrambe originate da una comune matrice antropologica, cioè storico-culturale, come del resto lo stesso Scheler in qualche modo implicitamente ammette rilevando che “questa guerra ha svelato – non creato” la “sofferenza della coscienza cristiana” di fronte al diverso indirizzo morale delle classi dirigenti europee.467 Egli, per indicare la perdita di centralità in Europa dell‟ethos cristiano incentrato sul comandamento dell‟ amore, enumera una serie di “poteri spirituali di tipo assai diverso”, i quali, “nel corso della storia” hanno collaborato alla sua “eliminazione”: l‟umanitarismo, l‟individualismo, il socialismo, l‟assolutismo statalistico anti-feudale, il nazionalismo politico e culturale, l‟autonomia della cultura rispetto alla comunità culturale cristiana, la divisioni sociali in classi economiche, l‟economicismo 466 467
Ivi, pag. 895. Ibidem.
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capitalistico borghese. Tali forze “non sono controllate da nulla, ma si sviluppano senza alcun vincolo nella libera concorrenza, unicamente entro i confini del punto di vista di ciò che è opportuno per lo stato”.468 Ciò significa che lo Stato, ossia l‟organismo politico, assumendo nel proprio ambito le varie e diverse manifestazioni delle attività umane, ha sostituito la comunità religiosa, facendo del suo ethos il criterio morale della socialità alternativa a quella etica cristiana. Solo, infatti, entro la cornice etica dello Stato è possibile che i diversi e opposti “poteri spirituali” possono convivere dialetticamente e armonizzarsi. Ma perché questo sia possibile, deve presupporsi, al di sotto della varietà e conflittualità dei singoli poteri, una loro essenziale omogeneità di principio, costitutiva della loro unitaria assunzione come elementi ideali dello Stato. Qual è questa fondamentale essenza ideale dello Stato moderno, sostitutiva dell‟essenza etica che sosteneva lo Stato cristiano? Abbiamo già incontrato, a proposito delle caratteristiche ideali della cultura moderna, sia il fondamentale “oggettivismo” scientifico, così tanto criticato da Husserl, che la tendenza socio-politica pianificatrice propria del razionalismo, messa in luce sia da Popper che da Mannheim, con opposte valutazioni di merito. Tali caratteristiche dell‟oggettività e della pianificazione sono aspetti collegati e coerenti della metafisica razionalistica moderna, la quale, partendo dal soggettivismo della coscienza ideale, lo ha convertito nell‟oggettivismo della realtà sociale, in virtù si quella trasformazione ontologica ormai a noi nota, di cui ciò che Scheler ha indicato in termini cartesiani di “scissione tra anima e corpo” è solo il presupposto metafisico ma non l‟esito deontologico che ha perseguito l‟etica razionalistica contro la tradizionale etica cristiana. La razionalità moderna, perseguendo il disegno realistico di emancipare il sapere dalla fonte metafisica tradizionale, che aveva saputo operare una sintesi religiosa tra l‟ontologia greca e il personalismo creazionistico della teologia ebraica nel paradigma cristiano, e che nell‟etica dell‟amore trovava il suo referente dogmatico normativo, tese a ricuperare, ai fini di tale emancipazione, l‟oggettivismo del naturalismo greco, in polemica con ogni tentativo idealistico di riproporre il creazionismo di origine teologica in chiave soggettivistica. Per cui lo scientismo moderno, quale forma aggiornata di oggettivismo, si definiva in alternativa teoretica con ogni forma di soggettivismo, sia intuizionistico che logicistico. E‟ pur vero, come ha ricordato Mannheim, che la elaborazione in chiave 468
Ivi, pag. 897.
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soggettivistica del pensiero moderno è successiva alla crisi dell‟oggettivismo scolastico di origine aristotelico-tomista,469 ma tale oggettivismo non va disgiunto dalla sua matrice teologica, il cui creazionismo costituiva la premessa epistemica di ogni ontologia e gnoseologia cristiana. In questo precipuo senso, la metafisica oggettivistica della filosofia cristiana era l‟ancella della sua teologia fondamentale. L‟oggettivismo scientistico costituiva invece il prodotto teoretico di un naturalismo epurato di ogni creazionismo teologico, ossia del tradizionale fondamento epistemico del pensiero filosofico, rispetto al quale si definiva come l‟erede anti-metafisico, ossia anti-teologico e antiidealistico. Un pensiero ha valore “oggettivo”, contrapposto a “soggettivo”, nel significato che esso non ha origine dal soggetto (divino o trascendentale che sia). E ciò che non dipende dal soggetto ideale è quanto il soggetto non ha creato, e che perciò è indipendente dalla sua volontà. Lo scientistico moderno declina il suo oggettivismo o in termini strettamente naturalistici e biologistici, per cui il mondo non è una creazione divina ma un processo di infinita trasformazione molecolare; ovvero nei termini dell‟oggettività sociale, per cui ciò che non ha creato il soggetto ideale è il prodotto sociale, collettivo, di un popolo, di una civiltà o dell‟umanità intera. Sia il sociologismo che lo storicismo tendono a coniugare in una nuova sintesi razionale sia l‟istanza oggettivistica dello scientismo che il motivo spiritualistico legato all‟antropologia platonico-cristiana, concependo, a seconda delle correnti di pensiero, la realtà oggettiva o come il prodotto fenomenico di un soggetto collettivo - la classe, la società o la storia -, ovvero come l‟orizzonte esistenziale di forze impersonali e indeterminate che muovono i processi collettivi. In ogni caso, il fondamento epistemologico dello scientismo è l‟oggettività quale termine di misura della conoscenza universale, ossia di ogni pensiero dotato di senso razionale, relegando nel “soggettivo” ogni altra umana esperienza di vita e di pensiero. Ciò che non è atto di creazione soggettiva, è prodotto razionale del lavoro socializzato, ossia razionalizzato. “Razionalizzare” vuol dire dunque “oggettivare” il prodotto individuale rendendolo parte funzionale e 469
K. Mannheim, Ideologia e Utopia (1936), tr. it., Bologna (1957), 1972, pagg. 13-
15.
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organica del processo produttivo del lavoro socializzato. In questo contesto di oggettività, il carattere “individuale” della produzione razionalizzata e socializzata non ha nessuna attinenza col significato filosofico della “soggettività”, che è concetto legato al paradigma creazionistico di origine teologica, per cui va nettamente distinto l‟individualismo scientistico dal soggettivismo idealistico. “Razionalizzare”, in termini razionalistici, significa “spersonalizzare”, cioè emancipare, svincolare, il prodotto di valore sociale dalla dipendenza della volontà del soggetto personale. Nello stesso senso, “razionalizzare” significa liberare il prodotto umano dall‟aleatorietà della volontà soggettiva, ossia dalla dipendenza dalla sua libera determinazione volitiva, dal suo libero arbitrio. L‟organizzazione della vita moderna su basi razionali si fonda sulla progressiva e sistematica riduzione del libero arbitrio dei soggetti morali, assunti solo nel loro valore economico di individui socializzati, quali elementi sociali dell‟attività produttiva. La socialità moderna, dunque, si definisce in termini alternativi alla comunità religiosa, attraverso la razionalizzazione delle attività lavorative dell‟uomo socializzato, la cui condotta doverosa è legata non a comandamenti morali, né la sua virtù a una libera conversione spirituale, ma a norme ordinamentali pubbliche, nella cui osservanza si realizza socialmente ogni virtù etico-politica. Così, al percorso interiore del soggetto coscienziale verso la sua redenzione morale, non giudicabile compiutamente da umano tribunale, si sostituisce modernamente con la funzionalità individuale al processo produttivo del lavoro socializzato, la cui “virtù” è di valore oggettivamente economico, e sempre commisurabile ai parametri mondani. La oggettività, dunque, non va intesa solo come esteriorità delle forme istituzionali storiche dello spirito, ma anche, e soprattutto, come assicurazione morale, legata alla prevedibilità razionale dei comportamenti umani socializzati e legalmente diretti. In questo senso, tutto l‟impianto di razionalizzazione della moderna struttura sociale è una “politica di piano”, come l‟intendeva Mannheim, ossia una forma di controllo progressivo dei comportamenti umani conformati a un modello di condotta “razionale”, cioè prevedibile per moventi e conseguenze. Da questa fondamentale istanza di razionalizzazione dei comportamenti e quindi dei controlli sociali, nasce la risposta dello Stato legislatore moderno, il quale, occupando tendenzialmente ogni aspetto della vita umana ritenuto afferente alla esigenza d‟ordine sociale, giunge al totale controllo della sua esistenza, costituendosi pertanto come Stato totalitario. 198
La premessa morale di tale controllo dei comportamenti umani è che l‟uomo sia un essere interamente dipendente da se stesso in quanto “responsabile” delle sue azioni, ossia libero di determinarsi come attore. Nella prospettiva razionalistica, tale fondamentale abilità di rispondere delle sue azioni, fa dell‟uomo un potenziale eversore dell‟ordine pubblico, che va di conseguenza neutralizzato. Ma il punto essenziale è che tale premessa stessa si fonda a sua volta su una visione antropologica del tutto emancipata da ogni referente naturalistico e divino. L‟uomo libero e razionale è sostanzialmente solo con se stesso e con la sua libertà. Nella prospettiva razionalistica, la libertà dell‟uomo diventa solitaria. L‟umanesimo moderno, rispetto al naturalismo antico e al cristianesimo dell‟età di mezzo, fa dell‟uomo un ente cosmicamente separato, e perciò fondamentalmente infelice e tendente alla felicità, ossia al suo benessere. L‟attenzione verso le sorti dell‟uomo sono dunque funzionali alla sua primaria esigenza di provvedere a colmare la sua mancanza di benessere, cioè di appartenenza all‟universo cosmico. La cultura umanistica moderna si definisce come una cultura del rimpianto, della malinconia, della solitudine quale motivo di fondo dell‟esperienza antropologica dell‟uomo emancipato da Dio e dalla Natura. E da questa condizione umana nasce l‟esigenza di fraternità e solidarietà, cioè il motivo umanitaristico, che fa coincidere il fine etico con la stessa filìa per la “umanità” come benessere di tutti i viventi. Il concetto razionalistico e umanistico di “benessere” ha una accezione del tutto eudemonistica e mondana, che è opposta a quella cristiana di beatitudine come perfezione spirituale. A partire dall‟idea stessa di “umanità”, intesa ora “solo nella sua coesistenza temporale [di] coloro che di volta in volta sono viventi, non i gruppi umani nella loro esistenza storica interdipendente e non sullo sfondo di un ordine ultraterreno che comprende anche le anime dei defunti”, per cui l‟ ordo amoris cristiano, che ruota intorno al “sacrificio”, quale “atto spirituale di valore supremo che nobilita infinitamente l‟uomo e lo rende uguale a Cristo”, viene modernamente a perdere il suo valore teleologico di ricerca della perfezione morale, per declinarsi come “mezzo per aumentare il benessere e la felicità sensibile dell‟uomo o di gruppi di uomini”.470 Definire il benessere in termini sensibili, anziché spirituali, priva la sua ricerca di ogni indeterminatezza spirituale, per cui lo stesso concetto di “amore umanitaristico per l‟umanità”, emancipato da ogni riferimento 470
M. Scheler, Loc. cit., pag. 899.
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ultraterreno, si concentra sulla parte più materiale della prosperità umana, non desiderandola “in funzione dell‟amore e della capacità di amare dell‟uomo […] ma, al contrario, reclama l‟amore in funzione del benessere”. Ne consegue che “l‟autentico concetto dell‟amore come sacrificio è distrutto fin dalle fondamenta e l‟ethos cristiano dell‟amore è sostituito da un ethos del benessere terreno”.471 Ma quale valore teoretico attribuire a concetti come “rivolta contro Dio” e “distruzione dei valori umani”? Per quale ragione il “moderno amore per l‟umanità” si traduce in “una passione fortemente rivoluzionaria, ribelle”, che “livella tutte le differenze di valore oggettivo di ciò che è umano”?472 La “rivolta” rimane inspiegabile senza il “passaggio” dell‟ordine già ritenuto “oggettivo” e intangibile perché “sacro”, in un ordine degradato a valore “soggettivo”, opinabile, e quindi “profano”. In altri termini, è cambiato ciò che Lukàcs, in Storia e coscienza di classe, chiama il “principio della connessione di tutti i fenomeni”, che il razionalismo moderno identifica con la loro calcolabilità o prevedibilità, assunta come indica del loro valore razionale. Come poteva questo assunto non entrare in collisione diretta con ogni forma di teodicea e di ordine regolato in base a una imponderabile volontà divina? L‟emancipazione da Dio, dalla sua volontà era dunque la premessa di ogni controllo assolutamente umano del mondo, per cui sia la “rivolta” contro la legge di Dio, che la “distruzione” delle istituzioni umane a essa conformi, sono aspetti complementari e reciproci di un unico processo ideale, a un tempo metafisico e storico, di trapasso da un universo sacrale a un altro universo, che è profano rispetto al primo. Dal nuovo paradigma ontologico consegue la necessità morale, il fondamento deontologico, di uniformare ad esso il mondo, trasformando il vecchio nel nuovo valore di senso, il cui principio di ragione fa considerare l‟antico come irrazionale. La ragione del mondo nuova si fonda dunque sulla abiura della ragione antica e la fede nel nuovo principio razionale. La “rivoluzione” non è che il rispecchiamento della realtà storica al modello ideale prospettato dal nuovo principio connettivo, indicativo della nuova razionalità universale. Rousseau, rispetto a Robespierre e a Marat, rappresenta il principio della esclusione della nuova coscienza critica dall‟universo morale tradizionale, in cui essa non riesce a riconoscersi e quindi a integrarsi socialmente. Il motivo rivoluzionario, impersonato dai due altri 471 472
Ivi, pag. 901.] Ibidem.
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personaggi citati da Scheler,473 è l‟atteggiamento pratico coerentemente succedaneo a quello ideale della dis-integrazione dell‟ordine tradizionale, avente a oggetto la costituzione di un nuovo ordine mondano. Non cogliere dell‟atteggiamento ideale di Rousseau che un “pathos dei sensi”, non scorgendo dietro di esso “l‟atto spirituale” che ne è all‟origine, significa non comprendere la stessa genesi spirituale del processo moderno di razionalizzazione, ossia la sua scaturigine, sia pure dialettica, dalla crisi delle forme ideali costitutive dell‟ordine cosmico cristiano. Senza la considerazione di questa crisi formale, relativa alle ragioni filosofiche della fede nei fondamenti teologici, lo stesso universo cristiano, costituito dalla sintesi del creazionismo biblico e del pensiero filosofico classico, diventa una realtà idealmente ipostatica, razionalmente non più giustificabile, e solo storicamente reale, e perciò trasformabile ad arbitrio umano. Ciò vuol dire che la fede nella inviolabilità del cosmo sacralizzato dipende dalla sua giustificazione razionale, ossia dalle ragioni addotte a giustificazione di quella inviolabilità, fornite dalla ragione umana. Questa ragione umana, assegnando a se stessa un valore di fede, è essa stessa ragione divina, consustanziale alla dimensione sacrale dei suoi contenuti ideali, per cui essa torna a concepirsi quale forma umanistica di pensiero nell‟atto in cui si scinde dal suo legame teologico con la fede, la quale a sua volta, perdendo le sue giustificazioni umano-razionali, diventa mera espressione dogmatica di forme apodittiche. In questi casi, la fede in Dio e la ragione umana tornano a disgiungersi dal loro universo metafisico, e a separarsi in due configgenti universi ideali. 2. Con la crisi della sintesi cristiana, la ragione umana riprende i suoi sentieri del giorno, illuminando la vita dell‟umanità pensante, mentre la fede religiosa ritorna alle ombre dell‟antica notte dei tempi, quando Dio e gli dèi pagani giocavano agli scacchi il destino degli uomini. In questo nuovo clima di separazione della coscienza umana, la ragione deve fermarsi alle soglie della sera, lasciando l‟uomo nella paura del temporaneo mistero del buio, lasciando il passo alla sola fede, che vale anch‟essa quanto il tempo di durata del buio. Ma che ragione è mai quella che si arresta di fronte ai suoi problemi? E che fede sarà mai quella che rifiuta di valere alla luce del giorno? Torna a proposito tutto il senso profondo dell‟immagine hegeliana della nottola di Minerva, che spicca il 473
M. Scheler, Loc. cit., pag. 901.
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volo sul far della sera, portando la luce della ragione dove la sola fede annega nelle ombre, ingiungendo all‟una e all‟altra di non separarsi essendo parti consustanziali del tempo. Si può ben dire che il dominio moderno della scienza nasca da tale dissociazione ontologica tra sapere razionale e fondamento fedele, così che il razionalismo è il prodotto della separatezza della ratio dalla fides, cioè nasce dalla destrutturazione della sintesi cristiana. Se la ragione priva del fondamento epistemico della fede porta all‟illuminismo e al realismo, che sono le dimensioni tipiche del razionalismo moderno, la fede senza il supporto della ragione conduce al fideismo e all‟irrazionalismo, che del moderno rappresentano la reazione più radicale. Che i due termini della dissoluzione cristiana siano in relazione, lo comprova proprio l‟esperienza intellettuale e umana di Rousseau, per un verso proteso verso un realismo sociologico, e per l‟altro verso un individualismo spiritualistico. La sua vicenda dimostra che la relazione dei due termini non solo ha un‟origine comune ma è intercambiabile, sicché dall‟individualismo si passa al collettivismo democratico semplicemente proiettando nel sociale la forma strutturale del pensiero soggettivo. D‟altronde, come sarebbe possibile concepire un “passaggio” ontologico senza la mediazione ideale di un termine comune ai due elementi? Tale elemento comune e mediatore è la negazione, ossia l‟idea del negativo come termine di possibilità che l‟essere sia in quanto opposto a ciò che l‟essere stesso non-è. La negazione esprime dunque la possibilità che l‟essere non sia ciò che appare come essere, ma altro. Questa possibile toglie all‟essere ogni sua necessità, destinandolo al mutamento. Un essere che può non-essere, è, nella sua libertà, un essere non necessario, cioè possibile. La possibilità costituisce l‟essenza trascendente a ogni forma immanente dell‟essere, ciò che rende precaria ogni sua sussistenza temporale. L‟idea che l‟essere abbia in sé la possibilità di non essere ciò che è, fa dell‟essere stesso una forma incompiuta, che per completarsi richiama incessantemente l‟altro-da-sé, il suo negativo. Questo appello all‟altro, che per Platone è al fondamento di ogni teoria, nella dimensione cristiana diventa il rapporto di consustanzialità dell‟anima umana a Dio, senza il Quale ogni definizione antropologica risulta astratta, perché poggiante su una sussistenza ontologica che prescinde dal suo negativo, cioè su una immanenza senza trascendenza. E poiché un essere concepito come in sé sussistente è per ciò stesso rappresentabile come l‟opposto all‟essere che è invece trascendente, la sua sussistenza è in sé negativa, tale cioè che il suo essere 202
sia essenzialmente un essere negativo, un essere-non. Ma proprio in virtù di questa sua essenza negativa, l‟essere tuttomondano dell‟ontologia moderna può essere concepito come il rovescio di ciò che è, ossia il suo opposto, per cui l‟apoteosi dell‟ateismo di un mondo desacralizzato trasformarsi nella sacralizzazione della realtà profana. E questo movimento pendolare di oscillazione tra essere e nonessere costituisce il tratto caratteristico della cultura moderna, sospesa tra un razionalismo dell‟intenzione e un misticismo dell‟azione, ovvero tra una forma ideale di libertà assoluta e una forma riflessa di assolutismo reale. Nel rapporto predicato da Lutero tra “l‟anima singola e il suo Dio”, tutti i legami sociali furono intesi come la conseguenza del reciproco rapporto, e perciò “sottratti, non tanto a una sanzione religiosa a posteriori, ma alla guida e direzione precedente, attraverso il comandamento di salvezza dell‟amore”, e quindi abbandonati “alle forze, alle passioni, agli istinti dell‟uomo puramente naturale”.474 “Naturale” è la condizione dell‟uomo privo di “amore”, ossia di legami con la sua essenza trascendente. La condizione “naturale” è dunque l‟esistenza dell‟uomo come essere biologico, senziente e razionale entro la sua dimensione immanente, che è l‟essere-non. Quanto alla “distruzione” degli istituti umani tradizionali, si cominciò dalla Chiesa, espressione massima del “principio di salvezza solidale”, la cui finalità irenica fu interpretata dal protestantesimo “non come una via ugualmente necessaria e ugualmente originaria verso Dio e la salvezza [ma] solo come conseguenza della salvezza già ottenuta da ogni individuo”, con la conseguenza inevitabile che “la distruzione del principio e del sentimento di solidarietà doveva per così dire diffondersi sempre più a tutti i tipi di comunità”, i quali, si trattasse di Stato, economia, cultura, “dovevano da quel momento seguire il proprio corso e svilupparsi in modo indipendente autonomo, ossia secondo leggi in cui Dio è assente”.475 E così “l‟individualismo esclusivamente religioso […] si tirò dietro lentamente, uno dopo l‟altro, l‟individualismo politico, quello culturale e infine anche quello economico”.476 L‟individualismo, dunque, prima di essere un abito psicologico, indica la condizione di “rinuncia all‟unione” fra uomini convergenti verso fini comuni, rimettendosi solo a “ciò che è tecnico, meccanico in tutte le cose, 474
M. Scheler, Loc. cit., pag. 905. Ibidem. 476 Ivi, pag. 907. 475
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ossia sui mezzi”, trascurando “ciò che per loro deve essere la cosa suprema”, ossia l‟attribuzione di un senso spirituale alla vita. Per Scheler, questo “processo che provoca l‟atto di rinuncia a convergere nella presa di posizione rispetto al sommo bene, per sua natura non si può arrestare”, estendendosi progressivamente “prima verso i beni più vicini al bene sommo, poi verso quelli un po‟ più lontani”, con la conseguente “regressione” delle forze spirituali “normative”, che cioè “danno forma” alle questioni del “che cosa devo fare” e circa “qual è la mia missione nel mondo”.477 Questa condizione regredita vale per tutta l‟Europa, da quando ha perduto la sua relazione comune e armoniosa con Dio, in una Chiesa. L‟Europa è trascinata […], dalla logica propria dei suoi affari, delle sue merci, delle sue macchine, dei suoi metodi e delle sue tecniche [comprese] le sue macchine di morte. Questa logica interna di una civilizzazione prevalentemente tecnica, è svincolata da ogni superiore orientamento verso l‟unità attraverso una autorità spirituale e morale riconosciuta come comune.478
L‟umanitarismo è, a sua volta, non l‟universalizzazione del comandamento cristiano dell‟amore cristiano, che presuppone Dio come suo fine, ma la generalizzazione della chiusura nell‟interiorità individuale dell‟uomo delle “energie morali del cristianesimo”, stornandole dalla “vita pubblica” e dalla “sfera dello spirito oggettivo”, con la conseguenza che “il genere umano [restò] privo di guida e di modelli riguardo al fine fondamentale dell‟umanità”.479 L‟umanitarismo è dunque il portato morale del razionalismo moderno, il quale, con l‟illuminismo, secondo Scheler, rappresentò la reazione al “forte sopra naturalismo, esagerato in modo unilaterale, dei movimenti del primo protestantesimo e [alla] sua pericolosa rinuncia ad una vera installazione del regno di Dio in questo fragile mondo”.480 Come si vede, concepire che il rapporto con Dio sia dimensionato alla realtà dell‟anima individuale e lasciare che il mondo sia senza Dio finiscono per essere aspetti complementari e simmetrici di una stessa posizione originaria di rottura dell‟immagine teomorfica dell‟uomo, che è all‟origine della attuale “anarchia dell‟Europa”.481 L‟abbandono del mondo al suo destino, era la constatazione della 477
Ibidem.. Ivi, pag. 909. 479 Ibidem. 480 Ibidem. 481 Ibidem. 478
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irredimibilità del male nella esperienza storica dell‟uomo, e quindi la sostanziale ingovernabilità degli affari mondani, lasciati alla precaria composizione di empirici accorgimenti pratici. La forza del bene, destinato anch‟esso alla imperscrutabile volontà divina, veniva circoscritta alla presenza individuale nei singoli cristiani, la cui testimonianza storica rappresentava comunque una eccezione virtuosa rispetto al caos generale nel quale era ripiombato il mondo abbandonato da Dio. La “anarchia” di cui parla Scheler non è solo quella contingente della Guerra, ma la condizione ordinaria di un cosmo destrutturato, in cui le forze del bene e quelle del male agiscono senza un ordine complessivo precostituito, che in origine era quello testimoniato dalla Chiesa comune e cattolica. Con la destrutturazione dell‟universo cattolico, gli elementi della sua classica composizione si emancipano dal loro centro unitario e proseguono una via reciprocamente indipendente, trasferendo nell‟altro mondo la composizione delle loro contraddizioni, ritenute insanabili in questo. Per ciò, da un canto, il razionalismo recupera la visione umanistica del mondo, concentrando la sua opera nella supplenza di una teologia del disimpegno mondano, perseguendo un proprio universalismo informato sui princìpi della ragione. Dall‟altro canto, la fede religiosa spostando il suo baricentro dalla realtà del mondo alla individualità dell‟esperienza interiore, nel purificarsi dalle contaminazioni mondane di una ecclesiologia fin troppo partecipe della storia del mondo, riduce il suo ambito di influenza alla responsabilità dei singoli credenti, chiamati essi, in quanto tali, a costituire il sale di un mondo non più sorretto dall‟ottimismo fiduciario della ragione umana. In tal senso, la stessa vita diventava per l‟uomo il suo proprio calvario, il banco di prova del suo accesso alla grazia della beatitudine eterna, comunque ultraterrena. Da qui l‟importanza, come vedremo oltre, dei segni di questa grazia divina nelle azioni e nelle opere umane, quasi la premonizione temporale della futura salvezza eterna. Ma da qui anche il senso del processo di decadenza che l‟intera civiltà cristiana verso la progressiva disgregazione della sua sintesi teomorfica. A seguito di quel processo, le tradizioni comuni – che avevano creato una cultura cristiana nel corso di molti secoli, unita ai valori degli antichi, - continuarono a influire ancora per molto tempo e sopravvissero alla loro rinuncia consapevole, così come il cielo rosso sopravvive al sole tramontato. Come i musicisti che improvvisamente non sono più diretti dal maestro di cappella, continuano a suonare ancora per un tratto di tempo, così le nazioni europee sembrarono ancora comporre una certa sinfonia. Ma a questa doveva subentrare la confusione definitiva. In quella che i grandi pensatori dell‟illuminismo –
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Voltaire, Kant, Wolff – chiamarono la “ragione” autonoma, a quel compendio di princìpi, che si supponevano atemporali e astorici, dell‟etica, della logica, dell‟economia, del diritto, ecc, brillava ancora la luce eterna in certi bagliori, e brillava ancora come cristiana, anche là dove gli uomini da lungo tempo non volevano più prendere la parola.482
Da questa formidabile ricostruzione del processo di decadenza della civiltà cristiana, si desume nondimeno il ruolo essenziale, anche se implicito, della Chiesa come istituzione massima della società cristiana, nella sua componente umana, soggetta perciò all‟edacità dei tempi, ossia alla stessa critica di quella ragione che in altri tempi l‟aveva sostenuta. La critica alla Chiesa da parte del protestantesimo si dispiega già da questa ricostruzione come la messa in mora di ogni forma umana di socialità profana, costruita cioè su fondamenti temporali proprii della realtà finita in cui abita l‟uomo. Ridiscutere il ruolo mondano dell‟unica Chiesa significò, in altri termini, scorporare la sua destinazione escatologica dalle forme di esistenza terrena, criticate le quali, quella destinazione permase come lo scopo di ogni possibile forma istituzionale storica. Sicché la ragione comune, individuata nella istituzione cattolica, si disgregò nella ragione di ognuno, nella salvezza di ogni anima fedele, che riprendeva a suo modo, insindacabile fuori delle modalità condivise, il compito di stabilire altre forme comunitarie, anch‟esse storiche come ogni esperienza mondana dell‟uomo. Così, la Chiesa spirituale trasmigrò in ogni cenacolo di fedeli, in ogni setta e confessione particolare, assegnando all‟uomo il compito di renderla coerente in questo mondo, nei limiti delle possibilità di ogni prodotto mondano, alla sua destinazione trascendente. E‟ chiaro che, destrutturata la Chiesa come forma universale, le forme storiche alternative diventano i luoghi simbolici di un policentrismo istituzionale scientemente predicato come il viatico strumentale della stessa ricerca della salvezza religiosa in questo mondo. Bastava assegnare a tale ricerca mondana una sua prerogativa razionale rispetto all‟imperscrutabile destinazione ultraterrena perché le storiche determinazioni del suo processo occupassero i compiti di una ragione ormai emancipata dai suoi servigi dogmatici; compiti che la ragione profana poteva verificare sperimentalmente, correggendone in itinere la umana imperfezione in senso progressivo. Per cui “la crescente cultura unilaterale realistica e storica del XIX secolo ha gradualmente messo da 482
Ivi, pag. 911.
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parte anche queste tracce di luce”483 e il mondo, riconsegnato agli uomini, privato cioè della “luce eterna” della rivelazione divina, persegue un suo tragitto razionalistico, all‟insegna di un sapere metodicamente verificabile della realtà sensibile, la scienza. Rispetto al sapere tradizionale, filosofico, la scienza moderna è autofondativa, non sostenuta da alcun fondamento epistemico, necessariamente religioso. Sicché, quando si dice, anche autorevolmente, che la scienza moderna sia la derivazione della filosofia classica, che ne è il fondamento, si omette di considerare che la ragione filosofica non era auto-fondativa, ma presupponeva quel fondamento religioso che la scienza, quale ragione emancipata, rifiuta per statuto epistemologico. Finché il sapere è filosofico, ogni suo fondamento rimanda a un‟intuizione religiosa a-razionale, e così ogni sapere disciplinare che derivi dalla filosofia procede a sua volta dagli stessi presupposti ontologici dell‟intuizione religiosa. La scienza moderna è la ragione emancipata, resasi “indipendente” da quei fondamenti, per cui essa è un altro sapere rispetto a quello filosofico, il quale, per essere filosofico, deve potersi fondare religiosamente. E se il fondamento della scienza moderna è la realtà sensibile, suo esclusivo e assoluto oggetto di esame, il fondamento della filosofia, invece, non è la realtà sensibile, ma la sua dimensione trascendente o ideale. Perciò, una filosofia che si fa “scienza” del mondo, è scienza tout-court; così come una disciplina di scienza che vuole applicarsi alla realtà trascendente quella sensibile, diventa un ramo della filosofia. La stessa transizione dal vecchio al nuovo paradigma cosmologico, considerata nel campo strettamente teoretico, disegna una analoga parabola che vede il pensiero filosofico resistere sull‟inerzia della sua lunga tradizione, e il pensiero scientifico definirsi vieppiù come la nuova traiettoria del sapere razionale, la cui razionalità, non essendo fondata su fini escatologici, finisce per identificarsi col metodo della sua declinazione empirico-confutativa. E‟ qui che la “ragione” diventa tecnica del pensiero “umanitarista”, privo cioè di ogni fondamento teologico. E poiché era tale fondamento a costituire il proprio della ragione filosofica, la nuova razionalità scientifica non è la stessa ragione filosofica, per cui il razionalismo non è lo sviluppo moderno della filosofia ma la sua negazione. Come stretta conseguenza del pensiero umanitarista, ha dissolto sempre più
483
Ibidem.
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specialmente quella unità della natura razionale dell‟uomo, come idea sotto la quale l‟epoca dell‟illuminismo aveva sussunto tutti i concetti di vero e falso, buono e cattivo, giusto e ingiusto. Alla fine tutto ciò che doveva valere come norma comune per l‟uomo come tale divenne sempre più rarefatto, sempre più astratto e formale. Alla fine diventò invisibile e inconcepibile per la maggioranza. 484
La “conseguenza” dunque del razionalismo umanitaristico è la perdita progressiva di quella “unità” ideale che costituiva il fondamento ontoteologico di ogni sapere filosofico, costituito appunto dalla “ragione”. Cioè un razionalismo senza ragione, che corrisponde esattamente a un mondo - che è profano, rispetto a quello religioso - ma sacralizzato dalla fede nella sua realtà assoluta, e che sussiste senza Dio. Una realtà il cui essere, ancora una volta, è negativo. La socialità nuova, il nuovo ordine sociale razionalistico, in quanto fondato su una realtà assoluta, è privo dunque di fine che non sia quello dell‟esistenza stessa, la quale perciò diventa un “fatto” da cui partire e a cui giungere per ogni conoscenza dell‟esperienza umana. E poiché, in questa realtà esistenziale, ogni forma di idealità viene pensata come aggiuntiva e non originaria alla vicenda umana, anche la convivenza, come relazione ideale tra individui empirici, viene pensata come un‟astratta rappresentazione di quella vicenda, i suo elemento variabile e accidentale, meramente funzionale alla sopravvivenza biologica. E, come “tutto ciò che è basato su tale esperienza contingente può anche essere superato da nuove esperienze contingenti”.485 Diverso il caso della comunità in senso spirituale, nella quale l‟appartenenza è necessaria perché legata a una comune essenza ideale dei suoi membri. Per la sua consistenza, la posizione esistenziale dei soggetti empirici non è vincolante, per cui anche gli “uomini solitari, eremiti, pionieri, cavalieri soli di ogni tipo” possono farvi parte, essendo la loro appartenenza appunto ideale, originaria in senso spirituale e non storico-fattuale. E la consapevolezza di esserne membri appartiene dunque all‟essenza anche di quelle persone che vivono isolate, e che l‟intenzione spirituale verso una comunità esiste in modo del tutto indipendente dal fatto che trovi o no compimento anche attraverso l‟esperienza sensibile contingente di altri uomini, vedendoli etc., e [in modo punto indipendente] da quanti siano questi uomini e di quale tipo.486 484 Ibidem. Ivi, pag. 913. 486 Ivi, pag. 915. 485
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Il concetto di appartenenza ideale, spirituale, viene slegato da ogni corrispondenza alla condizione politica concreta, e destinato a qualificare la natura dell‟uomo, quale “portatore della forza dell‟anima razionale”, come quella che lo definisce “un‟essenza comunitaria”.487 In quanto essenziale, “la comunità spirituale” ha “dei diritti propri e superiori […] stabiliti da Dio”, in quanto “ha un‟origine propria”, “divina”, e dunque “più alta” di ogni “comunità di vita”, la cui costituzione storica viene idealmente trascesa come “organo di una comunità ancora più grande, più ampia e più alta”.488 Il rapporto tra la comunità storica e quella ideale è lo stesso che tra la realtà fattuale e quella razionale, per cui non c‟è nulla di più chiaro e certo per la nostra ragione, né per il nostro cuore, del fatto che nessuna di queste singole concrete comunità terrene, (la famiglia, la congregazione, lo Stato, la nazione, il gruppo di amici), in nessun grado del loro eventuale grado di perfezionamento storico, potrebbe essere del tutto sufficiente e accontentare perfettamente la nostra ragione e il nostro cuore.489
Questo perfezionamento, ispirato sia dalla ragione che dal sentimento di appartenenza, non può trovare “soddisfacimento” in una realtà finita, ma solo in una Idea: nell‟idea di una comunità di amore e di spirito con una persona spirituale infinita, che sia contemporaneamente la fine, il fondatore e il capo supremo di tutte le comunità spirituali possibili, così come di tutte quelle terrene e concrete. 490
Sorge a questo punto del discorso spontanea la questione se la Chiesa storica, non contemplata esplicitamente da Scheler tra le “comunità terrene”, possa, in quanto forma istituzionale finita, se non costituire, almeno sostituire l‟Idea evocata dal filosofo. In caso positivo, ogni esperienza comunitaria storica dell‟uomo deve far capo alla Chiesa come orizzonte universale della comunità spirituale. In caso negativo, invece, l‟esperienza ecclesiale non può considerarsi privilegiata rispetto a quella di altre comunità storiche, spiritualmente ispirate o meno all‟idea di Dio, nella consapevolezza che “tutti i fili si incontrano in Lui”, e solo in Lui 487
Ibidem Ivi, pag. 917. 489 Ibidem 490 Ivi, pag. 919. 488
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“l‟impulso infinito e il processo necessariamente infinito del pensiero riposano, si acquietano e trovano pace, al di là di tutte le comunità visibili finite”.491 La questione è meno peregrina di quanto potrebbe apparire a una sua considerazione puramente sociologica, dal momento che la crisi della ideale comunità cristiana coincide con lo scisma ecclesiale, ossia con la defezione dall‟istituzione storica per eccellenza rappresentativa della cristianità, appunto la Chiesa, alla quale viene contrapposta, non già un‟altra Chiesa, presuntivamente più rappresentativa del suo incontestato valore simbolico unitario, ma un‟altra idea di comunità cristiana, che sulla fine della giustificazione dell‟esistenza della Chiesa fondava le sue ragioni teologiche. Il motivo della Chiesa imperfetta e quello della Chiesa inutile sono radicalmente diversi e non componibili, sicché il concetto di “comunità cristiana” è più controverso e problematico di quanto Scheler voglia farci credere. A noi pare che l‟appello esplicito a Dio – anziché a Cristo – quale tensione unitaria dell‟ordo amoris abbia un valore indicativo oltremodo significativo e non accidentale, poiché sulla figura di Cristo ruota tutta la vicenda teologica e storica della presenza e della funzione universale della Chiesa. La Chiesa è la fonte dell‟autorità e della confessione religiosa dei cattolici, fuori della quale “la Sacra scrittura non ha mai goduto dell‟autorità, che deve avere tra i cristiani: cioè quello di determinare la mentalità unicamente in base al proprio contenuto”, mentre storicamente, fuori di essa, “sono state piuttosto sempre opinioni già acquisite in antecedenza e al di fuori del cristianesimo a determinare l‟autorità della Scrittura, il suo grado e il modo e la maniera del suo impiego”.492. Ma la funzione della Chiesa di custode della “purezza della Parola” è legata strettamente alla sua definizione teologica, dalla quale dobbiamo partire per intenderne il ruolo religioso e di modello culturale. Per Chiesa in terra i cattolici intendono la comunità visibile di tutti i credenti fondata da Cristo, in cui, sotto la direzione del suo Spirito e per mezzo di un apostolato da lui stabilito e ininterrottamente prolungatosi, vengono continuate sino alla fine del mondo le attività da lui esplicate durante la vita terrena per liberare l‟umanità dal peccato e santificarla […]. Il motivo ultimo della visibilità della Chiesa sta nella incarnazione del Verbo divino; se questi fosse disceso nel cuore degli uomini, senza assumere la figura di servo e senza quindi apparire in forma corporea, avrebbe fondato anche una
491 492
Ivi, pag. 919. A.J. Moehler, Simbolik (1832), tr. it., Milano, 1984, pagg. 277-278.
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Chiesa solo invisibile e interiore. Invece il Verbo è diventato carne, si è espresso in una maniera umana esteriormente percepibile, ha parlato da uomo a uomo, ha sofferto e agito alla maniera degli uomini per riconquistarli al regno di Dio, sì che il mezzo scelto per raggiungere questo scopo corrisponde pienamente al metodo universale di insegnamento e di educazione condizionato dalla natura e dai bisogni umani. 493
La forma della presenza divina in Cristo agli uomini, cioè l‟incarnazione di Dio, indicò anche “la forma in cui la sua opera sarebbe stata continuata”, per cui “risulta anche che la Chiesa, per quanto composta da uomini, non è solo umana [ma] la sua figura permanente, è contemporaneamente divina e umana, è l‟unità dei due elementi”.494 A questo punto sorgono due ordini di questioni. La prima è se la parte divina di Cristo è la sua unità spirituale con Dio, la sua parte umana, sensibile e visibile, non è compresa nel concetto di Spirito di Dio, e Cristo la condivide con i soli uomini. La seconda questione inerisce alla definizione ontologica di Chiesa. Se infatti la Chiesa è unità divino-umana, lo sono anche i singoli elementi che la compongono, cioè i singoli cristiani?, ovvero solo nell‟unità essa realizza la sintesi delle due nature? Se Dio si manifesta come uomo, c‟è nella natura umana qualcosa che manca nel Dio spirituale, cioè la sensibilità o corporeità. Senza Dio l‟uomo è sola natura, solo corpo. Ma senza corpo, senza la natura umana, Dio è solo Spirito. Solo in Cristo avviene l‟unità sintetica delle due nature. Cristo non è un doppione di Dio, ma la sua realtà terrena, la sua umanità. E se il corpo di Cristo è la Chiesa, cioè la comunità dei cristiani, solo la Chiesa, quale corpo mistico, può rappresentare Cristo, ovvero costituire la sintesi delle due nature, e non già i singoli cristiani, i quali, come singoli, non possono rappresentare Cristo, cioè sostituire la sua Chiesa. Ma neppure la forma istituzionale, la Chiesa apostolica, può da sola rappresentare l‟unità sintetica delle due nature di Cristo, perché la sua funzione di custode della Parola non sarebbe possibile senza la Chiesa comunitaria, informale. Se dunque la parola di Cristo “non è più scindibile dalla Chiesa e la Chiesa dalla sua parola”, è altresì vero che questa parola si tramanda nella sua “comunità”, e non si ferma nel cenacolo istituzionale. Infatti, “la comunità è legata all‟apostolato istituito da Cristo ed è in grado di sopravvivere solo per mezzo di questo”, per cui 493 494
Ivi, pagg. 279-280. Ivi, pag. 280.
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non si può non parlare di esso parlando della Chiesa.495 La Chiesa apostolica rappresenta pertanto la forma istituzionale della Chiesa mistica, costituita dalla comunità dei fedeli. Ma quale relazione intercorre tra le due componenti dell‟unica Chiesa? Per definirla, torniamo alla prima delle due questioni prima sollevate, relativa alla essenza spirituale della comunità, ovvero alla sua accidentalità. E‟ infatti da questa risposta che dipende la funzione magistrale della Chiesa apostolica. Il perfezionamento dei singoli con la virtù dall‟alto ebbe luogo in quanto essi ne furono resi partecipi solo perché formavano contemporaneamente una unità e in quanto la consacrazione dello Spirito avvenne sotto forme sensibili; di conseguenza, secondo le disposizioni del Signore, pure l‟unione dell‟intimo dell‟uomo con lui doveva verificarsi per sempre sotto condizioni esterne e in comunione con i suoi […], perché nessuno può santificarsi da solo con l‟atto battessimale, ma dipende piuttosto da coloro che già appartengono alla comunità.496
Il battesimo sancisce “l‟introduzione nella Chiesa” e la partecipazione alla sue vicende terrene, mentre l‟apostolato è lo strumento per cui “tutti i credenti sono indissolubilmente e vitalmente legati alla comunità. Pertanto l‟unione con Cristo è contemporaneamente sempre anche unione con la sua comunità”. Infatti, “le due cose sono inseparabili, così come Cristo è nella comunità e la comunità in lui”.497 In altri termini, la comunità dei credenti è il “corpo di Cristo”, di cui la Chiesa apostolica è la forma istituzionale, preposta al compito di “mantenere pura la parola”. E in questo compito “essa è infallibile”. A nessun singolo in quanto tale si addice tale infallibilità; il cattolico concepisce infatti il singolo solo e sempre come membro del tutto […]; egli è pertanto infallibile solo in quanto sente, pensa e vuole nel di lei [della Chiesa] spirito. Se la Chiesa concepisse il rapporto del singolo verso il tutto in senso opposto e lo pensasse infallibile come singolo, distruggerebbe il concetto della comunione; questa può infatti essere concepita come necessaria solo se la vera fede e la vita cristiana genuina e profonda non possano essere pensate come esistenti isolatamente nei singoli.498
Cristo è uno come persona, così come è una è la Chiesa come istituzione, ma il corpus Christi, ossia la comunità mistica, costituita dai fedeli quali 495
Ivi, pag. 281. Ivi, pag. 281. 497 Ivi, pag. 282. 498 Ibidem. 496
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uomini storici, ha un‟essenza plurale, è una realtà molteplice, che solo idealmente è una. Ma tale idealità non può coincidere con la forma istituzionale, anch‟essa storica, ma solo con la sua identità trascendente, con la sua realtà spirituale. Ora, la figura di Cristo per definizione non è una figura solo spirituale ma insieme anche umana, sensibile. Essa è una unità sintetica di spirito divino e umana materia, sicché la sua Chiesa rappresenta l‟unità ideale della molteplicità dei popoli cristiani. Tenuto forma il concetto unitario, pensare “la verità cristiana”, ossia la verità che è Cristo, “in sé solo come una”,499 significa non cogliere l‟essenza contraddittoria di quella verità, che è una e molteplice, poiché senza la realtà storica della comunità cristiana, quella verità in sé sarebbe rimasta in Dio, senza incarnarsi in Cristo, che di Dio è la realtà umana. Umanizzandosi, lo Spirito divino perde la sua unità e diventa realtà molteplice. Il processo della cristianità è appunto quello di ricongiungere l‟umanità nell‟unità divina, che, nella storia, però, non si realizza, essendo appunto ideale. Ci si dimentica troppo spesso che il cristianesimo acquisisce valore religioso distinto dall‟ebraismo proprio in quanto mutua dal pensiero razionalistico greco, e poi dall‟esperienza giuridica romana, la sua componente filosofica, ossia il suo elemento teoretico umano da conciliare con la tradizione della rivelazione e per servirsene come supporto di pensiero mondano. Ciò comporta che proprio col cristianesimo inizia quella lettura profana delle Sacre Scritture, in seguito canonizzata dalla Chiesa custode della Parola. Ma in realtà tale Parola, entro la Chiesa, non era già più quella della tradizione biblica, ma bensì la sintesi con il sapere mondano. E‟ questa sintesi, di Parola divina e sapienza umana, a essere oggetto di preservazione teologica, costituendo quel patrimonio ermeneutico che il clero, cioè la Chiesa apostolica, ha preso a custodire come scopo della sua missione istituzionale. Così la struttura ecclesiastica, depositaria e custode della sua propria legittimazione morale, si è trasformata in istituzione di potere attraverso il monopolio ermeneutico delle Scritture, costituendosi come il prototipo intellettuale dei tecnici, cioè di un ceto depositario di una esclusiva competenza tecnica usata come potere sociale. Se esaminiamo i contenuti logici delle seguenti affermazioni contenute nel classico testo del Moehler, noteremo l‟incongruenza logica che è alla radice dello stesso sviluppo della civilizzazione cristiana, e delle sue 499
Ivi, pag. 284.
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conseguenti riproduzioni secolarizzate nella concezione del potere sociopolitico moderno. Partiamo dall‟affermazione principale, riassuntiva della posizione ufficiale della Chiesa cattolica su se stessa, da cui discendono i corollari delle sue posizioni culturali nei confronti del mondo profano. Come Cristo è uno e la sua opera in se stessa una cosa sola e come di conseguenza esiste una sola verità e soltanto la verità rende liberi, così Egli può aver voluto anche una sola Chiesa.
Si noti l‟analogia essenziale tra la persona di Cristo, il contenuto di verità della sua predicazione, e il concetto di unità simbolizzato dalla Chiesa, per cui lo stesso concetto viene rappresentato da una persona fisica, da una teoria religiosa e da una istituzione sociale, necessariamente collettiva. Ma andiamo avanti. Pure lo spirito umano è lo stesso dappertutto e creato ovunque e sempre per la verità e la verità una; i suoi bisogni spirituali essenziali sono eternamente gli stessi, per quanto cambino le condizioni di tempo e di spazio e nonostante tutte le diversità di educazione e di formazione […]. Pertanto lo spirito umano uno con la parola una, che è il cibo degli spiriti, giustifica agli occhi del cattolico riflessivo il concetto dell‟unica Chiesa visibile.500
In questa seconda serie di affermazioni, alcune credenze dogmatiche, riservate cioè ai cristiani, vengono giustapposte a verità non di fede ma storiche assunte come se avessero un valore dogmatico. Infatti, che lo spirito umano sia uno perché creato allo stesso modo da Dio per tutti, è una affermazione di fede, dalla quale consegue per il credente che la verità sia anch‟essa una, quella appunto inerente la sua fede. Ma ciò non può essere per il non credente, che persegue una sua verità, di ragione o di altra fede religiosa, che il cristiano giudica “follia”. In questa estensione analogica, la verità della fede, ristretta al alcuni uomini, diventa, anzi deve diventare, la verità universale, la fede comune di tutti gli uomini. La diversità storica dell‟umanità diventa una realtà accidentale da superare attraverso l‟unità spirituale, estendendo pertanto l‟idea di unicità alla realtà empirica, operando pertanto un “passaggio” ontologico dal mondo sacro al mondo profano attraverso la trasformazione universale di questo in universo di fede. In questa 500
Ivi, pag. 284.
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trasformazione consiste la rivoluzione cristiana, che intende convertire la pluralità di esperienza culturali e di credenze religiose nell‟unità di fede del cattolicesimo cristiano. L‟affermazione circa l‟omogeneità spirituale dell‟uomo nella diversità di condizioni storiche e di cultura dei popoli umani , non è una verità razionale, ma di fede, che contrasta con la realtà di fatto. Il superamento di questa alterità di fatto rispetto al presupposto ideale diventa la missione dl credente, la cui azione deve convertire l‟umanità, cioè rivoluzionarne gli assetti storici. Da ciò che consegue che “lo spirito umano uno con la parola una” non sia una realtà di fatto, non rispecchia cioè la verità storica, che invece prospetta una realtà molteplice, ma riflette la visione ideale del credente cristiano, che da fine escatologico diventa premessa di ogni futura considerazione teorica e pratica dell‟esperienza umana. Il fine convertito a presupposto considera la realtà di fatto alla stregua della realtà ideale, per cui sostituisce nella sua considerazione del mondo alla molteplicità reale l‟unità ideale del suo wishfull thinking. Questo modo idealistico di concepire il mondo è il modello teoretico di ogni opzione ideologica totalitaria, di cui è il riflesso pratico. Ed è sulla premessa fideistica unitaria dell‟unico spirito e dell‟unico verbo che il cattolico “giustifica” logicamente “il concetto dell‟unica Chiesa visibile”, trasferendo nelle conclusioni logiche le premesse dogmatiche, senza mediazione razionale. Infatti, il tratto tipico del pensiero totalistico è l‟assenza di mediazione razionale, cioè di quel pensiero che distingua l‟Uno ideale dal Molteplice storico, e senza il quale l‟Uno e il Molteplice sono lo stesso, e l‟uno può convertirsi nell‟altro nella volontà di essere il Tutto. Questa interpretazione ecclesiastica della realtà storica costituisce la radice metafisica della violenza ontologica e pratica che caratterizza la civiltà cristiana sotto il magistero della Chiesa cattolica, la quale, identificando la sua forma istituzionale con la realtà stessa della comunità cristiana, e la comunità cristiana con la comunità umana universale di ogni tempo, ha concepita se stessa come l‟ideale realizzato del verbo incarnato, cioè la fine della storia con la premessa della sua missione, l‟ideale cristiano con la realtà del mondo, identificando insomma la Chiesa di Cristo con Cristo stesso. Le conseguenze morali di questa identificazione idolatrica sono state catastrofiche per la civiltà cristiana, che ha sviluppato in sé un cinismo diabolico fondato sulla menzognera teoria della doppia verità, quella ideale e dogmatica, predicata dai pulpiti, e quella terrena e umana 215
praticata nella vita, consentendo ala Chiesa istituzionale di seguire le orme di Cesare nel difendere il suo potere temporale e di predicare l‟etica della Montagna con i fedeli, facendo della fede di questa predicazione la giustificazione del proprio potere istituzionale sulla comunità dei credenti, con un sostanziale ribaltamento della sua funzione missionaria destinata in teoria al servizio della comunità. Ma questo “servizio” è l‟opera stessa del pensiero razionale della filosofia ancella della fede dei credenti. Senza questa fede collettiva, senza la comunità cristiana, non può esserci alcun “servizio” ausiliario, per cui il monopolio ecclesiastico del sapere è in violazione palese con la missione stessa del pensiero servente la Parola, cioè mediatore razionale tra Dio e gli uomini che credono in Lui, la sua comunità. La Parola di Dio, cioè Cristo, è già verità che si manifesta in pensiero umano, in forme razionali. E perché la verità possa comunicarsi in forme umane, deve appunto incontrare il pensiero profano, la ragione, che così entra al servizio della verità. ma proprio perché la ragione è umana, essa è umanamente storica, e non può identificarsi con la verità divina, che rimane sempre l‟oggetto della sua infinita interpretazione, il suo contenuto trascendente. Il monopolio ermeneutico della Chiesa ecclesiale, ha snaturato il senso del servizio della ragione alla verità divina, assimilando l‟apparato istituzionale ecclesiastico con la comunità dei credenti, ossia con la stessa esperienza della coscienza della fede, della fede pensata in termini umani. La conseguenza di tale indebita assimilazione della parte al tutto comunitario, è stata la rivolta della sola fede e della sola ragione, cioè la scissione nel corpo mistico di Cristo delle sue componenti originarie, e con ciò la fine stessa del cristianesimo come “spirito oggettivo” della civiltà europea. La crisi della civiltà moderna si dispiega dunque come il processo inverso della trasposizione cattolica dell‟ideale cristiano nel mondo profano, e, specularmente, la conseguente trasformazione inversa di ogni elemento sacro in dimensione profana. La “secolarizzazione” moderna è appunto il fenomeno della ritraduzione in termini profani degli elementi sacralizzati dalla plurisecolare azione mondana della fede cristiana, conservando il suo principio di conversione del vero nel fatto e assumendo il profano fare come il valore stesso della verità. Con la scissione dell‟unità cristica della verità divina e della ragione umana, l‟esperienza cattolica si può definire terminata con lo stesso rinnegamento di Cristo, come aveva intuito a suo tempo e modo Dostoevskij. Infatti Cristo è idealmente uno ma storicamente molteplice, avendo consegnato a tutti gli uomini la sua sofferta umanità. La sua 216
corporeità umana, disgiunta col martirio dalla sua persona spirituale, fa di Lui una sintesi realedi unità e molteplicità, che per la comunità è invece una ricerca. La ricerca unitaria del corpus Christi è la missione stessa della sua comunità di fede, che abbraccia potenzialmente tutti i popoli. Solo questa unità mistica può rappresentare l‟elemento umano di Cristo, il quale, proprio perché Verbum caro, non è solo spirito, e non può perciò essere uno senza essere nel contempo molteplice. Il carattere molteplice dell‟esperienza di Cristo è legata alla sua natura umana, finita e consegnata alla passione della croce. La carne di Cristo diventa la realtà viva della sua comunità storica, riunita idealmente nel suo spirito. La riduzione all‟unità della esperienza cristiana, prima del compimento dei tempi, produce il concetto di Chiesa apostolica come potenza spirituale mondana, in sé rappresentativa della comunità cristiana storica, facendo così di un fine ideale escatologico una realtà terrena di fatto. La conversione dell‟idea (cioè del vero) in prodotto di fatto (cioè in lavoro umano) è appunto al fondamento del concetto moderno di prassi intesa come prodotto della verità. Ma in senso rovesciato, per cui, modernamente, è l‟opera umana a costituire il fondamento della stessa verità, che diventa perciò verità in sé. Così come la tecnica apostolica dell‟ermeneutica scritturale, svincolata dal legame organico-funzionale con la comunità, è divenuta funzionale solo alla sopravvivenza istituzionale, modernamente il lavoro. Emancipato dal suo fine sacro trascendente, si è tradotto in tecnica della produzione economica. In questo senso peculiare, lo “spirito” del capitalismo moderno è lo stesso spirito del cristianesimo desacralizzato. La verità come sola fides, come diretto approccio alla Parola divina come Spirito eterno, non è la verità del cristianesimo, che è Parola incarnata, verità espressa in termini umano-razionali. Nel momento in cui la Parola si incarna, essa si umanizza diventando esperienza comunitaria, realtà collettiva, per definizione molteplice. Il Verbo incarnato non è lo Spirito eterno di Dio, ma la sua essenza divina incisa nel finito e partecipe della sua vicenda terrena. La comunità cristiana rappresenta l‟unità che si ritrova nella Parola. Una unità ideale che non è reale, per cui essa non è la Chiesa, ma si fa Chiesa ogni volta e solo quando realizza quell‟unità. Non c‟è comunità senza Parola, né Chiesa senza comunità. La Parola è dunque il principio di socialità della comunità cristiana. Essa, come Verbo divino, cioè come Spirito eterno, è Dio, non Cristo. Cristo è Parola che si fa carne, Spirito umanizzato. Da qui l‟unità sintetica del Verbum caro factum est. Concepire la Chiesa come unità perenne, depositaria della 217
Parola, significa non solo renderla indipendente dalla sua carne, cioè dalla comunità molteplice dei cristiani, ma inoltre identificarla con lo Spirito di Dio, che è ideale e non storico. Invece, la Chiesa di Cristo è la sua carne spiritualizzata, lo Spirito che si fa storia, “comunità della ragione e dell‟amore con Dio”, come la definisce Scheler.501 Questo tipo di comunità spirituale, che discende dallo Spirito divino la sua unità, è ben diversa da una “cooperazione storicamente contingente, terrena, che si appoggia su accordi meramente ragionevoli e arbitrari, stretti da […] un gruppo di persone fisiche dotate di ragione”, ma bensì “scaturisce necessariamente dai progetti e dall‟opera divina di formazione delle essenze di uno spirito e di un cuore dotati di ragione”, per cui la comunità costituisce una “unità e totalità” e non una “somma” di individui che ne sono “membri”, legati da un “contratto”.502 Il vincolo che lega i fedeli è una “solidarietà morale”, in base alla quale ogni membro è corresponsabile “di fronte al Dio vivo” di “ogni colpa”, propria e altrui, “di ogni crescita e decrescita della condizione morale e religiosa della totalità del mondo morale, come di una unità in sé solidale”.503 Questa posizione di Scheler, assunta per sollevare la Germania da ogni esclusiva responsabilità bellica, è, per quanto sopra argomentato, chiaramente insostenibile, in quanto coinvolge Caino nel delitto di Abele, gli altri apostoli nel tradimento di Giuda, e Gesù stesso della sua passione, rendendo tutta l‟umanità correa delle colpe dei reprobi non distinguendoli dai probi. Dichiarare la responsabilità universale dei peccati del mondo può voler richiamare tutti gli uomini alla possibilità del peccato, legato alla natura lapsa dell‟uomo, ma potrebbe anche stabilire un limite morale invalicabile all‟uomo di fede, per cui qualunque azione appaia originariamente macchiata di colpa, negando così l‟intervento stesso redentivo di Cristo. Inoltre, la responsabilità morale solidale di tutto il genere umano, suppone che l‟unità comunitaria sia una realtà sociologica di fatto, e non già una realtà condenda, verso la quale sono rivolti gli sforzi dei fedeli in questo mondo. Ancora una volta, l‟unità è in Cristo ma si fa nella storia. Non può esser presupposta come una realtà condita, così come la Chiesa istituzionale pensa se stessa, ma solo come realtà divina originaria, ed escatologica alla fine dei tempi storici. La responsabilità è “morale” in quanto atta a distinguere l‟azione buona da quella malvagia. Una responsabilità oggettiva di tutta l‟umanità come 501
M. Scheler Loc. cit, pag. 919. Ivi, pag. 921. 503 Ivi, pag. 923. 502
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tale non può essere “morale”, ma naturale, cioè determinata dalla finitezza della natura umana considerata priva di libertà spirituale, cioè di ragione. La ragione appunto distingue ciò che è l‟unità ideale della comunità, che è Cristo, da ciò che è la realtà comunitaria, storicamente molteplice. Non si può applicare alla molteplice realtà storica il principio di unità ideale, se non negando la stessa realtà storica, assumendola alla stregua di un ente ideale, facendone una idea, che è eterna, da carne che è, varia e mutevole. In questo modo si nega la comunità cristiana storica in nome dell‟unità ecclesiale, e facendo di una istituzione umana una forma eterna, facendo della Chiesa storica una essenza spirituale, divinizzandola e trasformandola perciò in un idolo. Idolatrico è infatti il culto della creatura al posto del Creatore. Cristo ha creato la Chiesa comunitaria, ed è la Chiesa comunitaria a creare la Chiesa apostolica. Il cattolicesimo, facendo della Chiesa apostolica un ente autoreferenziale, e ha fatto un fine, da strumento che era in origine, rendendola indipendente dalla comunità dei fedeli, che essa impersona come se fosse Cristo. Solo Cristo impersona la comunità, la quale non è unità ideale se non in Lui, mentre in sé è realtà molteplice. La dottrina cattolica della Chiesa istituzione che rappresenta nel contempo Cristo e la sua comunità, è dunque dottrina essenzialmente idolatrica, che solleva la Chiesa apostolica dalle responsabilità del mondo, che consistono nella ricerca di quell‟unità di fede che la Chiesa considera già acquisita in sé e per sé. La risposta secolaristica a questa idolatria religiosa è la divinizzazione dell‟umanità, l‟umanitarismo, il “corpo” de spiritualizzato della comunità umana. Il ritorno a una cultura della fisicità come bene patrimoniale dell‟uomo. Di ogni uomo. L‟opposizione religiosa allo spirito comunitario cattolico è l‟individualismo spiritualistico, ossia la negazione dello spirito comunitario a favore dello spirito individuale, tale per cui Cristo avrebbe redento non l‟umanità ma i singoli uomini, ognuno dei quali avrebbe dunque un rapporto singolare con Dio attraverso la sola fede. Anche il principio luterano della sola fides, però, negando la natura razionale della fede umanizzata, nega, non solo la Chiesa mediatrice del Verbo, ma la stessa natura divino-umana di Cristo, riproponendo quella separatezza tra fides et ratio superata dalla sintesi cristiana, e propria invece della cultura antica, pagana ed ebraica. 3. L‟epoca moderna, secondo Scheler, è segnata dall‟individualismo anticomunitaristico e dallo spirito critico, “che scatena tutte le forze terrene 219
dell‟uomo e della natura fio alle loro possibilità più estreme”. Ma nel frattempo sarebbe sorta “anche un‟epoca organizzatrice”, la quale, “orientata alla comunità, dominerà spiritualmente le forze dello spirito che prima aveva solo liberato”, riportando ad unità spirituale “le forze dei concreti processi economici, del mero spirito di guadagno isolato e razionale, della tecnica delle macchine, del sapere singolo che si accumula e non è più dominato da un vertice”, con l‟intento di costruire “una nuova e duratura dimora per la società umana”.504 Il tratto distintivo di questa rigenerazione spirituale è l‟apertura “ad un atteggiamento morale fondamentale di tutto l‟uomo nella sua piena attività”,505 ossia, in altri termini, il superamento di ogni forma di egoismo unilaterale, dei singoli e degli Stati, giustificato in nome dei valori mondani della politica e dell‟economia come forme razionali di sapere indipendente. Questo il nucleo centrale dell‟argomento di Scheler: la sostituzione della logica politica ed economica con le ragioni superiori della morale. Era inevitabile che questa posizione teorica implicasse il superamento della logica scientifica quale connotato teoretico fondamentale e caratteristico dell‟epoca moderna. Ed è proprio in questo proposito che si congiungono in senso unitario i varii indirizzi filosofici sviluppati dallo spirito tedesco in senso oppositivo e confutativo dello scientismo razionalistico, che trovano in Husserl prima e poi in Heidegger il focus intellettuale più radicale e profondo. Rispetto a questa nuova coscienza filosofica, che investe significativamente il pensiero che più aveva risentito delle conseguenze teoretiche ed etiche della Riforma, le analisi della crisi della civiltà europea che si muovo ancora entro la dimensione del moderno razionalismo e spiritualismo individualistico sembrano circoscritte a una concezione della storia imperniata su un insuperabile “realismo della certezza sensibile” che rende improbabile, se non insignificante, ogni sforzo intellettuale a ripensare i fondamenti della coscienza culturale comune in termini antropologicamente dirompenti e rivoluzionari. Mentre è esattamente questo il proposito, sottaciuto e esplicito, sotteso a ogni analisi interna alla Sonderweg tedesca. E questo per una ragione storicamente comprensibile. Infatti lo spirito tedesco aveva già intrapreso il suo autonomo percorso spirituale violando l‟equilibrio culturale affermato dal cristianesimo cattolico. Si trattava ora o di andare oltre la 504 505
M. Scheler, Loc. cit., pag. 927. Ivi, pag. 929.
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soglia teoretica tracciata da quel fondamento teologico, che fu la strada di Heidegger, ovvero di tornare a quel fondamento teologico per ripensare in termini nuovi un futuro coincidente con un nuovo inizio, che fu la strada di Scheler. In entrambi i casi, il comune presupposto da cui muovere era la “messa in parentesi” del moderno quale epoca di decadenza ideale e morale. Questo presupposto comune di rimozione del moderno si poneva implicitamente in posizione polemica con il tentativo intrapreso a suo tempo da Hegel di tentare una mediazione o conciliazione con la cultura moderna, ritenuta fallita e impossibile. Ora, se pensiamo che la rivisitazione di Hegel fu la traccia di percorso del processo filosofico del neo-idealismo italiano, coltivato nella tradizione moderna dello storicismo sia vichiano che positivistico, ci rendiamo conto della distanza che divideva una riforma di Hegel da un superamento del pensiero moderno. Nel primo caso, si trattava di includere nel pensiero della soggettività ogni esperienza teoretica e pratica della Storia, pensata come soggetto coscienziale universale; nel secondo caso, si trattava di andare oltre il soggettivismo moderno, così come il pensiero moderno era andato oltre l‟oggettivismo del pensiero medievale. La questione per il pensiero tedesco era quella di costruire una nuova cultura per l‟uomo, e non di correggere semplicemente le storture della moderna civiltà razionalistica, pensata come il culmine della coscienza umana. Se si perde di vista questa differenza essenziale, non si può comprendere il senso filosofico profondo e originale della Sonderweg tedesca, col suo irrefrenabile afflato etico e costante motivo utopico, che si riscontra anche in Scheler. In Scheler il motivo utopico si coniuga con la radice più rivoluzionaria del cristianesimo, che nel fondamento dell‟amore sradica nella coscienza umana quella “morale del ressentiment” di cui aveva parlato Nietzsche nella Genealogie der Moral, e alla cui “redenzione” viene offerta la morale dell‟amore solidale. Ma su questo fondamento morale è possibile rinvenire anche la componente più sana della vita spirituale della cultura moderna, pur sempre stabilita entro l‟orizzonte della storica comunità cristiana. Infatti, il principio di solidarietà morale che dovrebbe informare l‟atteggiamento nuovo della coscienza comune, “oggettiva”, europea, non è “rinvenibile esclusivamente all‟interno della tradizione cristiana”, ma anche sotto forma di “consapevolezza di classe, coscienza di classe e legame di classe”, che hanno trasformato, “indipendentemente dalla tradizione cristiana”, nella coscienza dei lavoratori moderni “un interesse 221
in un ethos”, per cui la questione fondamentale del tempo avvenire è nel fatto che entrambe queste sorgenti del ritorno del principio di solidarietà nei cuori e nelle coscienze europee, la corrente che viene dall‟alto e quella che viene dal basso, l‟idea della solidarietà della tradizione cristiana cattolica – il protestantesimo aveva infatti lasciato cadere più che mai proprio questa parte dell‟ethos cristiano – e la corrente moderna che cerca faticosamente di avanzare verso la comunione di interessi, siano dirette una verso l‟altra tanto da incontrarsi in modo fecondo; che la corrente che viene dal basso, la quale ha dalla sua parte la vitalità del presente, ma in cambio è ancora immersa nei meri interessi di guadagno e benessere e ne è come incatenata, sia illuminata da quella che viene dall‟alto, che sgorga da Dio e dalla storia della Chiesa, fino a divenire un‟unica potenza morale, ossia un potere dell‟amore libero e della libera obbligazione che si estende alla totalità degli uomini che ne partecipano, anche indipendentemente dalla mera comunanza di interessi.506
Il senso recondito dell‟argomento è i seguente. L‟esperienza del moderno si è sviluppata in direzione della scissione tra comunità cristiana, rimasta senza guida morale “dall‟alto”, e Chiesa apostolica, la cui attività pastorale è rimasta vieppiù isolata dal suo gregge, che ha seguito un suo percorso morale indipendente. La nuova prospettiva storico-morale dovrà concepirsi nell‟orizzonte della riconciliazione delle due componenti essenziali della Chiesa come corpus Christi, sino a tornare a costituire “un‟unica potenza morale”, ossia la fisionomia genuina della sua originaria identità. Non è difficile, nella prospettiva storica attuale dalla quale guardiamo questi propositi, riconoscere in essi dei motivi ideologici che andranno a sostanziare le proposte politiche dei movimenti cristiano-sociali tra le due guerre e dei movimenti democratico-cristiani dell‟ultimo dopo-guerra. Ma il punto saliente, che inficia sotterraneamente l‟intero impianto teorico di questi progetti etico-politici, è che la prospettiva della ritrovata unità cristiana sia concepita come inscritta nel processo stesso della storia europea, indipendentemente da ogni pur lodevole ed auspicabile impegno cristiano in tal senso. In altri termini, anche questa prospettiva cristologica partecipa surrettiziamente alla concezione – tipicamente moderna! – per cui la risoluzione della crisi complessiva della civiltà europea debba necessariamente trovarsi all‟interno del processo universale di democratizzazione che è in atto nel mondo civilizzato a partire dalle rivoluzioni americana e francese, e pertanto, anche il 506
M. Scheler, Loc. cit., pag. 931.
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cristianesimo ne debba divenire attivamente partecipe e convintamente solidale. Scheler non si avvede quindi che il riconoscimento della positività morale di un ethos moderno sviluppatosi “indipendente dalla tradizione cristiana” rende questa un elemento accidentale del processo morale universale, e la “indipendenza” morale conseguita dalla cultura moderna l‟autentico fattore promozionale della civiltà universale. Con la conseguenza non facilmente eludibile che il fattore moralmente progressivo sia stato visto storicamente nel processo democratico in quanto tale, anziché nella sua intrinseca determinazione ideale. Ma esattamente questa anteposizione dello strumento pratico al fine morale costituisce, come ben sappiamo, la tendenza precipua della cultura moderna secolarizzata, che ha creduto possibile, come anche le parole di Scheler lasciano supporre, che all‟interno dell‟esperienza storica fosse possibile realizzare il fine escatologico assegnato cristianamente alla missione degli uomini di buona volontà raccolti in ideale comunità. Scheler stesso, alla stregua di tutti i rivoluzionari e filosofi razionalisti, crede nella possibilità di questa realizzazione mondana, che lui prospetta come il futuro morale dell‟Europa e il superamento della sua crisi epocale. Inoltre, era difficile assimilare la solidarietà morale della comunità cristiana con la solidarietà economica del legame di classe, il cui ethos si definiva attraverso quella “reazione” contro un “mondo opposto ed esteriore” che caratterizzava secondo Nietzsche il ressentiment dei reietti,507 e che evidentemente era qualcosa di ben diverso dell‟amore cristiano. L‟identificazione della solidarietà di classe, fondata sulle ragioni contingenti dell‟interesse sociale organizzato ed elevato a principio di lotta politica, con l‟etica dell‟amore in nome dello spirito comunitario, è a dir poco una forzatura, ma soprattutto si basa sulla presunta possibilità di poter conciliare in “un corpo unico indivisibile”, cioè in una formazione storica armonica e coerente, sia “la realtà autonoma, sostanziale e la responsabilità personale, autonoma, religiosomorale di ogni anima individuale, la sua discendenza immediata da Dio”, e sia “nello stesso tempo l‟appartenenza solidale e la vera corresponsabilità di tutte queste anime di fronte a Dio in un corpo unico, che veramente le comprende”, conciliando così la sua “origine” e la sua “totalità invisibile” con la sua operatività “nella sfera visibile”,508 dando 507 508
F. Nietzsche, Zur Genealogie der Moral (1887), tr. it., Milano, 1984., pag. 26. M. Scheler, Loc. cit., pag. 935.
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realtà finalmente in terra a quel Corpus Christi che era stata la consegna morale del messaggio cristiano. Ma la conciliazione tra il principio morale trascendente e quello politico immanente sarebbe stato possibile solo attraverso la mediazione di un terzo elemento accomunante, la fede nella sintesi cristiana, che proprio la cultura dell‟età moderna aveva eluso come fondamento del sapere razionalistico, il quale lo aveva escluso sia nella concezione dello Stato che della società moderni, e che la considerazione di Scheler poneva invece, per la sua validità, come un presupposto. A suo dire, L‟evoluzione dello Stato e della società moderni nell‟epoca che si limita alla critica e a scatenare forze, ha portato, tanto nel campo della costituzione e della concezione dello Stato, quanto nel campo dei rapporti reciproci fra gli Stati, così come nel campo dello spirito e di sistemi dell‟economi, sempre e comunque a due principi e ideali contrapposti, perennemente in lotta tra loro, che sono entrambi, nella stessa misura, profondissimamente in contrasto con lo spirito della comunità cristiana. Nell‟ambito della concezione dello Stato, questi due principi sono: il principato assoluto, fortemente centralistico, “sovrano”, cioè non dipendente da nessun potere sulla terra se si esclude la sua volontà sovrana […] oppure, come ideale opposto a questo, la signoria non meno sovrana della cosiddetta volontà popolare. […] Nell‟ambito della cultura essi sono: una cultura che riflette la nazione oppure una cultura mondiale. Infine, nell‟ambito dei sistemi economici, essi sono: la libera concorrenza di tutti gli individui e tutti i gruppi che economicamente ubbidiscono aolo al proprio egoismo – oppure, come ideale opposto, un socialismo di Stato imposto […].509
Questi opposti ideali, a dire di Scheler, “contraddicono il nucleo più intimo della concezione cristiana della comunità”, in quanto “essi, tutti e nella stessa misura, seppure in direzione opposta, negano sia il principio di solidarietà […] sia il principio strettamente connesso a quello, secondo il quale ogni individuo e ogni unità sociale subordinata […] devono essere tanto un soggetto autonomo di diritto e sovrano, in rapporto al proprio diritto originario, quanto un libero servitore […] come membro di un‟unità sociale estesa”, facendo riferimento al “supremo signore di ogni comunità, cioè Dio”.510 Scheler qui contrappone lo sviluppo del pensiero socio-politico moderno, al suo interno dialettico, al corpus dottrinario della concezione cristiana, intesa come elemento terzo e in afferente al processo di formazione dello spirito moderno, dal quale invece esso si è 509 510
Ivi, pag. 933. Ivi, pag. 935.
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originato per emanazione culturale o per antitesi, rendendo inspiegabile la sua fenomenologia storico-ideale. Questo tipo di analisi di Scheler getterebbe un‟ombra problematica sulla stessa fondatezza della sua sociologia del sapere se non fosse preordinata a uno scopo ideologico ben preciso, quello di offrire alla cultura tedesca una sponda culturale e morale che la sospinga verso il recupero del suo senso di appartenenza alla civiltà dell‟Europa attraverso la comune identità del cristianesimo. Recuperare il fondamento cristiano, equivaleva per Scheler a restituire all‟Europa lacerata dalla guerra il suo profilo ideale più autentico e profondo dello stesso razionalismo, e anche molto più partecipato di quanto lo sarebbe il progetto husserliano di fondazione di una nuova logica trascendentale: quello appunto dell‟etica cristiana, che per un millennio e mezzo ha ispirato e sostenuto lo “spirito oggettivo” della civiltà europea. Un “ritorno ai princìpi” morali per ridefinire il corso della società e della cultura post-moderne. Insomma, la proiezione utopica di una origine (spirituale) perduta e (socialmente) da riaffermare. Come, se non con gli strumenti della politica, cioè con quanto di più pagano e insieme moderno si potesse immaginare? L‟idea di Stato, come organizzazione burocratica del potere, nasce infatti dall‟esigenza di amministrare la funzione decisionale, relativa a stabilire ciò che è da ciò che non è sacro, espresso in termini religiosi, ovvero legale, in termini laici. Stabilita la funzione, con essa nascono i depositari e i custodi dell‟ordine che di cui essa è funzione. L‟idea comunitaria di Scheler viene da egli mutuata dal tradizionale concetto cristiano di “corporazione”, intesa come “legame originario e organico” delle persone che vi appartengono. L‟idea cristiana, rispetto alle forme pagane di comunità statale, ha in più la conoscenza della “anima spirituale immortale, autonoma, nel suo nucleo superiore ad ogni possibile comunità statale, indipendente dallo Stato, creata da Dio, con il suo mondo interiore religioso e morale e il regno intimo del suo animo”. La comunità antica “non conosceva il fine, che si trova oltre ai fini del benessere e della cultura del singolo come dell‟intero, e il valore della salvezza spirituale, soprannaturale della totalità e della persona individuale”, il cui concetto costituisce il “limite invalicabile” a ogni pretesa dello Stato.511 Lo “individualismo cristiano”, non è solo, dice Scheler, “una verità della fede cristiana”, ma è il connotato precipuo della cultura spiritualistica che 511
Ivi, pag. 937.
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non riduce quel concetto alla mera dimensione economica o a un “modus di una qualche forma di totalità”, si tratti dello Stato, della società o della ragione cosmica o del processo storico, ma lo costituisce come “la magna carta dell‟Europa”, in base alla quale “l‟essere e l‟essenza della personalità [umana] è immortale e perciò già anche durante la vita terrena non deve dissolversi completamente nella nazione e nello Stato, e non deve darsi ad esse”.512 Orbene, acquisita questa coscienza spirituale al patrimonio comune della cultura europea, la persistenza dello Stato, quale comunità etico-politica, viene assunta da Scheler come una resipiscenza pagana, e non già come la forma strutturata necessaria alla persistenza di ogni gruppo umano non occasionale, cioè organizzato. Nel caso specifico della comunità cristiana, cui fa riferimento Scheler, il rapporto con la fede passa anch‟esso attraverso l‟autorità apostolica, la quale, rispetto al popolo dei fedeli, costituisce l‟organo del governo pastorale, preposto a decidere sulla legittimità e ammissibilità delle forme espressive di credenza. La fede sostiene la credenza della comunità, ma non ogni forma di fede è ammissibile secondo ragione. Ciò vuol dire che l‟autorità apostolica ha il compito della decisione razionale sulle forme della fede, in quanto organo depositario delle forme legittime, cioè ortodosse. Così, se la fede sostiene la credenza della comunità, la ragione sostiene l‟azione apostolica. Ma di quale “ragione” si tratta? Sulla base della risposta a tale domanda si sviluppa la relativa concezione del potere, anche di quello dello Stato. Secondo quanto riferito di sopra, tutta la comunità dei credenti partecipa alla costituzione formale del Verbo, poiché la sapienza del mondo con cui si esprime la parola divina è la ragione stessa che intendono i suoi membri quali uomini appunto del mondo. Se infatti non la intendessero, ed essa restasse inespressa o esostericamente misteriosa, la stessa predicazione del Verbo sarebbe inutile e vana. L‟istanza predicatoria avanzata dal messaggio evangelico, presume la comunicabilità della parola divina in forme non esoteriche. La forma umanamente universale del Verbo è il suo linguaggio razionale universale. Senza il sapere profano, umano, lo Spirito non potrebbe comunicarsi alle genti. E poiché le culture umane sono storiche, anche il linguaggio religioso dev‟essere necessariamente storico, e come tale aggiornabile e riformabile. L‟innesto del Verbo nella forma sapienziale profana, tra svaluta questa, trasformando il linguaggio della ragione, cioè la filosofia, in teologia, 512
Ivi, pag. 939.
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cioè in una mitologia razionalistica, in cui la fabula veritatis è commista al linguaggio sapienziale della ragione umana, che appunto è universale. Il nuovo sapere razionale di Dio ha creato l‟organo della sua elaborazione tecnica, cioè della sua forma canonizzata; ossia ha creato il monopolio ermeneutico della Chiesa istituzionale, la quale, depositaria del Verbo, è divenuta anche la custode della sua forma storica, determinandosi come potere culturale sacralizzato. La custodia del Verbo, però, non può consistere nel monopolio dello Spirito santo, ma consiste nel culto dello Spirito trascendente ogni forma storica della Verità. Custodire una forma storica di verità, significa sostituire il prodotto umano al Creatore, nel nostro caso, divino, ossia praticare un culto idolatrico. Se dunque la Chiesa considera “sacra” assieme alla Parola divina anche la forma storica della sua espressione mondana, ossia se stessa come fonte istituzionale di elaborazione del sapere teologico, opera una forma di idolatria, contravvenendo allo spirito universale del messaggio cristiano, e alla stessa verità dell‟incarnazione divina. Il Verbo, infatti, non si può esprimer che in forma storica, perché i suoi contenuti trascendenti non sarebbero altrimenti comunicabili. Il linguaggio della comunicazione della Parola è quello del sapere del tempo. Assimilare la comunicazione al culto del Verbo, è idolatria, e rappresenta la forma originaria di “passaggio” del sacro al profano operata dalla (struttura istituzionale di potere della) religione cristiana. Idolatrico è il culto della parola della Verità, la quale parola non è la Verità, ma la sua forma storica, mutevole. La Verità, rispetto alla forma storica della sua espressione, è eterna, perché trascendente, e quindi richiede un continuo adattamento formale ai suoi contenuti. Il potere ermeneutico della Chiesa si basa sul monopolio delle forme espressive della Verità, cioè sulla gestione del sapere teologico, nato dalla conversione sacralizzata della filosofia. La crisi della sintesi cristiana si sviluppa attraverso i due congiunti momenti della emancipazione del sapere filosofico dal sapere teologico, e della rottura del monopolio esegetico della Chiesa istituzionale, che hanno prodotto rispettivamente il razionalismo teoretico e il fideismo protestante dell‟età moderna. Il razionalismo, ossia il sapere razionale emancipato dalle sue radici religiose, si riflette come sapere mondano assoluto, cioè come scienza auto-fondata sulla ragione, anche sul campo dei rapporti pratici, come teoria della società e dello Stato. Lo Stato auto-fondato sulle sue ragioni politiche, è infatti la traduzione moderna della concezione cattolica della Chiesa sia come comunità auto-sufficiente che come struttura 227
istituzionale finalizzata alla conservazione e perpetuazione del proprio potere dirigente sulla comunità. L‟esito secolaristico moderno della concezione assolutistica della Chiesa apostolica è il machiavellismo, cioè l‟idea di Stato che nel proprio fine di potere trova le sue stesse ragioni morali di esistenza. Il fine in sé dello Stato machiavellico è il riflesso secolare della concezione cattolica della Chiesa come apparato monopolistico del potere ermeneutico. Il valore simbolico del potere istituzionale è cambiato, ma non il senso immanente alla sua espressione tecnico-formale di fonte delle decisioni di governo, che non riconosce alcun potere superiore a se stesso. Se si tiene presente il processo di sacralizzazione del sapere e del mondo profani operato nei secoli di mezzo dal cristianesimo a partire da Paolo, si comprende come la modernità consista nella opposta tendenza a ridefinire in termini profani quanto della realtà teoretica e pratica era stato assimilato ai valori e ai fini trascendenti della religione cristiana, il cui concetto di “cattolicità” esprimeva la tendenza universalistica del processo di sacralizzazione, e che puntualmente si riproporrà nei termini altrettanto universali della profana razionalizzazione moderna. Così, alla Chiesa istituzionale, staccata dalla sua comunità e concepita come depositaria unica del sacro valore dell‟umanità cristiana, corrisponde lo Stato assolutistico teorizzato dal Principe di Machiavelli, il cui unico fine è di affermare se stesso come realtà di potere. Non è difficile cogliere, a questo punto, l‟analogia tra il movimento protestante religioso interno alla cristianità e il movimento liberale interno alla società secolarizzata razionalistica. In entrambi i casi, avviene una dislocazione della fonte ideale della sintesi del valore trascendente e di quello mondano dal luogo istituzionale oggettivo, si tratti della Chiesa o dello Stato, al luogo dell‟interiorità soggettiva dell‟individuo, rispettivamente, morale e politico. Il fideismo religioso e il razionalismo politico, nei rispettivi campi, operano tale dislocazione in interiore homine del potere spirituale e, rispettivamente, mondano, in polemica verso la struttura istituzionale di riferimento, al fine di neutralizzarne la pretesa assolutistica e totalitaria. Tutta la cultura moderna riflette questa tensione polemica di affermazione del libero sapere profano e di resistenza autoritativa del sacro. Il principio individualistico che si sviluppa a seguito dello scisma protestante, e che contrassegna perciò la rottura culturale e teologica con la tradizione comunitaristica vetero-cristiana e cattolica, viene incongruamente da Scheler, non già indicato come un elemento di discontinuità teologica, ma assurto a simbolo della stessa identità 228
cristiana più evoluta e consapevole, in contraddizione con quanto prima affermato corca l‟imprescindibile carattere comunitario della salvezza spirituale. Egli, cioè, non pare rendersi conto che il “concetto di sovranità e di poteri estremi, illimitati” che “il principato assoluto, insieme al movimento borghese del nazionalismo” hanno osato innalzare “al di sopra della legge cristiana e del suo amministratore supremo”, erano il frutto di quella rottura teologica dell‟unità organica cristiana medievale di cui si è detto, che proprio sull‟individualismo poggiavano il loro punto di leva. Invece Scheler, affermando la superiorità della cultura dell‟individualismo cristiano, la contrappone ideologicamente alla “invasione da parte delle schiere russe”, all‟Oriente ignaro del “valore dell‟anima individuale”. A quella generica cultura orientale in cui “la personalità è ancora sommersa dal popolo, dalla stirpe, dalla massa, dal branco”, è compreso anche il “cristianesimo ortodosso, che non conosce ancora quella magna carta dell‟Europa cristiana, il valore infinito delle singole anime individuali”.513 Inoltre, a seguito di questa posizione ideologica, Scheler, pur cogliendo lucidamente il carattere idolatrico delle moderne ideologie socio-politiche, le quali appunto “rendono lo Stato e la nazione degli idoli”, le collega alla negazione dell‟ “individualismo cristiano” e del “principio di solidarietà”, anziché al prototipo dell‟idolatria ecclesiastica della Chiesa apostolica istituzionale, come pure dovrebbe, ricordando egli stesso che “la dottrina sociale cristiana afferma che nessuno, all‟infuori di Dio, dunque nessuna istituzione terrena, deve essere „signore supremo‟ e nessuno deve essere schiavo, ma ciascuno e ogni istituzione deve essere contemporaneamente signore e libero servitore di un Signore superiore”, che è Dio, e non il papa e la Chiesa.514 Ma la distinzione medesima di un cristianesimo occidentale e di uno orientale, pur negando implicitamente ogni concetto di cattolicità cristiana, diventa oltremodo problematico in considerazione della dubbia ricostruzione della genesi dello Stato assolutistico moderno come un fenomeno del tutto esterno al processo di sacralizzazione idolatrica della Chiesa istituzionale, che è anteriore al fenomeno statolatrico moderno, attribuendolo a una di quelle “concezioni di comunità sorte al di fuori del terreno delle chiese cristiane”,515 ossia a un retaggio neo-pagano che la millenaria cristianizzazione non era riuscito a scongiurare, anziché a 513
M. Scheler, Loc. cit., pag. 941. Ivi, pag. 941-943. 515 Ivi, pag. 941. 514
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quella “tenebrosa dialettica” interna al mondo cristiano, di cui parla a proposito Berdjaev. La prospettiva cristiana di Scheler indulge al mito della ricostruzione della “vera Europa cristiana” dopo la catastrofe bellica, che riprende il disegno dei contro-rivoluzionari romantici di ristabilire un ordine nuovo sulle fondamenta di un ordine eterno, che poi è il miraggio di ogni idealismo a partire da Platone. Ma la stessa dichiarazione d‟intenti programmatici è di per sé problematica, in quanto la definizione di ciò che era “vera”, di ciò che poteva definirsi “Europa” e la sua qualifica di “cristiana” erano questioni aperte e non scontate. Senza contare che la pur univoca definizione ideale dei tre termini non avrebbe di per sé costituito un valore d‟azione senza il supporto decisivo di una forza istituzionale che quell‟ideale incarnasse. E non soltanto gli Stati della cristianità erano divisi e lacerati da insanabili contrasti, ma la stessa “comunità” cristiana era al suo interno storicamente e teologicamente frantumata da secoli di vertenze oppositive. Quanto alla Chiesa, la stessa situazione politica e morale europea ne confermava il fallimento morale e la sua mera sopravvivenza istituzionale. Ciò che infatti andava in pezzi era proprio l‟idea di una unità spirituale e politica della comunità cristiana europea che avrebbe reso possibile una Chiesa quale riferimento morale comune, per cui l‟ipotesi di una costituzione federale di Stati europei, fondata su “l‟idea cristiana di comunità”,516 passava anch‟essa attraverso il progetto non nuovo di una potenza politica mitteleuropea che potesse essere il motore di quel processo, e che lo stesso Scheler collegava “con le forze e le idee storiche che avevano sostenuto l‟impero germanico medievale”.517 La verità era che ogni ipotesi unitaria dell‟Europa, sia in campo politico che in quello spirituale, si legava inevitabilmente al superamento dell‟età moderna, e quindi alla ripresa di quella identità religiosa comune di cui lo spirito moderno testimoniava la crisi. La fede in un nuovo cristianesimo consisteva quindi nell‟idea che quella crisi non fosse irreversibile, e che anzi il processo della modernità fosse nel suo insieme una forma di decadenza spirituale e di imbarbarimento della civiltà cristiana. Ma, seppure l‟idea di progresso caratterizzante il razionalismo moderno si fosse effettivamente dimostrato un mito, come tornare a quanto quel mito aveva infranto, e che gli aveva consentito di farlo? In altri termini, come si poteva ripristinare una identità spirituale e politica unitaria poggiandola 516 517
Ivi, pag. 943. Ivi, pag. 945.
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sulle stesse forze spirituali e politiche che l‟avevano infranta, o che di quella dissoluzione erano state la risultanza storica? Ciò che Scheler non coglieva era che qualsivoglia unità spirituale europea poteva sorgere solo in opposizione ideale a una realtà politica frastagliata, ma che non poteva realizzarsi se non come a sua volta opposta a quella realtà storica, ossia facendole violenza. Si trattava, cioè, di contrastare l‟esistente in nome dell‟ideale con strumenti politici. Infatti, fuori della logica politica, l‟unità spirituale poteva sussistere anche in presenza della disunità statuale, anzi proprio a ragione di essa. Perché dunque trasformare la comunità ideale in comunità politica se Cesare e Dio avevano regni distinti? Era questa esigenza trasformativa della realtà storica che aveva sorretto, prima l‟utopia totalitaria cattolica, e poi la contro-utopia razionalistica moderna, tendenti a rispecchiare nel mondo reale l‟armonia del mondo ideale. E proprio questo rispecchiamento costituiva l‟essenza di ogni rivoluzione, tesa appunto a fare del mondo profano un mondo sacro, o viceversa. La fede può far credere che “dall‟idea cristiana di comunità deriva anche una forza non meno vincolante per ristabilire tra le nazioni i normali rapporti spirituali riguardo alle questioni della cultura spirituale”,518 ma tale presupposto è proprio ciò che mancava e che andava auspicabilmente ripristinato al fine dell‟unità dei popoli divisi. La “forza vincolante” moderna per i popoli europei non è più la religione, e ciò in virtù di quella interiorizzazione dell‟elemento fideistico che ha superato l‟idea della mediazione istituzionale tra anima e Dio. Nel contempo, la pregressa forza religiosa, che si è estinta nelle relazioni tra i popoli, interiorizzandosi nelle singole coscienze, ne ha condizionato i rapporti anche verso i potere politico, sviluppando quell‟ideologia liberale di cui si è detto. Ciò vuol dire che, nel nuovo clima spirituale e politico, ogni tentativo di ricostituzione di un potere mediatore centralizzato, di tipo morale o politico, urterebbe contro la nuova sensibilità individualistica veicolata dal cristianesimo riformato, per cui l‟ipotesi di una ridefinizione etico-politica dell‟Europa post-moderna incontrerebbe la questione della sua identità spirituale; questione che Scheler non considera un problema ma la soluzione da cui partire per superare il nazionalismo. In altri termini, lo spirito dell‟utopia neo-cristiana di Scheler non può presupporre alcun dato di realtà di storico se non come termine dialettico da superare al fine dell‟affermazione dell‟ordine nuovo condendo, per cui anche l‟atteggiamento delle chiese stabilite all‟interno di ciò che era la 518
Ibidem.
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cristianità europea doveva dismettere la tradizionale prassi testimoniale per assumere una rinnovata funzione profetica di evangelizzazione che dunque costituiva l‟obiettivo dell‟azione apostolica e non già il presupposto dell‟estensione dell‟apostolato cristiano nel campo politico. Ma ciò avrebbe comportato la “messa in parentesi”, non già del solo orizzonte culturale e politico del razionalismo moderno, ma della stessa identità e prassi pastorale delle varie confessioni religiose e delle relative istituzioni ecclesiali. Ossia, considerare l‟intero processo della complessiva civiltà cristiana come un grandioso esperimento mancato. E ciò equivaleva appunto alla sostanziale adesione alle istanze avanzate a suo tempo dalla Riforma, e, ancor prima, dallo scisma d‟Oriente, che aveva contestato la pretesa di Roma di rappresentare la Chiesa di Cristo. Ma quale ruolo era possibile alla Chiesa cattolica, una volta escluso ogni suo primato alla direzione delle coscienze cristiane se non quello di difendere tali coscienze dalle indebite pretese del potere di Cesare di sottometterle alle sue ragioni politiche? Non quello, dunque, di combattere da potere secolare contro altri poteri secolari, ma di testimoniare che il potere di Dio non è di questo mondo. Anche la Chiesa, ch sola avanza la pretesa di un‟unità che comprenda gli uomini (col profondissimo diritto dei valori supremi e indivisibili, che essa e solo essa amministra), anche la chiesa non deve e non vuole guidare direttamente la cultura spirituale – ed essa neppure lo può se non vuole particola rizzare se stessa. Essa deve e può solo avanzare una pretesa di difendere la pienezza delle culture originali di fronte ad ogni nazionalismo e imperialismo politici, anche del cosiddetto imperialismo spirituale, e poi di pronunciarsi chiaramente laddove essa veda che i beni religiosi complessivi del Corpus Christi, siano danneggiati o messi in dubbio da un orientamento culturale.519
Ma la premessa da cui partiva Scheler era che “il diritto eterno all‟esistenza delle nazioni si trovasse proprio nella sfera culturale (lingua, costumi, letteratura, arte), non nella sfera politica e non in quella economica”, ossia che venisse rinnegata sul piano pratico quella forma di comunità che era subentrata a quella spirituale cristiana anche sul piano ideale come risposta correttiva al frazionismo dei gruppi religiosi e all‟anarchia delle coscienze individuali. L‟obiezione di fondo è che il deposito spirituale cristiano della “sfera culturale” delle nazioni non era un dato originario, ma il portato di un‟azione evangelizzatrice che aveva 64
Ivi, pag. 949.
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trasformato le antiche identità culturali storiche dei popoli pagani in un nuovo prodotto teologico precipuamente cristiano. Questa nuova identità religiosa dei popoli cristianizzati costituiva un tentativo di superamento della distinzione evangelica tra “ciò che è di Cesare” da “ciò che è di Dio”, poiché il cristianesimo aveva cercato di assorbire sul piano culturale il mondo profano di Cesare. Ora, proprio questo tentativo totalitario era andato deluso provocando sia lo scisma fideistico che l‟emancipazione razionalistica, e il cui fallimento testimoniava la complessiva cultura moderna, anche religiosa. Pertanto, il “fallimento” del cattolicesimo poteva ben riassumersi nel tentativo mancato, non già di convertire Cesare, ma di cambiare le sue leggi da politiche a morali, da profane a sacre, contraddicendo perciò la stessa distinzione evangelica tra i due regni. Ma l‟essenza del cristianesimo, rispetto alle altre religioni storiche, non era appunto l‟ammettere che persino Cristo venisse giudicato dalle leggi degli uomini, lasciando ai farisei la responsabilità di utilizzarle per scopi religiosi? Non era la distinzione dei due regni la novità di una predicazione che intendeva sovvertire lo spirito delle leggi, facendo dell‟uomo il depositario di una coscienza trascendente le leggi naturali? E allora, perché mai la Chiesa avrebbe dovuto concepire il suo ruolo spirituale in termini di ingerenza nel campo politico, anziché consacrarsi al fine di testimoniare l‟eterna trascendenza dello spirito sulla carne? Questo ruolo di custode dell‟ortodossia spirituale era nato, come sappiamo, dalla pretesa della Chiesa di aver realizzato in questo mondo la sintesi del senso divino della parola umana e del senso umano della parola divina che Cristo aveva lasciato come missione escatologica alla sua comunità umana. La realtà del mondo, che Cristo aveva lasciato a Cesare, si era sostituita alla realtà dell‟uomo, lasciando che la sfera del governo spirituale dell‟uomo si combinasse con la sfera politica del governo naturale degli uomini, traducendo in termini politici il senso spirituale della “comunità” cristiana, che è comunione in Cristo, e non società cristiana. Una società cristiana, infatti, è concetto contraddittorio quanto una politica cristiana. Cristiana può essere solo la fede in un mondo altro da quello mondano politico, un mondo spirituale e non storico. Se la storia è il mondo dell‟esperienza umana, la sua realtàpolitica non potrà essere negata senza che venga negata nel contempo anche la stessa esperienza umana. L‟alterità rispetto a questa non è la trasformazione del mondo; del mondo politico in mondo morale, ma l‟assunzione già in esso 233
di una dimensione trascendente e spirituale che resti perennemente distinta, come sfera sacra, dalla sfera profana dei rapporti sociali. Questa sfera sacra il cristianesimo, distinguendola da quella profana, l‟ha destinata al cielo, ossia al regno delle idee, alla sfera della coscienza, che abita in interiore homine, e non la terra dei Cesari, regnum Diaboli. La rottura della sintesi cristiana di spirito e materia, di Verbo divino e linguaggio umano, aveva prodotto la modernità e il suo caratteristico stile culturale opposto allo stile tipico della Chiesa medievale e ostile al suo spirito totalitario. Proprio questa pretesa della Chiesa e del suo vertice, la suprema autorità ecclesiastica, la pretesa di una sorveglianza dall‟alto anche sulla vita della cultura spirituale – per quanto riguarda le cose sante – prima della guerra aveva allontanato moltissimo, in tutte le nazioni, l‟Europa moderna dalla Chiesa. Così come non si voleva più sapere nulla della legge morale cristiana come principio supremo della politica estera degli Stati, allo stesso modo non si voleva più sapere nulla neppure di una ispirazione delle Chiese cristiane rispetto alla più alta produzione culturale, all‟arte, alla filosofia, alla scienza; e proprio perché questa ispirazione viva, unificante degli ambiti della cultura e delle nazioni culturali si era sempre più dissolta nel corso della modernità e fu via via sostituita anche linguisticamente, metodologicamente e stilisticamente da un nazionalismo culturale sempre più aspro, che negava la necessità di completamento di tutte le nazioni, di fatto gli interventi del‟autorità ecclesiastica – là dove avvennero – dovettero risuonare sui rappresentanti di quell‟idea di cultura extracristiana come interventi estranei,meccanici, esterni. Da parte dei gruppi che governavano nella maggior parte degli Stati fu negato per principio all‟autorità ecclesiastica il diritto di interferire con la cosiddetta autonomia della ragione e della cultura nelle questioni della salvezza.520
Ciò che Scheler non spiega è che, nella prospettiva cattolica, tutte le cose del mondo erano considerate “cose sante”, per cui il suo intervento diventò di diritto totale, inerente a ogni ambito umano, sia spirituale che sociale. Ed è tale “diritto” che Scheler continua a ritenere antistoricamente legittimo, argomentando che, poiché tutte le attività umane, anche quelle spiritualmente più alte, sono sempre anche attività comunitarie, allora la natura specifica e il contenuto dell‟idea di comunità che di volta in volta governa la vita è della massima importanza anche per il progresso, per lo spirito e per il successo di queste attività. Le condizioni umane formano sempre e ovunque una intrinseca unità di stile e di struttura.521 520 521
Ivi, pag. 949-951. Ivi, pag. 951.
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Ciò che Scheler vuol dire è che ogni specifica forma spirituale appartiene a una totalità organica, che nel caso è “l‟ideale cristiano di comunità”, abolito il quale, “è anche abolita alla radice non solo la fede comune in una Chiesa, ma anche la conoscenza comune, tanto nella successione temporale delle epoche, quanto nella vicinanza spaziale di coloro che cooperano ala conoscenza”, contrariamente a quanto avveniva nel Medioevo, quando “intere generazioni costruivano una sola Chiesa – senza far venir meno l‟identità stilistica dell‟edificio -”, oppure “i diversi filosofi di nazioni diverse” contribuivano “alla costruzione di una philosophia perennis, nonostante le diverse sfumature della loro prospettiva”.522 Diversamente, nell‟epoca moderna, ogni forma spirituale assoluta perde di vista il senso spirituale unitario. Ma questa condizione spirituale del tempo del razionalismo, che da un lato spinge verso il principio del “criticismo soggettivistico” e dall‟altro verso il principio nazionalistico, che “spinge le nazioni a lavorare l‟una contro l‟altra” e le singole scuole nazionali a contendersi una sorta di primato tra di loro, nasce per reazione all‟interno di quella tendenza totalitaria, messa in opera dalla teologia della Chiesa cattolica, a trasformare “tutte le attività umane” in elementi “comunitari”, secondo un criterio comunitaristico da essa stessa elaborato e custodito, per cui la dimensione del sacro, anziché costituire l‟orizzonte spirituale delle singole manifestazioni spirituali, ne diveniva la premessa autoritativa delle loro espressioni mondane. Sicché, in nome della custodia del fondamento sacro della verità, anche le forme del sacro venivano giudicate conformi o meno al principio stabilito di congruità, e cioè di ortodossia religiosa. In questa prospettiva, essendo sacro il contenuto eterno del Verbo divino, e come tale non soggetto a giudizio critico, la vertenza era sulle forme storiche della sua manifestazione umana, che erano soggette alla cassazione ecclesiastica. La conseguenza fu che si rese necessario, da un lato, negare l‟autorità della Chiesa per affermare la centralità della persona umana soggettiva, e dall‟altro fare di questo centro spirituale soggettivo la fonte della creazione spirituale anche in senso contenutistico e non solo tecnico-formale, facendo assurgere la ragione emancipata dalla sintesi teologia a valore indipendente e autofondato di conoscenza. La giusta analisi sociologica di Scheler viene però inficiata da una 522
Ibidem.
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arbitraria ricostruzione delle ragioni dell‟affermazione dello spirito assolutistico moderno, che proprio nell‟atteggiamento teoretico della Chiesa cattolica aveva il suo paradigma gnoseologico. La “comunità” spirituale medievale nasceva dalla comunanza dell‟ispirazione cristiana, nel senso che il fine di ogni attività spirituale rimaneva trascendente a ogni singola manifestazione storica, e come tale non giudicabile che per le forme culturali che lo esprimevano, le quali erano passibili di un giudizio tecnico, ma non dei loro contenuti ideali. Solo a condizione di ritenere immanenti alle forme storiche anche i contenuti della fede, fu possibile, per la custode dei valori, affermarli giudicando la congruità delle loro forme storiche, e per il razionalismo successivo giudicare le forme storiche alla stregua di valori spirituali eterni. Così, se la Chiesa, volendo vedere Dio in ogni attività umana, giudicava in nome e per conto del sacro ogni forma profana, il successivo razionalismo, interiorizzò nello spirito umano personale la presenza di Dio, e giudicò rilevante spiritualmente le sole forme profane. Non a caso lo spirito moderno portò all‟apogeo le “due scienze mondane” dell‟estetica e dell‟economica, con cui si esprimeva la cultura desacralizzata post-teologica. L‟unità comunitaria cristiana era possibile mantenerla solo assumendola come un processo in divenire verso la sua meta escatologica, cioè come unità spirituale trascendente ogni sua storica manifestazione. Posta l‟identità tra questa unità spirituale e la Chiesa visibile come istituzione storica, veniva a perdersi il suo carattere sia liberamente comunitario che trascendente. Infatti, il carattere trascendente della comunità spirituale, rispetto a ogni altra forma politica di socialità, era riposto nella sua libera adesione, che implicava sia l‟irriducibilità della singola persona ideale al tutto comunitario storico, che la possibilità di riformare le condizioni unitarie sulla base delle mutate sensibilità soggettive. Questo carattere privativo della personalità umana coincide con l‟attività stessa della sua ragione, che è lo strumento teoretico della sua libertà interiore. Confondere l‟unità spirituale, liberamente cercata e trovata nella comunità ideale, con l‟unità istituzionale imposta da una autorità ecclesiastica, significa anticipare, sul piano sacrale, il paradigma di Stato totalitario che si svilupperà in seguito alla secolarizzazione razionalistica come suo modello antitetico ma analogo. La coscienza religiosa cristiana introduce nella cultura umana, soprattutto nelle sue espressioni più direttamente influenzate dalla teologia e dalla spiritualità evangelica, il valore primario e insopprimibile della 236
soggettività, a partire dalla quale diventa problematico il rapporto comunitario delle antiche formazioni sociali organiche, Chiesa compresa, per cui l‟affermazione moderna del soggettivismo teoretico non è che lo sviluppo in campo gnoseologico di una tendenza ideale fondamentale che finisce per connotare la stessa civiltà cristiana e occidentale nelle sue formazioni civili e strutture istituzionali, e che fa interpretare la risposta del potere pubblico contro le istanze coscienzialistiche di Socrate un grave attentato alla libertà morale dell‟uomo, anziché, come nel suo tempo, una legittima risposta dello Stato alle minacce di disgregazione sociale del pensiero privato. Con l‟affermarsi della coscienza cristiana, non è la fede nella verità la materia della contesa tra i filosofi di opposte dottrine, così come, con l‟affermarsi del soggettivismo fideistico, non è la fede in Dio a dividere i gli esponenti delle diverse confessioni, essendo la fede nella verità e in Dio il presupposto comune ai contendenti. Una volta determinata la sede della coscienza teoretica e religiosa, ciò che divide in entrambi i campi spirituali è la credibilità e l‟autorevolezza della fonte depositaria di quella fede comune. Necessariamente, per intrinseco sviluppo della logica soggettivistica, il patrimonio spirituale del deposito tradizionale di quella fede doveva essere assunto per la coscienza soggettiva come un dato storico non vincolante, per quanto significativo e autorevole, sicché il senso stesso della fede comune doveva svolgersi in una accezione non più tradizionalmente comunitaristica ma comunitaria in senso volontaristico e liberamente collegiale. Con la consegna apostolica della missione universale, la comunità cristiana si sarebbe definita come una collettività aperta, soggetta a continue integrazioni di gruppi e di esperienze nuovi, ognuno dei quali avrebbe offerto il suo contributo di fede e di pensiero alla comunità, che a posteriori ne avrebbe assunto il relativo valore come proprio. La comunità potenzialmente universale è dunque sempre un referente terminale, il compendio di tutte le esperienze che vi si riversano, e non può identificarsi con una struttura chiusa e oligarchica istituzionalmente separata dalla comunità di cui è guida morale. Infatti, questa strutturazione definita in termini non solo funzionali al ruolo carismatico delle guide spirituali della comunità, ma istituzionali, configura una realtà sociale di natura politica, contro la cui logica era sorta la libertà della coscienza religiosa. Ogni forma sociale istituzionalmente strutturata determina, com‟è noto, una burocrazia e un potere oligarchici che, dalla Chiesa allo Stato fino al partito politico contemporaneo, distingue la classe dirigente dal resto della comunità sociale. Ma la comunità religiosa non voleva costituirsi sul modello di 237
questa formazione sociale di tipo politico, ma rappresentare un modello alternativo, basato sulla libera adesione dei cuori anziché dei corpi. Non a caso lo statalismo moderno di Hobbes ricupera la dimensione corporale come l‟elemento primario della costituzione socio-politica razionalistica. La libertà dei cuori contro l‟obbligazione dei corpi era la nuova polarizzazione introdotta dall‟etica cristiana dell‟amore, configurativa di un ordo amoris distinto da quello giuridicizzato e propriamente sociale in forza della sua libera costituzione e adesione. Rispetto alle forme pattizie di socialità profana, anch‟esse volontaristiche, la comunità religiosa poneva come suo discrimine essenziale il sentimento di adesione spirituale a una entità trascendente ogni forma corporea e istituzionale, la quale in virtù della sua trascendenza oltrepassava qualsivoglia individualità soggettiva, umanamente definita. Tale entità trascendente, per la sapienza profana era il pensiero, l‟idea, mentre per la coscienza religiosa era lo spirito. E poiché ogni anima singolare ne sentiva in sé la presenza, la comunità delle anime costituiva un collettivo che si riconosceva in quella comune presenza, che era spirituale e non già istituzionale. Ossia una presenza di amore, che legava i fedeli amorosamente, non con la forza della cogenza sociale, cioè politicamente. La conoscenza amorevole, che Scheler chiama “comunicativa”, non è di tipo razionale ma è “conoscenza rivelata”, e che non le facoltà di pensiero ma “solo l‟amore in noi può accogliere”. Essa, secondo Scheler, “fu negata per principio” a seguito dell‟affermazione di “un „pensiero‟ individuale per così dire svincolato dalla comunità, anzi da tutte le altre anime”, il quale, insieme alle “percezioni sensibili”, costituirono “le uniche fonti giustificate della conoscenza”.523 Ma fu veramente così? In realtà, la “conoscenza comunicativa”, fondata sull‟adesione amorevole alla verità, cioè sulla intuizione propria alla fede, era per definizione alternativa alla conoscenza ritenuta profana che dominava la vita pubblica, e che era quindi socialmente garantita dalla forza politica. Questa conoscenza era, come quella filosofica, quindi di natura essenzialmente “privata”, perché non pubblicamente riconosciuta e omologata. Ogni “pensiero” per sua essenziale costituzione è “svincolato dalla comunità”, proprio perché libero di determinarsi fuori dell‟obbligatorietà delle statuizioni pubbliche. Il “pensiero” di cui tratta Scheler qui, ha riguadagnato la sua privatezza, non in quanto “svincolato dalla comunità [dei fedeli]”, ma in seguito alla riaffermazione della sua 523
M. Scheler, Loc. cit., pag. 953.
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libertà teoretica dai vincoli della comunità politica, a partire dalla comunità ecclesiastica, che era quella che in ambito religioso era la più politicizzata. E‟ nel momento in cui il pensiero diventando pubblico si identifica con la forza conservatrice della socialità, quella appunto politica, esso perde il suo carattere propriamente “privato” e “soggettivo” per diventare patrimonio ideale comune, pensiero comunitario. Tutto questo non è deleterio per il pensiero espresso, per le sue manifestazioni storicizzate, ma lo diventa allorquando la legittima esigenza conservatrice del sistema socio-politico si trasferisce nell‟attività del pensiero, limitandone la libertà di espressione e di ricerca. E‟ in questo momento che il pensiero si snatura e perde la sua fisionomia soggettiva e personale, per essere assunto come dimensione puramente socializzata e collettiva, ossia pubblica. Il pensiero, in quanto soggettivo e personale, diventa socialmente dirompente e potenzialmente eversivo. A questo rischio il potere pubbico può rispondere in due modi essenziali: o cercare di neutralizzarlo attraverso l‟opera repressiva, ovvero assimilarlo come patrimonio comune della società, intesa anche come comunità spirituale. La prima opzione è tipica dei regimi di cultura pagana, che non conoscevano o non riconoscevano il valore della soggettività affermato dal cristianesimo. La seconda opzione è invece propria della sensibilità delle culture sociali cristianizzate, le quali, in modi e forme diverse e non tutte congruenti, hanno quanto meno ammesso il libero dispiegamento del pensiero in aree determinate e circoscritte della conoscenza umana. Ma proprio in ambito cristiano la Chiesa cattolica ha esercitato una funzione repressiva del libero pensiero in nome della salvaguardia dell‟ortodossia, identificando se stessa con la “comunità cristiana”, e alimentando la moderna reazione razionalistica del “criticismo soggettivo e idealista” di cui parla Scheler.524 Il pensiero moderno nasce quindi come reazione filosofica al “comunitarismo”, e non già alla “comunità”. Il comunitarismo è infatti la stabilizzazione istituzionale di una comunità storica al fine di salvaguardarne la sussistenza. Ma questo fine politico, legittimo nel suo ambito sociale, era il fine della comunità cristiana? Questo è il punto fondamentale per distinguere la socialità religiosa da quella politica. Punto sul quale l‟analisi di Scheler sorvola mostrando di non cogliere l‟essenza della questione religiosa moderna. Da chi fu sperperato il “capitale interiore” del cristianesimo se non dalla 524
Ibidem.
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Chiesa, il cui istituzionalismo teologico-politico ridusse “l‟universalismo spirituale” nella edificazione del suo potere religioso nel mondo, facendo sì che la reazione ad esso trascinasse inevitabilmente la privatizzazione della fede e la sua scomparsa dall‟orizzonte pubblico europeo? L‟auspicato “ritorno consapevole alle sante fonti della vita e dello spirito” non possono perciò coincidere, come pur vorrebbe Scheler, con il “ritorno alla Santa Chiesa e all‟idea di comunità cristiana, che solo da quella sarebbe correttamente conosciuta e amministrata”,525 perché proprio essa, come avverrà dopo la successiva Guerra mondiale, doveva essere l‟oggetto di un profondo ripensamento critico, troppo a lungo ritardato e che perciò di fatto risulterà deleterio anche alla sua pregressa immagine di inflessibile custode del dogma. Se era vero, come sosteneva Scheler, che la nuova stagione storica doveva coinvolgere nel suo “profondo mutamento” spirituale “anche la filosofia, l‟arte, la scienza”, allora non si poteva porre “l‟idea cristiana di comunità”526 come un prius ideologico, depositario del quale era – ancora una volta! – la Chiesa, ma bensì come un programma di ricerca di nuove espressioni della fede tradizionale, tale che il coinvolgimento di tutte le forme della cultura umana non avessero un esito predeterminato, ma solo la libertà della loro creativa ispirazione. Solo in questa libertà le forze spirituali potevano ritrovare l‟armonia perduta tra “cuore e ragione” in cui si sostanzia il motivo religioso. La “guida”, se doveva essere “l‟amore”, non poteva assegnarsi a una istituzione storica che ne aveva fino ad allora monopolizzato le forme provocando l‟implosione fideistica e razionalistica moderna. Era come se, dopo la Rivoluzione, una pur necessaria Restaurazione volesse riprendere il filo della storia, sociale e culturale, dell‟Europa dal punto in cui l‟aveva lasciato la catastrofe rivoluzionaria. Riprendere quel filo dopo la rottura cruenta del discorso non poteva non apparire alle più consapevoli coscienze un insensato quanto velleitario “heri dicebamus”. Non sarebbe stato possibile tornare indietro neppure se la Germania avesse vinto la Guerra e avesse potuto essa sola decidere delle sorti comuni dell‟Europa, poiché la rimozione delle ragioni profonde di una guerra così devastante per la civiltà europea sarebbe suonata tanto più insensata quanto più pericolosamente esposta a una rinnovata ricerca di senso della crisi morale che l‟aveva determinata. Occorreva ragionevolmente partire dalla realtà quale si era venuta 525 526
Ivi, pag. 957. Ibidem.
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sviluppando, non a cagione della perdita della guida spirituale della Chiesa, ma a partire dal potere immenso che essa aveva gestito nei lunghi secoli del suo dominio medievale, e che aveva condotto alla finis Europae. Ossia a partire dal principio cristiano ricordato da Scheler per cui “all‟uomo è lecito credere solo in Dio e in nessuna istituzione terrena”.527 La chiesa trascendente non poteva dunque identificarsi con la Chiesa istituzionale. Il nuovo corso spirituale doveva invece muovere dalla distinzione cristiana tra sfera sacra e sfera profana, che consentiva la condizione della stessa esistenza del sacro come dimensione trascendente la realtà finita. Questo avrebbe comportato il superamento del progetto razionalistico di costruire un mondo del tutto razionalizzato, ossia totalmente trasformato in Essere che è, senza più alcun divenire, facendo coincidere la ragione universale con la stessa religione universale cui si contrapponeva dialetticamente, poiché la sfera del sacro è la sfera stessa dell‟Essere, dell‟immutabile presenza di ciò che è uguale a se stesso, che non diviene. La moderna “dialettica del‟Illuminismo”, che aveva finito per sacralizzare il mondo emancipato dalla religione, non è infatti che il rovescio profano della dialettica religiosa, che tutto aveva mutato in realtà profana avendo tutto voluto trasformare in sacro. La sfera profana è distinta da quella sacra in quanto della realtà diveniente, del molteplice che si trasforma in ciò che non-è. Confondere le due realtà, ovvero annullare la loro distinzione ontologica, significa assimilare il diverso allo stesso, trasformando il non-essere in essere, e viceversa. Ma questa trasformazione, nell‟atto di realizzare il potere della forza operativa dell‟uomo, implica il suo annullamento, poiché il potere pratico si converte sempre in annichilimento ideale quando vuole ridurre l‟infinito trascendente nel finito temporale. Proprio questa impossibile metabasi è il fondamento ontologico di ogni discorso razionale, che costituisce la premessa stessa della fede nella verità, la Verità immutabile ed eterna che per tutti è Dio. Non c‟è verità senza il suo principio di verità, ossia il fondamento sul quale la verità poggia. Tale fondamento non è filosofico né scientifico, ma ontologico, in sé sussistente come fondamento oggettivo della verità che su di esso si costruisce e si sviluppa. Ciò comporta che la verità è una nel suo fondamento oggettivo, cioè indisponibile ed eterno, ma è molteplice come forma storica di conoscenza soggettiva, per cui il fondamento veritativo comune a ogni cultura umana non implica 527
Ivi, pag. 959.
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l‟uniformità delle sue espressioni storiche. E proprio nella relazione di verità della sua espressione storica con il suo principio eterno consiste l‟attività della filosofia, quale luogo ideale di tale mediazione. Nondimeno, l‟espressione storica della verità, la sua forma sensibile, estetica, implica una relazione non solo estetico-letteraria con il principio oggettivo, ma anche estetico-economica, relativa alle condizioni della vita materiale in cui si organizza la cultura storica, sicché le due “scienze mondane” espressive delle forme storiche della verità sono intimamente collegate nella realtà esistenziale dell‟uomo, in modo tale che, a seconda dei tempi, una forma espressiva prevalga sull‟altra come espressione maggiormente significativa del suo contenuto di valore. Ora, nel mondo moderno, allorquando si è intrapresa la trasformazione della realtà già sacralizzata in realtà profana, le forme materiali dell‟attività umana hanno assunto un rilievo che prima non avevano nell‟ambito della consacrazione universale del cosmo religioso, per cui ciò che nella dimensione sacrale era la forma liturgica del rito di trapasso dal profano al sacro, che si rifletteva teoreticamente nel suo particolare stile simbolico, nella nuova dimensione profana è diventata attività economica, di trasformazione del mondo desacralizzato, di cui la tecnica è la sua razionale espressione simbolica. Poiché, come afferma Scheler, è “lo spirito [che] si costruisce il corpo”, è il “fattore” spirituale che, a dire dello stesso, “forma l‟anima intima che unifica anche l‟organizzazione esterna e imprime il suo sigillo in ogni azione e forma di esistenza economiche”, comunicandosi come “modello” di una “concezione religiosa del mondo”.528 Ma ciò che non si evince da queste affermazioni è che lo “spirito” del mondo moderno ha una sua peculiare definizione storica, relativa appunto al movimento rivoluzionario di trasformazione del mondo sacro in realtà profana, per cui ciò che costituiva l‟unità religiosa del cosmo sacralizzato si declina modernamente come organizzazione razionalizzata dell‟economia mondiale. In questo ambito profano, gli opifici hanno preso il posto che era stato delle chiese, i consigli di fabbrica il posto delle comunità parrocchiali, con i consigli di amministrazione che hanno sostituito i vescovi nel governo della comunità produttiva. Al posto della teologia, la scienza economica, il cui relativo esercizio liturgico avviene nelle borse, i luoghi della moderna trasvalutazione mistica dei beni economici in valori finanziari. 528
Ivi, pag. 961.
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4. In quanto “spirito” del mondo, anche quello moderno è una “religione”, e come tale si diffonde universalmente come ragione del mondo. Ma l‟ethos dell‟economia moderna non è la stessa etica che animava la comunità cristiana medievale, ma è lo “spirito” razionalistico e profanatore del capitalismo, la cui dottrina del laisser faire costituisce il momento confutativo propedeutico alla pianificata conversione profana in termini economici del mondo sacro. Una conversione pianificata richiede una struttura organizzativa, una interpretazione razionale del mondo e un esercito di burocrati al suo servizio pastorale. In un mondo che va trasformandosi da sacro in profano, che si ri-voluziona, gli economisti sono il nuovo clero di questa religione profana, i depositari della nuova scienza esoterica da loro gestita come il nuovo gergo del potere profano, che risuona come il manzoniano latinorum alle orecchie dell‟ignaro popolo dei consumatori della nuova fede. La logica economicistica del profitto, speculare a quella del cristiano “sacrificio”, pone il benessere mondano come valore esponenziale al posto della religiosa “rinuncia”, per cui la “direzione” impressa a questa profana “concezione del mondo”, non può essere semplicemente invertita, cambiata meramente di segno, rimuovendo le ragioni ideali profonde che sottostanno alla sua stessa storica fenomenologia. Non si torna al passato, ri-cominciando daccapo il percorso circolare dell‟anaciclosi spirituale, proprio perché ciò che è spirituale, in quanto tale, cioè in quanto diverso per essenza dal ciclo naturale, richiede un fondamento ontologico, senza il quale l‟essere spirituale viene omologato a quello naturale, e di conseguenza anche il suo corso ideale viene naturalizzato e reso uniforme a quello biologico. La scienza moderna procede in questa direzione omologatrice e uniformante, secondando la logica della sua universale razionalizzazione del mondo. Direzione che, lo ripetiamo, è speculare a quella della universale sacralizzazione del mondo profano, che si doveva a sua volta convertire, ossia trasformare il suo non-essere nell‟essere della verità. Ma non si esce dal ciclo ri-voluzionario della opposta trasformazione senza l‟affermazione della fondamentale distinzione ontologica quale principio di ogni forma di verità. Soltanto il principio della oggettiva distinzione essenziale, e quindi della indisponibilità soggettiva dell‟essere, può fondare un sapere nuovo rispetto a quello sperimentato dall‟umanità, che superi la logica del “passaggio” dal sacro al profano e viceversa, a favore della con-sistenza dei due elementi essenziali del 243
Tutto, e quindi della loro storica con-vivenza esistenziale. Questo a noi pare il senso profondo dell‟affidamento a Cesare del mondo che non-è di Dio, l‟essere terno per definizione. Ma ciò implica che tra Cesare e Dio c‟è il Nulla a unirli nella loro reciproca esclusione, a mediare la loro esclusiva reciproca essenza. Questo Nulla, che può liberamente secondare Cesare o Dio, che sceglie di essere divino o di morire, è la rappresentazione stessa di Gesù Cristo, l‟Uomo mediatore per definizione. In questo senso, il nuovo umanesimo post-moderno non può che essere nichilista, e se vuole essere cristiano non può che non essere cattolico. L‟uomo cristiano post-moderno deve superare sia l‟universalismo teocentrico cattolico sia l‟universalismo antropocentrico moderno, forme opposte dello stesso naturalismo antico, del cui principio ontologico sono riflessi speculari. Infatti, finché l‟Essere verrà considerato solo ciò che è, esso varrà come il Tutto, provocando l‟opposizione di ciò che essere non-è e che pure appartiene al Tutto, rivendicando perciò il suo essere negativo, inattuale rispetto all‟essere che è attuale. All‟interno del fondamento ontologico naturalistico antico, l‟Essere è solo ciò che è, ossia soltanto ciò che appare, sicché l‟essere è l‟apparire sono i riflessi della stessa unica sostanza. Ed è questo fondamento a giustificare razionalmente il passaggio universale dell‟apparire all‟essere e viceversa intentato dai diversi saperi storici, creando il dovere della conversione universale e la relativa morale rivoluzionaria. Il paradigma paolino, facendo propria la cultura naturalistica classica, ha pensato il cristianesimo come sacro razionalismo, al quale, dopo la scissione protestante che ha criticato il paradigma cattolico, si è contrapposta la reazione moderna del razionalismo profano. Ma tutte queste forme sono naturalistiche, perché ammettono la sola realtà dell‟essere che è, identificando perciò la verità con ciò che appare, ossia con l‟attualità dell‟essere. Ed essendo l‟essere attuale tutto ciò che è, il Tutto è la fenomenologia del suo apparire, dell‟apparizione dell‟essere, ossia tutto è storia. L‟ontologia naturalistica si converte in ontologia storicistica, e reciprocamente la scienza della natura in scienza dello spirito, alternativamente, disegnando così l‟anaciclosi della vichiana “storia ideale eterna” dell‟uomo pensato come natura spiritualizzata. All‟interno, infatti, di questo uni-verso naturalistico, operano le distinzioni delle scienze particolari, ognuna delle quali esprime una ragione di esistenza dell‟Essere pensato come Tutto ciò che è. Lo stesso fondamento naturalistico greco ha consentito al cristianesimo 244
protestante, nel criticare la versione storica del cattolicesimo, di tornare alle fonti bibliche, in cui Dio è visto come l‟Essere supremo, ignorando che l‟idea cristiana di Dio non è la stessa di quella biblica. Infatti, se per il cristiano Cristo è Dio, non si esce comunque dall‟idolatria che quell‟identificazione rappresenta per ogni monoteismo. Se invece Cristo è Dio incarnato, umanizzato, finitizzato, temporalizzato, allora Cristo non può essere Dio, ma altro dal suo mero essere, e cioè un Dio-che-diviene, che si fa storia umana. Un Figlio che è di Dio, ma che non-è Dio. E‟ una essenza divina partecipata all‟umanità, che in sé è la stessa di Dio, ma che resta altra da Dio in quanto diviene umana. Il cattolicesimo ha concepito la divino-umanità di Cristo come un passaggio ontologico da Dio a Cristo, per cui Cristo è Dio, pur essendo nato uomo, ossia nel tempo. E questa concezione ha consentito il rovesciamento ontologico, per cui si è giunti a divinizzare il finito. Ma se Cristo è Dio, Gesù non lo è, in quanto uomo, carne che muore. Sicché Gesù Cristo è spiritualmente Dio e storicamente un uomo. Sono due le nature in una sola persona, nessuna delle quali può convertirsi nell‟altra. Così, Gesù muore in croce e Cristo vive in eterno. E se le nature personali sono due, Cristo non-è Dio, anche se Dio è in Cristo, il quale diviene Dio dopo la morte dell‟uomo, ma in sé non-è Dio. Il divenire di Dio, non è Dio, ma solo la sua storia mondana, la sua esperienza umana. In quanto Spirito, Dio trascende sempre la forma umana, che muore e si rinnova nel tempo. Se l‟essenza e l‟esistenza restano distinte, allora nessun passaggio storico può avvenire, alcuna trasformazione operarsi nel tempo, e ciò che è di Dio resta perennemente a Dio, consente all‟uomo la libertà di divenire ciò che egli vuole essere. O il cristianesimo rappresenta questa nuova fede religiosa, che coniuga immanenza e trascendenza senza idealmente confonderle e praticamente identificarle, o è un‟eresia ebraica, una aberrante idolatria. Ripensare il messaggio di Cristo oltre il cristianesimo storico, significa superare sia l‟idolatria cattolica medievale che l‟opposto spiritualismo protestante moderno. Oltre il moderno, non c‟è l‟antico, ma l‟eterno. Ma la eternità da sola non spiega il divenire, cioè la storia del‟uomo. Solo col cristianesimo l‟eterno e la storia si incontrano dialetticamente. All‟età della confusione teologica e a quella della reattiva distinzione razionalistica deve subentrare l‟età della amorevole co-esistenza. In che senso? In un saggio di questo periodo, redatto presumibilmente tra il 1914 e il 1916, Scheler tratta del Significato normativo e descrittivo dell‟ordo 245
amoris, mettendo in luce il “gioco della dinamica del cuore”, sulla cui base si determina “ogni modo d‟essere della vita e della condotta” umane, in riferimento ai singoli individui, ai gruppi sociali e a ogni piccola o grande “unità storico-sociologica”. Al relativo “sistema” di valutazione e di preferenze di valore, Scheler da il nome di “ethos del soggetto in questione”, il cui “centro” delle “passioni dominanti e pre-dominanti” è costituito dall‟ “ordine dell‟amore e dell‟odio”, che “tiene insieme” la visione del mondo del soggetto con le sue azioni.529 Il “sistema” ha un carattere sia “normativo”, e relativo perciò alla conoscenza del “valore interno delle cose”, che “descrittivo”, ossia relativo “agli atti d‟amore e di odio” costitutivi della condotta umana come “moto dell‟animo”, per cui esso definisce “il nucleo dell‟uomo in quanto ente spirituale”.530 Il rischio immanente in ogni teoria spiritualistica è quello di isolare l‟elemento soggettivo dell‟essere umano, il suo “destino” ideale, da quanto lo unisce esistenzialmente e biologicamente dal contesto del mondo-della-vita. Non a caso, per ottenere la rilevanza dei dati coscienziali occorre rimuovere tale contesto attraverso una qualche forma di epoche, che consenta di isolare il soggetto spirituale al fine di ottenere il dato fenomenico della sua soggettività. Ma questo dato, proprio perché derivato da un processo astrattivo, non può sussistere in sé ma solo in relazione al contesto originario dal quale deriva, l‟unico che possa animarlo di un significato razionale, cioè metodicamente coerente. Questa relazione, però, è altamente problematica, in quanto costituita da un elemento oggettivo, che è quello storico-contestuale, comune a ogni singolo soggetto spirituale, e da un elemento soggettivo, variabile e relativo alla stessa libera soggettività. Per ovviare a questa discrepanza elementare, i teorici della soggettività hanno cercato variamente di costituire a parte subjecti una qualche forma di oggettività, o di struttura ontologica della soggettività, tale da assicurare alle variabili apparentemente instabili del comportamento soggettivo una regolarità e ponderabilità non dissimile da quella delle strutture oggettive. Ed è proprio questa indebita estensione della oggettività naturalistica al mondo dei soggetti che, come sappiamo, è stata contestata dalla analisi fenomenologica di Husserl tesa alla definizione di una psicologia spiritualistica, non oggettivistica. Anche Scheler tenta la definizione di una struttura oggettiva della soggettività che renda formalmente stabile, 529
M. Scheler, Ordo amoris (1914-1916), tr. it. a cura di V. d‟Anna, Scritti sulla fenomenologia e l‟amore, Milano, 2008, pag. 109. 530 Ivi, pag. 110.
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cioè razionalmente de-finibile, l‟impianto dell‟ordo amoris. Come l‟idea di un regno, rigorosamente oggettivo ed indipendente dall‟uomo, delle ordinate degnità d‟amore di tutte le cose, - un qualcosa che possiamo solo conoscere, e non “porre”, creare, fare -, anche la “determinazione individuale” di un soggetto spirituale, singolare o collettivo, è qualcosa di rivolto al soggetto – e solo ad esso -, ma tuttavia, per così dire, non di meno oggettivo: non da porre , ma esclusivamente da conoscere.531
Questa ricerca della “oggettività” in campo spirituale è un mutuo della propensione positivistica a fornire “dati” obiettivi indipendenti dal soggetto, che lo spiritualismo ha contratto accettando la sfida della definizione scientifica delle questioni spirituali, ammettendo surrettiziamente che solo la scienza potesse garantire un criterio razionale di verità. le conseguenze di questa impostazione si misurano complessivamente dal bilancio fallimentare di ogni tentativo di definire una struttura oggettiva della soggettività che fosse allo stesso tempo una “filosofia della libertà” e una “scienza dello Spirito”. Infatti, una tale definizione muoveva dal presupposto monistico che la verità consistesse nell‟unificare nella stessa definizione razionale la molteplicità dei fenomeni naturali o spirituali, assunti appunto come oggetto di analisi scientifica. A tal fine, occorreva primieramente assicurare alla ragione un metodo universale di riduzione del molteplice all‟uno, nel quale consisteva propriamente l‟approccio scientifico al problema, ossia, in altri termini, eliminare ogni forma di conoscenza del mondo che non fosse sussumibile entro le coordinate assiologiche della conoscenza per causas, non sospettando che tale ricerca si basasse essa stessa su un presupposto di valore di natura fideistica, consistente appunto nella credenza che la verità si identificasse con tale reductio ad unitatem. Il “metodo” scientifico era dunque una sorta di passepartout con cui attraversare la soglia che divideva il mondo profano della molteplice fenomenicità dall‟uni-verso delle corrispondenze formali della sua conoscenza razionale. Ma l‟ossessione scientifica all‟unità cosmica tradiva, sotto le migliori intenzioni, quella “volontà di potenza” che era un retaggio teologico della metafisica creazionistica, che faceva consistere la verità nel potere di assimilare il diverso allo stesso, trovando in esso il punto di fusione tra la conoscenza e la volontà del soggetto creatore. E proprio questo “potere” 531
M. Scheler, Ordo amoris, cit., pag. 113.
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veniva ritrovato nel campo dello spirito quando si giungeva a definire razionalmente una formula di passaggio che consentiva una (seppur temporanea) risoluzione unitaria del molteplice mondo fenomenico. Sul fondamento della credenza in una tale progressiva riduzione ha proceduto la ricerca moderna della verità, che sperava così di giungere per tal via fino allo schiocco delle dita del Dio creatore dell‟universo, a quel fiat che costituisce l‟inizio e la fine di ogni ricerca scientifica. Quanto di religioso in senso mitico ci sia in questa credenza scientifica, non è qui il caso di ribadire. Ciò che conta è riscontrare che anche nella descrizione dell‟ordo amoris di Scheler permanga il pregiudizio tutto moderno che lo stesso ordine della soggettività sia pur sempre una struttura formale a priori, oggettiva, e non la libera determinazione spirituale di una modalità teoretica diversa da quella razionalistica della scienza, tesa a ritrovare “l‟unità di un senso pervasivo che ci si rappresenti come un‟affinità essenziale individuale tra il carattere dell‟uomo e quel ce accade intorno a lui e dentro di lui”. A rivelarcisi, in questa univocità di senso del corso di una vita, è un coincidere di mondo e uomo, totalmente indipendente dalla volontà, dalla intenzione, dal desiderio, ma anche dall‟accadere casuale, oggettivamente reale, e indipendente dal collegamento e dall‟interazione di entrambi.532
Il “destino” è dunque una relazione di “possibilità di esperienza vissuta” fissate entro un circoscritto “raggio d‟azione” in cui si esercita l‟ “effettivo accadere” dell‟esistenza umana, e che stabilisce la modalità essenziale regolativa dell‟ordo amoris di un essere umano. Anche l‟amore viene pertanto inscritto entro una normativa assiologia che ne determina la fenomenologia effettiva, quasi a deprivare la dimensione spirituale di ogni alone di irrazionale accondiscendenza al caos esistenziale, che liberando l‟uomo dalla possibilità di una de-finizione razionale della sua esperienza, lo condannerebbe a una zona grigia sottratta alla luce della ragione. E infatti, che altro è questo ordo amoris se non la modalità affettiva della conoscenza razionale dell‟esperienza umana? In quanto amore ordinato, esso rappresenta a parte subjecti il motivo centrale di ogni approccio razionale al mondo, ossia la de-finizione di un rapporto armonico tra realtà opposte. E quale migliore armonia di quella stabilita dalla universalizzazione della realtà fenomenica, che è il compito proprio 532
Ivi, pag. 112.
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dell‟approccio razionalistico? Ma allora perché l‟amore? Perché l‟amore è il riflesso sentimentale del potere unificante della ragione, il suo speculum soggettivo, che dalla ragione medesima deriva la sua datità oggettiva. Ed è su questa datità, sottratta alla indeterminazione di una volontà incontrollabile del libero soggetto, che è possibile delineare il discrimine tra “concordanza” e “contrapposizione” della personalità con la sua “struttura ambientale e col suo destino”, ormai strettamente connessi. Struttura ambientale e destino sono qualcosa di ormai divenuto comprensibile in modo naturale [sic!] ed in linea di principio: non quindi semplicemente quel che casualmente di volta in volta è reale ed effettivo. Il destino non può, appunto, venir scelto liberamente, come invece vorrebbero certi indeterministi estremi che misconoscono la sua natura, e misconoscono completamente i livelli in noi di libertà e illibertà. Già gli ambiti della scelta – ovvero ciò tra cui l‟atto della scelta può esercitarsi – sono determinati dal destino, non il destino è determinato dalla scelta. Tuttavia il destino stesso si erge anche al di sopra della vita dell‟uomo e del popolo, la quale si nutre sempre più di contenuto e funzionalizza di nuovo il contenuto che sempre ha la precedenza nel tempo; si forma per la maggior parte nella vita dei singoli, in ogni caso nella vita della specie. E lo stesso vale poi anche per le strutture dell‟ambiente sociale.533
Ogni digressione e variazione sul tema non altera l‟assunto fondamentale in base al quale è la “struttura”, ossia l‟ordo, a costituire il referente normativo di ogni libera determinazione soggettiva, per cui “la determinazione individuale è una essenzialità di valore, di per sé atemporale, nella forma della personalità”,534 ossia la condotta umana è il riflesso esistenziale di un principio assiologico che informa la struttura dell‟esistenza oggettiva del contesto storico-sociale-culturale di riferimento. A seconda che il punto di origine del rispecchiamento sia visto nella società o in Dio, si ottiene un relativo e conseguente profilo antropologico dell‟uomo. La visuale prescelta da Scheler è quella divina, ma il dato di fondo non cambia: l‟uomo, anche nella sua dimensione spirituale, va armonizzato all‟unità cosmologica di riferimento strutturale, che costituisce la ratio della comprensibilità di senso, appunto razionale, della sua vita. Insomma, è il riflesso di ogni determinazione molteplice nell‟unità di senso strutturale a costituire il criterio della leggibilità razionale delle movenze singolari dell‟agire personale e collettivo. Ma 533 534
Ivi, pagg. 114-115. Ivi, pag. 115.
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non era, questa auto-referenzialità ermeneutica, la condizione della leggibilità di senso religioso delle Sacre Scritture? Non era, cioè, questa circolarità e corrispondenza di senso lo scopo della razionalizzazione universale delle scienze quale risposta simmetrica e polemica all‟ universalismo religioso? Il comune esito di tali opposte formalizzazioni razionali della molteplice esperienza fenomenica è la coincidenza dell‟essere con il suo riflesso apparente, per cui il senso razionale del mondo è l‟essere che appare per ciò che è. La rivelazione della verità consisterebbe dunque nella sua univoca correlazione tra l‟essere e la sua apparenza fenomenica. E su questo modello teoretico del razionalismo greco si è venuta sviluppando la metafisica cristiana che, ponendo Dio come Essere e Cristo come riflesso della sua sostanza, ha sacralizzato l‟essere del mondo come il riflesso creativo del Tutto. Processo religioso uni-versalistico che, conservando lo stesso presupposto ontologico, si è riflesso a sua volta nella opposta tendenza secolaristica del razionalismo moderno. Ci vediamo “come” attraverso l‟occhio stesso di Dio, e cioè, innanzitutto, assolutamente in modo oggettuale, e in secondo luogo, assolutamente come partecipi di tutto l‟universo. […] Tutto ciò che di noi è qualcosa d‟altro lo detestiamo: tanto più intensamente quanto più il nostro spirito penetra in questa immagine divina di noi, quanto più essa grandiosamente ci cresce dinanzi, e quanto più, d‟altro lato, si discosta dall‟immagine che, in noi e di noi, troviamo al di fuori dell‟immutabilità divina. I magli ideativi, che si plasmano da loro stessi, dell‟autocorrezione, dell‟autoeducazione, del pentimento, della mortificazione riguardano tutte le nostre parti che esorbitano quella configurazione, che questa immagine di noi davanti a Dio ed in Dio ci trasmette.535
Sostituiamo all‟ occhio di Dio” quello dello Stato, e avremo ottenuto una vigilanza non meno totalitaria. Ma la coscienza più avvertita e consapevole non può sfuggire alla sua determinazione come coscienza singolare senza riferirsi dialetticamente alla coscienza comune, socializzata, che preme in direzione della sua omologazione. Infatti, la portata non solo psicologica ma esistenziale della coscienza di sé è la sua posizione centripeta e tendente a riportare alla sua soggettività gli elementi oggettivi che costituiscono il contesto storico della sua attività. In questo senso la centralità della coscienza personale contende al destino il senso razionale dell‟ordine costituito, sviluppando quel “rapporto tragico” per cui 535
Ivi, pag. 116.
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noi vediamo uomini, persino popoli, essere costretti dal loro stesso destino ad operare contro la loro determinazione , laddove vediamo uomini “inadeguati”, non solo al contenuto ambientale casuale e momentaneo, ma già inadeguati a quella struttura ambientale – il che li costringe in via di principio alla scelta di sempre nuovi ambienti dalle strutture analoghe.536
Resta significato che dal rapporto “tragico” qui descritto non si sviluppi una risposta socialmente adeguata, ma solo espressioni reattive individuali alla “struttura ambientale”, che la lasciano sussistere come un dato non alterabile, cioè non soggetto a revisione politica. E proprio il momento politico della risposta sociale alla inadeguatezza manca in questo rapporto, tutto piegato in direzione dell‟ordine della struttura. Ma tale assenza rappresenta la condizione di esistenza, anzi di funzionalità, del particolare legame relazionale, diverso da quello economicamente associativo, costituito dall‟amore, inteso come “azione edificante e costruttiva nel mondo e sul mondo”, ovvero “tendenza che cerca di condurre ogni cosa verso la sua propria pienezza di valore”.537 Attività che noi possiamo tranquillamente descrivere come “volontà di potenza assimilatrice dell‟altro a sé”, la quale realizza la propria aspirazione vocazionale a condizione che “non si frappongano impedimenti”,538 ossia sia eliminata dal novero delle possibilità relazionali ogni interposizione mediatoria di tipo negoziale, che sostanzia appunto il rapporto politico. Da qui l‟alterità del rapporto amoroso rispetto a quello meramente associativo, ma da qui anche il carattere incondizionato dell‟ordo amoris nella sua tendenza assimilatrice. A questo punto del discorso di Scheler prende spessore la natura mistica del suo ideale comunitario, in cui si costituisce la fusione simpatetica di un “ente” soggettivo con altri enti “intenzionali”, formativa di una unità organica di cui i singoli enti “diventano effettivamente parti” del tutto che li comprende. Il carattere mistico di tale organismo comunitario è riaffermato anche dall‟analogia dell‟ “atto originario” che lo rende possibile, cioè l‟amore, con la “conoscenza” quale “relazione ontologica”, in cui platonicamente interviene la fusione attrattiva della coscienza col mondo, ossia dell‟atto teoretico con l‟azione volitiva. In questo senso Scheler afferma che “l‟amore sempre risveglia alla coscienza e al volere, 536
Ivi, pag. 117. Ivi, pag. 118. 538 Ibidem. 537
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anzi è la madre [si noti!] dello spirito e della ragione stessi”.539 Ed è questa unità cosmica delle coscienze che si amano fondendo la loro molteplice singolarità in una comunione mistica che Scheler indica come “Dio”. Quest‟uno che prende parte a tutto, senza il cui volere nulla di reale può essere tale, e grazie al quale tutte le cose partecipano in qualche modo (spiritualmente) le une delle altre e sono solidali le une con le altre: quest‟uno che le ha generate ed al quale aspirano esse tutte insieme, entro i limiti loro propri ed assegnati, è – in quanto onniamante (Alliebende) e pertanto anche onnisciente e onnivolente – Dio: il centro personale del mondo, inteso [si noti!] come cosmo e tutto.540
Nelle pieghe di questa identificazione della condizione “spirituale” delle coscienze con la condizione esistenziale delle persone, assimilate a “tutte le cose” che partecipano all‟unità cosmica, si nasconde la tendenza universalistica del cristianesimo cattolico, intrinsecamente imperialistico e totalitario nella sua missione di conversione del mondo profano in un cosmo unitario sacro, dove “l‟ordo amoris è il nucleo dell‟ordine del mondo come ordine divino” e l‟uomo è visto come “servo di Dio”.541 Per comprendere bene il suo ruolo, bisogna partire dalla sua definizione di “ens amans”, che è condizione primigenia rispetto a quella di “ens cogitans” e di “ens volens”, perché la sua modalità condiziona la qualità e il valore della conoscenza del mondo, i suoi “ambiti qualitativi”. Infatti, per l‟uomo che ama, il “nucleo” della cosiddetta “essenza” delle cose si trova, di volta in volta, là dove il suo animo si sente legato. E di volta in volta gli sembrerà “parvente” e “derivato”, quel che si allontana da questo oggetto. Il suo ethos effettivo, e cioè le regole del suo preferire e posporre certi valori ad altri, determina anche la struttura e il contenuto della sua visione del mondo, della sua conoscenza del mondo, del suo pensare il mondo e, inoltre, della sua volontà di abnegazione e di dominio. Ciò vale tanto per gli individui quanto per le razze, le nazioni, gli ambiti culturali, tanto per i popoli e le famiglie quanto per i partiti, le classi sociali, le caste, i ceti. Entro i limiti dell‟ordine del mondo dell‟uomo universalmente valido, sono assegnati ad ogni particolare forma dell‟umano determinati ambiti qualitativi di valori, e solo la loro armonia, la loro connessione reciproca nella costruzione di una cultura del mondo comune, permette di mettere in mostra tutta la grandezza e l‟ampiezza dell‟animo umano.542 539
Ibidem. Ibidem. 541 Ivi, pag. 119. 542 Ibidem. 540
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Si noti, da una parte, la delocalizzazione del valore significativo dalle strutture oggettive al nucleo della “visione del mondo”, che è il soggetto; dall‟altra, l‟estensione di quel valore normativo alla struttura sociale in quanto tale, senza differenza di grado tra i distinti gruppi umani, sicché la corrispondenza armonica tra i due distinti momenti viene posta in termini di superamento della loro distinzione in vista di una “connessione” funzionale alla “costruzione di una cultura del mondo comune”. In altri termini, soltanto la corrispondenza tra intuizione del mondo e forme oggettive di esistenza consente all‟ “animo umano” di manifestare la sua “grandezza”, con una alternanza simmetrica di “abnegazione” nel servizio di edificazione del valore “universale”, e di volontà di “dominio” della sua conservazione. L‟amore, dunque, è armonia con ciò che inerisce al proprio mondo di valori, rispetto al quale ogni aspetto “apparente”, cioè privo di omogenei contenuti valoriali, e “derivato”, ossia non autenticamente conforme al principio valoriale, deve essere trasvalutato dall‟azione performativa del soggetto amante, che perciò acquista un significato etico universale. Rispetto al naturalismo greco, dove l‟adesione antropologica alla struttura del mondo oggettivo acquistava significato di conoscenza dell‟essenza comune agli uomini e alle cose, l‟umanesimo cristiano di Scheler tende a ri-formare il mondo in direzione del suo senso intuitivo, culturale, morale, per cui l‟armonia universale si dispiega come progetto o missione umanistica in nome del valore significativo. Insomma, in evangelizzazione e, se occorre, in crociata convertitrice. Ovviamente, l‟animus di Scheler è tutt‟altro che soggettivamente bellicoso e aggressivi sta, ma nondimeno i postulati della sua visione etica dell‟amore come armonia di valori corrispondenti, conducono alle conseguenze logiche dell‟uniformità del mondo reale all‟immagine ideale del cosmo interiore. L‟amore pertanto non è che la coincidenza della forma riflessa alla forma ideale, ossia l‟ordine etico del cosmo spiritualizzato. Ed è esattamente questo il senso della ri-voluzione religiosa del mondo, la trasformazione della molteplice realtà profana in unitario cosmo sacralizzato. Ed è esattamente in questo movimento trasvalutativo universalizzato e reso eticamente necessario alla sussistenza dell‟Essere come ciò che è, e non altro da sé, la radice della violenza ontologica e pratica del cristianesimo, prima, e del razionalismo secolaristico poi. Scheler non si avvede che il concetto di ordine etico, comunque 253
formulato, contiene in sé un criterio di discriminazione tra amore sacro (“retto”) e amore profano (“falso”) che è di tipo puramente normativo e passionale e non già ontologico-oggettivo. E non perché relativisticamente si dichiari insussistente un qualche fondamento d‟ordine ontologico, ma in quanto questo fondamento lo si vuole far coincidere con l‟ordine della sua strutturazione etica, ossia l‟identificazione di quello stesso fondamento con l‟idea della sua essenza unitaria e non dialettica. Da qui la rappresentazione dell‟ordo amoris come “regno”, cioè appunto come struttura normativa, fondata sull‟assunto de-finitorio in base al quale “dall‟atomo primordiale e dal granello di sabbia fino a Dio questo regno è un regno”.543 E sul fondamento di questo assunto definitorio procede deontologicamente il processum di reductio ad unum di ogni disforme alterità reale. Ed è su queste premesse ontologiche che, come sappiamo, l‟idealismo della verità si coniuga con il realismo dell‟azione rivoluzionaria, per cui la contraddittoria realtà dell‟essere-apparente, o non-essere, va razionalmente condotta all‟ordine dell‟essere ideale, l‟unico vero, consentendone l‟apocatastasi, la sua rigenerazione spirituale. L‟ordo amoris è dunque l‟orizzonte stesso della religione, che tiene insieme (religare) nel suo essere di verità unica ciò che originariamente unico non-è ma molteplice. In questa prospettiva inificante, Dio si trova all‟inizio e alla fine di tutte le cose, insieme terminus a quo e terminus ad quem della essenza o spirito del mondo. In questo senso, come afferma Scheler, “alla base del pensiero di un ordo amoris vi è già”, ossia come presupposto, “l‟oggetto dell‟idea di Dio (a partire dalla forma del suo essere)”.544 La perdita di questo presupposto, che è anche il fine dell‟ “anelito d‟amore” dell‟uomo, comporta lo scadimento dell‟atto spirituale dell‟amare alla dimensione profana della finitezza dell‟amore come “innamoramento”, il quale, rispetto alla sua sublimazione trascendente, è “follia”, e, rispetto alla “degnità” della sua abnegazione autentica, mondana “idolatria”.545 La perdita della dimensione metafisica dell‟amare crea un “campo vuoto”, in cui si esercita la forma pervertita dell‟amore profano, rispetto al quale “l‟unità del regno di cui abbiamo parlato sta su di un altro
543
Ivi, pag. 120. Ivi, pag. 121. 545 Ivi, pag. 122. 544
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piano”.546 Ecco quindi che, così come la con-formità al valore metafisico produce il giudizio di “ragione”, la dis-formità rispetto al modello unitario ideale genera il relativo giudizio di dis-valore, sicché la loro rispettiva determinazione etica è tutta interna al presupposto originario di valore di “verità” assunto come fondamento ontologico. Questo “come” costituisce la modalità di dislocazione del luogo ontico dell‟idea al luogo ontologico dell‟essere, e si dispiega nei termini razionalistici della logica puramente formale o del “pensato”, che ha caratterizzato il percorso di pensiero occidentale fino a Hegel. E proprio sul ripensamento della innovativa logica dialettica hegeliana si sviluppa tanto il pensiero della assoluta attualità del pensare come definitivo superamento di ogni forma di oggettivismo razionalistico prospettiva che in Giovanni Gentile trova la sua espressione filosofica più coerente e profonda -, quanto il metodo fenomenologico di Husserl, che nella fenomenologia come metodo universale ha trovato l‟altra possibile modalità di sviluppo del piano logico-gnoseologico dell‟idealismo moderno. Sia l‟indirizzo impostato sull‟idea di pensiero come processo del pensare, che l‟indirizzo impostato sull‟idea di pensiero come intuizione eidetica, risolvono il processo fenomenologico del pensiero in una sorta di “oggettività” dei dati di coscienza, contro la quale i due distinti processi erano insorti. Così, se il più maturo epilogo teoretico dell‟attualismo logico-gnoseologico è stato lo “storicismo assoluto” di Croce, che risolve l‟essere dello spirito unitario nelle sue distinte manifestazioni storiche, l‟applicazione filosoficamente più feconda del metodo fenomenologico ha approdato con Scheler a un piano ontologico-metafisico, in cui il mondo-della-vita si rivela alla esperienza intuitiva nella sue distinte modalità essenziali d‟essere delle cose. Scheler ricerca l‟unità di senso dei fenomeni nell‟esperienza vissuta (Erlebnis), anziché nella loro connessione obiettiva, che si basa sulla spiegazione (Erklaerung), per cui il “nesso motivazionale vissuto” (derelebte Motizationszusammenhang) precde il rapporto logico come criterio di validità della conoscenza: primum vivere, deinde philosophari! Questa impostazione, per così dire, rovesciata, della relazione tra dato ontologico e teoria gnoseologica ha una rilevanza meta-filosofica che attiene alla visione complessiva della società e dei suoi rapporti storici. Infatti, sostiene Scheler, la conoscenza non deve partire dal mondo 546
Ivi, pag. 123.
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storico-reale, ma, viceversa, dal “mondo di senso” (Sinnwelt) che intuisce l‟essenza del fenomeno oggetto di conoscenza. Tra le due posizioni, mondo e senso del mondo, non esiste corrispondenza, ma tensione dialettica. Come è stato giustamente osservato, in ossequio alla più consapevole coscienza ermeneutica, “solo se si è già intuita l‟essenza del fenomeno da indagare è possibile osservarlo e studiarlo”, e solocon tale procedimento “è possibile scorgere quelle differenze qualitative (essenziali), che altrimenti sfumano riducendosi a differenze puramente quantitative”.547 Senza dunque una pre-comprensione dell‟oggetto d‟analisi storica, la stessa ricerca storiografica, nella vana ricerca di una mitica oggettività, finisce per attribuirla a dati estrinseci della coscienza, quali le connessioni di tempo e luogo, che sono esse stesse relative, anziché considerare l‟orizzonte di senso entro il quale le “cose”, cioè i fatti trovano la loro significazione simbolica, e quindi soffermarsi sulle relazioni tra essi e la “verità” in cui si muove la ricerca.548 547
R. Racinaro, “Introduzione” a M. Scheler, Lo spirito del capitalismo e altri saggi, Napoli, 1988, pag. 11. 548 E‟ significativo che un raffinato teologo come J. Ratzinger abbia soggiaciuto, in occasione della sua per altro pregevole monografia su Gesù di Nazareth alla esigenza razionalistica di “presentare il Gesù dei Vangeli” come “il Gesù storico in senso vero e proprio”, intendendo nella loro coincidenza “il Gesù reale”: Gesù di Nazaret, tr. it., Milano, 2007, pag. 18. Salvo poi a doversi arrendere di fronte alla impossibilità di addivenire a una coerente corrispondenza tra fatti e narrazioni allorquando dichiara con un certo immaginabile imbarazzo che il resoconto di Matteo 27, 25 sulla partecipazione di “tutto il popolo” alla morte di Gesù “sicuramente non esprime un fatto storico” in quanto letteralmente non “avrebbe potuto essere presente in tale momento tutto il popolo”, mentre “la realtà storica appare in modo sicuramente corretto in Giovanni e in Marco”, dove l‟ ochlos è inteso come “i soli seguaci di Barabba”: Id., Gesù di Nazaret. Dall‟ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, tr. it., Città del Vaticano, 2001, pag. 209. Dovrebbe essere chiaro che nessun resoconto fattuale potrà mai soggettivamente coincidere alla totalità del fenomeno reale, per il semplice e fondamentale motivo che nessun resoconto soggettivo potrà mai cogliere altro dall‟essenza di quel fenomeno, che non coincide con la sua realtà fenomenica, ovvero le accidentalità di questa. Se l‟essenza è unica, le accidentalità sono infinite quante le prospettive dei cronisti. L‟essenza della morte di Gesù è un evento simbolico prima di essere storico, e come tale va interpretato teologicamente, e non storicamente, in quanto la sua verità appartiene all‟orizzonte di senso cristologico. Il tempo come “intuizione formale”, ossia come unificazione del molteplice dato nella rappresentazione è diverso dal tempo come “forma dell‟intuizione”, ossia anticipazione di tutti gli “adesso” come “totalità” o “unità delle estasi”, e orientamento preliminare a consentire che qualcosa si presenti allo sguardo. Nel caso
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In tal senso, la “profonda estraneazione” avvertita da molti vigorosi studiosi e artisti moderni nei confronti del sistema di vita del nostro tempo, non riguarda l‟inclinazione particolare, storicamente tramandata, di un determinato partito politico o confessionale o culturale […] e non riguarda neanche questo o quel lato singolo o gruppo di manifestazioni dell‟ordinamento della nostra vita, bensì la sua totalità [poiché] essa è rivolta contro il tipo d‟uomo, che, in un‟ultima analisi, garantisce l‟esistenza e la durata di questo ordinamento di vita.549
La prospettiva culturale è cambiata rispetto alle posizioni del romanticismo tedesco, cui mancava l‟ethos utile a ricostruire quella realtà vagheggiata del passato, fosse quella della “natura” o dell‟ “Ellade” o del “Medioevo”. Ma anche rispetto alle posizioni rivoluzionarie di un Rousseau e di un Tolstoj, i quali in fondo, predicano soltanto una morale contro l‟uomo civilizzato in sé e contro i suoi difetti tipici, i suoi vizi, le sue unilateralità [ma] non posseggono la coscienza storica di un tipo determinato, circoscritto, che ha condotto alla nascita e alla costruzione del‟ordinamento capitalistico della vita e che continua a sostenerlo. Essi non tentano neanche di spiegare questo tipo, bensì biasimano e fanno prediche moraleggianti.550
Contro l‟impostazione illuministica della cultura si oppone “l‟estraneazione del romanticismo”, ma la nuova estraneazione contesta “l‟uomo economico dei tempi nostri”, i quale, diversamente da “l‟uomo pre-capitalistico”, che era “naturale” e “come Dio l‟ha creato”, come dice Sombart, “si pone in equilibrio sulla testa, camminando sulle mani”.551 “L‟uomo che cammina sulle mani” è il borghese, le cui tracce risalgono al sec. XIII, quando esso comincia a riversare “il suo nuovo spirito anche sulle istituzioni più antiche, per es. la Chiesa cattoica”, oltre che “in tutti i di specie, entrambe le versioni apostoliche sono vere in quanto concordanti sul significato escatologico dell‟evento simbolico, che ogni osservatore descrive in conformità alla sua visuale prospettica. E‟ chiaro che fisicamente il popolo non poteva essere “tutto presente”, come nessun esercito, anche di massa, potrà mai identificarsi materialmente con la nazione per cui combatte, senza però smettere di rappresentarla. A maggior ragione la Chiesa, quale istituzione ecclesiale, non potrà mai essere se non simbolicamente rappresentativa sia del suo corpo mistico che della persona di Cristo. 549 M. Scheler, Il borghese (1914), tr. it. in Lo spirito del capitalismo e altri saggi, cit., pag. 40. 550 Ibidem. 551 Ivi, pag. 41.
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settori della scienza storica”.552 Scheler, contrariamente agli storici e agli economisti, è convinto del fatto che tutta una serie di leggi strutturali della causalità storica, che la concezione economica della storia considera valide in senso storico-universale, hanno piena validità entro i margini dell‟esseree dell‟evento storici delimitati dallo spirito capitalistico.553
E‟ la “struttura del nuovo ethos” capitalistico che va considerata in raffronto con l‟ethos di altre strutture categoriali epocali pre-capitalistiche per comprendere la sua “specificità”. [Ivi, pag. 47.] Scheler a proposito parla di “disposizioni pulsionali” legate allo “spirito” o all‟ “ethos” del tempo dominante, citando la diversa disposizione d‟animo del rapporto di comunità, improntato alla “fiducia” e alla “fede” di “tutti i membri del gruppo e in cui domina la solidarietà”, rispetto al rapporto di società, “in cui dei soggetti razionali, in concorrenza reciproca, animati da una sfiducia di principio, appianano i loro contrasti d‟interessi per mezzo di contratti”.554 La differenza filosofica di questa distinzione per Scheler “si basa già sulla datità fondamentalmente diversa dell‟essere psichico e dell‟esperienza vissuta dell‟altro”, il quale, “con la sua vita interiore, è presente e dato direttamente, nel gesto e nella manifestazione, in maniera conforme alla percezione, le sue azioni e le sue manifestazioni divengono comprese immediatamente a partire dall‟intenzione nota”. Invece, nella “società”, l‟altro “è scorto, dapprima, dall‟esterno”, come “un corpo fisico che si trasforma”, dietro il cui pensiero “vi sono sentimenti, decisioni, che vanno scoperti solo a fatica”, assunti come “forma del pensiero in generale”. Il processo di espansione della “inclinazione dell‟economia” capitalistica nel mondo moderno viene dunque configurato come quello in cui “lo „spirito della comunità‟ viene sempre più disgregato dall‟interno e dissolto dallo „spirito della società‟ ”.555 Scheler, non di meno, non chiarisce le ragioni sociali delle rispettive prospettive, assegnandole a motivazioni soggettive o spiritualmente impersonali che dominerebbero il comportamento degli attori sociali in senso coerente ai precetti etici relativi. Diversamente da Gehlen, Scheler non prende in considerazione la funzione normativizzante delle 552
Ibidem. Ivi, pag. 46. 554 Ivi, pag. 48. 555 Ivi, pagg. 48-49. 553
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istituzioni, per cui la sua analisi si risolve tutta nei fattori psicologici e morali assunti come dati di coscienza originari. Inoltre, Scheler non considera il rapporto di razionalizzazione, legato a ogni tipo di conoscenza umana, tra la volontà individuale e il senso sociale delle sue azioni, tale che queste siano conformi al modello di senso riconosciuto come valido. In questo senso omologante, l‟esperienza vissuta del soggetto comunitario viene interpretata “direttamente” come esperienza socializzata, priva di “vita interiore”. Diversamente, nel rapporto societario la rilevanza del “pensiero-che-sta-dietro” rende problematico il dato puramente formale della conoscenza, la cui esteriorità conforme alle norme sociali costituiva l‟unico dato rilevante del rapporto comunitario, che presumeva l‟identità con la volontà dell‟agente. La razionalizzazione dei rapporti sociali consiste nella prevedibilità delle azioni soggettive in rapporto a una fattispecie causale astratta valida come regola generale per i membri del gruppo. Così come l‟ente molteplice viene riconosciuto come elemento consustanziale dell‟Idea, analogamente le azioni dell‟ente sociale sono tanto più razionai in senso sociale quanto più prevedibili e conformi al modello stabilito, per cui lo spirito comunitario risolve nell‟azione sociale l‟intera volontà dell‟attore, le cui riserve mentali non hanno alcun peso e neppure considerazione morale che non sia stigmatizzante l‟eventuale difformità delle sue manifestazioni. Il rapporto di legalità-razionalità tra il modello socio-ideale e le sue manifestazioni storiche cambia i relazione all‟universo di senso proprio al rispettivo contesto sociale: ciò che era virtù sociale nel rapporto comunitario, diventa conformismo e ipocrisia morale nel rapporto societario, dove il pensiero nascosto dietro le manifestazioni formali, pur non avendo rilevanza legale, acquista una rilevanza morale. Il problema filosofico a questo punto consiste nel chiedersi “perché” acquista rilevanza morale il pensiero nascosto? La questione sociologica è “come” nasce la società. Il “perché” è legato alla rilevanza che la coscienza individuale acquista nella considerazione dei rapporti sociali a seguito della svolta teologica impressa dalla Riforma protestante alla civiltà cristiana. A partire dalla Riforma, infatti, il referente morale della salvezza non è più la Chiesa ma la coscienza del singolo credente, che stabilisce direttamente con Dio il suo rapporto, mistico e non ecclesiale. Abolita la mediazione ecclesiastica, sul piano esistenziale il soggetto coscienziale si identifica con il soggetto empirico che vive nella Storia e determinatamente in una società umana, e che deve stabilire un rapporto 259
di co-esistenza con ogni altro uomo al fine di sostituire al pregresso gruppo mistico un gruppo di soggetti morali in relazione funzionale alla loro vita comune, la quale diventa il modello sociologico di ogni relazione socializzata, avente cioè un senso sociale. Abbiamo di sopra rilevato che il senso del Mistero nasce dalla consapevolezza del Negativo, della alterità non assimilabile, e non è rapportabile a una generica ignoranza che possa essere svelata dalla ragione, cioè a un enigma. Il Mistero ha un suo orizzonte di senso entro il quale la salvezza, nella nuova prospettiva protestantica, appare una historia individuale e non più comunitaria, per cui non vale più l‟adagio per cui extra aecclesiam nulla salus Inoltre, il rapporto mistico con l‟Infinito nasce dalla consapevole inanità della coscienza individuale a stabilire una qualche conoscenza del Mistero in termini razionalmente definitori, per cui l‟esperienza di salvezza individuale, la personale historia salutis, va a coincidere, entro l‟orizzonte di coscienza mistico, con lo stesso Mysterium salutis, di cui quella esperienza diventa testimonianza storica. Alla aecclesia come luogo mistico della realtà morale, si sostituisce il rapporto personale e diretto delle singole coscienze morali con Dio, rispetto al quale la Chiesa ordinamentale diventa un succedaneo del tutto empirico e formale, e non più il contesto aprioristico e istituzionale dove ha luogo la salvezza. In tal senso, il rapporto singolare con Dio diventa misterioso anche a parte subjecti, in quanto i rapporti spirituali vengono svincolati dal rigido formalismo liturgico e sacramentale e consegnati alla libertà di coscienza soggettiva del credente, la cui responsabilità corrisponde alla libera volontà di Dio. La nuova società di individui morali diventa il luogo comunitario di compensazione sociale dell‟antica relazione ecclesiale di tipo mistico. Con la nuova modalità associativa, ciò che è di Dio torna a distinguersi da ciò che è di Cesare, e se a Dio inerisce la relazione spirituale con le personali coscienze ispirate, a Cesare compete il rapporto sociale collettivo e costruttivo dei membri politicamente conviventi. Nella prospettiva personalistica di origine protestanico, la distinzione del corpo mistico cristiano dal corpo sociale degli individui empirici, fa della Chiesa una istituzione puramente politica e della società di individui una realtà puramente economica. Ora, circa la genesi sociologica della società, essa va riferita alla progressiva incidenza pubblica dei rapporti economici privati, riconosciuti viepiù come aventi un valore politico. la pubblicizzazione 260
progressiva dei rapporti privati trasferisce la logica delle relazioni economiche nella sfera politica, le cui istituzioni decisionali assumono un valore sempre più rappresentativo dei gruppi economici, facendo dell‟attività politica una forma particolare, appunto pubblica, di bargaining, ossia di patteggiamento e composizione di configgenti interessi privati, che soppianta la forma privatistica tradizionale della filosofia, la quale agiva all‟interno di un orizzonte di senso mitico che la nuova forma privatistica economica non considera più come il proprio orizzonte etico. Se l‟ethos comunitario tradizionale tendeva a risolvere il privato nel pubblico, dando rilevo sociale al solo elemento pubblicistico, facendo assumere al conflitto politico un significato simbolico idealistico, l‟ethos del nuovo orizzonte societario, di contro, tende a risolvere il pubblico nel privato, dando rilievo sociale al solo elemento privatistico e facendo assumere al conflitto politico un‟accezione economica. Tale elemento privatistico è ancora di tipo mitico, ma non è più religioso, come quello tradizionale, bensì giuridico-legalistico, cioè istituzionale, la cui dialettica rielaborazione non è più etico-filosofica ma politicoeconomica. L‟orizzonte mitico del nuovo contesto societario è quello del Mercato, il luogo pubblico di socializzazione delle istanze private, le cui forme di mediazione razionale non sono più di tipo religioso e morale, ma istituzionale e parlamentare, dove le diatribe politiche sono finalizzate non a una legittimazione morale di istanze ideali, ma al riconoscimento pubblico e legale di informali interessi particolari. La natura stessa del contenzioso politico-economico, sviluppa modalità di relazione del tutto formali e procedurali, tendenti a eliminare ogni mediazione di tipo volontaristico-decisionale, cioè governa mentale, depositaria della quale era la Chiesa e lo Stato monarchico, rappresentativi della “volontà generale” in campo, rispettivamente, morale e politico. Il compromesso tra le parti reciprocamente riconosciute prende il posto della decisone autorevole e autoritativa, Attraverso questa modalità privatistica di trasformazione di senso dei valori socialmente rilevanti si definiscono strutturalmente le istituzioni culturali e politiche della società moderna, della quale il capitalismo costituisce l‟orizzonte ideale di socializzazione dei rapporti economici, così come in passato la Cristianità lo era dei rapporti religiosi e l‟Impero dei rapporti politici. Lo “spirito” del capitalismo è appunto l‟ethos economicistico, quale valore socialmente riconosciuto (pubblico) di relazione inter-personale. Scheler ha ragione nell‟affermare che lo “spirito” capitalistico non è prodotto dal capitalismo, ma lo ha prodotto, poiché esso originariamente 261
è una fede, un credo religioso, consistente nella convinzione che l‟unica realtà ontologica dell‟Essere sia quella del Molteplice, ossia quella profana degli enti finiti, razionalisticamente de-finiti. Questa opzione ontologica, non avendo n sé alcuna necessità metafisica di essere “vera”, è un atto di fede, una credenza di natura religiosa, posta a fondamento ontologico della relativa etica dei rapporti mondani. La critica teologica - e quindi politica, una volta posta la prima a fondamento etico dell‟azione mondana alla Chiesa coincide religiosamente con la critica filosofica alla unità ontologica dell‟Essere. in termini politici, coincide con la critica della ragion pubblica o di Stato quale criterio di valore sociale superiore alle ragioni private, e storicamente con l‟opposizione al potere sovrano divino-monarchico. La questione teologica si riassume nella domanda “chi rappresenta Cristo in terra? La Chiesa o il corpo mistico costituito dai cristiani?” La ChiesaUna o il popolo-Molteplice? Lo scontro politico Chiesa-Stato e Statocittadini, cioè il liberalismo, è una conseguenza della frattura religiosa e dell‟opzione ontologico, così come l‟organizzazione democratica della società è la coerente premessa dell‟egalitarismo spirituale. Con la risoluzione del politico nell‟economico, il processo coerente dell‟opzione ontologica interesserà lo stesso Mercato nei termini della lotta contro i monopoli economici e i gruppi industriali oligarchici privilegiati. Questa lotta contro lo spirito unitario delle strutture sociali è sostanzialmente irrazionale, in quanto la costituzione unitaria dell‟Essere opposta a quella Molteplice, non è ontologicamente eliminabile attraverso una riforma dialettica del Lògos, per cui le strutture oligarchiche, espressive dell‟esigenza unitaria, risorgeranno necessariamente dopo ogni lotta contro di esse in nome dell‟opposta istanza. Esse stesse sono molteplici all‟interno della struttura unitaria, per cui la loro unità ideale è comunque trascendente la loro realtà esistenziale. Infatti, l‟Unità è un‟esigenza dello spirito umano, cioè della stessa ragione, ma non è un prodotto naturale, non è una realtà fisica rinvenibile empiricamente. Ogni simbolo unitario dell‟Essere è un prodotto umano, della sua intelligenza razionale. Ma proprio questa esigenza propriamente umana di razionalizzare in un cosmo unitario la realtà molteplice, costituisce una realtà appunto spirituale insopprimibile dalla storia dell‟umanità, perché è tale esigenza razionale e spirituale a fare della molteplice e frastagliata esperienza dell‟umanità una Storia, la quale ha al suo centro il Lògos, lo Spirito dell‟Uomo universale, che per i cristiani è Cristo, il Verbum caro. Nel campo politico, come ha provato Michels, gli stessi partiti 262
democratici sono strutturati in forme oligarchiche, la cui realtà sociologica permane nell‟atto stesso della loro lotta politica contro le oligarchie sociali, bersaglio ideologico della loro azione. In campo religioso, la critica alla Chiesa quale struttura idealmente unitaria, non ha impedito ma anzi incrementato lo sviluppo della struttura concorrente, lo Stato, né la costituzione delle sette confessionali, ognuno simboleggiante una chiesa particolare. L‟irrazionalità dell‟opzione ontologica e della lotta politica conseguente, è quella di voler combattere con armi politiche un‟idea, o con armi ideali una forza politica, che sono di diversa natura ontologica. Per superare tale diversità, si procede all‟assimilazione del diverso attraverso un‟attività logicamente astrattiva e politicamente omologatrice, nel tentativo di portare il diverso all‟uguale. L‟egalitarismo democratico è l‟espressione ideologica del razionalismo astratto, figlio a sua volta dell‟opzione ontologica operata dalla dissoluzione teologica cristiana. Lo spirito acquisitivo dell‟ethos capitalistico non è che la razionalizzazione dei comportamenti sociali da parte dei titolari sia della fede che della sovranità, e cioè dei singoli individui personali, il cui potere d‟essere non poteva fermarsi di fronte ai beni, essendo ogni singola persona concepita come un fine in sé. Non la comunità religiosa o sociale o politica o economica, ma l‟Io è l‟unica realtà vera e riconosciuta come essere totale, immagine di Dio. Ma poiché l‟Io empirico non è l‟Essere ma un ente, averlo eletto o creduto l‟Essere è il frutto di una teoresi astratta, la stessa che ha concepito la Chiesa storica come la “perfettissima immagine di Cristo”, anzi la Sua “seconda persona”.556 Inoltre l‟Essere – vero o presunto – non è il Tutto, e averlo considerato tale è un errore metafisico rilevate ontologicamente ed esistenzialmente, perché all‟origine della violenza morale e politica. La “aspirazione acquisitiva” descritta da Scheler relativamente allo spirito pre-capitalistico e allo spirito capitalistico,557 riferisce come “progettazioni fantasiose” ovvero “pure aspirazioni” individuali che “scorrevano a lato della vita normale dell‟economia” pre-capitalistica, quanto “divenne l‟anima dominante della vita economica regolare” nella cultura capitalistca. Descrivendo così in termini psicologici il fenomeno sociologico del trasferimento di senso ontologico dall‟unità dei corpi ideali e sociali alla molteplicità dei soggetti individuali, unici titolari e 556
Le espressioni sono tratte dall‟enciclica di Pio XII, Mystici corporis, del 29 giugno 1942, DH 3806. 557 M. Scheler, Loc. cit., pag. 49.
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depositari dei valori ideali e morali. All‟unità simbolica, di tipo misticoreligioso e socio-carismatico, della tradizione ontologica unitarista, è andata modernamente sostituendosi l‟unità formale del molteplice, ottenuta astraendo le differenze essenziali degli enti concreti. Nessuna qualità specifica è infatti riconosciuta agli individui reali, siano cose o uomini, tutti considerati alla stregua di enti fisici in relazione causale, chiamata movimento o divenire, sostitutivo del processo ideale. La razionalizzazione del cosmo sociale è andata quindi intesa nei termini tutti quantitativi della matematizzazione degli enti fisici che lo compongono, tale che la sua produzione, compresa quella psichica, potesse essere conosciuta e prevista per calcolo, che è l‟operazione mentale dominante nel mondo capitalistico. Anteporre, come fa Scheler, al mondo storico-reale il mondo-di-senso, equivale a premettere all‟origine di ogni processo sociale un fondamento ontologico relativo all‟intuizione dell‟essenza dell‟Essere che presiede il criterio assiologico interno al suo orizzonte di senso, rispettivamente, unitario, molteplice o totale, corrispondente all‟opzione ontologica originaria, la quale, insieme alla definizione del suo fondamento epistemico, costituisce anche l‟ambito concettuale e morale del suo relativo opposto ideale, del non-essere, e quindi la definizione del Male. L‟idea di “spirito” (Geist) di qualche struttura sociale o di tendenza epocale, riporta a quella di movimento, cioè di attività poietica. Viceversa, il concetto di ethos riporta all‟idea di formazione istituzionale. Lo spirito informa i processi reali, mentre l‟ethos è la forza trasformatrice. Senza etica, non c‟è attività spirituale, perché il senso del movimento spirituale è indicato dall‟etica, che perciò costituisce il fine (télos) dell‟azione. Il fine dell‟azione è appunto il senso del suo movimento, il suo processo razionale. Lo “spirito acquisitivo” non è il mero impulso alla acquisizione, ma il processo legato allo scopo definito dal valore etico dell‟azione. Il valore, a sua volta, senza una forza informatrice, resterebbe un‟istanza petitoria senza efficacia. Occorre una istituzione affinché il valore (ideale) diventi realtà (sociale) spiritualizzata, prodotto etico, cioè attività razionale rispetto al fine, cioè al valore socializzato. Quando Scheler sostiene che “i valori della vita vengono preposti ai valori utilitari in ogni sfera pratica concreta […], oppure vengono per principio subordinati, come nell‟epoca del capitalismo”,558 indica che la 558
Ivi, pag. 50.
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loro effettività è legata strutture di potere sociale le quali stabiliscono performativamente il senso finale, e quindi valoriale, delle azioni umane. Queste strutture di potere non sono “motivazionali” ma istituzionali, poiché la loro efficacia presuppone le motivazioni ideali che le legittimano, ma non le prevede come essenziali alla coscienza degli attori. In questo senso presuntivo, l‟istituzione, socializzando in senso formale i comportamenti individuali, li rende razionali secondo le finalità del gruppo, operando alla stregua di una logica comunitaria. Pertanto, lo spirito comunitario, superato da quello societario, torna come realtà istituzionale, ossia come forza socializzante che unifica le azioni molteplici in conformità a un fine meta-individuale e collettivo. Rispetto alla comunità tradizionale (Gemeinschaft), il fine societario collettivo è profano e punto sacro, ossia è rivolto funzionalmente alla vita sociale, e non fa di questa una funzione della dimensione trascendente e mistico-sacrale. Lo spirito delle istituzioni sociali moderne è dunque desacralizzato, profanizzato, per cui la loro attività consiste nel trasformare il senso delle azioni umane in valori sociali profani, gli unici accreditati come “razionali” all‟interno del mondo-di-senso capitalistico. Questa “trasformazione”, assunta come il modello ideale del lavoro socializzato, ossia come la forma del processo razionale universale, costituisce lo “spirito del capitalismo”. Il quale capitalismo è dunque la forma storica dell‟universalismo cattolico di senso profano, la versione secolare del suo razionalismo religioso, la sua proiezione sociologica idealmente rovesciata. Che il capitalismo costituisca l‟esito negativo della cristianità, consistente nella affermazione dell‟universalismo cattolico desacralizzato, ossia astratto dai suoi contenuti di fede, è attestato dalla circostanza che la sua costituzione universale non riproduca l‟Imperium classico in versione cristiana, ma l‟opposto reale del suo modello ideale di governo razionale mondiale, ossia l‟anti-Impero dell‟economicismo anarchico globalizzato. Se i rapporti comunitari tradizionali erano finalizzati a confermare la priorità del sociale sull‟individuale, i rapporti societari, di contro, tendono ad affermare il valore sociale degli interessi privati, il cui riconoscimento pubblico costituisce lo scopo dell‟azione politica, che perciò rimane anch‟essa confinata alla dimensione privatistica. La privatizzazione della politica, cioè l‟affermazione dello spirito particolaristico ed economico sugli interessi generali e pubblici, costituisce la tendenza fondamentale di ogni processo di democratizzazione della società e delle istanze ideologiche dell‟individualismo liberale, ossia della tendenza epocale alla 265
neutralizzazione razionalistica dei diversi e configgenti valori tradizionali in senso della loro equivalenza formale ai fini di una riconciliazione sociale, che trasformasse l‟esclusivo principio politico della discriminazione amicus-hostis nel principio opposto di una Versoehnung di carattere economico, fondato sull‟accordo degli interessi desocializzati, cioè a una forma di conciliazione dei conflitti sociali attraverso una loro riduzione a rapporti inter-personali di puro interesse privato. Questa desocializzazione dei conflitti politici e conseguente traduzione dello stesso conflitto politico in patteggiamento economico (bargaining), rappresenta il corrispettivo concetto secolarizzato e mondano della cristiana charitas astratta dal suo orizzonte di senso sacrale. Il legame strutturale tra l‟economia – intesa come logica dell‟interesse privato – e la politica – intesa come rappresentanza degli interessi dei gruppi privati nelle sedi pubbliche – è possibile grazie alla sostanziale omogeneità delle due attività, operanti entro la stessa logica privatistica. Infatti, avendo assegnato il mondo dei valori alla sfera coscienziale privata, la sfera pubblica venne destinata alla salvaguardia dei loro interessi intesi in senso eticamente neutro, privo cioè di ogni qualità ideale, e in questo senso appunto economici, il cui criterio di razionalità (l‟accordo di bargaining) coincideva con lo stesso fine etico della società, cioè con la pace, pertanto lo scopo di una politica razionale finiva per essere quello di consentire e proteggere le neutre attività dei privati operatori economici. In questa logica economicistica, lo stesso servizio sociale, espletato tanto dalle istituzioni pubbliche che dagli organismi privati, diventa funzionale alla ratio degli scopi primari della società: l‟accrescimento della sua potenza economica. Che è l‟opposto della potenza spirituale. L‟antico principio imperiale romano, cristianamente desacralizzato, dopo aver perduto la sua originaria connotazione etica, finisce per perdere, a seguito della moderna demitizzazione razionalistica della sacralità cristiana, anche la sua connotazione politica, secondo un percorso tendenziale di riduzione progressiva di ogni rapporto sociale a rapporto privatistico, trapassando per il medium della democratizzazione della società, preludio politico delle pari opportunità di senso economico. Ed è questo finalismo universale di un cattolicesimo senza cristianesimo che Scheler chiama “spirito del capitalismo” o “spirito borghese”, che prese ad affermarsi quando “le vecchie forze [spirituali e sociali] avevano perduto la loro „morale‟ – e la nuova morale borghese le prese al suo
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servizio e le attaccò al suo carro”.559 In realtà, la perdita degli antichi valori e l‟acquisizione dei nuovi si realizza attraverso un processo di trasformazione del senso razionale delle azioni, in direzione, nel nostro caso, della sfera profana della vita mondana. Questa destinazione mondana, sempre più razionalizzata in senso produttivo di effetti economici, tende a tradurre in valori utili allo scopo produttivistico ogni finalità di tipo morale, estetico, religioso e insomma ideale, per cui l‟antica etica signorile viene tralasciata in quanto non più razionale rispetto allo scopo economico, e con essa i modelli emulativi di tipo aristocratico. Il mondo aristocratico è un cosmo di valori “dati”, mentre il mondo borghese è una realtà in costruzione, i cui valori sono edificati dall‟opera del lavoro economico, che diventa la “prova razionale” dello stato di grazia mondano, ossia del potere sociale. L‟aristocratico tende ad essere lo Stato, laddove il borghese mira a farsene uno che lo protegga. In ogni caso, ogni trasformazione degli assetti storico-culturali che stanno all‟origine di un relativo mutamento sociale inerisce la sfera dei valori fondanti il corrispettivo orizzonte di senso razionale, e quindi il rapporto religioso tra credenza ontologica e strutture formali di pensiero e istituzionali. Nel caso specifico del passaggio epocale dall‟evo medio al moderno, la razionalizzazione dei sistemi di vita ed economico- produttivi originati dall‟universalizzazione orizzontale del fondamento personalistico cristiano, è stata orientata secondo un‟etica della Giustizia retributiva, intesa a parificare la disuguaglianza sociale all‟uguaglianza delle persone spirituali attraverso la contestazione, intellettuale e politica, di un ordine cosmico gerarchizzato, fondato sulla discriminazione sociale e morale, resa evidente dalle differenze economiche tra ricchi e poveri. Il riflesso esistenziale di tali discriminazioni entro l‟ordine gerarchico tradizionale, che ha provocato la “ribellione delle masse”, è stato il rifiuto della povertà come condizione storica dei ceti popolari, anticipata dalla pretesa borghese di partecipare alla Ragione del mondo, il cui senso arcano era stato fino ad allora monopolio ermeneutico della Chiesa. L‟accettazione dell‟indigenza materiale era stata resa possibile tradizionalmente dalla compensazione ultraterrena dei limiti umani sofferti in questo mondo, ma la traduzione immanentistica dei valori escatologici in termini di possibilità infra-mondane ha infranto l‟autorevolezza dell‟ordine costituito tradizionale e scardinato conseguentemente la struttura 559
M. Scheler, Il borghese,tr. it. cit., pag. 54.
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gerarchica della società, provocando la politicizzazione dei rapporti sociali, ossia il dominio del polemos e della dialettica classica, che la teologia cristiana aveva cercato di asservire agli scopi divini del piano escatologico della Storia a partire dal monito paolino di “vagliare ogni cosa e tenere [solo] ciò che è buono”,560 con il quale si attesta l‟inserzione della logica antica nell‟orizzonte di senso cristiano. La distinzione in tipi psicologici, su cui indugia Sombart, è simbolica ma non significativa dal punto di vista storico-filosofico.561 L‟analisi psicologica dei tipi è fuorviante storicamente in quanto stabilisce un rapporto identitario tra individuo ed epoca del tutto aleatorio, in quanto riscontrabile anche in altri contesti, per cui finisce per rendere indeterminato quello che voleva determinato, avallando per tal via la tesi universalistica di quegli storici ricordati da Scheler.562 Il tipo diventa ideale quando espressivo di alcune anziché altre qualità antropologiche, rilevate a fatte valere dal contesto di senso e istituzionale che seleziona le forme socialmente significative delle azioni umane. Non è, dunque, il tipus a fare l‟epoca, ma viceversa. Gli stessi soggetti sociali, in contesti valoriali diversi, avrebbero altri profili ideali, relativi a quell‟orizzonte di valore. la tipicità, infatti, è un‟astrazione, poiché la sua definizione sociologica o psicologica è stabilita sulla base delle relazioni che il soggetto intrattiene con il suo gruppo etico di riferimento e le forme omologate di manifestazione della sua volontà. Una tipicità pre- o extrasociale non avrebbe senso razionale né possibilità storica, poiché è dalla selezione culturale che i comportamento umano si tipizza, cioè si specifica a preferenza di altri possibili comportamenti socialmente inibiti. L‟equivoco della contrapposizione tra teorici behaviouristi, fautori della condizionatezza sociale dei comportamenti umani, e teorici innatisti, negatori della coscienza come tabula rasa e fautori della predisposizione genetica dei comportamenti, sorge a seguito della preventiva assunzione del profilo antropologico unitario dell‟uomo, definito in senso naturalistico ovvero spiritualistico, e quindi da una credenza monistica dell‟Essere, in cui comprendere anche quello umano. In senso storico, il tipo ideale è in realtà un tipo sociale, dal momento che le forme culturali espressive della sua tipicità sono sempre forme socializzate. 560
Paolo, 1Ttessalonicesi, 5, 21. M. Scheler, Loc. cit., pagg. 58-60. 562 Ivi, pagg. 47-48. 561
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In senso meta-storico, il tipo ideale è invece un tipo spirituale, e cioè eterno, essendo i contenuti della sua attività caratterizzati in senso antropologicamente univoco, tale che le particolari forme espressive della sua cultura storica sono riconducibili a una essenza di tipo razionale. Da questa considerazione nasce la figura antropologica dell‟homo rationalis, che non si rinviene come tale in nessuna molteplice forma storica, ma che tutte le caratterizza in quanto costitutivo fondamentale di ogni sua possibile conoscenza. In questo senso, e cioè per la sua valenza fondativa di senso antropologico, l‟homo rationalis è un Mito, tra svalutato anche dalla cristologia, che lo ha identificato con l‟ipostasi del nuovo Adamo spirituale. La caratteristica storica della società moderna definita in senso razionalistico è che i suoi valori socialitari sono di tipo nazionale, stabiliti dalla cittadinanza, ossia da una appartenenza politica riconosciuta dallo Stato con volontà sovrana. Invece, nella struttura sociale tradizionale coesistevano molteplici contesti sociali particolari, ognuno dei quali espressivo di un tipo ideale d‟uomo che si era andato costituendo in relazione alla sua posizione morale suppostamente universale, di tipo religioso. Nella società tradizionale, pertanto, il tipo politico unitario – il francese, lo spagnolo, il prussiano, etc. – aveva come pendant una varietà di tipi sociali, spesso così diversi tra loro da non poter costituire un tipo simbolico comune. L‟unico momento idealmente coesivo era appunto quello religioso, rappresentativo del tipo spirituale meta-storico, fondativo di senso antropologico, e di cui la coesione politica è la versione secolarizzata. Infatti, l‟idealtipo politico moderno è una trasposizione razionalistica del tipo religioso tradizionale, depositario di valori (i “diritti”) elargiti dal Potere superno (lo Stato) e da lui revocabili per decreto sovrano. Alla diversità tipologica sociale infra-nazionale corrispondeva una varietà culturale che concresceva e si estingueva col tipo che ne era storicamente testimone e interprete. Diversità che perse il suo valore connotativo socioculturale allorquando l‟omologazione politica dei tipi sociali tradizionali produsse una omogeneità corrispondente tra cittadino e borghese che relegò la sfera culturale (dall‟arte alla religione) nel privato, facendole perdere ogni valore socialmente pubblico. L‟autonomia epistemologica delle diverse branche della scienza disintegrò anche l‟essere sociale, ma l‟origine di tale disintegrazione razionalistica è da rinvenire nella dottrina cristiana della distinzione della sfera religiosa dalla sfera politica, che intese sostituire all‟etica pubblica del gruppo sociale la morale privata 269
della persona individuale. Ogni tentativo teologico di riconciliare su un unico piano integrato ragione e fede, politica e religione trascendente, natura e spirito, Chiesa e Stato, è stato sempre problematico, quanto il tentativo di giustificare il Male del mondo con il disegno benigno di Dio, la Storia umana con la divina teodicea.563 L‟autonomia della cultura dalla 563
La posizione razionalistica, in occasione di gravi eventi naturali o umani, dal terremoto di Lisbona al genocidio di Auschwitz, o anche da situazioni accidentali che ledono fortemente la qualità della condizione umana, quali l‟insorgenza di malattie o le malformazioni congenite, ha motivo di ritenere l‟insostenibilità del disegno benigno di Dio e della Sua onnipotenza, teorizzata da Agostino, per il quale Dio, essendo oltre che “onnipotente” anche “supremamente buono, non permetterebbe mai che un qualsiasi male esistesse nelle sue opere, se non fosse suffcientemente potente e buono da trarre dal male stesso il bene”: Enchiridion de fide, spe et caritate, 11, 3. la tesi agostiniana viene contestata sulla base di un increscioso equivoco sulla natura spirituale, e non meccanica, della libertà umana, la quale risponde moralmente di sé proprio in quanto Dio lascia fare gli uomini, permettendo loro di agire sul fondamento del loro libero convincimento, tale in quanto autonomo e non eterodiretto. Questo concetto di libertà morale è ribadito solennemente dal Catechismo della Chiesa cattolica, dove si asserisce che “Dio non è in alcun modo, né direttamente né indirettamente, la causa del male morale. Però, rispettando la libertà della sua creatura, lo permette e, misteriosamente, sa trarne il bene” (art. 311). Gli eventi naturali non sono dipendenti dalla volontà dell‟uomo, e tra essi vanno annoverati anche gli eventi sociali, in quanto fenomeni strutturali e collettivi, legati ai processi di formalizzazione della volontà individuale, la cui razionalità viene indicato come “dovere” etico di sostenere la vita del sistema sociale di appartenenza. Entro la logica del sistema, la riserva di coscienza, di carattere morale, sussiste come alternativa alla ragione pubblica, ossia appunto come libertà privata. In caso di conflitto tra le istanze di Cesare e quelle di Dio, l‟uomo è libero di scegliere a quali dare la preferenza. Ma la natura escatologica della salvezza collettiva stabilisce che la coincidenza del naturale con lo spirituale, che costituisce il contenuto della coscienza morale personale, vedrà la sua realtà solo alla fine della Storia, durante la quale le ragioni sociali di Cesare continueranno ad avere rilievo e costituiranno il polo dialettico alla conversione (metànoia) cristiana. La libertà, dunque, coincide con la scelta del valore spirituale, che è personale e privato, rispetto al valore pubblico, che è etico e sociale. Il Cristianesimo, avanzando la pretesa della superiorità morale della dimensione spirituale, non negano con ciò il carattere naturale della convivenza sociale, ma al contrario lo ammettono per superarlo nella dimensione dello Spirito. Ogni pretesa religiosa di fondare la bontà della fede personale sulle sue implicazioni pragmatiche collettive, ossia di realizzare nella Storia l‟evento escatologico meta-storico, traduce la pretesa superbiosa dell‟uomo di sostituirsi alla Provvidenza divina, realizzando in terra la libertà collettiva dalla Storia con la rivoluzione sociale, la quale dovrebbe instaurare, per volontà umana, la realtà infinita nel finito. Il carattere meramente eticistico della religione è stato contestato dallo spiritualismo cristiano, propugnatore di una fede personale riposta in interiore homine, e non sociale. La socializzazione
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politica è di natura diversa dall‟autonomia dell‟economica dall‟etica. Infatti, mentre la cultura viene confinata alla sfera della coscienza privata, senza diventare ragione pubblica se non in quanto al servizio della politica, l‟economia diventa il fine della politica, e come fine le sue ragioni si identificano con il bene pubblico, con l‟etica del benessere sociale, senza che essa si snaturi. Al contrario, la cultura, in quanto fine in sé acquisito a seguito della emancipazione razionalistica dal cosmo religioso, entrando al servizio della politica si snatura in prodotto ideologico, in attività strumentale, in intellettualismo sofistico. Pertanto, l‟autonomia dell‟economica è stata resa possibile dal suo rapporto con la politica. solo divenendo fine politico l‟economia ha potuto rendersi autonoma dall‟etica tradizionale, diventando essa stessa valore etico, ragione pubblica e universale. Solo una eccedenza politicamente garantita poteva volgersi in logica accumulativa, in razionale attività accaparratrice. E la garanzia politica non era altro che la conformità alla ragione sociale, cioè all‟etica pubblica. In tal senso, asserire, come fa Scheler, che la “fioritura e la crescita degli affari, in quanto entità autonoma [dall‟etica]”, diventando “uno scopo autonomo” comporterebbe la completa scomparsa di “ogni riferimento al bene e al male dell‟uomo”,564 non coglie il fondamentale senso sociale di quella autonomia, fondata appunto sul rapporto finalistico con la politica, attraverso la quale l‟attività economica acquista valore di “bene”, ossia di “scopo” socialmente razionale. In questo stretto rapporto che la ragione ha con il valore sociale va compreso il fenomeno della massificazione, cioè della socializzazione dei valori ideali, coincidente con il “successo” dell‟intrapresa privata. “oggi, per lo più, ha successo […] colui che porti in se stesso, per lo più, nel suo atteggiamento spirituale, la massa”.565 “Massa”, per Scheler, è più che un termine sociologico; è la dimensione spirituale del “fanciullo”, anzi “è il fanciullo in grande”. I “quattro ideali infantili” del “gigantesco”, del “movimento rapido”, del “nouvo” e del “senso del potere”, sono per Sombart “le idee-guida del tipo economico della fede personale cristiana appartiene al disegno politico della Chiesa cattolica romana e al suo ideale di Imperium christianorum, la Cristianità, che costituisce la versione storicistica della metànoia personalistica. Questo storicismo cristiano secolarizzato è alla radice di ogni moderna filosofia della storia, che di esso rappresenta la versione razionalistica, astratta dal suo originario universo di senso teologico. 564 M. Scheler, Loc. cit., pag. 61. 565 Ivi, pag. 62.
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dominante” nell‟età capitalistica.566 Questa modalità di approccio alla realtà contemporanea sembrerebbe smentire le teorie di Huizinga circa estinzione dell‟atteggiamento ludico nell‟età ideologica presente, ma in realtà entrambe le analisi descrivono, ciascuna a suo modo, il trasferimento di senso del “gioco” dalla dimensione privata a quella socializzata e viceversa, in termini indipendenti da ogni prescrizione assiologia. Anche la modalità “infantile” dell‟approccio capitalistico alla realtà si muove nello spazio socializzato dei valori economici, le cui “regole” delimitano e qualificano strutturalmente i movimenti interni alla razionalità del “gioco”. Ciò vuol dire che, entro quello spazio razionalizzato, la tensione ludica che vi si manifesta acquista un valore esplicativo di senso comune, che assegna al “gioco” un connotato di “serietà” che esso in sé non avrebbe: il “successo” come palio di vittoria. Il “gioco” capitalistico trasferisce entro le sue regole agonistiche tutto il senso del suo movimento ludico, costituendosi come orizzonte razionale universale che assorbe in se stesso ogni altro gioco, assimilandolo alle sue astratte regole. Da qui la denuncia della scomparsa delle altre forme ludiche nel presente tempo, che in realtà vengono solo assorbite nel contenitore universale del gioco capitalistico. La caratteristica essenziale del capitalismo quale “gioco” universale, è l‟elisione dei limiti spazio-temporali entro i quali riconoscere la vigenza delle regole ludiche, e la trasformazione della stessa esperienza storicoesistenziale dell‟uomo in cimento agonistico finalizzato al “successo”. Rispetto al valore eterno della struttura cosmica, dalla quale discende la forma sociale razionalizzata della convivenza umana, il successo capitalistico rappresenta il valore assolutizzato dell‟esito favorevole del Grande Gioco della vita, esito che esprime il valore in quanto è esso stesso il valore, a prescindere dal contesto storico e dal tempo di durata. Per cui, una società informata all‟idea aristotelico-tomistica di etica, pone al centro della sua valutazione assiologia la struttura formale della convivenza umana, il cui senso razionale non è arbitrariamente accordato dalle deliberazioni dei membri sociali, ma stabilito da un rapporto di corrispondenza con l‟ordine cosmologico dato (da Dio). Viceversa, nell‟ordine capitalistico, la struttura formale della società viene valutata in considerazione del grado di compatibilità stabilito con lo svolgimento del “gioco” economico, per cui la regolamentazione sociale è fondamentalmente concorrenziale con quella del mercato, e 566
Ibidem.
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tendenzialmente dialettica rispetto all‟etica economicistica, che è fine a se stessa. Nell‟ambito di questa dimensione assiologia, rilevante non è il contesto normativo (la struttura formale del gioco) ma l‟esito del cimento agonistico, il successo ottenuto, il quale diventa il referente legittimante del comportamento ludico. L‟etica del successo economico, comunque ottenuto, rappresenta il risvolto sociale dell‟etica machiavelliana sul piano politico, e il loro punto di fusione ideale. La possibilità di costituire un ordine di valori che parte dall‟efficacia, cioè dall‟esito, anziché dal fine razionale rispetto al valore, cioè dal procedimento metodico, elimina ogni gerarchia ontologica, sostituendola col criterio agonistico della “concorrenza” tra tentativi in competizione, il cui successo ne sancisce il valore, costituito dal successo stesso. La natura tautologica il criterio del successo consiste nella sistematica eliminazione di ogni regola che si interponga metodicamente tra il fine desiderato e i mezzi per ottenerlo, per cui la ricerca del successo consiste nella rimozione di ogni esperienza non più funzionale allo scopo attuale, ossia nell‟oblio di ogni sapienza umana e della stessa cultura come memoria della civiltà. Da questo punto di vista nichilistico, il successo corrisponde a ciò che è il miracolo rispetto alle leggi di natura, cioè a un avvenimento unico, la cui eccezionalità non ripetibile contrassegna il Mito dell‟eroe moderno. Nondimeno, essendo il successo legato a una irripetibile contingenza, avente quindi un carattere assoluto, il suo Mito non può fondare l‟Essere, cioè non è affermativo di certezza metafisica, ma accresce lo spirito emulativo di conseguirlo solo per negarne l‟assolutezza, a scopo negazionista, come in un duello eliminatorio in cui la maggior bravura dello sfidante, negando la assolutezza della bravura dello sfidato, ne afferma la sua relatività, che è lo scopo del cimento. Il successo capitalistico non è dunque l‟affermazione di fede nell‟Essere, cioè la definizione di un idealtipo antropologico razionalmente strutturato attraverso una forma ideale che funga da modello di vita e di azione, ma è il racconto del come, cioè del procedimento tecnico per conseguirlo. In questo senso la sua narrazione è mitica, legata com‟è all‟avvenimenzialità eccezionale del suo contenuto di racconto, ma non verte tanto sull‟eroe, che presto lascerà la staffetta a uno più bravo, ma sulla sua tecnica, che è l‟essenza stessa del “gioco” capitalistico aperto, a regolamentazione variabile, scientificamente omologata dal “successo” finale, e non da regole pre-costituite, ossia da princìpi. Il successo è un Mito rovesciato, non, cioè, fondativo di ragione, ma razionale a posteriori, in virtù del suo 273
esito. Pertanto, mentre il Mito tradizionale aveva la funzione di assicurare l‟Essere ai suoi cardini razionali, de-finendolo, il Mito capitalistico, il “successo”, ne costituisce l‟antitesi indefinibile, il “miracolo” appunto, che lascia aperta ogni interpretazione, la cui realtà fattuale è attestata dalla machiavelliana Fortuna, immagine profana della Grazia divina. Si può a questo punto ben scorgere come il “successo”, quale versione secolarizzata del “miracolo” religioso, sia inscritta in un orizzonte di senso pervaso da un profano mistero, la cui razionale indeterminatezza o apertura rappresenta il polo antitetico di ogni forma storica di socialità, ossia di quel regno di Cesare istituzionalmente regolato contro l‟imponderabilità degli eventi imprevisti, cioè dei “miracoli”. E poiché la regolamentazione dei comportamenti socializzati è il fine di ogni assetto politico, la società politica rappresenta il polo antagonistico della comunità economica del Mercato, che costituisce la variabile aperta o liberale della struttura chiusa o costruttivamente olistica dello Stato. La dialettica del politico e dell‟economico, sulla quale il neo-empirismo ha impostato la sua tesi epistemologica liberale, si svolge tutta all‟interno della dimensione del sociale, che è la realtà dei rapporti umani astratta dalla loro dimensione etica, il cui tratto residuale è costituito dalle regole, cioè dai vincoli contrattuali provvisoriamente formali e rescindibili a libito delle parti. Vincoli che devono essere garantiti da un‟autorità giudiziale terza rispetto alle parti, cioè neutra rispetto ai loro rispettivi fini provati. Questa autorità giudicante non può essere lo Stato classico, che pretende di essere la sintesi etica dei contrapposti interessi politici delle parti private, economiche. Bisogna perciò costituire uno Stato privo di finalità etiche, agnostico, neutrale, che svolga il ruolo dell‟arbitro, e che concepisca pertanto la competizione sociale degli interessi privati nient‟altro che un “gioco”, finalizzato al solo piacere delle parti. Occorre, in altri termini, neutralizzare lo Stato, privandolo della dimensione etica della sua politica. Orbene, l‟economia interviene sullo Stato come la logica dialettica sulla fede: razionalizzando la politica, ossia distinguendo la sua tecnica formale dai suoi contenuti etici.567 Una politica priva di contenuti etici equivale a un esercizio amministrativo privo di poteri decisionali, demandati all‟accordo fra le parti, ossia. a una potestà garante delle regole sociali ma priva di sovrani poteri decisionali, anch‟essi oggetto di 567
In questo intervento razionalizzatore è consistito il “superamento” dialettico operato da Aristotile su Platone e da Marx su Hegel, i quali hanno inverato il metodo dialettico astraendolo dai suoi fondamenti ontologici.
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regolamentazione formale. Questa potestà statuale eticamente neutralizzata esprime una politica senza Governo, e quindi una politica economica. La neutralizzazione etica dello Stato, consistente nella riduzione del suo esercizio potestativo alla tutela delle regole private legalmente pubblicizzate, equivale a uno Stato economico, il cui esercizio è il governo dell‟economia. La politica economica, ovvero la bio-politica, quanto più allarga le sue maglie regolamentari in ogni direzione della vita civile, tanto più perde di potere decisionale a favore delle parti economiche più forti, le quali considerano i fini etici della politica di Governo inutili superfetazioni ideologiche, di cui liberarsi nella prospettiva razionalizzata del Mercato, che delinea il nuovo (ed unico) orizzonte di senso (negativo) della convivenza umana. L‟esautorazione dalla vita pubblica delle antiche virtù dianoetiche, conseguita con l‟emancipazione della ratio dalla fides, ha liberato lo spazio storico dell‟attività umana da ogni pre-determinazione formale di natura metafisica, riducendolo alla piena responsabilità dell‟uomo, microcosmo pensante auto-sufficiente. Entro la dimensione storicistica, la società umana appare nient‟altro che una positiva struttura giuridico-istituzionale, liberamente costituita dalle volontà dei membri ed empiricamente perfezionabile. L‟indefinita perfettibilità dell‟uomo moderno presuppone l‟assenza di ogni verità prima ed ultima e quindi un‟antropologia separata da ogni teologia. Di conseguenza la razionalità dell‟uomo aristotelico e tomistico non è la stessa dell‟uomo capitalistico, che non ricerca la via della verità ma pone solo scopi. Come ha ben detto Scheler, il “razionalismo” del tipo capitalistico ha in comune con il razionalismo etico greco di Aristotile, da cui è derivato il concetto di virtù di Tommaso […], soltanto il nome. La “razionalizzazione della vita”, che Tommaso persegue con il suo sistema di virtù e di educazione, mira in primo luogo a un ordinamento e a una armonia interna dell‟anima e delle sue forze, e questo al fine di farne un contenitore puro e chiaro per l‟accoglimento delle verità della rivelazione e di una vita soprannaturale della grazia. La ragione e la “razionalizzazione della vita” viene tenuta in alta stima proprio per far scorrere, anche nella vita mondana di tutti i giorni, la corrente delle forze della grazia e della redenzione che fluisce nelle mediazioni ecclesiastiche della grazia, e per farla lievitare grazie a questa corrente. Il Protestantesimo, successivamente, rinunzia a tale lievitazione – e, con ciò, anche alla casistica morale -, in linea di principio e, con ciò, diventa antirazionalistico. E proprio per questo esso emancipa e secolarizza la “mondanità” e l‟abbandona alle sue proprie leggi, estranee a Dio. E in tal modo nasce quella specifica “razionalizzazione” moderna della vita, che è, propriamente, soltanto
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tecnicizzazione.568
Cambia anche il senso del “gioco” della vita sociale. Modernamente, le “regole”, cioè la struttura normativa razionalizzante i comportamenti agonistici, non sono funzionali al conseguimento dell‟azione omologata, e quindi virtuosa secondo il valore, ma costituiscono disturbi e ostacoli rispetto al perseguimento di lunghe e continue serie esterne di mezzi e di scopi. Il sistema di virtù razionalistico e moderno deriva dappertutto dall‟idea di risparmio di forza nell‟uso del tempo e delle forze vitali al fine di realizzare buoni affari, e non dall‟idea del sacrificio libero, gioioso e cavalleresco, di un elemento inferiore in vista di uno superiore – indipendentemente da qualsivoglia scopo esterno. […] La virtù di Tommaso è un habitus interiore della persona; la virtù dell‟uomo capitalistico è la disposizione per certe azioni.569
Lo “habitus” è la regolamentazione interiore che prevale sull‟irruenza scomposta dei vizi,mentre la “disposizione” è l‟abilità conseguita con la pratica o con l‟allenamento finalizzato a uno scopo utile. Vincere i vizi e operare al fine utile, sono disposizioni d‟animo opposte, che pongono la formale educazione spirituale e il conseguimento dell‟obiettivo esterno come il loro rispettivo fine comportamentale, uno tendente alla virtù, l‟altro all‟utile. La virtù è una dimensione interiore che crea il distacco dai beni del mondo necessario al conseguimento della “povertà” in senso evangelico, ossia della consapevolezza della natura finita della realtà mondana. Il concetto di “liberalitas” non è quello di “liberalità”, ma neppure di “risparmio”, inteso come “ compare bene a buon prezzo, ma significa libertà interiore rispetto alla distinzione di ricco e povero e alle possibilità di godimento che vi si fondano e, conseguentemente, una disposizione tale rispetto al proprio possesso – non importante se grande o piccolo – per cui vengono evitati spreco e avidità, che, per l‟appunto, hanno l‟elemento comune dell‟amore non libero per ciò che è materiale […].570
Esclusa la mediazione formale – regolamentare ed ecclesiastica -, la giustificazione per mezzo della grazia trovò il suo luogo elettivo di conferma nelle opere sul mondo, ossia attraverso la “produzione” 568
Ivi,pagg.71-72. Ivi, pag. 72. 570 Ivi, pag. 77. 569
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(Leistung) del lavoro edificante. L‟intervento dell‟uomo sulla natura e in genere sulla realtà mondana aveva il compito implicito di spiritualizzarla infondendo ad essa il segno della grazia di cui era investito. Tale “produzione” convertiva il mondo profano in realtà sacra per mezzo della fede, facendo così del mondo, prima negletto dalla cura cristiana, “il campo d‟azione assegnato da Dio alla forza racchiusa nella fede”571 In questo modo il lavoro diventa l‟espressine secolare e fisica della fede, come valore trascendente e intimo del credente. E con la teoria della Leistung di Lutero comincia in Occidente la “grande trasformazione” del mondo, prendendo il posto della contemplazione, così come il lavoro sostituì la preghiera. In aggiunta, l‟individualità della fede si proiettava anche mondanamente coke libertà di lavoro, cioè come attività libera da regole prestabilite e comuni, religiose ma di derivazione umana, per cui la formazione etica era sì pensata come salvezza mondana, ma non ineriva la vita intima “del cuore e della coscienza” del credente. Corrispettivamente, anche “la libertà dell‟Evangelo” doveva rimanere “fuori del mondo”.572 La distinzione dualistica e l‟analogizzazione protestante delle opposizioni corpospirito, legge-Evangelo, mondo-cielo, autorità-Cristo, contiene, insieme con la rinunzia per principio a una compenetrazione organica del “mondo” per mezzo del “divino”, nonché alla santificazione e alla spritualizzazione anche della sfera corporale dell‟uomo, anche la rinunzia ulteriore a delimitare da un punto di vista etico-religioso, in qualsivoglia forma, l‟impulso acquisitivo […]. [Ma] la cosa più importante, in quanto è una delle prime pre-condizioni della nascita del nuovo spirito capitalistico, è l‟emancipazione, in linea di principio, dello spirito della vita economica in generale da qualsivoglia ispirazione di un‟autorità spirituale eticoreligiosa e da ogni direzione sacerdotale.573
In questa ricostruzione a Scheler sfugge il rapporto fede-lavoro come “spiritualizzazione” della dimensione mondana e profana del mondo, e inoltre il senso profondo della polemica anti-ecclesiastica come contestazione dell‟identità di mondo cristiano con Chiesa istituzionale. Infatti, la soggettivizzazione della fede e della grazia ha allargato il contesto mondano-spirituale dalla Chiesa-apparato al popolo di Dio, e dalla sua forma normativa stabile alla forma spontanea della chiesa vivente. 571
W. Dilthey, cit. da Scheler, Ivi, pag. 76. Lutero, Commento all‟Epistola ai Galati, cit. da Scheler, Ivi, pag. 79. 573 M. Scheler, Loc. cit., pag. 80. 572
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L‟azione di grandi personalità religiose (i santi), dal potente carisma, era tanto più eccezionale quanto più esterna alla Chiesa istituzionale. La stessa azione di Lutero si muoveva nell‟orbita monacale, cioè di un ordine periferico rispetto all‟apparato istituzionale della Chiesa ufficiale. L‟autonomizzazione dell‟azione religiosa dall‟apparto ecclesiastico allargava il concetto di Chiesa dalla forma istituzionalizzata romana alla libera determinazione del popolo di Dio come corpo mistico lato sensu. La centralità dell‟attività economica è una conseguenza della pratica religiosa come ricerca e conferma individuale della grazia. Ciò che Scheler chiama “emancipazione” dell‟economia, in origine è indipendenza della Leistung da ogni prescrizione formale della Chiesa istituzionale. Solo l‟accezione secolaristica di tecnica lavorativa ha fatto della produzione mondana spirituale una attività produttiva nel senso propriamente economico del termine, ossia un “lavoro” in senso moderno, che ha per oggetto nn più i settori controllati dall‟apparato, ma ogni attività vitale. E‟ chiaro che, liberata dal rapporto organico di una Chiesa-totalità, strutturata in analogia col controllo imperiale del cosmo religioso, ogni settore della “produzione” era un campo indipendente da ogni visione totale, e in tal senso libero da ogni controllo istituzionale e disponibile all‟intrapresa individuale. Come ha rilevato giustamente Scheler, la Riforma ha fatto emergere l‟unificazione dei poteri dell‟individualismo europeo, quale si era annunziata anche nel Rinascimento e nell‟Umanesimo, e dello spirito germanico, che ora si svincolava completamente dal concetto d‟impero romano, quale era sopravvissuto nella Chiesa; e, innanzi tutto, lo spirito della giovane borghesia, assetata di lavoro, rivolta contro la forma di vita aristocratico-contemplativa, che viveva le caratteristiche dell‟uomo, conformi all‟animo e alla volontà, come la sua “essenza” – collegato con i poteri particolaristici principeschi, rivolti contro l‟unità dell‟impero.574
Si attua pertanto un travaso dello spirito operativo che si esplicava nel culto, come lato pratico della contemplazione e della preghiera, nello spirito operativo pratico-mondano del lavoro professionale e del lavoro acquisitivo [che spingevano] verso il lavoro illimitato sulla materia, anzi sviluppava quei poteri illimitati della volontà rivolti a dar forma e ordine alla materia, i quali erano del tutto impossibili e non necessari sia nel sistema dottrinale e di vita greco, sia in quello cattolico, ove l‟uomo contemplava, sia
574
Ivi, pag. 81.
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nell‟universo sia nel cielo, innanzi tutto dei regni di sostanze intelligibili ben ordinate..575
L‟aspetto più originale del‟impostazione protestantica è che il mondo creato divenga un‟opera imperfetta da perfezionare attraverso l‟opera umana. Così che l‟opera di spiritualizzazione non ha più come campo d‟intervento l‟animo umano, ma l‟intero creato, la natura stessa opera di Dio. Paradossalmente, l‟impostazione protestante è ancora più universale di quella cattolica, perché appunto non limitata al genere umano ma all‟intero creato, compresa la materia inorganica oggetto della trasformazione del lavoro dell‟uomo. In questo senso, il mondo dal protestantesimo è concepito come profano e da sacralizzare attraverso un‟opera di universale trasformazione mistica. Perduta la finalità religiosa originaria, l‟afflato mistico si secolarizza in “spirito del capitalismo”, in etica del lavoro razionalizzato, che assume la produzione e acquisizione dei beni come fine in se stesso. Pertanto Dio, creando il mondo, ha consegnato agli uomini il compito di perfezionare la sua creazione, trasformandola in senso spirituale. Il mondo da cosmo diventa materia del lavoro umano. Se l‟identificazione di corpo mistico e Chiesa apostolica da parte cattolica ha costituito una grave deformazione teologica e pratica, l‟idea di una missione universale da parte dell‟uomo, essere finito e imperfetto, nella direzione del perfezionamento dell‟opera divina, costituisce una pretesa antropologica tanto enorme quanto pericolosa per il mondo, che a paragone ogni atto si superbia umanistica del passato diventa una inezia. L‟espressione sistematica di questa smodata hybris moderna è il capitalismo, il risvolto secolaristico e tecnocratico della Leistung protestantica. La svalutazione religiosa, soprannaturalistica, del mondo sopprime l‟amore per il mondo e l‟atteggiamento contemplativo rispetto ad esso e ne fa una pura e semplice “resistenza” per un‟energia lavorativa adesso illimitata. Un mondo in sé dotato di valore, che provoca “gioia”, lo si guarda con stupore e con ammirazione; solo il mondo svalutato può sviluppare un‟energia di lavoro illimitata! 576
L‟opera umana è resa ancora più problematica dal convincimento religioso della natura caotica degli impulsi interni, verso i quali si nutre 575 576
Ivi, pag. 82. Ivi, pag. 83.
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una fondamentale sfiducia che “doveva fare della ragione un sistema di spionaggio e di polizia contro tutte le tendenze naturali”.577 Portando all‟estremo tale sfiducia nell‟uomo naturale, la dogmatica protestante, considerandolo completamente corrotto dal peccato originario, e rigettando “la rappresentazione tomistica di una teleologia interna esistente già nella vita naturale degli impulsi, che la ragione avrebbe soltanto il compito di avviare ai fini sommi –”, individua il nuovo compito dell‟uomo, ispirato “in virtù della sua volontà nata dalla grazia”, in quello di “trasformare soltanto artificialmente il fascio dei suoi impulsi, qui considerati come completamente caotici, in qualche cosa di in generale sensato”.578 Rispetto al controllo occasionale della ragione che, secondo il tomismo, doveva intervenire dove “finiva la teleologia interna degli impulsi”, e comunque esercitando un controllo interno, “il sistema di spionaggio esterno, formato in tutti i paesi puritani, contro la lussuria, l‟ubriachezza, i vizi, il lusso di ogni genere”, esercitava una pressione psichica e non solo, del tutto inusuale nella tradizione cristiana, che testimoniava di una radicale sfiducia e pessimismo antropologici. Ma questo convincimento teologico e morale è conseguente alla nuova posizione individualistica dell‟uomo emancipato – o piuttosto sradicato – da ogni contesto socializzante ed etico, il quale uomo, assunto nella sua astratta singolarità soggettiva, diventa un‟anima senza storia e senza regole tradizionali, esposta ai soli impulsi elementari della sua natura de-spiritualizzata. In base a questa rappresentazione protestante dell‟uomo, sia la natura esterna sia la natura interna (della vita pulsionale) è un caos che va innanzi tutto ordinato per mezzo della volontà di conferma rinvigorita dalla grazia, e non un intero in sé dotato di valore, non un intero già da sé e in sé razionalmente mosso e mosso in vista di un fine. Il tecnicismo esterno della produzione nei paesi anglosassoni – quale lo ha programmaticamente inteso per primo Francesco Bacone – è nella più intima continuità spirituale con questo tecnicismo interno della regolamentazione degli impulsi.579
L‟uomo protestante , solo al mondo di fronte alla sua coscienza e a Dio e agli altri uomini, non partecipa più della natura sociale in senso classico aristotelico, e poiché la condizione sociale si identificava con la stessa natura antropologica razionale, la sua a-socialità coincideva con la sua 577
Ivi, pag. 84. Ibidem. 579 Ivi, pagg. 84-85. 578
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irrazionalità naturale, con la sua “caoticità”, che perciò andava artificialmente corretta attraverso l‟azione razionalizzatrice della morale intesa come ragione. Negata l‟autorità spirituale quale fonte legittimata a prescrivere norme di condotta pratica agli uomini attraverso lo jus canonicum, il compito spetta inevitabilmente agli uomini stessi, che in forma pattizia si vincolano reciprocamente, affidandosi a un‟autorità leviatanica. Di solito si parte dalle guerre di religione per illustrare i precedenti storico-culturali dell‟ideologia contrattualistica, segnatamente hobbesiana, ma si omette di considerare che tale guerra civile di natura religiosa è conseguente alla nuova impostazione teologica protestante, negatrice di ogni condizione di socialità storicamente vigente e religiosamente costituita dal collante della fede tradizionale. Il contrattualismo e l‟idea di Stato auto-generato dall‟istanza politica di socializzazione e razionalizzazione degli impulsi umani, nascono sul fondamento di una teologia della grazia individuale che si allontana dalla tradizionale concezione cattolica della salvezza comunitaria, confermativa della antropologia politica della tradizione greca. 5. Nella nuova prospettiva protestantica, la società non è lo sviluppo razionale della naturale socialità umana, ma una condizione artificiale, dialettica a quella individualistica naturale. la società si costituisce a partire dalla singolarità dei membri convenuti e sottoscrittori del patto sociale, e non già a partire dal dato naturale e antropologico della socialità comunitaria. Sia l‟uomo naturale pre-sociale, che l‟uomo socializzato, politico, sono materia di perfezionamento artificiale, statalistico. La critica allo statalismo avanzata dalle correnti economicistiche nate sul terreno culturale protestante, spostano il luogo della regolamentazione dalla società politica, perseguente fini comunitari e collettivi, alla società civile, perseguente fini privatistici e individuali. In realtà, la normativa artificialmente creata dall‟uomo viene concepita come dato anch‟esso naturale come l‟attività economica emancipata da ogni finalità metaindividuale. eliminato pertanto il fine politico societario, anche la società diventa una eventualità non necessaria rispetto al dato naturalistico individualistico. Dal punto di vista dell‟individuo, il mondo era una realtà aperta alla conquista della sua attività, la quale doveva negli esiti confermare le sue qualità mistiche. La conferma veniva dal lavoro, ossia dall‟attività in sé, ma il “successo” quale frutto del lavoro, era il segno sociale della sua 281
efficacia razionale. Certamente la “disposizione costante della volontà” era la condizione del successo, ma l‟acquisizione quale esito dell‟attività economica era la prova del merito personale, fatto coincidere con l‟assoluta volontà di Dio onnipotente, a prescindere da ogni valutazione umana circa la giustezza etica del merito stesso. Questa idea del merito assoluto, legato all‟assoluta sovranità di Dio, “diviene – esclusivamente negli ambiti di valori materiali, extraetici ed extrareligiosi – l‟idea finalistica che da sola governa la vita”.580 Il merito testimoniato dal successo diventa lo strumento con cui “viene narcotizzato il dubbio temibile, che agita sempre l‟anima dell‟uomo religioso, circa l‟elezione e la dannazione”,581 e insieme viene in qualche modo “confermata” la salvezza per grazia e quindi l‟elezione. Da questa coscienza elettiva, mai sicura e anzi sospesa su una “disperazione religiosa”, si origina nell‟uomo moderno “la radice e l‟inizio dell‟impeto attivistico infinito che si effonde verso l‟esterno”, così che i poteri psicologici della disperazione metafisico-religiosa, di un odio che si va accrescendo contro il mondo e contro la cultura, di una sfiducia per principio dell‟uomo nei confronti dell‟altro uomo […], che disgrega ogni comunità a favore di distinte “anime solitarie e del loro Dio” e, alla fine, risospinge tutti i vincoli umani a vincoli definiti da un contratto giuridico esterno e da un interesse utilitaristico, costituiscono le radici, poste nel Calvinismo, dello spirito capitalistico.582
Il capitalismo, secondo Scheler, “non è un sistema economico di distribuzione del possesso, bensì un sistema di vita e di cultura complessivo” nato da “un determinato tipo biopsichico di uomo” che è “il borghese”, il cui dominio etico ha sancito la legittimità del relativo sistema antropologico-culturale. Ne consegue che ogni mutamento “dell‟ordinamento della proprietà, della produzione e della distribuzione dei beni economici” possa in quanto tale determinare “una scomparsa del capitalismo”, sia per azione rivoluzionaria che per consunzione graduale.583 Infatti, come sostiene Scheler, è il “tipo d‟uomo” col suo “spirito” a fare del capitalismo un “sistema di vita”, e non già il contrario. Le stesse lotte sindacali e la pratica parlamentare possono avere successo contro il sistema capitalistico “fino a quando l‟ethos borghese anima […] le unità e i contrasti di interessi economici contro la minoranza che 580
Ivi, pag. 88. Ibidem. 582 Ivi, pag. 90. 583 Ivi, pag. 93. 581
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detiene possesso e potere”.584 Così, se i sindacati sono grandi, “essi stessi si animano completamente di spirito borghese”; se invece sono piccoli, sono di fatto “alla fine privi di incidenza”.585 Neppure lo Stato può incidere sull‟ethos borghese attraverso “una politica sociale e assistenziale sempre più estesa”,586 poiché le istanze di sicurezza sociale avanzate dai cittadini alla legislazione non coinvolgono la richiesta di “una trasformazione dell‟ethos e dello spirito [dell‟] ordinamento capitalistico, bensì soltanto quel tipo di allontanamento degli inconvenienti grossolani e degli impedimenti dal benessere delle grandi masse, che soltanto possono e devono prodursi sotto il dominio, ancora sussistente, di questo Spirito”.587 Da qui consegue che ha sostanzialmente ragione chi sostenga che ogni legislazione sociale sarebbe, in linea di principio, impotente di fronte al capitalismo e potrebbe essere considerata soltanto come un surrogato provvisorio, anzi, in un certo senso, prolungherebbe la durata della vita di quest‟ordinamento .
Occorre distinguere le lotte di classe, le tensioni politiche e le rivalità economiche, dal dominio dello “spirito” capitalistico che è comune alle diverse classi produttive. Questo spirito si manifesta come “tendenza storico-universale”, consistente nel fatto che le valutazioni delle masse, e i sistemi di valutazione degli strati inferiori più antichi del mondo europeo […] – per loro natura democraticistiche – nel corso dello sviluppo storico della loro realizzazione fattuale nell‟ordinamento capitalistico sono diventati sempre di meno le valutazioni della maggioranza di fatto di volta in volta esistenti e della “democrazia” storica, e sempre di più le valutazioni delle aristocrazie attualmente e delle loro minoranze.588
Va dunque distinto, per Scheler, la “valutazione democratica”, cioè “l‟ethos”, dalla democrazia politica e sociale reale; “valutazione aristocratica”, da aristocrazia dominante di volta in volta: sono “due generi essenziali di valutazioni” corrispondenti a “due tipi vitali di uomo”; e, parimenti, “due strati di popolo attualmente esistenti: maggioranza di fatto dominata e minoranza di fatto dominante”. Ciò che 584
Ivi, pag. 94. Ivi, pag. 95. 586 Ibidem. 587 Ivi, pag. 96. 588 Ivi, pag. 98. 585
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conta non è la forma di legittimazione socio-politica, ma il contenuto ideale di cui i gruppi socio-politici si fanno portatori. Lo “spirito capitalistico” si manifesta col “lento trionfo della morale da schiavi sulla morale da signori”, ossia col “fatto che le minoranze dominanti sono state sempre più animate dall‟ethos democratica”, la cui richiesta essenziale “non è l‟invocazione di „libertà e uguaglianza‟, che è qualcosa di soltanto superficiale, bensì l‟aspirazione verso una minoranza degna di dominare”.589 Il potere minoritario, come Mosca, Pareto e Wieser hanno evidenziato, è una costante sociologico-politica, “ma questa legge del tutto generale non dice ancora nulla circa il fatto se sia una valutazione democratica o aristocratica quella che anima questo piccolo numero”.590 Nell‟età di dominio della borghesia, la “morale da schiavi”, ovvero dei “poveri”, è diventata la morale dei ricchi di fatto e della minoranza dominante. Se questa morale democratica fosse rimasta quella del grande numero dei dominati e non fosse divenuta per l‟appunto la morale del piccolo numero dominante, mai e poi mai si potrebbe parlare di una ascesa dei sistemi di valutazione di minor valore rispetto ai sistemi di valutazione di maggior valore, ovvero di una ascesa degli schiavi in morale. E‟ di continuo e sempre un necessariamente piccolo numero di dominanti quello che decide quali sistemi di valori divengono dominanti.591
Scheler pare trascurare l‟importanza a) della legittimazione elettorale e b) della legittimazione storica delle ideologie dominanti, ma, più in generale, in realtà la sua analisi sociologica disegna una situazione in cui opera un transfert tra valori popolari e valori elitari di senso inverso a quello tradizionale alto-basso, e cioè fondato sulla socializzazione dei “valori d‟uso”, ossia dei princìpi di legittimazione del potere. in altri termini, la “formula” del potere, tradizionalmente di carattere misticoreligiosa, propria dello spirito comunitario, diventa di valore “politico”, ossia relativa al governo sociale fondato sugli equilibri di potere tra i sottogruppi che costituiscono la società; ovvero, in teoria, tra i singoli membri. La “formula politica” sposta dal criterio morale alla funzione di governo il momento decisionale relativo alla legittimazione sociale del potere, scindendo il tradizionale ruolo sociale di governo delle élites dall‟esercizio politico del potere, sicché è il potere stesso che, con la sua 589
Ivi, pagg. 98-99. Ivi, pag. 99. 591 Ivi, pag. 100.
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effettualità, si legittima, legittimando la sua “formula” di governo della società. Tale “formula” è quella derivata dalla emancipazione scientifica della politica dalla morale a seguito della rielaborazione razionalistica del Mito teologico della religione tradizionale ancora maggioritaria, per cui il nuovo livello di coscienza filosofico, sociologicamente minoritario, si costituisce, rispetto a quello storicamente dominante, come l‟esponente di una storia ideale parallela legittimato moralmente ad agisce politicamente per suo nome e in suo conto, anche contro la volontà maggioritaria. La “volontà generale” di Rousseau non è la volontà maggioritaria, ma quella moralmente conforme alla storia ideale. In questo innesto di politica e morale si consuma il cambiamento di paradigma etico-sociale operato dal razionalismo moderno, la cui demitizzazione dell‟universo di senso religioso tradizionale avviene, nel caso della funzione politica, astraendola dal ruolo sociale delle élites tradizionali, la cui storicità non viene considerata più come criterio di legittimazione morale, e sostituita con la nuova legittimità politica di potere democratico costituente, di carattere “ideale” e quindi dichiaratamente anti-storicista e antitradizionalista. In una situazione di democrazia, formale o sostanziale, la legittimazione popolare, in riferimento al sistema politico razionale, è chiamata a confermare la scelta dell‟oligarchia al potere; in riferimento all‟ideologia egalitaria è invece chiamata a confermare il suo principio antioligarchico, ossia quella distinzione tra dominati e dominanti che caratterizza ogni regime politico storico, compreso quello democratico. Sicché, con lo stesso gesto simbolico di adesione politica, il popolo riconosce nei governanti quell‟oligarchia che nega sul piano dei princìpi, per cui il sistema democratico, affermando il diritto alla rivoluzione nega la distinzione tradizionale tra dominati e dominanti sociali, negando con ciò lo stesso principio della pace sociale sul quale è fondato il governo legittimo. Questa logica contraddizione viene rimossa attraverso la fictio juris dell‟uguaglianza di status civile, ossia con la cittadinanza, la quale concentra nella appartenenza politica il criterio rilevante di legittimazione del potere di governo, che l‟insopprimibile diseguaglianza sociale non potrebbe confermare in senso storico. Da qui i primato del politico sul sociale, e la definizione di società civile come ambito razionalmente separato della informe vita tradizionale, governata da princìpi ancora mitico-religiosi. L‟azione politica diventa così l‟attività razionalizzatrice della vita sociale, analoga a ciò che il lavoro è nei confronti della informe 285
natura. Dare forma al mondo, naturale e sociale, significa metterlo a sistema, razionalizzarlo, appunto. L‟opera di razionalizzazione del mondo riflette l‟istanza propria della coscienza razionale di pervenire ad unità, ossia ad un orizzonte di senso comune entro la varia determinazione empirica del Molteplice. Tale unità di senso è indicata come ragione dell‟Essere, costitutiva dell‟Essere stesso come unità di senso appunto razionale. L‟istanza razionalizzatrice del pensiero nasce come necessità morale di unificare le distinte e varie espressioni particolari della società civile in un cosmo politico. Da qui il primato della politica su ogni altra attività sociale come strumento etico della ragione unitaria. L‟orizzonte di senso politico entro il quale la coscienza sociale (o empirica) perviene ad unità razionale (o ideale) è nell‟età moderna la democrazia, che è il sistema politico basato sull‟uguaglianza politica e che perciò realizza l‟idealità egalitaria del cosmo razionalistico. L‟uguaglianza entro la molteplicità sociale è ritenuta possibile in virtù del carattere artificiale della costruzione politica dello Stato rispetto all‟origine storica della costituzione dei singoli e vari gruppi sociali, la cui strutturale diversità era all‟origine della loro relativa distinzione politica tra classe dirigente e classi dirette. Universalizzando in senso sociale l‟astratto principio di eguaglianza politica, che diventa quindi criterio formale di giudizio, il socialismo lo estende alle stesse classi storiche, modificandone in senso storicamente retrospettivo le forme costitutive in conformità all‟uguaglianza di principio, estendendo pertanto il concetto di rivoluzione dal livello politico di governo della società al livello strutturale del sistema sociale, pretendendo di negare ogni forma reale di coscienza storico-simbolica, ritenuta mitica, a favore dell‟unico senso razionalmente ammesso, quello appunto egalitario, astratto perciò dall‟orizzonte di senso entro il quale l‟istanza razionale aveva senso dialettico. Senza più l‟opposizione storico-simbolica, l‟istanza politicoegalitaria finiva per convertirsi nel suo opposto reale, e cioè per esasperare, di contro alle premesse ideologiche democratiche, la struttura oligarchica del potere politico, divenuto l‟unico criterio razionale di legittimazione sociale del governo. Le democrazie borghesi, volendo conservare la distinzione formale tra politica razionale ed economia spontanea, concentrano il momento legittimante del potere sul solo principio egalitario di senso politico, lasciando alla società civile quella libertà di costituzione economica propria delle formazioni tradizionalmente diseguali e gerarchiche. Ma la 286
sussistenza di un piano politico elettivo della razionalità, non poteva razionalmente sostenersi se non ammettendo contestualmente la persistenza di un livello di coscienza mitico-simbolica idealmente più originario e psicologicamente più elementare rispetto a quello elettivo, in cui agivano i motivi pratici del sentimento e della vita del popolo. In questo modo la classe non-classe borghese si costituiva come autocoscienza filosofica della società, chiamata a organizzarsi politicamente per tradurre in termini razionali le loro istanze di riconoscimento sociale. In tal senso, la competizione tra i gruppi sociali politicizzati per il governo della società poteva legittimarsi attraverso la rappresentanza degli interessi economici diversi e concorrenti, nell‟unica sfera dove era possibile farli valere a titolo formalmente paritetico, quella politica, dove ogni diversità socio-economica veniva assunta allo stesso grado di rilevanza giuridica. Ma se poteva sussistere un ambito – quello giuridico in cui le diversità storiche non avevano alcuna rilevanza politica, bastava estendere lo strumento tecnico della neutralizzazione sociale per rimuovere in senso egalitario ogni ostacolo di carattere storico al principio democratico, e quindi fare del controllo della fonte normativa lo scopo della lotta politica. Per raggiungere tale obiettivo era necessario screditare culturalmente le ragioni ideali delle prerogative storiche del governo monarchico, cioè la sua legittimazione teologica, indicando nella religione lo stesso orizzonte di senso mitico oggetto della critica razionalistica. Lo screditamento culturale delle fonti teologiche del governo sociale andò di pari passo con l‟affermazione ideologica della centralità del parlamento quale unica legittima fonte di legislazione, la cui razionalità implicava la creazione di un unico sistema normativo codificato, valevole erga omnes. La rappresentanza politica degli interessi economici della società civile, neutralizza nell‟uguaglianza giuridica il carattere contraddittorio della disuguaglianza storica dei gruppi sociali, assumendoli come “partiti politici”, ossia astratti enti sociologici privi di ogni connotato storico extra-sistemico, ossia extra-politico. E proprio nella dialettica unità politica-molteplicità sociale, il sistema democratico capitalistico fonda la rappresentazione della sua realtà sistemica razionalisticamente autoreferenziale, e quindi la sua astratta logica di governo delle leggi. Nell‟éscamotage dello Stato di diritto, il regime politico razionalistico traduce le “valutazioni” popolari, ossia la concreta vita morale della società civile, in un omogeneo linguaggio di potere politico, nel cui ambito semantico la loro diversità esistenziale acquista astratto valore 287
unitario compensatorio e decisorio. Ed è in nome di tale astratto valore politico unitario, in cui si riconoscono per definizione tutte le storiche diversità sociali, che il potere politico democratico può affermare la sua legittimità di governo razionale della società pensata come Mercato. Questa trasformazione della storica molteplicità sociale in ideale unità politica, con la sua profana apocatastasi rivoluzionaria di rigenerazione storica, realizza la riconciliazione (Versoehnung), non più simbolicospirituale ma storico-sociale, della scissione (Trennung) dell‟uomo dalla sua originaria realtà comunitaria, che la religione tradizionale pensava miticamente come realtà spirituale (Dio) e non invece scientificamente come economico-sociale. Come afferma Scheler, “l‟idea di un diritto alla rivoluzione – insensata, là dove la minoranza dominante sia animata dallo spirito della nobiltà d‟animo – acquista la sua profonda legittimazione solo sotto il dominio della borghesia”.592 Lo scopo della borghesia, conformemente alla sua cultura meccanicistica e produttivistica, non è di contemplare o cogliere l‟essenza della natura, ma di “dirigerla e dominarla per scopi umani”, secondo l‟adagio di Bacone per cui “sapere è potere”. In autori come Sombart, Weber, Dilthey, Bergson, Simmel, Toennies son presenti considerazioni e “validi accenni” relativi al rapporto tra la considerazione del mondo di tipo quantificante e l‟economia monetaria e acquisitiva che dequalificava i beni facendone “merci” […], ma manca ancora completamente una più profonda fondazione di questi e di analoghi nessi osservati, la quale potrebbe essere affrontata solo attraverso la fertile connessione fra una teoria della conoscenza, approfondita, della scienza della natura meccanica e la dottrina del‟ethos dei gruppi umani (ché l‟ethos dominante dà a una scienza bensì il “fine” della ricerca, da cui dipendono, a loro volta, le sue forme di pensiero e i suoi metodi di pensiero) e la storia, propriamente concepita, del sollevarsi di questo genere di comprensione del mondo di contro al modo di pensare medievale-scolastico, che interpretava la natura come un regno stratificato di attività formali, allo stesso modo in cui interpretava la società come un regno stratificato di ceti.593
Tutti gli epigoni della Trennung moderna si presentano nelle vesti di superatori sia della metafisica che dell‟idealismo, a pro di una visione totalistica e neo-religiosa dello Spirito, a un tempo liberata dalle pastoie dell‟astratto razionalismo ma de-finita entro l‟orizzonte di senso scientificamente oggettivo, metodologicamente rassicurato contro ogni 592 593
Ivi, pag. 100. Ivi, pag. 114.
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deriva irrazionalistica, rischiata dallo storicismo, quel mondo della “fatticità” che Husserl aveva criticato come sostanzialmente naturalistico e pre-filosofico. Non a caso, “l‟impresa heideggeriana di mettere in nuova luce e valutare la storia del filosofare occidentale (ed essa sola) aveva preso le mosse da Dilthey: Sein und Zeit doveva completare l‟opera di Dilthey. Il realtà, però, la filosofia di Heidegger si è rivolta contro il senso della storicità proprio di Dilthey e ha risolto apparentemente il problema diltheyano del superamento filosofico dello storicismo radicalizzandosi, e così eliminandolo”.594 Ma la transizione dalla visione medievale del mondo alla visione moderna avviene all‟interno di un orizzonte di coscienza ancora religioso, ancorché storicistico, che contende, proprio in nome della Storia, il primato del simbolico sul razionale, nello sforzo di interpretare a parte subjecti spiritualis la realtà che le istanze oggettivistiche del razionalismo tendono viepiù a inquadrare in un sistema naturalistico in cui l‟uomo viene a perdere, col paradigma gnoseologico di tipo simbolico, anche la sua centralità ontologica. Secondo la teoria della conoscenza di Scheler, che Plessner indicherà riduttivamente come “teomorfismo”,595 La metafisica filosofica è una Weltanschauung ponente [la quale] possiede […] tre fonti di conoscenza diverse per natura: a) la Weltanschauung naturale nella sua costanza, b) l‟eidologia filosofica, che, riducendo il momento di realtà […] sviluppa, in tutti gli ambiti contenutistici, un sapere apriorico (cioè un sapere indipendente dal quantum di esperienza induttiva) di tutte le possibilità formali e materiali di esistenza; c) lo stato delle scienze. La metafisica consiste in una integrazione di queste tre forme di conoscenza del mondo.596
La sua conoscenza, infatti, che è “rivolta all‟essente assoluto”, stabilisce una corrispondenza con le “forme di esistenza degli oggetti della Weltanschauung naturale”, ma di queste “rigetta sempre ogni contenuto soltanto antropocentrico”.597 I “predicati materiali dei suoi giudizi”, che costituiscono le premesse principali dei suoi sillogismi, li ricava “esclusivamente dalla conoscenza apriorica del mondo di essenze ridotto”.598 Ma donde ricavi i “soggetti dei suoi giudizi e le premesse 594
K. Loewith, Saggi su Heidegger, tr. it. cit., pag. 52. Ved. H. Plessner, Macht und menschliche Natur (1931), tr. it. , Roma, 2006. 596 M. Scheler, Loc. cit., pag. 135. 597 Ibidem. 598 Ivi, pag. 136. 595
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secondarie dei suoi sillogismi”, Scheler risponde “dalle conoscenze di realtà della scienza positiva”, la quale Non dà più un mondo relativo all‟esistenza dell‟uomo e della sua particolare organizzazione sensibile, bensì un mondo che è traducibile nei linguaggi di tutte le sensibilità possibili, sebbene rimanga relativo all‟esistenza di un essere sensibilmente affetto in generale – un essere, che ha sensi al fine di ottenere – grazie ai loro indizi – prescrizioni per la sua possibile azione sul mondo.599
La conoscenza metafisica, dunque, “pre-suppone in egual misura la dottrina delle categorie (teoria delle forme di esistenza), l‟eidologia e la scienza”. I primi elementi della sua conoscenza “non dipendono dal quantum della esperienza”, in quanto “sono evidenti” e ottenibili “a ogni grado della esperienza induttiva”. Circa l‟elemento positivo-scientifico, il suo proprio carattere relativo e probabilistico introduce nella conoscenza metafisica una dimensione ipotetica e probabilistica che rende la metafisica, che è in sé “philosophia perennis”, “anche espressione del tempo, cioè storicamente condizionata”.600 Proprio l‟inclusione della scienza libera la conoscenza metafisica dai limiti di un contenuto meramente antropocentrico, tipico della Weltanschauung naturale, acquisendo nel suo ordine formale apriori la variabile storica del divenire, sganciato da ogni limitazione soggettivistica di carattere arbitrario o impressionistico. Nella prospettiva di Scheler, la relazione teoretica tra categorie di giudizio e i suoi soggetti non è interna alla struttura trascendentale della soggettività, ma comprende un elemento storico-empirico o mondano esterno alla coscienza eidetica apriori. Ciò comporta che la filosofia di un‟epoca non riguarda lo hegeliano “spirito del tempo”, per cui i suo contenuto viene relativizzato al periodo della sua espressione, ma soltanto “la componente scientifica di ogni filosofia è necessariamente storica”, sicché non già il suo contenuto è relativo allo “spirito del tempo” ma solo e “sempre la sua accettazione e la sua diffusione”.601 Scheler a proposito sottolinea come la ricostruzione fenomenologica di Hegel abbia identificato con lo spirito universale “le forme di movimento dello spirito puramente occidentali”, assumendo come storico il contenuto filosofico. Egli inoltre ha 599
Ibidem. Ivi, pag. 137. 601 Ivi, pag. 139. 600
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trascurato il fatto che c‟è una necessaria coesistenza di tipi di sistemi e che, primariamente, la forma di movimento della filosofia non è la dialettica logica di una corrente di pensiero, bensì molte correnti vanno di continuo l‟una accanto all‟altra ed esse hanno le loro fonti in tipi durevoli di persone del genere umano, e la loro diversità si radica non nel pensiero, bensì nel rapporto intuitivo e valutante dello 602 spirito personale con il mondo.
In altri termini, l‟oggettività del pensiero metafisico non si realizza riducendo la molteplicità degli approcci filosofici all‟unità logica della prospettiva pre-scelta, ma mantenendo aperta la possibilità di una interferenza di prospettive diverse (e pre-determinabili) a seconda del tipo di approccio che la coscienza pensante ha col mondo, che Scheler chiama “l‟organizzazione soggettiva della ragione”,603 la quale varia per tempo e cultura storica. Scheler rigetta la teoria illuministica e kantiana,604 nel convincimento che “1. non può mai esserci un sistema „chiuso‟ di Weltanschauung metafisica, e che 2. soltanto nella compenetrazione e nel completamento cosmopolitico e sovrastorico di tutte le Weltanschauungen delle cerchie culturali e delle nazioni „la‟ Weltanschauung metafisica dell‟uomo può in generale continuamente aumentare quanto ad adeguatezza (nella più acuta contrapposizione rispetto alla „scienza‟, „internazionale‟ e „progrediente‟, che, quindi, non fa che svalorizzare, relativamente, anche se stessa di continuo)”.605 La posizione di Scheler tende a dunque identificare storicità con scientificità, per cui ciò che inerisce al giudizio categoriale non è l‟evento dell‟azione soggettiva, ossia l‟atto spirituale individuale, ma il fenomeno scientificamente conosciuto. Ciò fa dipendere il giudizio dalla realtà esterna alla coscienza teoretica, cioè dal mondo. Il mondo-della-vita (Lebenswelt) non è altro, poi, che la realtà sociale, e questa consapevolezza non fa che indirizzare inevitabilmente ogni riferimento storico verso una culturalmente determinata condizione antropologica oggettiva non univoca, e in tal senso simbolicamente “aperta” a una varietà di profili ideal-tipici non necessariamente coerenti in senso razionalmente sistemico. Per i positivisti e i pragmatisti, l‟uomo non sarebbe “homo sapiens”, cioè 602
Ibidem. Ivi, pag. 138. 604 Ivi, ved. il testo relativo alla nota 112. 605 Ivi, pag. 138. 603
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detentore, unico nell‟universo, della facoltà razionale, ma “homo faber”, dedito al lavoro e alla costruzione di strumenti, per la cui opera si sarebbe sviluppata la ragione. Come afferma Scheler, Questo “uomo” non è “creato”, non ha alcun sentimento di creatura e nessuna riconoscenza verso il suo creatore; egli si è, per così dire, elaborato da sé. Ogni teoria e ogni scienza darebbe, pertanto, non una verità obiettiva, bensì solo “regole di lavoro”. Le forme di pensiero sono nate dapprima dalle forme del lavoro. 606
Per Marx, il lavoro, come si dice ne Il Manifesto, è “l‟unico creatore di ogni progresso e civiltà”, il nuovo profeta e il nuovo redentore dell‟umanità, che ha sostituito alla invocazione e alla preghiera, una attività concreta, il lavoro; alla speranza e al desiderio, l‟organizzazione sociale della produzione. “Non è un feticcio, non è un‟arca santa, non è un tabernacolo né un ostensorio, bensì la reale salvezza sensibile dell‟intero genere umano civilizzato”.607 La organizzazione viene preferita a ogni personale inclinazione, per cui la moderna “religione del lavoro” è inscritta nel novero della necessità, la quale, a seguito della “divisione e frammentazione progressiva del lavoro – soprattutto nell‟epoca delle macchine – è divenuta sempre meno un piacere”. Certo, vi sono molteplici fonti di gioia, che piacciono già nell‟attività del lavoratore stesso – prescindendo completamente dal prodotto del lavoro, dal suo valore d‟uso e di scambio […] -, ma solo le attività lavorative spirituali di carattere superiore, inoltre, quelle che – come per es. il lavoro agricolo – pretendono per sé l‟uomo intero, quindi una porzione molto piccola dell‟odierno lavoro umano, contengono in misura più elevata queste componenti di gioia, [mentre il lavoro generalmente] esige l‟umile piegarsi – da schiavi oppure da liberi – dell‟uomo di fronte alla legge obbiettiva, esige sofferenze e dura fatica. La storia della civiltà insegna come l‟uomo di natura forse dapprima estraneo rispetto al lavoro, come egli, nei tempi più antichi della storia dei popoli, vi si sia sottomesso soltanto sotto la più dura costrizione (schiavitù, servitù della gleba). Werner Sombart ha mostrato in maniera penetrante in quale misura inaudita, ancora verso la fine del XVIII secolo, grandi masse preferissero una vita da vagabondi rispetto a un lavoro ben pagato.608
La posizione dell‟uomo moderno nel mondo, inteso come artifex mundi, è dunque storicamente pro-spettica, essendo la sua costruzione razionale la 606
M. Scheler, Lavoro e “Weltanschauung” (1920), tr. it. in Op. cit., pag. 222. Ivi, pag. 223. 608 Ivi, pag. 225. 607
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misura del suo essere sociale. La stessa socialità, fuori della trasformazione in senso razionalistico della realtà, perde la sua funzionalità essenziale per diventare mera esistenzialità biologica e naturale, del tutto priva di senso teleologicamente etico. Soprattutto, rispetto alla visione cristiana del lavoro come “dovere”, assistiamo a un rovesciamento prospettico, dal momento che nell‟ottica cristiana “l‟uomo non perde l‟anima nella polvere cui conferisce forme [ma] egli acquista quest‟anima e le dà sempre più libertà e azione autonoma”.609 Col lavoro, per il suo valore ascetico, l‟uomo cristianamente si eleva e non si perde nella sua attività pratica, ma riserva alla fatica lo scopo che la trascende e ne fa un mezzo. Questa funzione strumentale si compendia nel concetto cristiano di “sacrificio”. Diversamente dalla visione naturalistica del lavoro, volta alla soddisfazione dei bisogni e al benessere materiale, la visione cristiana concepisce il lavoro umano come coadiutore nella realizzazione dei fini creaturali di Dio. Proprio in virtù del suo ruolo elettivo di “collaboratore” di Dio, l‟uomo deve sottostare alla consegna etica, che è la condizione stessa del valore morale del suo lavoro, per cui l‟uomo, n piccolo, in maniera analoga a come Dio si è sacrificato nel Cristo per gli uomini, a sua volta si sacrifichi per quel senso di missione universale dell‟intero mondo subumano, per cui egli imprima il sigillo dello spirito razionale, la forma razionale, alla creatura subumana per essa assumibile. Il dovere che ne deriva, per l‟uomo unito ai suoi fratelli, di elevare per così dire il mondo extraumano alla sua propria missione razionale, in quanto egli lo conosce correttamente, lo elabora e lo ama, è precedente e indipendente da ciò che il lavoro appresta grazie al riferimento del suo prodotto ai bisogni animali dell‟uomo […]. E‟ questo ciò che sente colui che lavora con spirito cristiano quando il mondo, la realtà […], si raccoglie fra le sue mani e assume improvvisamente, come in un lampo, la forma razionale, una struttura divenuta dotata di senso, espressiva e significativa. 610
L‟umanità, “grazie al lavoro”, è “passata dalla barbarie nelle condizioni ordinate della civilizzazione”.611 Il passaggio dalla barbarie alla civiltà coincide con il processo stesso di razionalizzazione del mondo umanizzato per mezzo del lavoro, per cui riveste caratteri non soltanto relativi alla forma di organizzazione sociale della convivenza, ma antropologici. Il profilo originariamente teologico del “nuovo Adamo” 609
Ivi, pag. 226. Ivi, pag. 227. 611 Ivi, pag. 229. 610
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redento dal peccato attraverso la conversione (metànoia) spirituale, acquista qui contenuti del tutto secolari e profani, che pongono il lavoro, e non più la preghiera, come strumento di mediazione tra l‟ideale e il prodotto. Ovviamente, il valore strumentale della “preghiera” è riposto nella sua capacità evocativa di senso (trascendente) attraverso la parola. Nella dimensione assolutamente immanentistica, la verbalità della tradizione umanistica viene a perdere il suo originario carattere taumaturgico di fronte alle possibilità tecniche delle forme razionalizzate di lavoro, per cui l‟ideologia pragmatistica reca con sé l‟inevitabile svalutazione della semantica letteraria a favore della nuova semantica tecnologica. Si fronteggiano pertanto due modelli di civiltà con le annesse antropologie: la cultura della preghiera e la cultura del lavoro. La razionalizzazione del mondo, deprivata del senso escatologico e spiritualistico cristiano, diventa la ratio immanente ai processi produttivi del moderno lavoro socializzato capitalistico. Il concetto di “nobiltà” cristiana del lavoro, che dipendeva dalla sua funzione di realizzazione della “missione” spirituale, si secolarizza in una funzione sociologicamente civilizzatrice, tale da conservare il senso messianico dell‟applicazione metodica, ma rovesciato sul piano della produzione di beni materiali, di ricchezza veniale. Tale visione del lavoro era sconosciuta alla cultura pagana, la quale concepiva l‟elemento divino “immanente al mondo dei sensi” in quanto “forma plastica” del mondo. Dal momento che all‟uomo antico (per es. Aristotile) il mondo appariva eterno, non conosceva neanche alcun Dio creatore, spirituale, celato e, proprio per questo, nessuna vera forza creatrice di forme nell‟uomo. Il “dio” di Aristotile è soltanto un “motore” eterno e il soggetto di un sapere terno. Un tale universo è per così dir pronto, compiuto; in fondo è senza storia.612
Nella prospettiva cristiana, l‟uomo trascina nella propria imperfezione anche la natura, la quale non aiuta l‟uomo a essere se stesso attraverso la sua utilizzazione, ma viene aiutato dall‟uomo attraverso la spiritualizzazione che se ne opera attraverso il suo lavoro. Non vi è chi non veda la posizione centrale che il lavoro umano riveste anche nel Cristianesimo, sia pure nella direzione opposta a quella profana del capitalismo ateistico materialistico. Solo, infatti, una natura creata in sé completa e perfetta può offrire all‟uomo un ausilio non condizionato dalla 612
Ivi, pag. 230.
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imperfezione umana. Ma se è l‟opera umana a perfezionare la natura, il lavoro – e non la preghiera – può costituire per il mondo intero la risorsa compensatrice alla imperfezione originaria. Risorsa la cui valutazione mondana deriva dal potenziale trasformativo di ognuno. Il rapporto lavoro-libertà, contro la condizione antica di schiavitù, è stato, come ricordato da Troeltsch, “condizionato dall‟ideale cristiano di persona”, ma le prescrizioni evangeliche vogliono soltanto porre nelle anime un imperativo morale, spirituale, relativo all‟inclinazione, che deve attivamente manifestarsi in maniera diversa a seconda della situazione relativa del mondo storico – di quel “mondo”, che è dell‟imperatore, non di Dio”.613
Ma proprio l‟appartenenza alla sfera mondana del lavoro, lo destina a un compito terreno che è suscettibile di dismissione di ogni finalità trascendente, e di una considerazione puramente tecnica che lo espone a diverse e opposte fruizioni finali. In tal senso, il compito mondano del lavoro perfezionativo dell‟uomo sposta la sua prestazione spirituale dalla preghiera all‟attività pratica, che diventa quella privilegiata del rapporto con Dio in quanto potenzialmente universale, e non circoscritta – come invece la preghiera ispirata – alle cerchie esclusive delle comunità oranti monacali. Il lavoro come “preghiera laica” di ogni cristiano, perde col capitalismo la sua delimitazione fideistica e diventa l‟attività di ogni uomo, religioso e non. Il lavoro come criterio di misura dello spirituale, concede al mondo lo stesso spazio riservato allo spirito, ponendo l‟uomo e la natura in uno stretto rapporto funzionale e su uno stesso piano di rilevanza provvidenziale. Successivamente, la neutralizzazione religiosa dell‟attività spiritualizzante del lavoro, fa di questo una tecnica trasformativa universale e “aperta” al contributo di ogni uomo di ogni cultura spirituale, e dà inizio allo “spirito del capitalismo” come cattolicesimo scientista, religiosamente neutro e contenutisticamente indeterminato, già preconizzato da Cusano e contrassegnato dalla svolta dottrinale di Lutero. Questi, infatti, non riconosce un particolare servizio attivo reso a Dio indipendentemente dal servizio compiuto per vocazione e dal lavoro professionale inserito nella vita mondana, e nega per principio la superiorità della vita contemplativa (monachesimo) rispetto a quella
613
Ivi, pag. 231.
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pratica. Il lavoro professionale conforme al dovere deve […] essere il migliore, anzi l‟unico “servizio reso a Dio”, che rende tutte le altre “opere” particolari, consacrate a Dio (tanto quelle interne quanto quelle esterne all‟anima), superflue.614
Questa dottrina, negando “ogni libertà e spontaneità umane in rapporto a Dio”, rende l‟uomo tanto passivo nella direzione di Dio quanto iperattivo per quanto riguarda il lavoro mondano. Conseguenze pratiche di questa dottrina [sono] i superamento di principio, che ha conseguenza di enorme peso, del potere e del controllo spirituale-religioso delle chiese sulla vita economica, sulla formazione dei prezzi, sull‟usura, etc., la cui responsabilità viene ora attribuita al potere mondano soltanto o, addirittura, viene abbandonata alla legge dei puri impulsi naturali. Accanto a questa iperattività nella professione e nello specialismo Lutero insegna una prostrazione del tutto quietistica e una donazione quasi schiavistica sotto il potere mondano. Egli diede anche un notevole contributo a dare il colpo di grazia alla nobiltà feudale e al servizio pubblico basato sull‟onore e a creare i funzionari specialisti dello Stato assoluto moderno e dei suoi principi.615
Lutero, non soltanto non previde una comunità di spirito sottostante a ogni specifica attività professionale, tale da costituire “un servizio comunitario, di genere specifico”, “basato sull‟amore”, in cui l‟anima appare “di fronte a Dio” in un ordinamento del tutto indipendente dalla professione e dal potere mondano. Lutero non vide neanche il fatto che lo Stato, in cui egli aveva tanto smisuratamente fiducia quanto aveva sfiducia nel potere ecclesiastico, poteva esso stesso, anzi non poteva non diventare di pendente dalle stesse forze dell‟istinto economico, che egli dava ad esso da regolare, secondo le leggi ecclesiastiche contenutisticamente antiche – una volta che sia abbandonato il controllo spirituale-religioso sulla vita economica.616
Calvino, poi, “ha esasperato il concetto di lavoro e di professione”, facendo della “conferma” (Bewahrung) una idealità guidata all‟acquisto illimitato dei beni, al di là di ogni bisogno e di ogni godimento, quale “segno pratico dell‟elezione, di modo che il successo economico in quanto tale appare per così dire nella gloria dei cieli”.617 In realtà, proprio in quanto mondano, il successo economico stabilisce 614
Ivi, pag. 234. Ivi, pag. 235. 616 Ivi, pag. 236. 617 Ibidem. 615
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una relazione sociale che sposta il piano della verifica dal tempo escatologico e post-storico a quello infra-storico, vedendo nel gruppo economico il riflesso temporale dell‟antico referente divino, il cui rappresentante storico non è più la Chiesa ma il Mercato, ossia una comunità elettiva di santi secolari, gli imprenditori. Il liberalismo e il razionalismo contemporanei mantengono questa unilaterale valutazione protestante del lavoro professionale rivolto al mondo e, inoltre, il rifiuto di tutti i controlli religiosi, morali ed ecclesiastici, del lavoro. Vi aggiungono soltanto ancora il rifiuto di tutti i controlli statali.618
Alla elezione per grazia, la neutralizzazione della religione sostituisce la piena sovranità dell‟uomo su se stesso, svincolata da ogni giudizio morale di tipo extra-mondano. Dio non benedice più il lavoro, ma questo trova la sua giustificazione nella realtà del suo successo. Al posto che prima aveva il rapporto elettivo con Dio, “subentra, nel liberalismo, al primo posto l‟egoismo, che dev‟essere il solo vero fuoco, che spinge la nostra volontà di lavorare”.619 La conseguenza della universalizzazione razionalistica della conversione spirituale, originariamente elettiva e quindi mediata dalla grazia, fu la perdita dell‟identità cristiana nella confluenza in una neutra religiosità dai contenuti indeterminati, così come l‟analoga universalizzazione secolaristica dell‟attività lavoratrice razionalizzata si traduce, nel contesto capitalistico, in una tendenza alla rimozione della mediazione decisionale del potere politico, la cui funzione di governo viene vista come un incongruo impedimento selettivo alla sistematica egalizzazione dell‟idealtipo antropologico economico. Caratteristica di ogni tendenza universalistica alla razionalizzazione idealistica di un modello tipologico elettivo è la svalutazione di ogni mediazione, formale come istituzionale, concepita come barriera extra-sistemica da rimuovere, criticamente sul piano teoretico, e politicamente sul piano sociale. In questo senso, il liberismo economico è il pendant sociologico anti-statalistico del razionalismo filosofico anti-metafisico, l‟uno e l‟altro negatori della Storia in nome della soggettività ideale (individuale o di gruppo). A questo punto, Scheler traccia una demarcazione rispetto alla tradizione cristiana, per cui il liberalismo, sopravvalutando “in maniera del tutto smisurata la pienezza del potere e la capacità costruttiva dell‟uomo – 618 619
Ivi, pagg. 236-237. Ivi, pag. 237.
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strappato dalla tradizione della storia, delle strutture autoritative della religione, della Chiesa e dello Stato” -, diventa una corrente di pensiero senza intrinseca ragionevolezza, né soprattutto, storica razionalità, mentre invece, proprio il suo carattere “negativo” messo in risalto dallo stesso Scheler, dovrebbe costituirlo come polo dialettico della realtà informata ai princìpi del cristianesimo, nella sua evoluzione dal cattolicesimo al protestantesimo. I caratteri suoi, propri alla sua Weltanschauung, - e cioè nominalismo, individualismo, teoria del libero scambio, associazionismo, deismo – non possono non avere derivazioni teologiche dal terreno cristiano, e segnatamente dalle dottrine del lavoro come opera di spiritualizzazione della natura. Infatti, la “religione del lavoro” trova in questo terreno di coltura le sue radici ideologiche e metafisiche. Così come il socialismo trova nel liberalismo la sua premessa teorica, a sua volta sopravvalutando la prestazione del lavoro umano […] e della forza costruttiva della ragione piuttosto nel lavoro manuale subordinato anziché nel lavoro di chi fa scoperte di carattere spirituale, nelle masse collettive e nei loro rappresentanti e […] in uno Stato pensato in maniera del tutto centralistica, anziché nella persona singola e, al posto dell‟interesse personale e individuale, pone piuttosto la somma degli interessi individuali nella forma dell‟interesse di classe. In tal modo, il principio dell‟interesse personale non è superato.620
Il vuoto spirituale in cui si muovono i maggiori movimenti politici moderni non è dato in termini di mancanza di scopi politici o economici, ma nei termini più radicali di mancanza di un orizzonte ideale entro il quale determinare un processo di sviluppo ad quem relativo a un qualche disegno teleologico. In altri termini, ciò che vien a mancare dopo la dissoluzione della metafisica cristiana, è un quadro storico assiologicamente orientato verso un fine significativo. La ricerca di senso spirituale attivato dai contributi teoretici delle varie gnoseologie storicistiche che si sono sviluppate a partire da Kant soprattutto in area germanica, è una conseguenza di quel vuoto e un tentativo di colmarlo. Sul versante storicistico più fedele al paradigma simbolico-religioso, quello generalmente romantico, la sensibilità antropologica verrà declinata secondo modalità letterarie molto diverse da quelle che prenderanno le mosse dal criticismo kantiano, tendente invece a superarlo, riconoscendogli un valore puramente archeologico. I suoi 620
Ivi, pagg. 237-238.
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stilemi letterari propendono per una rappresentazione della società moderna in cui la civilizzazione gioca un ruolo antagonistico a quello umanistico tradizionale, secondo movenze simboliche rovesciate rispetto al clichée illuministico, che contrappongono alla pienezza della vita rurale ancien régime l‟aridità sentimentale della moderna vita cittadina. Il primo a parlare di “società livellate” è stato uno dei grandi campioni di questa letteratura anti-rivoluzionaria e proto-romantica, Chateaubriand, che alle finezze dell‟osservazione sociologica unisce un superiore virtuosismo estetico, secondo quella robusta e moralmente acuta tradizione letteraria francese che sa unire incomparabilmente in un‟unica trama narrativa arte e storiografia. Egli comprese che la realtà effettuale costituisce soltanto l‟aspetto evidente della Storia, il verso “diritto”, e che esiste, nondimeno, “il rovescio degli avvenimenti”, che è “quello che la storia non mostra”,621 ma che pure ha una sua ontologica realtà, che troverà il modo a suo tempo di essere attuale secondo la sua possibilità. Voler circoscrivere l‟Essere alla sola dimensione effettuale, è una di quelle “illusioni di cui la Provvidenza circonda il Potere”, la sua arrogate esaltazione dello status quo favorevole al suo esercizio e alla sua permanenza, contro cui agisce l‟essenza della realtà dell‟Essere, la Possibilità, che per il cristiano è la Provvidenza, la quale ci “consola” della “breve durata” di quelle illusioni.622 Sulla brevità delle soluzioni machiavelliche del Potere tornerà un altro cristiano, in altro contesto storico, analogo però a quello napoleonico, che aveva visto l‟ascesa al potere di Hitler. Ci riferiamo a Maritain, che in un noto colloquio americano con R. Aron, sottolineava appunto l‟inanità dei successi totalitarii. Sulla loro reiterazione, comunque, Chateaubriand non fu veritiero profeta. Credeva infatti che Napoleone “rappresenterà l‟ultima delle grandi esistenze individuali”, e che come lui “nessuno riuscirà più a dominare nelle società infine e livellate”.623 Non fu così, come sappiamo. Chateaubriand vide in Napoleone lo spirito della Rivoluzione, che anelava a sostituire alla Storia tradizionale, la Storia politica, che per decreto il Corso rifece a sua volontà, rimodellando l‟Europa. Egli vide nell‟Imperatore l‟elemento di coagulo che “i moti d‟odio che attualmente i comunisti e i proletari manifestano contro i
621
F.R. de Chateaubriand, Mémoires d‟outre-tombe (1848-1850), Libro II, cap. 5, tr. it., Torino, 1995, pag. 921. 622 Ivi, pag. 722. 623 Ivi, pag. 995.
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ricchi”.624 Il giudizio che lo scrittore dà del politico è morale e psicologico, circoscritto alla sua figura personale, all‟individuo, sia pure a suo modo “cosmico”, senza annegarla nelle considerazioni di carattere storico-sociale e politico, secondo una visione umanistica della Storia foggiata sul modello degli uomini universali. La rievocazione degli avvenimenti storici da parte dello scrittore cristiano assume un‟angolatura personale che non traborda nell‟intimismo, ma neppure scarta l‟impressionismo dei riflessi esistenziali, sicché il resoconto che ne deriva è sempre avvolto in un‟aura di curiosa, anche se sofferta, meraviglia, che lascia parlare le cose evocate, affidandole ai sentimenti del lettore, alla sua sensibilità. Questa delega emotiva, però, non va interpretata come una desistenza morale, un segno di rassegnato agnosticismo alla fatalità, quanto, al contrario, al radicato convincimento interiore che l‟intera fenomenologia inclusiva del processo rivoluzionario, per motivi ancora imperscrutabili, lo trascenda, e che per questa ragione essenziale la resistenza personale al male epocale debba assumere una tonalità morale, prima che politica, tale da parteciparvi come parte suo malgrado coinvolta, e non geneticamente attiva. La storia politica, nel quadro della vita spirituale della antica nobiltà di provincia, vi entra, non già come la “ragione del mondo”, ma come un‟intrusa indesiderata e ingombrante, con tutto il suo lordo fardello di violenti rivolgimenti, trascinando nel suo travolgente corso impetuoso, le promiscue esistenze delle sue vittime. Ed è la stessa apparente irragionevolezza della sua calamità a suggerire alla coscienza martire un cauto atteggiamento di religiosa attesa di chiarimenti, che abbiamo auspicabilmente valore di monito catartico. La descrizioni umane, psicologiche e ideali, che Chateaubriand fa di personaggi, soprattutto femminili, non caratterizzano solo tipi morali ma stilizza figure antropologiche che ricalcano modelli familiari nei temperamenti e nei singoli stili di vita. Queste caratterizzazioni umane risultano tanto più espressive di una particolarità o di una personalità singolare, quanto più legate a una loro caratteristica tradizione culturale, non rinvenibile in una qualche generale ed uniforme educazione generazionale accomunante, ma bensì alla ricerca di perpetuazioni, affinamento e perfezionamento di tipi morali desunti ognuno dal proprio catalogo tradizionale e familiare. Ciò che rendeva vivi e non artefatti i personaggi evocati, era la loro stessa vita, concepita come una 624
Ivi, pag. 672.
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testimonianza di stile. L‟istituzione familiare, la autentica scuola di vita della nobiltà d‟antan, era forte e radicata perché depositaria di valori e modelli che, dopo la fine dell‟antico regime, divennero viepiù appannaggio e prerogativa dello Stato, il quale esonerò le vetuste tradizioni familiari dal loro compito avito di perpetuare i propri tipi umani. Con la fine del compito educativo della famiglia patriarcale, di cui Chateaubriad ci dà splendidi scorci rappresentativi in pagine di grande finezza letteraria, cominciò la crisi della stessa istituzione familiare, entro la quale si prese a concepire la procreazione come un fine, anziché come lo strumento della sua persistenza. E tutto ciò coerentemente alla generale impostazione economicistica della esistenza umana in ogni campo di vita. Definire la famiglia come il luogo della procreazione, significava attribuire a quel luogo una arbitrarietà non a lungo più giustificabile, potendo la procreazione realizzarsi in ambiti e modalità diversi da quello che sarebbe poi diventato semplicemente tradizionale. D‟altronde la Chiesa, patrocinando quella idea di famiglia, intendeva sottrarre, in concorrenza allo Stato, proprio quella funzione educativa alle famiglie, per acquisirla in monopolio e non più in delega provvisoria e sorvegliata dai suoi nobili committenti. L‟estinzione di tale committenza, e il relativo monopolio ecclesiastico dell‟istruzione, ebbe come conseguenza la progressiva omogeneizzazione educativa, parallela alla tendenza concorrente della scuola di Stato. Infatti lo Stato prese a rivendicarne il diritto in senso laico, per cui la progressiva evanescenza delle differenze sociali tradizionali si riflesse anche nel clero, costituendone conseguentemente la sua livellante omogeneizzazione. Ed è questo fenomeno omogeneizzante il vero preludio alla democratizzazione come mentalità istituzionale, facendo sentire la democrazia come un fatale e ineluttabile esito di ogni processo sociale. Contro tale livellamento sociale e tale omogeneizzazione pedagogica operava appunto l‟indipendente istituto familiare, il quale, con le sue relazioni parentali, costituiva il vero corpo intermedio della società, in sé pluralista e variegato, ma non disgregante, perché accomunato da una stessa tendenza autonomistica e autarchica. La nobiltà in essenza non consisteva che in questa attitudine a coltivare l‟autonomia famigliare, secondo norme e costumi riconosciuti dal contesto della sua stessa operosità sociale. Era dunque la famiglia il fomite della oralità socializzata, la fonte della sua vigenza e correzione, e non già lo Stato, come in seguito avvenne capovolgendo l‟autonomia morale della famiglia 301
nella tipica eteronomia della normativa pubblica. E proprio per tale originaria distinzione tra norme morali e norme legali, era possibile distinguere e salvaguardare il provato dal pubblico, riconoscendo al privato un ruolo pubblico che la confluenza di moralità e legalità poi negò. La fuga della civiltà cittadina dal consolidato equilibrio morale della vita rurale simbolizza l‟esilio stesso della ragione dai fondamenti della stessa intelligenza del mondo, dalla quella soffusa e ineffabile tradizione, alla cui edulcorata memoria attingeranno le madelaines di tutti gli scrittori romantici. La polarità simbolica della città e della campagna viene a sua vota personificata nelle opposte figure dell‟infanzia innocente e della adulta stagione in cui matura il raziocinante peccato, e pertanto i bambini del mondo, che sono fratelli di una grande famiglia, perdono i loro caratteri comuni solo con la perdita dell‟innocenza, uguale dappertutto. Allora le passioni, modificate dal clima, dal tipo di governo e dai costumi, determinano la varietà delle nazioni; il genere umano smette di 625 capirsi e di parlare la stessa lingua: la vera torre di Babele è la società.
La stessa “lingua” universale è quella del gioco, ossia dei sentimenti, non quella della ragione, cioè della “società” civile, la cui varietà smembra la razza umana nelle diverse civiltà. Chiara l‟origine rousseauiana della concezione, ma notevole qui è che la dicotomia città-campagna diventa metafora non solo culturale ma esistenziale della differenza, più volte sottolineata da Chateaubriand, tra la dimensione civile e quella agreste anche all‟interno della borghesia e della stessa nobiltà… La nostra vanità dà troppa importanza al ruolo che ci appartiene nella società. Il borghese di Parigi ride del borghese di una piccola città; il nobile che sta a corte si burla del nobile di provincia […].626
… a segno che la civiltà della classe dirigente, di nuovo come di antico regime, di per sé costituisce una dimensione separata e artificiale rispetto alla naturale e spontanea evoluzione comune del genere umano. Questo assunto, così razionalistico, contrasta con la sensibilità già romantica di chi, col Genie du Christianisme, “aveva dissepolto il medioevo e fondato
625 626
Ivi, Libro I, tr. it. cit., pag. 70. Ivi, pag. 58.
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la Storia”,627 quasi a sottolineare una temperie intellettuale caratteristica di un‟età di trapasso, che segna la psicologia dell‟Autore nelle stesse modalità stilistiche della sua testimonianza letteraria. Ma sarebbe estremamente riduttivo della sua personalità, e alquanto fuorviante disegnare sopra l‟ibrido impianto letterario delle Memorie una mappatura critica orientativa dei luoghi di coerenza intuitiva o viceversa di spuria incursione retorica, perdendo di vista l‟organicità e originalità dell‟opera. Infatti, il segnalato contrasto non è da assumere come una incongruenza stilistica o una risonanza ideologica, ma costituisce il canovaccio strutturale dell‟intero affresco narrativo allestito da Chateaubriand e il tema portante della sua concezione della vita, che porta in rilievo la soggettività, non nel senso del realismo avvenimenziale storicistico, dalla credibilità suffragata dai referti filologici, ma la soggettività come fonte della memoria, nella quale il resoconto viene avvalorato dai soli lacerti testimoniali dell‟esperienza vissuta, che coincide con la verità.628 Gli Stati Uniti dànno l‟idea di una colonia, e non di una madrepatria. Sono privi di passato, i costumi sono i prodotto delle leggi. Questi cittadini del Nuovo Mondo hanno preso posto fra i popoli nel momento in cui le idee politiche entravano in una 629 fase ascendente: ciò spiega perché si trasformino con una straordinaria rapidità ”.
In questa dimensione della memoria, l‟attualità storica non è segnata dall‟impersonale e oggettivo interesse dei suoi contenuti, ma bensì dalla risonanza sentimentale che le vicende evocate vengono ad assumere sulla coscienza rammemorante, sicché un motivo effimero può giustapporsi a uno altisonante senza perdere la sua quota di valore, dettata dalla stessa dignità che ha ogni sofferta prova esistenziale. A mediare ogni valore con ogni avvenimento è, non certo il volgare interesse, ma la coscienza dell‟uomo, che si esprime rappresentativamente nella personalità testimoniante le virtù dell‟epoca. In America,, racconta Chauteaubriand, “l‟interesse diventa vizio nazionale”,630 costitutivo della locale “aristocrazia crisogena” 631, cioè nata dalla ricchezza. 627
C. Garboli, Introduzione all‟ed. it. cit., pag. XXV. Molto significativa l‟assonanza della posizione di Ch. con la categoria esistenziale del “Singolo” di Kierkegaard, il quale, come il Francese, intese per tempo la decadenza della civiltà europea assimilandola a quella della Grecia del IV-V sec. a.C. 629 Ivi, Libro VIII, 6, tr. it. cit., pagg. 281-282. 630 Ivi, Libro VIII, 6, tr. it. cit., pag. 279. 631 Ivi, pag. 280. 628
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Il concetto di personalità è opposto a quello si individualità. Il primo infatti presuppone un‟anima collettiva, una tradizione e una cultura quale valore spirituale di una comunità ideale di cui la personalità è espressione storica concreta. La personalità è ciò che distingue l‟uomo rappresentativo di quei valori ma che non si identifica con le manifestazioni empiriche della sua figura storica. I connotati estrinseci ed individuali sono il portato di contingenti motivi sociali modificabili a opera dell‟uomo, mentre i dati della personalità sono attributi morali indipendenti da ogni qualità individuale di tipo pratico. I dati estrinseci ed empirici sono modificabili, e perciò potenzialmente comuni, supponenti una omogeneità ed uguaglianza fra gli uomini che i valori morali non possono ammettere senza snaturarsi, sicché l‟ordine gerarchico della società tradizionale non è che il riflesso spontaneo della diversa disposizione d‟animo degli uomini, irriducibile a ogni astratta pretesa egalitaria. Tale ordinamento non è la realtà cittadina, così pregna di frivolezze e di cerimoniosità estrinseche, ma è salvaguardato dalla dimensione della vita rurale, fresca e scevra di ogni distrazione mondana, dove le regole salutari della esistenza sono propizie alla concentrazione dello spirito e alla meditazione sui valori essenziali dell‟uomo. Il motivo rousseauiano della critica della civiltà appare dunque anche in Chateaubriand come stigma della socialità cittadina, così diversa e leggera rispetto alla sana e robusta tradizione rurale. Parlando dei costumi parigini, il Nostro scrive che In quel tempo [negli Ottanta del sec. XVIII] tutto era confuso nelle menti e nei costumi, sintomo di una rivoluzione prossima. I magistrati arrossivano a portare la toga e volgevano in derisione la gravità dei loro padri […]. Le mogli dei magistrati, abbandonando la veste di venerabili madri di famiglia, uscivano dai loro cupi palazzi pronte a trasformarsi in donne dalle avventure brillanti. Il prete, sul pulpito, evitava il nome di Gesù Cristo e parlava soltanto del legislatore dei cristiani, i ministri cadevano l‟uno dopo l‟altro; il potere sfuggiva di mano a tutti. Il massimo della raffinatezza era essere americano in città, inglese a corte, prussiano nell‟esercito; essere tutto eccetto che francese. Ciò che si faceva, ciò che si diceva, non era che una successione d‟incongruenze. […]632
La critica all‟ésprit de finesse non mette in dubbio l‟intelligenza e la brillante vivacità intellettuale dell‟ambiente parigino del tempo, ma la sua vuotezza e frivola incoscienza esistenziale, incapace di sollevarsi alla ponderata riflessione sulle conseguenze morali e civili dell‟agire 632
Ivi, Libro IV, 12, tr. it. cit., pagg. 150-151.
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personale e sociale. A fronte dell‟ebrezza voluttuosa dello spirito mondano della città, Chateaubriand predilige la noia creativa e la meditabonda lenitas della vita rurale. Ma i processi storici maturano col tempo, e “la trasformazione in atto da duecento anni stava per giungere a termine”, sicché La Francia, passata dalla monarchia feudale alla monarchia degli Stati Generali, dalla monarchia degli Stati Generali alla monarchia dei parlamenti, dalla monarchia dei parlamenti alla monarchia assoluta, tendeva alla monarchia rappresentativa, attraverso la lotta della magistratura contro il potere della corona. […] [E quanto stava cambiando nella struttura dello Stato, ossia tutte le riforme in atto] erano altrettante prove della rivoluzione in corso. Ma in quel momento non si vedevano i fatti nel loro insieme: ogni avvenimento sembrava fortuito e isolato. In ogni periodo storico esiste uno spirito cui tutto s‟informa. Guardando un solo punto, non si scorgono i raggi convergenti al centro da tutti gli altri punti; non si risale fino all‟agente nascosto che dà la vita e il movimento generali, come l‟acqua o il fuoco nelle macchine: questo è il motivo per cui, all‟inizio delle rivoluzioni, tanta gente crede che basterebbe rompere questa o quella ruota per impedire al torrente di scorrere o al vapore di esplodere. Il XVIII secolo, secolo di azione intellettuale, non di azione materiale, non sarebbe riuscito a cambiare così prontamente le leggi, se non avesse incontrato il tramite adatto: i parlamenti, e specialmente il parlamento di Parigi, divennero gli strumenti del sistema filosofico. Ogni opinione muore impotente o esacerbata, se non trova posto in un‟assemblea che la trasformi in potere, la munisca di una volontà, le dia lingua e braccia. E‟ e sarà sempre e soltanto attraverso organismi legali o illegali che avranno luogo le rivoluzioni.633
L‟esito istituzionalistico è in qualche misura il contrassegno formale della condensazione spirituale che cerca un suo sbocco storico. Fintanto che il magma incandescente degli eventi dilaga, non è possibile allo spettatore individuare il centro propulsivo della sua forza dirompente, per cui la sua intelligenza deve consistere nel tentativo di arginarlo in alvei funzionali al bene comune. Ed è dalla mal gestione degli strumenti istituzionali che si generano gli eventi rivoluzionari. Napoleone fu espressione di una contingenza eccezionale, che lui seppe volgere a suo vantaggio, ma che, una volta finita, ricondusse l‟uomo alle sue proporzioni reali. La sua ascesa e il suo declino sono legati indissolubilmente a quella fortuita possibilità storica, che si esaurì esaurendolo. Ma la Restaurazione non poteva far tornare i tempi che furono, segno che la Storia generale non coincide con le storie personali.
633
Ivi, Libro V, 1, tr. it. cit., pagg. 154-155.
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Siamo tornati ai tempi di Babele; ma non si lavora più a un monumento comune di confusione: ognuno costruisce la sua torre alla propria altezza, secondo la sua forza e la sua statura. Del resto, se la Carta [concessa da Luigi XVIII] parve difettosa, è perché la rivoluzione non era giunta alla fine; il principio dell‟uguaglianza e della democrazia restava in fondo agli animi e lavorava in senso contrario all‟ordine monarchico.634
Perché? Quali ne erano le ragioni di tale persistenza? Le ragioni di quella sedimentazione in fondo agli animi erano dovute alla circostanza che l‟antico regime aveva consentito il trionfo della Rivoluzione che lo soppiantò, segno che la sua condizione storica era fortemente carente di possibilità di sussistenza nel suo stato ideale. Ciò che avvenne ebbe le sue ragioni d‟essere, strettamente legate alla possibilità che esse trionfino sulle ragioni avverse che vi si opponevano, per cui il trionfo della Rivoluzione non fu storicamente necessario, come la propaganda rivoluzionaria tendeva fatalisticamente ad accreditare, ma non poteva neppure separarsi dalla debolezza dell‟antico regime. La sua persistenza era ugualmente possibile quanto la sua rimozione rivoluzionaria, ma un suo “ritorno” era ugualmente impossibile quanto la rimozione della Rivoluzione. La monarchia doveva rifarsi una sua legittimità, e questa non poteva basarsi sull‟antico ordine legittimistico, come osservò a suo tempo C. Schmitt,635 ma sull‟imprescindibile esigenza di ridare alla Francia una forma unitaria di tipo nazionale. Ma su cosa fondare tale principio unitario? La fine dell‟antico regime coincide con la fine del legame religioso dei Francesi. Concepire una “riforma politica” senza corredarla di una relativa e coerente riforma religiosa che la giustificasse, fu illusione, questa sì, rivoluzionaria, che non solo la Francia ma tutta l‟Europa della Restaurazione pagò con una cronica instabilità istituzionale, che provocò rivoluzioni locali e guerre continentali, e che, nella sostanza del problema, perdura a tutt‟oggi come “crisi della civiltà”. Pertanto, “il principio dell‟uguaglianza e della democrazia […] lavorava in senso contrario all‟ordine monarchico”, perché quel principio aveva trionfato su quell‟ordine, il quale non aveva confutato lo spirito rivoluzionario con un principio che non fosse già stato abbattuto. Avendo la filosofia – o, per meglio dire, la “ideologia” – il posto che era stato della religione, era sul 634
Ivi, Libro XXII, 21, tr. it. cit., pag. 869. C. Schmitt, Verfassunglehre (1928), tr. it., Milano, 1984, pag. 199; sullo argomento, ved. C. Marco, L‟ordine pigro. Nascita e declino dell‟Europa civile, vol. II, Lungro di Cosenza, 2012, pagg. 1001-1056. 635
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piano filosofico-religioso che andava trovata la rinnovata legittimità, altrimenti lo spirito razionale si spaiava dal sentimento politico e i fondamenti morali dalla contingenza storica. Chateaubriand parla di “nazione”, dando al termine un‟accezione nuova, che non aveva prima della repubblica e da questa mutuata. Infatti, la nazione politica era in origine quella monarchica, mentre la nazione religiosa era quella comune a tutti i Francesi. Nel momento in cui il senso politico soppiantò quello religioso, l‟unità dei Francesi stentò a riconoscersi nell‟istituzione monarchica, fondata sull‟unità religiosa come sua forma laica. Tutti i popoli hanno fissato degli anniversari per la celebrazione dei loro trionfi, delle loro sommosse, delle loro sventure, perché tutti hanno voluto allo stesso modo conservare la memoria degli uni e delle altre; […] ma non è singolare che la legge non riesca a creare giorni commemorativi mentre la religione ha perpetuato di epoca in epoca il santo più oscuro? […] In Inghilterra lo Stato riunisce la supremazia religiosa e quella politica […]. In Francia le cose vanno diversamente: solo Roma ha il diritto di comandare in materia religiosa; di conseguenza, che cos‟è mai un‟ordinanza emessa da un principe, un decreto promulgato da un‟assemblea politica, se un altro principe, un‟altra assemblea hanno diritto di annullarlo?636
Chateaubriand pare non tener conto che se “in Inghilterra lo Stato riunisce la supremazia religiosa e quella politica”, è perché ha abiurato il cattolicesimo per una riforma religiosa. La questione non verteva, evidentemente, sull‟unità o confusione di trono ed altare, ma alla sua ideale contiguità istituzionale e coerenza morale, che assegnavano alo Stato la sua funzione politica e alla Chiesa la sua libertà morale. E‟ nella condizione della loro reciproca indipendenza che la politica diventa arte machiavellica e la religione strumento di potere al servizio, della Chiesa o dello Stato. Constant definiva “nazioni civili” 637 quelle nazioni europee che lottarono contro Napoleone, le stesse che Chateaubriand chiama “spada plebea” per contrapporla alla “stirpe di spada patrizia”638 dei Borbone, rappresentante della “libertà”. Le “due nazioni”, la plebea e la patrizia, erano state divise dalla Rivoluzio- ne, destinandole ognuna al suo corso storico, sicché la “verità politica che nessuno vedeva” era che
636
Ivi, Libro XXII, 25, tr. it. cit., pag. 877. Cit. in Ivi, pag. 887. 638 Ivi, pag. 889. 637
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la dinastia legittima, estranea alla nazione [civile, resa politica dalla Rivoluzione] per ventitre anni, era rimasta ferma al giorno e al luogo in cui la rivoluzione l‟aveva colta, mentre la nazione era andata avanti nel tempo e nello spazio [e cioè, appunto, era diventata entità “politica”]. Ne conseguiva l‟impossibilità d‟intendersi e di ricongiungersi; religione, idee, interessi, linguaggio, terra e cielo, tutto era diverso per il popolo e per il re, perché non erano più allo stesso punto della strada, perché li separava un quanto di secolo equivalente a secoli interi.639
Le conseguenze logiche di tale divaricazione storica sono che il mimetismo ideologico delle astratte posizioni dialettiche creano una situazione reale ma non concreta, e perciò non durevole e tendente a convertirsi nel suo opposto astratto. Il dispotismo mette la museruola alle masse e, entro certi limiti, affranca gli individui; l‟anarchia toglie le catene alle masse e assoggetta l‟indipendenza individuale. ne consegue che il dispotismo somiglia alla libertà, quando succede all‟anarchia; resta ciò che è veramente quando prende il posto della libertà […].640
Anarchia e dispotismo sono in rapporto dialetticamente opposto, ma entrambi sono realtà astratte rispetto alla loro concreta condizione interna all‟ordine della libertà. E‟ nel momento in cui le opposte tensioni dialettiche procedono nel senso di una autonoma determinazione assoluta che la loro affermazione storica crea i presupposti di una reciproca conversione nel rispettivo contrario. La libertà, dunque, consiste nella tensione dialettica tra le due tendenze della privata libertà d‟azione morale e della pubblica coercizione legale. Se ognuna di queste tendesse a negare l‟altra al fine di affermarsi assolutamente, allora l‟equilibrio infranto della concreta libertà assumerebbe un movimento precario e ambiguamente sospeso nella incessante contraddizione tra i due astratti opposti reali, la cui contingente attualità non rappresenterebbe, in virtù della sua evidenza fenomenica, la verità della sua concreta realtà storica, ma soltanto il verso “diritto” di un inattuale, ma non perciò meno reale, “rovescio degli avvenimenti”. Determinato come “libertà” il senso morale della concretezza eticopolitica della vita sociale, trattare della Rivoluzione implica il presupposto ideale della libertà, ossia come il suo valore venga declinato storicamente a seconda del livello di coscienza della cultura del tempo. Nella Prefazione all‟edizione delle Opere Complete Chateaubriand scrive 639 640
Ivi, Libro XXIII, 3, tr. it. cit., pagg. 893-894. Ivi, Libro XXIII, 12, tr. it. cit., pag. 922.
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a proposito del suo Saggio sulle rivoluzioni, che egli tentò di “dimostrare che, nello stato dei costumi del secolo, la repubblica era impossibile”, ma che poi aveva cambiato la sua “convinzione”. Ho sempre ragionato nel Saggio secondo il sistema della libertà repubblicana degli antichi, della libertà figlia dei costumi; non avevo riflettuto a sufficienza su quell‟altra specie di libertà, prodotta dai lumi e dalla civiltà perfezionata: la scoperta della repubblica rappresentativa ha mutato tutta la questione. Presso gli antichi lo spirito umano era nell‟infanzia, benché l‟uomo fosse già piegato dal tempo. E‟ per non aver fatto tale distinzione che si sono voluti giudicare, a sproposito, i popoli moderni in base ai popoli antichi, si sono confuse due società essenzialmente differenti, si è ragionato in un ordine di cose affatto nuovo, in base a verità storiche che non erano più applicabili. La monarchia rappresentativa è mille volte preferibile alla repubblica rappresentativa; ne ha tutti i vantaggi senza averne gli inconvenienti; ma se fossimo tanto insensati da credere che si possa rovesciare questa monarchia e tornare alla monarchia assoluta, cadremmo nella repubblica rappresentativa, quale che sia lo stato attuale dei costumi.641
Il concetto moderno di libertà è dunque maturate in un clima morale del tutto diverso da quello del passato, per cui i costumi aviti, venerati in passato, troverebbero difficoltà ad applicarsi nel nuovo corso storico. Se infatti ci ostinassimo a credere possibile il restauro del passato, ripristinandone i costumi superati, il regime che ne sortirebbe sarebbe ben diverso da quella monarchia assoluta delle intenzioni, e si cadrebbe per reazione oggettivamente nella repubblica rappresentativa. Viene qui ribadito il concetto della inconsistenza storica di tendenze superate dalla coscienza comune, che progredisce in ordine alla possibilità di sviluppare il suo fondamentale principio di realtà, che, nella cultura europea, è quello affermatosi col Cristianesimo. Questo infatti, “con la sua morale tende a liberarci dalle passioni”, così come “con la sua politica ha abolito la schiavitù”, per cui dal suo insegnamento morale e fattuale la coscienza cristiana trae il convincimento che quella cristiana sia “una religione di libertà”,642 la quale nondimeno va interpretata appunto secondo lo spirito dei tempi, e non secondo la mera sottomissione all‟autorità ecclesiastica, anch‟essa responsabile di fronte alla coscienza, cui deve giustificare la sua autorità morale.
641
F.R. de Chateaubriand, Essai historique, politique et moral sur les révolutions anciennes et modernes, considérées dans leurs rapports avec la Révolution Française (1797 e 1826), tr. it., Milano, 2006, pag. 32. 642 Ivi, pag. 36.
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Conformarsi in tutto allo spirito di elevazione e di dolcezza del Vangelo, procedere al passo con i tempi, sostenere la libertà con l‟autorità della religione, predicare l‟obbedienza alla Carta così come la sottomissione al Re, far ascoltare dall‟alto della cattedra parole di compassione per coloro che soffrono, quali che siano il loro paese e il loro culto, riscaldare la fede con l‟ardore della carità, ecco che cosa a parer mio poteva restituire al clero la legittima potenza che esso deve ottenere: per la strada opposta, la sua rovina è certa. La società può reggersi solo appoggiandosi sull‟altare, ma gli ornamenti dell‟altare devono cambiare secondo i secoli ed in ragione dei progressi dello spirito umano. Se il santuario della divinità è bello all‟ombra, è ancor più bello alla luce: la croce è lo stendardo della civiltà.643
“Liberare dalle passioni”, significa confidare nella ragione, e “abolire la schiavitù” equivale a perorare la causa dell‟uguaglianza morale degli uomini. Razionalismo ed egalitarismo sono dunque i due aspetti costituivi del Cristianesimo ridotto a dottrina morale e a “stendardo della civiltà”. Su questo presupposto fondamentale, le stesse divisioni confessionali non sono espressive di direzioni ideali sostanzialmente difformi dalla comune matrice liberale cristiana, per cui Chateaubriand contesta la tesi di Montesquieu e della de Stael sul rapporto tra repubblica e Protestantesimo e fra questo e la monarchia costituzionale. Ma il rapporto esiste, poiché il Protestantesimo è il Cristianesimo così come lo vede lo scrittore, ma senza la Chiesa istituzionale. Il Cristianesimo non è la Chiesa, e ciò che costituisce gli “ornamenti del‟altare” è esattamente la struttura istituzionale della Chiesa come forma di potere secolare, che il Protestantesimo ha contestato e di cui si è liberato.Chateaubriand, fedele alla Chiesa, ne auspica la “riforma”, anziché l‟abolizione, ed in ciò egli resta cattolico, senza però soggiacere al confessionalismo. Allo stesso modo egli auspica la riforma della monarchia, da assoluta a costituzionale, senza che la sua critica anti-assolutistica lo conduca a preferire la repubblica. In questo senso il suo “riformismo” è alternativo sia allo spirito rivoluzionario, che tende all‟abolizione del sistema, rispettivamente ecclesiastico e politico, alla Rousseau, e sia allo spirito passatistico di un conservatorismo sentimentale e nostalgico, alla de Bonald e alla de Maistre. Il suo è un conservatorismo riformatore, storicisticamente liberale, come quello di un Montesquieu e un Guizot, ma fortemente radicato nella tradizione cristiana e cattolica, senza indulgere alle derive populistiche alla Lamennais. Chateaubriand rappresenta dunque quella sintesi tra umanesimo letterario, finezza 643
Ibidem.
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sociologica e spirito religioso che assomma in sé la coscienza religiosa di un Pascal, quella letteraria di un Constant e quella storica di un Tocqueville, tanto che la sua composita ma coerente figura di intellettuale e di politica ne fanno la vera alternativa culturale a quella rappresentata da Rousseau. Egli auspica la riforma della Chiesa in nome del Cristianesimo più autentico, e della monarchia in nome degli stessi princìpi cristiani. Nello stesso tempo, egli non nega il suo convincimento che “la società può reggersi solo appoggiandosi sull‟altare”, intendendo per questo i valori essenziali del Cristianesimo, e non già l‟assolutismo teologico-politico ecclesiastico. “Riforma cattolica” significa dunque nel suo pensiero distinzione (e non già, come per i Protestanti, separazione) tra Chiesa istituzionale e chiesa profetica; tra potere secolare ecclesiastico e corpo mistico cristiano. Poiché è la Chiesa a doversi adattare ai tempi, essa deve essere espressione dello spirito cristiano che si manifesta nel popolo dei fedeli, stando al suo servizio, e non porsi come il fine dell‟azione mondana dei cristiani. La Chiesa istituzionale come strumento del Cristianesimo è l‟opposto della Chiesa come fine cristiano, ossia come il fine della cristianità. Senza la Chiesa, lo strumento secolare passa inevitabilmente alla politica statuale, come è avvenuto nelle comunità protestanti; ma lo stesso esito è inevitabile nei paesi cattolici, se la Chiesa persiste a considerarsi come un fine secolare anziché uno strumento storico della fede escatologica, inducendo i fedeli a vedere nello Stato lo strumento pro o contra il Cristianesimo. E‟ l‟impegno per i valori cristiani ciò che Chateaubriand chiama “carità”, la cui prassi è l‟opposto della politica ecclesiale di salvaguardia degli interessi mondani della Chiesa istituzionale. Il Protestantesimo non poteva che protestare che contro la Chiesa apparato, in nome della ecclesia dei fedeli, e non certo verso i principi cristiani. La sua “rivoluzione” consistette appunto nella separazione della fede dalla istituzione burocratica, che non ammetteva nessuna riforma del suo apparto potestativo. Ma ciò che avvenne al tempo come scisma di popoli e nazioni, avviene entro il cattolicesimo come scisma di singole coscienze individuali, le quali, non riconoscendosi nella Chiesa storica, non hanno altra scelta di piegare la loro coscienza al potere ecclesiastico se non quella di rifiutarlo di fatto operando una riforma di fatto, che, moltiplicata per milioni di casi personali, conduce infine dall‟anti-clericalismo alla secolarizzazione, ossia aquello che Maritain chiamava “l‟ateismo pratico”, che salvaguardia formalmente il potere confessionale, ma solo in 311
termini di influenza mondana, suscitatore di spirito formalistico e sostanzialmente anti-religioso, opportunisticamente cinico e conformistico. Insomma, è l‟ostinazione mondana della Chiesa come potere secolare al servizio di se stesso e concorrente a quello dello Stato a ingenerare la mentalità machiavellica. Il machiavellismo è la morale del cattolicesimo inteso come potere della Chiesa, il cui modello arbitrario e assolutistico viene trasferito allo Stato secolare. Il machiavellismo è l‟etica ecclesiastica secolarizzata, la razionalità tecnica del potere mondano della Chiesa astratto dal fine escatologico della fede cristiana. L‟arte povera della politica ridotta a tecnologia del Potere, a economia della sua sopravvivenza, astratta da ogni finalità ideale di Governo. La morale protestante secolarizzata è l‟etica secondo Kant, la morale della fede e non del potere. questa morale può secolarizzarsi restando religiosa, laddove la morale cattolica, secolarizzandosi, produce l‟assolutismo politico, lo Stato totalitario, che costituisce appunto la speculare versione della Chiesa istituzionale senza il principio cristiano della carità né il suo fine escatologico. E‟ l‟atteggiamento dell‟attesa sospesa tra l‟evento del kairòs e l‟incerta speranza, o illanguidita fede, in quello della parousìa. In questa età di mezzo, di oscurata sensibilità caritativa, il fine universale acquista rilevanza sensibile e mondana, di conquista dell‟Imperium terreno ma cristiano, offerta in olocausto al Deus absconditus a propiziarne col perdono dell‟ingerenza negli affari terreni anche l‟antica promessa della redenzione finale. Il machiavellismo è la ratio dell‟attesa, la vita sospesa tra la morte e la resurrezione, la passione umana del venerdì della Storia, durante il quale il fine della santità lascia il posto agli scopi della civilizzazione. Non a caso, la secolarizzazione non ha impedito ma anzi ha consentito il totalitarismo politico, che costituisce la versione secolarizzata e tecnicizzata del potere assolutistico della Chiesa razionalizzata a valore politico universale. In questo senso, lo Stato totalitario costituisce storicamente la forma più saliente di “passaggio” dalla dimensione sacra a quella profana della socialità, propria del razionalismo. Ma questo “passaggio” è stato consentito dalla trasfigurazione della Chiesa cristiana da strumento della fede a fine mondano, perpetrato anche a costo di scismi religiosi collettivi e di defezioni morali individuali. Nel primo caso, lo scisma dalla Chiesa ha condotto alla eticizzazione dello Stato e alla politica come morale di Stato (machiavellismo). Nel 312
secondo caso, la defezione morale dei credenti ha condotto al cinismo dell‟etica particolaristica (guicciardinismo). In entrambi i casi, al formalismo e al familismo della “doppia verità”, che è la negazione di ogni verace spirito religioso, che s‟incentra sulla realtà del Tu. Il protestantesimo ha portato la fede nei cuori dei singoli fedeli, abbandonandoli al loro personale e solitario rapporto con Dio, cioè all‟angoscia della solitudine interiore, che trova rimedio nell‟opposto spirito mondano di una esaltata e idoleggiata comunità di destino. Il cattolicesimo contro-riformista ha portato invece a una religiosità indipendente dalla fede, al formalismo farisaico dei “trafficanti in religione”644 e alla religione come strumento di potere mondano. Solo una riforma cattolica, quale auspicata da Chateaubriand potrebbe ristabilire il ruolo strumentale della Chiesa verso il Cristianesimo, rovesciando l‟attuale rapporto teleologico. A questa condizione Chateaubriand può affermare che “non è dunque vero che la religione protestante sia più favorevole alla causa della libertà della religione cattolica”, poiché le due “religioni” coinciderebbero nel caso della riforma morale della Chiesa. Chateaubriand sbaglia quando omologa l‟assolutismo cattolico, laico e religioso, al dispotismo di “un principato di Germania”, poiché l‟assolutismo cattolico si costituisce sull‟asservimento della religione al potere mondano, e quindi sulla negazione della fede come libertà di coscienza, mentre il dispotismo protestante si costituisce sulla trasformazione del dogma religioso in volontà politica assoluta. Nel primo caso, la politica sostituisce la fede, portando all‟ateismo pratico e all‟immoralismo; nel secondo caso, la politica diventa religione, portando al dogmatismo pratico e al moralismo, cioè all‟ideologismo. Il cattolicesimo è dogmatismo teorico e immoralismo pratico; il protestantesimo è relativismo teorico e dogmatismo pratico, cioè moralismo. Dio senza Cesare e Cesare senza Dio producono, rispettivamente, una Chiesa idolatra e una morale machiavellica, ovvero uno Stato teocratico e un dogmatismo politico cui si delega l‟autorità della fede senza guida pastorale. Il cattolicesimo è la forma religiosa senza i contenuti di fede, ossia il culto dell‟autorità indipendente dalla fede religiosa, ossia dall‟adesione della coscienza: formalismo dogmatico e cinismo morale. Il protestantesimo è culto dell‟autorità come fede religiosa: dogmatismo politico. 644
L‟espressione icastica è di Chateaubriand, nella Prefazione cit. in tr. it, pag. 35.
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Se, come afferma Chateaubriand, “non esiste vera religione senza libertà, né vera libertà senza religione”,645 non ogni forma religiosa è liberale, né ogni liberalismo è religioso, per cui la religione e la libertà sono “vere” solo quando coincidono. Ma la loro coincidenza è ideale, perché sul piano pratico, se coincidessero, realizzerebbero la teo-crazia o la ideo-crazia, ossia la Chiesa come Stato e lo Stato come Chiesa. Dio e Cesare non possono coincidere che in cielo, ma sulla terra la religione e la libertà restano due forme dialettiche da conciliare in interiore homine. La libertà è l‟essenza della religione, non già la sua forma pratica. Qualunque istituzione storica che intendesse incarnare l‟essenza ideale identificandosi con essa, si scontrerebbe inevitabilmente con l‟incarnazione del suo opposto dialettico. Lo scontro tra Chiesa e Stato è avvenuto sulla reciproca pretesa di un assolutismo astratto dalla concreta realtà della vita sociale e delle coscienze personali. Il loro contenzioso verteva su chi delle due forme mondane fosse quella ideale della libertà umana. E poiché entrambe le pretese erano ideologiche, cioè dogmatiche, la loro astrattezza non poteva assorbire razionalmente le ragioni opposte, per cui la loro stessa irresolutezza poteva sanarsi soltanto con un accordo giuridico che le neutralizzasse, ammettendone surrettiziamente la loro insostenibilità. E pertanto, liberati dalla loro astratta finalità istituzionale, le due forme mondane di potere si sono limitate ad esercitarlo, trasformando la loro astratta vocazione morale in una economia di sussistenza, cioè in una pratica di sopravvivenza storica, in una tecnica della durata. Il machiavellismo nasce come tecnologia del potere o economia della politica, che esaurisce nella tecnica la realtà del Potere religioso e politico. E‟ chiaro che, rimossa la astratta idealità delle rispettive essenze, sia la Chiesa che lo Stato sono diventati meri enti formali, la cui realtà coincide con l‟attualità del loro esercizio economico, con la loro pratica. La pratica della fede è la carità, ma la pratica della religione è il culto. Parimenti, la pratica dell‟etica è il bene, ma la pratica della politica è l‟economia. Alla coincidenza di carità e bene, corrisponde quella tra culto ed economia. Una testimonianza religiosa ridotta a culto, e un potere sociale ridotto a economia sono gli esiti convergenti delle astratte ideologie del razionalismo moderno, la cui opposizione costituisce la dinamica della civiltà idolatrica e capitalistica, che riduce l‟esercizio della fede a un rito liturgico, e l‟esercizio del potere di governo a economia 645
F.R. de Chateaubriand, nella Prefazione cit. in tr. it, pag. 37.
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politica. Questa riduzione ontologica dell‟Essere alla sua attualità fenomenica segna il dominio degli enti mondani sull‟unità dello spirito umano trasformata in ideologia, in credenza razionalistica nell‟Essere come Idea, la cui astratta rappresentazione è perciò convertibile nei meri dati mondani, anch‟essi astratti e perciò uguali. L‟uguaglianza degli astratti enti fenomenici costituisce la loro unità ideale, e perciò la sostituisce praticamente, facendo di quella astratta uguaglianza l‟essenza stessa della loro realtà, sia in senso ideale che pratico. L‟identità che risolve in un compiuto immanentismo la realtà ideale nella sua esistenza fenomenica è quel processo razionalistico proprio dell‟età moderna che Scheler chiama “livellamento”, e che ritrova nel fenomeno della rivoluzione il suo momento di effettualità sociale, ovvero, come afferma Chateaubriand, la “totale conversione del governo di un popolo” nel suo opposto, e cioè “da monarchico a repubblicano che da repubblicano a monarchico”,646 che segna cioè il passaggio dall‟astratta unità dello Stato come Governo, all‟astratta molteplicità politica come Stato. In ambito religioso, dunque, come Chateaubriand aveva ben visto, “la disputa non è, dopotutto, tra i protestanti e i cattolici [ma] tra il filosofismo e il fanatismo”,647 ovvero tra i fautori di una ragione senza i fondamenti della fede, e i fautori di una fede senza supporto di ragione. 6. Nel caso della situazione politica maturata col capitalismo, quando cioè i sistemi politici hanno recepito le istanze rivoluzionarie traducendole in motivi legali istituzionalizzati, “non vi è errore più grande di quello di porre in una contrapposizione esclusiva democrazia ed élite”.648 Infatti, sostiene Scheler, allorquando l‟equilibrio socio-politico ha accolto nel suo sussistere istituzionale la logica che presiedette alla rivoluzione, il suo principio dinamico, quello democratico, ne pervade il sistema, per cui “la verità è soltanto che la democrazia svela impietosamente le opposizioni storiche esistenti in una nazione fra le stirpi, le confessioni, le classi; ma non è essa a crearle”. Nella pericolosa crisi in cui oggi si trova […], la democrazia parlamentare di quasi tutto il mondo, nella sua lotta difficile […] contro le tendenze dittatoriali di destra e di sinistra, essa potrà affermare se stessa soltanto se – sottraendo, per così dire, le armi ai 646
F.R. de Chateaubriand, Essai, tr. it, cit., pag. 60. F.R. de Chateaubriand, nella Prefazione cit. in tr. it, pag. 37. 648 M. Scheler, L‟uomo nell‟epoca del livellamento (1927), tr. it. in Op. cit., pag. 289. 647
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suoi avversari – è in grado di far emergere e di ammettere una élite ben selezionata, mobile, attiva, che dia alla nazione l‟unità di cultura e potere.649
L‟equilibrio sistemico originato dalla rivoluzione torna a essere a sua volta in crisi, in quanto lo stesso principio democratico, semplicemente svelando le “opposizioni storiche” sul cui equilibrio si regge la vita degli Stati nazionali moderni, lo rende instabile. In altri termini, il principio democratico, accolto come ragione sistemica e quindi neutralizzatane la originaria spinta rivoluzionaria, conserva il suo potenziale eversivo attraverso la sola coscienza della sua natura, ossia non appena ne venga svelata la sua essenza anti-sistemica, mettendolo in relazione di verità (e non più di mera e neutra funzionalità) coi suoi fondamenti ideologici. Per chi ha seguito il nostro ragionamento complessivo, non gli è difficile cogliere la stretta analogia tra questa posizione di Scheler e quanto stava capitando al sistema teologico-politico della cristianità, il quale, avendo incluso nel suo orizzonte di senso culturale il lògos dialettico greco, asservendolo a ragione della fede, a seguito della sua razionalistica presa di coscienza, stava implodendo, liberando la originaria carica eversiva della ratio filosofica sulla mitica fides. Lo stesso principio razionalistico, che si era tradotto in ideologia politica, era stato temporaneamente neutralizzato finquando il potere regolativo della fede aveva retto alle sue spinte eversive, piegandole alle superiori ragioni divine. Ma in caso di scissione tra cultura e politica, la logica del Potere non potrà più essere asservito alle regole della morale, per quanto assimilate dalla tradizionale ossequio a leggi naturali. Intervenuta la crisi del sistema parlamentare, nato dalla Rivoluzione per neutralizzarla, la nuova élite chiamata a fronteggiarla non potrà più essere “basata sul sangue e sulla tradizione”, poiché le qualità e le capacità umane, che i compiti dell‟ora esigono, non sono quelle che sono in misura particolare ereditabili secondo le leggi dell‟eredità psichica. Da uno dei nostri troppi partiti politici, così fortemente formati in base al‟inclinazione […], l‟élite non nascerà mai [poiché] anche le élites specificamente politiche […] non vengono mai fuori direttamente dalla sfera politica stessa, bensì vengono partorite da movimenti spirituali nuovi e insieme mossi da un nuovo sentimento di vita, per trapassare poi crescendo nella sfera politica. così anche il movimento fascista è maturato emergendo da un movimento di rinascita dei partecipanti alla guerra e della gioventù italiana. Né le élites nascono da classi determinate e da professioni
649
Ivi, pag. 290.
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definite.650
La stessa consapevolezza aveva animato l‟analisi sociologica di Chateaubriand di fronte alla nuova realtà rivoluzionaria del suo tempo, allorquando avvertiva che, di fronte al suo fenomeno, le certezze culturali del passato non erano più fruibili alla bisogna. L‟immobilità politica è impossibile; siamo obbligati ad avanzare insieme all‟intelligenza umana. Rispettiamo pure la maestà del tempo; guardiamo con venerazione ai secoli trascorsi, resi sacri dalla memoria e dalle vestigia dei nostri padri; tuttavia, cerchiamo di non retrocedere verso di essi, poiché il passato è ormai estraneo alla nostra natura reale, e, se pretendessimo di afferrarlo, svanirebbe.651
Le élites di cui parla Scheler non sono quelle che hanno”semplicemente la importante funzione, per certi tempi, di mantenere e di amministrare un qualche patrimonio politico e culturale in maniera avveduta e saggia”, e che hanno la naturale “tendenza ad occupare posti di direzione”, ma quelle che devono necessariamente maturare e venire alla luce dalla segreta profondità del popolo stesso, lentamente, senza precoci illuminazioni; e, in questo nostro tempo, ciò non si può raggiungere se non attraverso la lenta fusione di “cerchie”, che si siano costituite intorno a personalità guida.652
L‟immagine della sapienza riposta nel popolo è meno romantica di quanto potrebbe sembrare, perché allude significativamente ai processi di acculturazione intrapresi nei secoli dal clero cristiano, soprattutto monastico, guidato a perfezionare le proprie attitudini sotto la sorvegliante guida di maestri spirituali, il cui potere suadente era tanto più rilevate ai fini pedagogici quanto più funzionale a scopi missionari, e quindi al suo ruolo messianico. Ed è esattamente a questa funzione messianica del selezionato “popolo di Dio” a cui allude Scheler, che aveva inteso, come del resto Gramsci, che occorreva dare al popolo un principe che lo guidasse e ne dirozzasse gli ingenui entusiasmi che Lenin chiamerebbe “estremistici”. Ma l‟aspetto più interessante per noi è il collegamento che anche il cristiano Scheler, come a sua volta il capostipite Platone, stabilisce tra politica e cultura in direzione della necessaria traduzione pratica delle 650
Ivi, pag. 291. F.R. de Chateaubriand, Mémoires d‟outre-tombe, Libro VII, 11, tr. it. cit., pag. 255. 652 M. Scheler, Loc. cit., pag. 291. 651
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istanze intellettuali in epoche di crisi di valori. L‟élite novella, subentrante a quella tradizionale dedita alla mera amministrazione del patrimonio ereditato, ha avuto fino ad oggi per Scheler una funzione “soltanto di critica culturale”. Ma perché essa possa “subentrare al posto dell‟attuale” in crisi, è necessario che “noi ci si faccia un‟idea, la più comune possibile, della struttura dell‟epoca in cui siamo entrati e, insieme, del genere di trasformazione del tipo-guida di umanità, che sarebbe appropriato a quest‟epoca del mondo”.653 Tale epoca ha prodotto un mutamento ben più profondo di quello che si è avuto nel trapasso dal Medioevo all‟età moderna, e, per avere un termine di paragone approssimativo rispetto alla profondità del cambiamento dobbiamo volgerci indietro fino alla nascita del cristianesimo e al venire alla luce dell‟universo dei popoli romano-germanici. Non è solo un mutamento delle cose, delle circostanze, delle istituzioni, dei concetti e delle forme fondamentali delle arti e quasi di tutte le scienze [ma] è un mutamento dell‟uomo stesso, della qualità specifica della sua costruzione interna stessa fatta di corpo, impulso, anima, spirito; e non è soltanto un mutamento del suo essere fattuale, bensì anche un mutamento della misura in base a cui si dirige […]. Ogni più profonda aspirazione umana, ivi compresa ogni politica, è sorretta, particolarmente in tempi di profondo mutamento, da una tale immagine segreta – vorrei dire: escatologica – e da un tale modello di uomo, consapevolmente o inconsapevolmente
che si possa sentire interiormente ma non esprimere in una forma ancora compiuta.654 Questa radicale trasformazione antropologico-culturale, in realtà, non ci fu. Nel senso che i cambiamenti intervenuti col capitalismo, per quanto devastanti e pervasivi, non configurarono una Verwandlung ma più semplicemente una , ossia un mutamento che non incideva, né poteva farlo, sull‟essenza ontologica dell‟uomo cristianamente definito, ma solo sulle sue forme rappresentative, di tipo neo-pagane, e perciò mitiche rispetto alle forme razionalistiche costruite dalla metafisica cristiana sulla critica dell‟ontologia naturalistica greca. Rispetto a questa rielaborazione teologica della sapienza antropologica antica, la nuova rappresentazione razionalistica dell‟uomo post-cristiano è in realtà una rielaborazione in chiave pragmatistica dell‟uomo pre-cristiano, ossia della sua idea greca deprivata di ogni fondamento finalistico. L‟uomo pragmatico dell‟epoca capitalistica è cultore di una praxis priva di tèlos, e 653 654
Ibidem. Ivi, pag. 292.
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in questo senso precipuo il suo naturalismo è economicismo. Proprio perché privo di fine (), il valore razionale è anche privo di principio (), ossia di fondamento ontologico, e in tal senso i suoi prodotti sono negativi (ni-ente) e soggetti a qualunque determinazione positiva che li accolga nel suo fine. Questa versatilità della ragione è l‟essenza della tecnica quale strumento volto a un fine indeterminato. Tale uso strumentale della ragione, che per primo Socrate e quindi Platone rimproverarono ai sofisti, fu a suo modo al servizio anche della teologia cristiana e dei suoi fini metafisici e pedagogici. Un modo certamente encomiabile, ma pur sempre strumentale, che si rivelò pericoloso per la stessa fede quando si volse contro di essa a opera dapprima degli stessi ambienti culturali ecclesiastici, e in seguito dell‟intiera cultura umanistica e razionalistica moderna, cui offerse lo strumentario teoretico elaborato in secoli di affinato pensiero sistematico. Lo stesso Scheler, senza rendersene appieno conto, accredita intellettualmente con la sua teoria del “mutamento dell‟uomo” la possibilità di una svolta antropologico-spirituale in ambito profano che sia omologa a quella avvenuta a suo tempo in ambito religioso, tale da costituire un percorso storico, e quindi interno alla temporalità e finitezza della condizione umana, ma alternativo in senso immanentistico a quello escatologico e trascendente. Ora, è esattamente questa ipotesi di “mutamento” (Verwandlung) storico-spirituale fuori dell‟universo di senso teologico a sancire il superamento della prospettiva cristiana da parte dell‟autonoma ragione scientifica e calcolante, di cui la versione sociologica è la politica economica. La politica, così come la ragione, astratta dal suo orizzonte di senso escatologico, priva di finalismo morale, esaurisce la sua funzione tecnica applicandosi alla affermazione di sé, potenziando cioè la sua autonomia da ogni finalismo e da ogni autorità assiologia. Da qui la sua insuperabile “incompiutezza” formale dichiarata da Scheler, che tiene a ribadire la natura spiritualistica della sua analisi del mutamento epocale. Bisogna tuttavia assolutamente farla finita con ogni idea di una trasformazione essenziale del genere dell‟uomo in senso biologico, particolarmente in senso morfologico [dal momento che] l‟uomo è una natura fissata definitivamente sotto il profilo morfologico […]. Nei tempi storici in nessun caso l‟uomo si è trasformato in misura essenziale sotto il profilo dell‟organizzazione [corporea e sociale].655
655
Ivi, pag. 293.
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Il pericolo per la vita non viene dallo “spirito”, ma da “l‟intelletto privo di saggezza, senza idee razionali superiori e senza valori”. Il “pericolo di andare a fondo”, aggiunge Scheler, ben sussiste nel nostro tempo, ma egli non l‟individua nel mito del mutamento, che anima ogni spirito rivoluzionario in ambito storico-sociale e filosofico-culturale, ma lo attribuisce alla “causa” estrinseca della “meccanizzazione”, che porterebbe a suo dire all‟essere “impotente sotto il profilo politico e culturale”. E aggiunge: Ma solo qualora a fianco del dominio della natura, che l‟occidente finora ha coltivato in maniera così unilaterale, non subentri una nuova arte dell‟autodominio. Se si parla quindi di un futuro e di una nuova immagine dell‟uomo, allora posso immaginarmi soltanto una tale immagine del futuro, che non corrisponde a una trasformazione che si verifichi automaticamente – sia che sia rivolta in senso positivo o in senso negativo – delle doti organiche naturali dell‟uomo, bensì che rappresenti innanzi tutto un “ideale” accessibile alla sua libera autoconfigurazione – alla configurazione di quell‟enorme parte plastica della sua natura, che, direttamente o indirettamente, è disponibile per lo spirito e per la volontà. Ciò che viene dallo spirito, non viene automaticamente, non viene spontaneamente. Dev‟essere preso in mano! […] L‟uomo è una natura, il cui genere di essere consiste nel fatto di essere la decisione ancora aperta circa ciò che vuol essere e ciò che vuol divenire.656
Il problema è dunque relativo al coordinamento etico-politico tra “essere” e “divenire” dell‟uomo, ritenuto possibile, e quindi nella disponibilità spirituale dell‟uomo. L‟incompiutezza antropologica dell‟uomo si sposta sul versante “plastico” della sua “configurazione” spirituale, che agisce sulla natura umana asservendola ai suoi fini “ideali”. Senza una presa di coscienza ideale, tale configurazione non sarà mai automatica e “libera” dalle pastoie naturalistiche, sicché le stesse “doti organiche” dell‟uomo perderebbero la loro potenziale incisività esistenziale. Per queste ragioni, la nuova élite deve prepararsi a fronteggiare due fenomeni epocali per misurare la sua capacità dirigenziali con le esigenze del tempo. Il primo fenomeno è un processo storico già in atto, che comunque coinvolge, al di là di ogni resistenza, popoli e culture: il “livellamento” (Ausgleich). L‟altro fenomeno, invece, è da conseguire come “ideale” per superare la crisi epocale suscitata dal livellamento: si tratta dell‟ideale del “tutto-uomo” (Allmensch), o uomo-totale, distinto dal concetto nietzscheiano di “super-uomo” distante dalle massa democratizzata.
656
Ivi, pag. 296.
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Il tutto-uomo in senso assoluto, ovviamente – l‟idea dell‟uomo che contiene in sé in maniera sviluppata tutte le possibilità della sua essenza – non ci è vicino; anzi, ci è lontano quanto Dio, che, per quanto afferriamo in spirito e vita la sua natura, non è anzi nient‟altro che l‟essentia dell‟uomo – solo, appunto, con una forma e con una pienezza infinite. Per ogni epoca del mondo, però, esiste un tutto-uomo relativo, un maximum della capacità di essere tutto-uomo, che gli è accessibile, un massimo relativo della partecipazione a tutte le forme superiori dell‟esistenza umana. 657
Circa il fenomeno del “livellamento”, esso riguarda pressoché ogni settore della vita umana, dalla politica alla cultura, dal sesso ai rapporti sociali e nazionali, e si manifesta in quasi tutti i connotati caratteristici e specifici della natura, sia fisici che psichici, che riguardano i gruppi umani in quanto tali, in cui si può dividere l‟umanità e, in pari tempo [provoca] un poderoso rafforzamento delle differenze spirituali, individuali e relativamente individuali, per es. nazionali […].658
Il “livellamento” è stato vissuto come esperienza collettiva con la prima Guerra mondiale, “perché solo qui comincia l‟unica storia comune della cosiddetta umanità”. Il compito delle nuove élites è appunto “quello di guidare e dirigere questo livellamento delle proprietà e delle forze dei gruppi in modo tale che questo livellamento corrisponda a un accrescimento di valore del tipo”. Una politica che volesse eludere tale compito epocale si metterebbe fuori dei processi storici in corso, che sono ineludibili. Infatti, se la passata epoca del mondo, secondo la sua struttura fondamentale, è stata un‟epoca di tensioni di forze continuamente crescenti e che si andavano costantemente particola rizzando […], mi sembra invece che la formula più generale sotto cui si può ricondurre l‟epoca del mondo ancora in embrione, è quella di un‟epoca della distensione universalizzata delle forze tra le relazioni umane: del livellamento delle forze […]. Qualsiasi politica, che fosse soltanto una neutralizzazione e un impedimento rispetto a questo predestinato livellamento, o rispetto a una delle sue parti, sarà spazzata via dalla corrente poderosa e inarrestabile che va nella direzione del livellamento. E ogni compito politico, assegnato in maniera formalmente corretta, consiste oggi, di fatto, nel guidare e dirigere, in qualche sede, questo livellamento in maniera tale che possa procedere con un minimo di distruzione, di esplosione, di sangue e di lagrime.659
Tre osservazioni. 657
Ivi, pag. 297. Ivi, pag. 298. 659 Ivi, pag. 299. 658
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La prima: Scheler ammette la possibilità di una dilatazione, verticale e laterale, dell‟essenza umana conformemente alle sue possibilità minimali rispetto a quelle infinite di Dio, implicando che sussista nell‟uomo il potere di evocarle nella misura e nelle forme contestuali alla sua realtà storica. Questa ammissione presuppone, pertanto, che la responsabilità morale dell‟uomo sia sufficiente a definirne la natura spirituale, esautorando l‟intervento provvidenziale della grazia come guida illuminante, sostituita da quella umana della società, ossia del luogo di manifestazione delle “forme superiori dell‟esistenza”. La seconda: questa possibilità di auto-fondazione morale dell‟esistenza umana deve necessariamente estendersi a tutta l‟umanità, considerata sotto la visuale del nuovo modello antropologico emancipato dai suoi limiti storico-culturali (verrebbe da dire dalle “superstizioni” della cultura tradizionale), per cui il “livellamento”, registrato sociologicamente come un fenomeno epocale, in realtà è il prodotto conseguenziale dell‟universalità dell‟astratto modello umano destoricizzato dal suo storico contesto di senso. Ciò che qui viene in evidenza, è che lo scenario fenomenologico dell‟esperienza umana, non è più universale nel senso della coscienza teoretica, ovvero nel senso della identità teologicospirituale, ma è universale sul piano della realtà storica, che è quello in cui si determinano sia le differenze culturali che le stesse possibilità umane di superarle in senso trasversale alle tradizioni particolari. Tale trascendimento della finitezza storica avviene non solo entro la Storia profana, ma mercé gli strumenti della politica, che nell‟età delle masse prende la funzione direttiva che era della religione in altri tempi. Scheler qui, preterintenzionalmente, delinea il percorso totalitario delle democrazie massificate, ma pur tuttavia senza nutrire alcun dubbio che il secondarlo, sia pure in funzione direttiva, è già di per sé, sia pure ammantata di sagace realismo filisteo, una resa spirituale all‟Anticristo. Qualsiasi politica, che fosse soltanto una neutralizzazione e un impedimento rispetto a questo “predestinato” processo epocale, si porrebbe fuori della corrente ideale, fuori della stessa storia epocale. La terza. Lo spirito cristiano ha trionfato della storia pagana attivandosi a invertirne il corso fatalmente preordinato. Il senso pedagogico del martirio dei primi cristiani, la cui fede ha smosso le montagne dell‟Impero romano, si è andato perdendo a seguito de, e non nonostante, la politica di allineamento politico con il corso storico profano; ossia dal momento in cui la Chiesa ha identificato il proprio destino storico con il prudente e realistico contenimento paternalistico dei processi epocali di 322
livellamento a fini di sopravvivenza. Viceversa, sia la Riforma religiosa che la Rivoluzione socialista hanno storicamente trionfato nei termini in cui hanno negato la fatalità della rispettiva storia epocale. In ogni caso, a Scheler quella da lui professata parve “la formula più generale per la politica della nuova epoca del mondo in generale”, il cui scopo era quello di consentire all‟uomo “di ridiventare padrone dell‟aspetto demoniaco di quei poteri che, oggettivamente, nell‟epoca trascorsa erano divenuti forze scatenate, al fine di ricondurle al servizio della salvezza dell‟umanità e della realizzazione sensata di valori”.660 Ma la questione che a noi, sia pure retrospettivamente, pare decisiva era se la politica potesse assolvere a tale compito epocale, ovvero se essa stessa fosse, per ogni tempo, la dimensione dalla quale sarebbe stato necessario uscire per offrire all‟umanità un percorso irenico alternativo a quello polemico. Il senso della domanda, la sua attualità, perde ogni parvenza retorica se pensiamo all‟esito della universale politicizzazione del mondo, che proprio nel destino della Germania ha avuto i suoi contraccolpi più cruenti. Il destino della politica era segnato da quello della ragione dialettica, ossia di una logica – quella “antica” – che contrassegnava l‟Essere come attualità, anziché come possibilità, tale che la sua verità coincidesse con la sua fatticità, cioè con la proiezione storica del suo modello ideale. Ma proprio la situazione di crisi epocale denunciata da Scheler, e consistente nella dissociazione di politica e cultura, mostrava inequivocabilmente la distanza tra coscienza ideale e realtà sociale, tra individuo e cosmo, che ubbidivano a criteri di realtà sostanzialmente diversi. Se, infatti, era possibile per il soggetto coscienziale operare un trascendimento della sua fisicità, era più difficile, se non impossibile, al membro sociale mettere tra parentesi il “mondo-della-vita”, ossia la struttura formale-istituzionale delle sue concrete condizioni di esistenza storica. Se l‟apocatastasi spirituale perseguiva i suoi scopi intimi in considerazione dell‟evento escatologico della salvezza dell‟anima individuale, la rivoluzione sociale affermava il principio della superiorità della coscienza, come luogo della ragione, e quindi della libertà, sulla società, intesa come luogo della naturale necessità. Solo l‟ipotesi, ovvero il mito, del “rispecchiamento” idealistico del Lògos coscienziale in quello sociale consentiva la legittimazione morale dell‟intervento rivoluzionario a sanare la discrepanza tra cultura e natura attraverso un processo di umanizzazione 660
Ibidem.
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del mondo in termini di coscienza collettiva, assimilata alla coscienza ideale. La società come realtà della coscienza, doveva presupporre la possibilità della razionalizzazione del mondo, al cui fine la politica offriva il suo servigio tecnico. Quanto il protestantesimo abbia contribuito all‟affermazione di ciò che Scheler chiama la “tecnicizzazione” del mondo, lo abbiamo visto supra. E Scheler stesso avverte che Le epoche più pericolose per l‟umanità, quelle più piene di morte e di lagrime, non sono le epoche del ristagno crescente della tensione e quelle della particolarizzazione delle forze, bensì le epoche del livellamento. Ogni processo, nella natura e nella storia, che noi definiamo esplosione, catastrofe, è un processo di livellamento non guidato o non guidabile sensatamente da parte dello spirito e della volontà.661
Il livellamento può dunque realizzarsi bene o male. E la sua stessa possibilità presuppone che l‟ipotesi di una “umanità unica” venga spostata dall‟inizio del decorso storico alla fine, quale processo tendenziale. L‟umanità, infatti, per Scheler, va paragonata a un “sistema fluviale, in cui un gran numero di fiumi segue, per secoli, il suo corso”, per poi tendere, “con un angolo d‟inclinazione crescente, a unificarsi l‟uno con l‟altro in un‟unica corrente”.662 [Le] strutture durature, che come civilizzazioni e culture vengono sostituite dalle sempre meno correnti storiche, derivano dallo spirito dotato di senso dell‟unità popolare [che è “irripetibile”], sopravvivono, con una sorta d‟immortalità terrena, rispetto alle unità etniche dei popoli e alle loro istituzioni statali ed economiche. Il loro oggettivo contenuto di senso e di valore, che forma lo spirito, è in grado, in ogni tempo, di ridiventare vitale, in rinascite e fusioni culturali, nonché di formare gli uomini.663
Diverso è il caso delle strutture puramente formali, le quali “sono semplice “espressione”, semplice fisiognomica dell‟anima e della vita dei gruppi”: esse “sono mortali”. Soltanto le “strutture della civilizzazione”, distinte sia dalla “cultura puramente spirituale” che dalle “strutture vitali”, sono soggette a un “progresso continui stico, che attraversa sia l‟esistenza dei popoli sia le forme di cultura”, provocando una “accumulazione graduale che contemporaneamente diviene sempre più internazionale”, procedendo a un ritmo molto più accelerato rispetto al 661
Ivi, pagg. 299-300. Ivi, pag. 301. 663 Ibidem. 662
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“livellamento delle forme di cultura puramente spirituali”.664 Il processo mondiale verso la costituzione dell‟uomo-totale non interessa la sola umanità occidentale, ma anche “quella americana”, riempiendo di “paura, anzi di sgomento” coloro che “valutano con il metro dell‟epoca passata” questo fenomeno, che Scheler chiama “processo di risublimazione”. Per ri-sublimazione intendo quel processo di delimitazione – anche spiritualmente voluta – della quantità di apporto di forze dell‟energia, presa dall‟organismo, al cervello, ovvero all‟intelligenza, in cui appare arginata ogni attività puramente intellettuale, cioè creatrice d‟idee.665
Tale fenomeno appare anzitutto come “minore apprezzamento del valore dello spirito”, delle opere come dei suoi portatori, e si diffonde come corrente irrazionalistica e antintellettualistica: si pensi alla politica sovietica e al fascismo, che alimentano la cultura anti-occidentale e il vitalismo dionisiaco; ma anche alla diffusione dei nuovi costumi sessuali e del movimento psicoanalitico; alla “smania di ballare che ha preso tutto il mondo” e al disprezzo infantile della scienza e all‟idoleggiamento “degli eroi del cinema e dello sport del nostro tempo, divenuti già mitici”. Questi, come altri fenomeni, quali la “colonizzazione in senso contrario dell‟Europa da parte di culture primitive”, sono il sintomo di una sistematica rivolta pulsionale, dell‟uomo della nuova epoca del mondo, contro la sublimazione unilaterale, contro l‟iper-rafforzato intellettualismo dei nostri padri nonché contro l‟ascesi da essi esercitata per secoli e contro le tecniche (divenute già inconsce) di sublimazione, nelle quali l‟uomo occidentale si è finora affermato.666
Vi è da aggiungere, sostiene Scheler, che questo fenomeno non è stato provocato dalla Guerra e perciò non è destinato a estinguersi presto, ma è un movimento complessivo profondamente radicato nel precedente processo storico dell‟occidente, e che mira a una nuova distribuzione dell‟energia complessiva dell‟uomo fra la corteccia cerebrale e il resto dell‟organismo.667
664
Ibidem. Ivi, pag. 302. 666 Ivi, pag. 303. 667 Ivi, pag. 304. 665
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Dall‟apparizione di Cristo, dice Scheler, l‟ideale ascetico, attraverso la “veduta del mondo ebraico-cristiana”, ha dominato “su tutto il mondo occidentale”, fondando “un tipo d‟uomo al massimo unilaterale, che, alla fine, ha posto in serio pericolo l‟equilibrio delle forze umane”.668 Lo ideale ascetico, dal periodo patristico a quello medievale, ha interessato solo piccole minoranze monacali e conventuali; successivamente, però, il progredire di questo ideale ascetico fra le masse e i “laici”, non da ultimo grazie agli asceti del protestantesimo – gli asceti “intramondani” […], e, in fine, in misura crescente, la poderosa “ascesi del feticcio dell‟oro” (K. Marx), tipica del capitalismo [ha interessato un numero maggioritario di uomini, conducendoli] a un livello di “cervellizzazione” funzionale, o, in termini psichici, di “sublimazione”, che – dovendosi ripristinare l‟equilibrio umano – non poteva non rovesciarsi nella rivolta della vita e delle pulsioni dell‟attuale epoca del mondo.669
La rivolta della “natura” e dell‟ “inconscio” contro il “conscio” e contro lo stesso uomo “non poteva una volta o l‟altra non arrivare!” 670 Da questa prospettiva antropologica, la stessa Guerra mondiale è da vedere, riguardo alle disposizioni psichiche delle masse rispetto ad essa […], piuttosto un effetto, anziché una causa di questo accumulo di pulsioni, durato secoli […] contro […] il razionalismo ascetico di questa epoca [e il suo] Apollinismo [eccessivo. In tal senso, questo processo di] ri-sublimazione, non va pertanto né lodato né biasimato! Esso è una necessità quasi organica – di temibile unilateralità, certo; ma non più unilaterale dell‟epoca di sublimazione smisurata, ascetica e spiritualistica, che l‟ha preceduto.671
Tale reazione è propria dei popoli e delle culture pervenuti alla “vecchiaia” e alla “stanchezza vitale”, mentre gli “ideali ascetici” sono propri dei popoli “giovani, forti, assetati di vita, ancora non avvezzi alla attività intellettuale superiore”, che pervengono perciò “a una superiore valutazione dell‟elemento spirituale e che hanno l‟impulso verso la sublimazione”. Perciò, “il vitalismo del nostro tempo è un contro -ideale, una medicina mentis nella forma di manifestazione immediata di forze sovrabbondanti”.672 668
Ibidem. Ibidem. 670 Ivi, pag. 305. 671 Ibidem. 672 Ibidem. 669
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E‟ difficile seguire Scheler in questa analisi, la quale tende a rappresentare il “destino” della massificazione come connaturato all‟emersione vitale di culture già subalterne, pronte a nuovi cimenti di civiltà, che dànno il cambio alle esauste culture dei tempi passati, a partire da quella ascetica cristiana. In realtà, proprio in considerazione del fatto che “in generale, l‟uomo, nel suo sviluppo storico, può allentare l‟ascesi e la sublimazione nella misura in cui egli si sia automaticamente e anticamente spiritualizzato”,673 la risublimazione non può toccare, nei termini descritti da Scheler, che una minoranza, mentre il fenomeno massivo non può avere le stesse ragioni storiche. A noi pare, invece, che i termini del problema vadano impostati in considerazione della crisi dissolutiva dell‟universo di senso cristiano, che ha condotto alla incongruenza tra ciò che possiamo chiamare la cultura dei fondamenti, tradizionalmente elitaria e di gestione minoritaria, e la cultura della prassi, in via di rapida massificazione, per cui l‟ideale ascetico, per la sua forza di abnegazione e di sacrificio spirituale, poteva trovare le sue ragioni giustificative solo in vigenza di regole eticizzate, fortemente giustificate da una fede religiosa socialmente radicata, e politicamente garantita da una classe dirigente saldamente al potere che la propugnasse identitariamente come propria. E‟ stato quando la forza della fede è andata disgiunta dalla potenza politica cui aveva confidato per la sua sussistenza che la gestione della massificazione sociale è diventata problematica e culturalmente travolgente. Una ratio divenuta scienza della politica, e quindi tecno-logia del Potere, astraendo dal suo universo di senso fideistico, si costituisce come il luogo sociologico della mediazione universalistica, per cui la massificazione socio-politica, senza più i filtri istituzionali tradizionali, essenzialmente religiosi, ha inciso in senso distruttivo dei valori delle élites passate e della loro civiltà, mostrando una superficiale incuranza verso la relativa cultura simbolica, a seguito della frattura intervenuta tra la rappresentazione formale dei suoi simboli, che non era mai stata quella propria delle masse incolte, e i suoi contenuti mitici, oggetto di rielaborazione intellettuale, che si tradusse per la ingenua coscienza religiosa in un dissacrante esercizio anche simbolicamente demolitorio. La coscienza razionalistica si interpose tra il livello mitico e quello colto, interrompendo il circuito virtuoso stabilito dalla Chiesa soprattutto per mezzo dell‟arte tra cultura popolare e cultura elitaria, spostando il piano 673
Ivi, pag. 306.
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rappresentativo della realtà generale dal livello estetico, che era l‟accesso più sensibile ai comuni valori religiosi, al livello della formalizzazione simbolica di tipo scientifico, il cui accesso era necessariamente più elitario ed esclusivo. Sia la rapidità del tempo di “livellamento”, che le modalità politiche non selettive e rese economicamente dirette, non più moralmente mediate da remore socio-culturali, hanno prodotto una implosione, dapprima ideologica e quindi sociale, degli equilibri storici non più eticamente garantiti da una classe dirigente moralmente delegittimata dalla perdita di riferimenti ideali con l‟antico sistema religioso di vita. Rispetto agli equilibri tradizionali, l‟emersione storica delle masse emarginate dalla scena socio-politica europea, equivalse a una stagione di “giovinezza”, dopo una lunga stagione di “vecchiaia” dominata dalle tradizionali élites aristocratiche, solo in senso strettamente economico, nel cui ambito funzionale possono riportarsi anche le – mediocri rispetto al passato rappresentazioni simbolico-culturali. Pertanto, la scheleriana “tensione tra spirito e impulso” è riferibile meno alla dialettica socio-culturale che a quella economico-politica tra antiche élites aristocratiche e nuove classi dirigenti in ascesa di origine plebea. Per la semplice e decisiva ragione che la moderna tensione culturale tra il tradizionale ceto intellettuale ecclesiastico e il nuovo ceto intellettuale borghese era estranea alle dinamiche della formazione morale delle masse incolte, le quali non a caso, tendendo a rafforzarsi sull‟unico terreno loro accessibile, quello appunto economico-politico, mossero, di pari passo alla contestazione delle strutture istituzionali della società classista, anche una critica all‟egemonia intellettuale borghese. La crisi della civiltà liberale si consumò politicamente per l‟opera corrosiva del Quarto stato, ma culturalmente essa entrò in coma metafisico già all‟atto dell‟emancipazione razionalistica del sapere dal suo universo di senso teologico, ossia con la rottura dell‟organicismo spirituale custodito dalla Chiesa. E‟ tale emancipazione culturale a creare i presupposti dell‟ideologia borghese e il primato della politica come tecnologia del Potere. E fu la destinazione politica della mediazione tra scienza moderna e vita sociale, in sostituzione della tradizionale mediazione religiosa, a determinare l‟eutanasia della borghesia e il “suicidio” della rivoluzione borghese. Nel contesto tardo-moderno della crisi socio-culturale europea tra le due Guerre mondiali, la prospettiva scheleriana di “una fusione armonica, ordinata, di ambedue gli elementi in un‟unica forma di esistenza e 328
insieme in un‟unica azione”,674 era del tutto utopica in senso anti-storico, se riferita al processo fenomenologico che quella crisi aveva originato, mentre era utopica in senso avveniristico se riferibile a un ordo condendo determinato sul terreno precipuamente politico. infatti, la risposta storica al “livellamento” che su quel terreno giunse alla società europea fu il Fascismo, cioè una mitologia politica di tipo nazionalistico, che inquadrò in senso totalitariamente armonico le masse escluse dai processi attivi della civiltà liberale, la cui religiosità tradizionale, politicizzata, non riusciva più a trovare nelle istituzioni dello Stato razionale di diritto i suoi canali di sublimazione ascetica, che furono loro offerte dallo Stato ideologico, espressione istituzionale della ri-sublimazione dei nuovi barbari al potere. Scheler attribuisce alla tradizione ebraico-cristiana il concetto tipicamente occidentale di una “redenzione da parte di un esterno” che ha originato “le dottrine della Grazia e della Redenzione”, ignote al mondo classico, che la cultura occidentale ha recepito mancandole in generale una tecnica sistematica del superamento della sofferenza a partire dall‟interno”.675 Ciò lo porta a chiedersi Se tutto il nostro processo di civilizzazione occidentale, rivolto in maniera così unilaterale e iperattiva verso l‟esterno, non possa essere in ultima analisi un tentativo con mezzi inadeguati, considerato rispetto al processo storico come totalità, qualora esso non sia accompagnato dall‟arte opposta consistente nell‟acquisizione di un potere interiore su tutta la nostra vita psico-fisica, sottospirituale, che altrimenti scorre in maniera del tutto automatica, da un‟arte dello sprofondamento, del raccoglimento, della contemplazione delle essenze.676
Si chiede, cioè, se l‟azione di contenimento solamente “esterna” sull‟uomo e sulle cose, non provocasse una reazione che, in mancanza di un “potere su se stesso, vada da ultimo a parare in un fine contrapposto rispetto a quello che egli perseguiva”, sprofondando “in una sempre crescente schiavizzazione rispetto a quel meccanismo naturale, che egli stesso aveva dapprima immaginato e proiettato, come piano ideale del suo attivo operare, nella natura”.677 Ipotesi in verità alquanto distante dall‟antropologia spiritualistica del primo Scheler, che guarda alla cultura cristiana con occhio già esterno 674
Ivi, pag. 306. Ivi, pag. 309. 676 Ivi, pag. 310. 677 Ibidem. 675
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alla sua intima fisionomia totalizzante, in virtù della quale l‟ascesi monastica si presentava come una pedagogia del controllo interno degli impulsi vitali, ispirata al paradigma soteriologico del Cristo. Proprio questa storicizzazione della spiritualità cristiana come semplice momento dello spirito universale dell‟uomo (contro la visione hegeliana, considerata europeo centrica) è il segno testimoniale della decadenza culturale dell‟Europa, che ha trascritto in senso relativistico quella originaria visione universalistica che Husserl voleva recuperare sul piano filosofico, e di cui “la grande, invisibile solidarietà del processo del mondo con il destino diveniente del suo sommo fondamento” 678 era quell‟aderenza al mondo-della-vita che l‟analisi fenomenologica doveva rimuovere per procedere alla sua determinazione eidetica. Lo spirito apollineo, super-civilizzato, ha lottato contro lo spirito dionisiaco, il suo vitalismo represso ma non dirozzato da una severa e costante educazione, riservata agli strati sociali superiori, all‟interno della stessa realtà nazionale allorquando questa è subentrata all‟unità culturale di tipo religioso. Ma la dialettica tra le due dimensioni spirituali ha assunto il suo riduttivo carattere sociologico di lotta di classe allorquando la tensione interna allo stesso orizzonte di senso religioso ha perseguito, per ognuno dei due momenti astratti, un proprio percorso ideale di universalizzazione del valore di cui era portatore, esclusivo dell‟altro, e tale che la affermazione dell‟uno comportasse la negazione dell‟altro; negazione che, nell‟ambito della elettiva mediazione politica, equivaleva alla eliminazione pratica dell‟hostis. Scheler adombra intuitivamente la legge della trasformazione degli astratti opposti nei reali contrari, ma non sembra cogliere l‟origine metafisica della preminente attenzione teoretica alla fatticità, che Heidegger indicava come “oblio dell‟essere” (Seinsvergessenheit), consistente nella riduzione della Possibilità dell‟Essere alla sua esclusiva attualità ontica (Vorhandensein), conseguente alla necessità gnoseologica di determinare il contenuto empirico della conoscenza come oggetto riflesso della coscienza eidetica. Lo stesso Cristianesimo, servendosi della strumentalità logica della metafisica greca, soggiace alla logica obiettivistica del suo idealismo, proiettando sul piano effettuale – storico e socio-politico – quella conversione spirituale che doveva originariamente costituirsi in interiore homine come veritas non riducibile ad alcuna ragione del mondo fenomenico. Nella logica dell‟interiorità 678
Ivi, pag. 311.
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della metànoia, la redenzione esterna poteva soltanto avere funzione confermativa, e non costitutiva. La stessa azione salvifica di Cristo era pur sempre legata alla libera adesione di fede del credente, la cui “tecnica” soteriologica era la personale preghiera, non certo il lavoro socializzato. Dissolto l‟universo di senso religioso, l‟ideale razionalistico trasferisce la sua tensione morale sulla “unità nazionale”, sovvertitrice dell‟ordine tradizionale frantumando il consorzio religioso imperiale in tante realtà etico-politiche particolari, procedendo in seguito a frantumare l‟astratta unità politica stessa della nazione nelle conflittuali diversità delle concrete classi sociali. La lotta sociale, o di classe, è il portato logico della sperequazione tra ordine politico e interessi economici, la cui forma di regime è la democrazia, che stabilisce una tendenza metodica a superare ogni momentanea cristallizzazione istituzionale atta a frenare il “livellamento” egalitario, a un tempo principio dissolutorio di ogni gerarchia nella società massificata, e di liberazione delle potenzialità sociali dell‟ “uomo-tutto”, la cui “apertura” indeterminata è pari alla sua astratta fisionomia storica “universale”. Là dove, come in Inghilterra, si è preservata maggiormente la tradizione medievale delle differenze storiche nella società, anche la libertà ha conservato le sue prerogative dalla forzata omologazione politica di tipo continentale e segnatamente francese. il controllo economico dell‟industrializzazione da parte delle classi e dei ceti altolocati ha infatti consentito una continuità politica nell‟Isola che invece l‟industrialismo borghese, che è stato lo strumento principale di potere sociale e politico nel Continente, non ha conosciuto, non contemperato dalla forza di un‟aristocrazia in decadenza o del tutto esautorata nelle sue funzioni storiche dalla Rivoluzione. E‟ evidente che l‟impeto socio-politico delle classi in ascesa ha inciso eversivamente sulla struttura istituzionale d‟antan e sulla sua cultura di legittimazione, manifestandosi come patrocinatore di un ordine nuovo condendo. Dove invece la borghesia ha costituito la forza di riserva della aristocrazia storica, innestandosi nella sua tradizione come supporto socialmente rivitalizzante ma culturalmente non originale, le sue forze di rinnovamento hanno inciso in senso politicamente corroborante sulle vecchie istituzioni, alimentandole di nuove istanze, ma sostanzialmente conservandole. In questi casi, le energie sociali in ascesa sono state dirottate e concentrate nel settore economico, lasciando impregiudicata la sfera politica e dei valori. Resta oltremodo significativo che ove sia 331
mancata questa osmosi regolata e coordinata tra vecchi e nuovi settori sociali, le spinte innovative hanno piegato costantemente in senso eversivo e oggettivamente rivoluzionario, al di là dei referenti ideologici nei settori intellettualmente più polemici verso l‟ordine antico. In questi casi, le divisioni tradizionali tra ceti e ordini sociali sono apparse meno superabili, e costitutive, anziché di libertà, di ostacoli da rimuovere per la vita sociale in generale. Le gerarchie sociali, considerate al di fuori dell‟universo di senso che le ha create, cioè fuori dell‟ordine dei valori metafisici socializzati, appaiono reperti archeologici di relazioni di vita le cui forme storiche non sono più espressive di significato attuale. Ciò che quelle forme hanno irrimediabilmente perduto è il loro valore simbolico, espressivo della realtà d‟essere di ciò che è creduto dover essere. Ma ciò che è creduto, non è sempre ciò che deve essere, per cui, mutato l‟atteggiamento di fede, cambiano anche i doveri. Sicché, quando le forme antiche del dovere non riflettono più i doveri nuovi, questi ricercano altre forme, più consone alla fede attuale, e anche i fautori storici delle credenze antiche si trovano a dover fronteggiare i fautori delle credenze nuove. Se tale agonismo morale è compreso e delimitato in un ambito teoretico, i processi del cambiamento pratico seguono le fasi del progresso della coscienza comune, nel cui caso la stessa distanza () tra il mondo ideale e quello reale viene mantenuta a presidio dei benefici degli stessi mutamenti sociali, la cui efficacia è sempre relativa alla possibilità di fruirne. Se, invece, il principio morale del mutamento sociale non viene trasceso in forme ideali, ma viene inteso come immanente al processo spontaneo della coscienza sociale, allora le stesse forme della coscienza ideale vengono concepite come il riflesso indotto dalla struttura della realtà sociale. In questo caso, ogni distanza che la coscienza ideale vuole frapporre al valore sociale appare come una fuga alienante dalla realtà, di tipo ideologico o fantastico. Nel primo caso, avendo la realtà ideale una posizione superna rispetto a quella accidentale del mondo empirico, l‟ordine sociale viene inteso come adeguamento armonico al cosmo ideale, al cui fine viene preposto un ceto sociale di mediatori che, come guardiani del chòrismos, sono posti a presidio dei valori, custodendo le chiavi di accesso della porta che dal mondo profano accede al sacro e viceversa. Nell‟altro caso, essendo il principio razionale connaturato immediatamente alla vita sociale, ogni mediazione dialettica è intesa come un attentato alla libertà del suo processo spontaneo, per cui la stessa 332
costituzione di forme simboliche di mediazione è di per sé ritenuta fuorviante ed elusiva rispetto al fine libertario. Ognuno dei due casi riflette una propria concezione del mondo e il suo relativo concetto di ordine sociale, che si riflette in una distinta struttura ordinamentale. Nel primo caso, l‟ordinamento sociale è di tipo gerarchico, avente a parametro differenziatore la posizione dei “guardiani del chòrismos”, rispetto alla quale si diparte in senso opposto la scala sociale della distanza e della vicinanza ideali. Questo tipo di società è per sua natura diseguale, e la sua organizzazione di vita sociale riflette l‟ordine gerarchico dei relativi valori ideali. Nel secondo caso, ogni forma gerarchica di organizzazione sociale è considerata di per sé ostativa alla libertà umana, la cui realtà coincide con il suo spontaneo e irrefrenabile processo evolutivo. Questo tipo di società fa di ogni membro una particella funzionale all‟insieme sociale, l‟unico avente una concreta realtà, rispetto alla quale quella singolare dei suoi membri è astratta e quindi essenzialmente equivalente. Così è l‟ordine ecclesiale rispetto a Cristo, il popolo di Dio rispetto alla Chiesa e la nazione politica rispetto allo Stato. Ognuna di queste distinte espressioni del principio immanentistico dell‟ordine cosmico e sociale concorda nel credere che la vera realtà sia il Tutto, a cui ogni parte è chiamata a partecipare. Che tale Tutto sia Dio, o lo Stato o la Società, non è derimente, perché in ogni caso la volontà del Tutto è quella unicamente vera, si chiami, a seconda dei casi, Provvidenza, Legislazione o Mutamento. Non è contraddittorio che, all‟interno di un siffatto sistema totalitario, l‟egalitarismo di principio venga smentito da una articolata e rigida struttura gerarchica, funzionale, come nel caso della Chiesa o in quello dei moderni partiti democratici, alla stessa sussistenza del sistema. Infatti, è l‟uguaglianza che, astratta dalla realtà della sua concretezza, si converte in opposta disuguaglianza, tale che l‟uguaglianza di principio si traduce in disuguaglianza reale, ingenerando la lotta per il suo riconoscimento. Come aveva ben inteso Scheler, dunque, non è la democrazia, in quanto principio ideale, a creare le storiche disuguaglianze sociali, ma, non di meno, è la traduzione sociale del principio che essa rappresenta, quello di uguaglianza, a legittimare la lotta politica come opposizione “tra” le parti sociali, nell‟atto stesso di volerne negare l‟esistenza opponendosi idealmente “a” ogni parte in nome del Tutto. Ogni credenza ontologica di tipo monistico, comunque rappresentata, nasconde l‟esigenza logica di universalizzare il suo fondamento, per cui è 333
insita nella sua visione metafisica il concetto della verità come unità dell‟Essere. E unità significa conformità del diverso allo stesso, compresa la conformità della molteplice realtà pratica all‟unità del fondamento ideale. Il Cristianesimo, dando realtà concreta a ogni espressione del Molteplice, intendendola quale prodotto della creazione divina, ha opposto alla visione monistica dell‟Essere, la sua ontologia spiritualistica fondata sulla libertà, anziché sulla naturalistica necessità, dell‟Essere di manifestarsi come può, rappresentandolo pertanto come Possibilità. Il vincolo razionale legato alla Possibilità è la probabilità, in cui consiste la libera determinazione del dovere ideale relativamente alla sua reale possibilità. Il concetto di “probabilità”, diversamente da quello di “causalità”, ammette la differenza ontologica tra il piano della realtà ideale – che è quello in cui l‟ente, privato di ogni negazione reale, si equipara all‟Essere – e il piano della realtà pratica – che è quella in cui l‟ente, inserito nel processo vitale, si definisce distinguendosi dall‟Essere -. Nella relazione di “probabilità”, ammettendosi il chòrismos tra i due piani di realtà, viene elusa la necessità di addivenire a una sostanziale omogeneità degli enti relativi, in quanto la loro relazione non è causale ma reciproca, ossia tale per cui la sua costituzione non annulla le rispettive differenze attraverso un processo di omogeneizzazione unitaria, ma le conserva nella libertà del volontario rapporto, che si chiama “adesione”. La adesione al rapporto è libera in quanto non causata da alcuna necessità compulsiva, e dunque esterna alle parti in relazione. Perciò essa, in quanto non vincolata ad alcuna necessità cogente, è probabile, cioè libera di determinarsi secondo la sua volontà. La probabilità, cioè la libera determinazione d‟essere, è la condizione propria all‟uomo, la cui essenza è legata alla sua libertà di costituirsi fuori della necessità degli altri enti, rispetto alla cui condizione naturale quella umana è una condizione spirituale. Possibilità, Probabilità e Libertà costituiscono gli esistenziali dell‟uomo quale Essere spirituale, rispetto al quale ogni riduttiva considerazione ontica - cioè dell‟uomo come ente meramente naturale, uguale a ogni altro ente della realtà Molteplice -, è una rappresentazione astratta dal suo fondamento ontologico spiritualistico, e perciò naturalistica, la quale tende a negare di per sé l‟Essere per l‟ente. Tale negazione d‟essere, relativa alla riduzione dell‟uomo a ente naturale, costituisce la tendenza ideale del razionalismo moderno, che afferma come realtà ontologica un‟immagine antropologica ideale di uomo despiritualizzato. La credenza 334
nella verità di questa immagine antropologica costituisce il fondamento mitico del razionalismo moderno, il cui Mito, così come quello antico rappresentava l‟Essere ideale senza la realtà del Negativo, rappresenta l‟Essere umano privo di essenza spirituale, e quindi omologo a ogni altro ente naturalistico. La credenza che l‟Essere sia l‟ente, è appunto costitutiva di ogni mito-logia, di ogni rappresentazione mitica dell‟Essere umano come ente fornito di ragione. A questo punto dovrebbe essere chiaro che ogni rappresentazione ontologica è una rappresentazione antropologica, ossia che ogni visione dell‟Essere è una concezione dell‟uomo, il quale costituisce l‟unico sinolo concreto in cui convergono a realtà ciò che si intende per Natura e ciò che si intende per Spirito. Per tale fondamentale ragione ontologica, ogni rappresentazione dell‟uomo astratta dalla sua concreta realtà esistenziale, è un astratto logomorfismo razionalistico, che, anche se scientificamente sistematizzato in una immagine ontica formalmente coerente, è privo di ogni verità essenziale, e quindi destinato a essere empiricamente confutato. Infatti, la principale conseguenza teoretica di tale assunto spiritualistico è che il tentativo razionalistico di definire l‟uomo come oggetto del pensiero è destinato a fallire. Ed è tale fallimento gnoseologico a costituire la coscienza cristiana dell‟uomo un progresso teoretico rispetto al razionalismo greco. Rappresentare pertanto la coscienza cristiana dell‟uomo come una forma di sapere fra le tante della storia culturale dell‟umanità, può soddisfare una astratta considerazione comparativa delle diverse Weltanschauungen storiche, ma mostra nel contempo di non intenderne la superiorità teoretica in ordine alla consapevolezza dell‟essenza umana. Tale rappresentazione dell‟uomo, che rimuove la cesura dello spiritualismo cristiano entro il sapere antropologico di ogni precedente e posteriore cultura umana, può costituirsi solo attraverso una riduzione monistica dell‟Essere umano in senso naturalistico, ossia attraverso l‟oblio della sua essenza ontologica appunto spiritualistica, cioè ricadendo nel Mito antico. Ciò che la sapienza antica non aveva compreso, e la cui coscienza costituisce invece il progresso della sapienza cristiana, è che ogni discorso sull‟Essere è un discorso sull‟uomo, poiché non c‟è alcun Essere che non sia l‟Essere dell‟uomo. Aver proiettato l‟umanità dell‟Essere, compresa la sua identità, cioè realtà unitaria, nella realtà del Molteplice, ha rappresentato la Natura come Essere, ossia il Molteplice come realtà antropomorfica e unitaria. Ma esattamente tale credenza ha rivelato alla 335
coscienza cristiana che la sapienza antica era fondata su un Mito, era cioè una mito-logia. Di conseguenza, dalla prospettiva dell‟orizzonte di senso della coscienza cristiana, ogni rappresentazione della realtà che ponga l‟Essere al di fuori della sua sede spirituale, e cioè fuori della stessa coscienza umana, è mito-logica, ossia è una proiezione di ciò che “è” l‟uomo in ciò che “non-è” umano. In questo senso, anche le forme culturali dell‟opera dell‟uomo, e la stessa realtà sociale quale realtà performativa dell‟attività umana, fuori della relazione che hanno con il concreto Essere dell‟uomo, sono reperti puramente simbolici, che custodiscono l‟Essere spirituale, ma in senso puramente evocativo e non sostanziale, e quindi non possono in alcun modo trasformare in Essere la loro realtà di enti, cioè convertire la loro onticità in essenza spirituale, senza la mediazione dell‟uomo. E pertanto, sia nell‟ambito della conoscenza, quale attività ermeneutica del sapere, che nell‟ambito della vita sociale, quale attività dedita alla sussistenza dell‟uomo, è sempre l‟uomo a fare del mondo naturale e del cosmo culturale, una concreta realtà spirituale. Lo Spirito dell‟Uomo è la Vita che egli infonde nella realtà naturale trasmutandola in Essere. Senza la consapevolezza della differenza ontologica tra l‟Essere e l‟ente, la trasmutazione (Verwandlung) della realtà naturale in Essere spirituale viene intesa in senso naturalistico, cioè non come conversione teoretica ma come trasformazione (Umkehrung) sociale, per mezzo della tecnica politica, cioè della tecnologia economica. L‟inanità di tale Umschlag risiede nella impossibilità di convertire la parte per il Tutto, ossia operando sulla necessità, legata agli enti naturali, anziché sulla possibilità legata alla libertà degli uomini, che non potrà mai corrispondere, per la sua essenza spirituale, ad alcuna forma di socialità. Proporre, come fa Scheler, una complessiva compagine culturale di tipo “occidentale” – che si opporrebbe a una altrettanto unitaria cultura “orientale” – suona come una forzata e astratta rappresentazione di motivi ideali e di tendenze culturali nazionali che si erano progressivamente emancipate da una complessiva identità religiosa a favore di una meramente politica e “nazionale”. Assumere, come egli fa, il “livellamento” democratico e culturale come un “destino” ineludibile, assegnando alla politica il solo compito di “guidarlo alla maniera corretta”,679 segna un pericoloso cedimento culturale all‟ideologia egalitaria, ossia alla riduzione della vita sociale e della stessa identità 679
M. Scheler, Loc. cit., pag. 313.
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umana alla sola sfera politica, seguendo in ciò le previsioni democraticistiche di Tocqueville. Ma la stessa pretesa di affermare una sola dimensione conoscitiva universalmente valida per tutta l‟umanità, superatrice di culture e tradizioni storicamente differenziate, costituiva la premessa dell‟affermazione di un ordine egalitario, che dalla cultura alla società, uniformasse l‟umanità a un medesimo modello antropologico. Secondando tale pretesa, si spianava il terreno alla moderna egemonia scientista sulla visione filosofica e teologica del mondo, che si fondavano invece su una cosmologia e una antropologia gerarchica e anti-egalitaria. Soprattutto la filosofia, fondando la differenza tra verità e falsità sul discrimine cognitivo di visioni teoretiche differenti per coerenza sistemica e strutturale, tendeva a stabilire un ordine gerarchico ontologicamente fondato sulla superiorità della verità (epistéme) sulla probabilità (dòxa), stabilendo con ciò il primato del teoretico sul pratico che segnava di riflesso il primato sociale dell‟homo sapiens sull‟homo faber, contestato dalle ideologie e dalle gnoseologie egalitarie. L‟idea di una conoscenza universale, valevole per ogni uomo e per tutta l‟umanità, a prescindere dalle sue storiche differenze culturali e dei distinti livelli di coscienza, è il risvolto secolaristico dello spiritualismo cristiano nella versione teoretica tipica, la scienza positiva, ispiratrice dell‟ideale di una unità politica degli uomini, e quindi di un‟eguaglianza sociale, che esprima praticamente, nella vita quotidiana e nelle istituzioni, l‟uguaglianza della sua supposta unità cognitiva di ogni essere razionale. E‟ conseguente a questa visione filosofica del mondo che il primato culturale tocchi alle civiltà che si siano caratterizzate conformemente al suo principio, nel caso specifico a quelle europee, per cui sia l‟originario concetto imperiale romano-cristiano che “l‟eurocentrismo” di Hegel e di Husserl, erano nient‟altro che la coerente affermazione di quel primato spirituale sulle altre culture storiche dell‟umanità. Esteso il principio universale dello spiritualismo in ogni ambito profano, il progresso dell‟umanità fu inteso, man mano che avanzava il processo di razionalizzazione delle tradizionali culture regionali, come il suo progressivo allargamento in ogni settore della vita umana, sicché il giudizio di valore si trasferì parallelamente dalla sfera del giudizio morale a quella della giustizia sociale, intesa in termini di eguale considerazione del diverso, ossia di maggiore o minore riduzione della realtà molteplice alla sua unità ideale, la cui relativa conformità stabiliva lo stesso criterio di valore. 337
Ma così come la Chiesa aveva ereditato da Cristo la funzione di mediare il processo di universalizzazione progressiva della verità evangelica tra le genti, la traduzione secolaristica di quella universalizzazione indicò diversi soggetti storici come interpreti di quella antica funzione religiosa, dallo Stato alla classe sociale, dall‟Umanità al partito politico, dal popolo al leader politico, di volta in volta investiti di una missione redentrice profeticamente annunciata da solenni dichiarazioni di diritti naturali dai proclami di ideologie palingenetiche. Le previsioni di Scheler sull‟esito del “crescente livellamento”, relativo alle “tensioni di potere politico” e di “interessi economici”, si muovevano in questa direzione profetica, ed erano nel senso di un “arresto” della “idea dello Stato nazionale assolutamente sovrano, centralizzato, con un‟economia politica e con una politica coloniale espansionistiche”, che a suo dire avrebbe liberato la “autonomia spirituale e culturale” delle “grandi individualità culturali storiche e nazionali”.680 In realtà, come sappiamo, la nazionalizzazione delle masse fu la risposta ideologico-politica alla crisi dello Stato liberale, con una accentuazione dei caratteri potestativi statalistici, esasperatamente pervasivi, in ambiti esistenziali fino ad allora preclusi all‟ingerenza profana. Il “livellamento”, infatti, penetrando le strutture dello Stato, le deforma in senso irrazionale rispetto alla logica che le aveva animate e giustificate, ma coerentemente alla soverchiante logica del Potere, e quindi in senso razionalmente conforme al nuovo principi d‟ordine unitario di natura etico-politica. Ma proprio la difformità dei diversi principi etici di socialità fra i vari gruppi sociali storici, tutti razionali all‟interno dello stesso ordine di valore tradizionale, ma ognuno irrazionale rispetto al principio dominante, introduce nelle relazioni umane e fra i gruppi sociali, un criterio di relatività morale che, non sanzionato da alcuna autorevole potestà, finì per sottomettersi a quella più autoritaria, ripristnandosi così surrettiziamente in veste moderna l‟antica logica dell‟Imperium, questa volta laicizzata e mondata di ogni remora religiosa, pagana e cristiana. Il nuovo totalitarismo, pertanto, reso coerente sia sul versante della razionalizzazione del sistema di Potere, che della sua emancipazione da ogni restrizione morale, assomma in sé la missione redentrice del “livellamento” egalitario all‟esperienza autarchica dello Stato nazionale superiorem non recognoscens, il cui frutto politico è l‟assoluta 680
Ivi, pag. 314.
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socializzazione delle coscienze che il Cristianesimo aveva liberato per tempo dalla schiavitù politica antica con l‟introduzione del concetto di Possibilità relativo all‟Essere spirituale. Infatti, solo in conformità all‟esclusivo principio di necessità era possibile re-staurare la volontà dello Stato onnipotente antico, e tale principio non si sarebbe mai potuto affermare culturalmente senza il previo “livellamento” scientistico delle gnoseologie storicistiche e la negazione di ogni trascendenza, che condannava la realtà molteplice all‟unità razionale della forza. La natura “chiusa” dell‟idealismo dei fatti, che assume come “razionale” il solo processo della coscienza “attuale”, ossia il solo movimento che giunge al presente e che si realizza in questo, si inibisce la comprensione dei fenomeni latenti e possibili, i quali, commisurati a quelli fattuali, appaiono sconnessi da ogni relazione causale e quindi privi di intima razionalità, così come appare irrazionale ogni dinamica non conforme al principio di stabilità sistemica storicamente affermato. “Razionale” secondo il sistema è ogni evento conforme all‟ordine socializzato, regolato sul criterio della prevedibilità causalità delle relazioni fenomeniche. Questo criterio, trasferito in ambito teoretico, genera una logica pragmatistica che funziona lizza il pensiero all‟esito pratico, necessariamente “chiuso”, perché esclusivo di altri esiti possibili. Solo la Possibilità, aperta a molteplici esiti fattuali, può costituirsi a ragione dei fenomeni storici, la cui attuale attualità non esclude altre modalità d‟essere temporalmente inattuali. Proprio l‟apertura alla Possibilità costituisce la modalità propria dell‟Essere storico, inclusivo della libertà umana di determinarsi secondo scelte probabili e non necessarie, ma non perciò irrazionali. Se ogni forza sociale particolare assume nella sua esistenza storica un destino di necessità temporalmente determinato non secondo il suo Essere, il suo modo d‟agire attuale diventa configgente con le altre modalità d‟Essere possibili, e quanto nella coscienza individuale si costituisce come conflitto morale, nella coscienza collettiva del gruppo empirico si manifesta come lotta politica. Per cui la borghesia, che già era stata il futuro rispetto all‟aristocrazia d‟antan, e quindi incarnante una condizione aperta alle possibilità d‟essere non attuali, si presentava di poi come il passato rispetto al proletariato futurista e rivoluzionario, insofferente delle forme istituzionalizzate del principio di libertà. In tal senso, ogni assestamento socio-culturale è un “destino” storico solo relativamente alle posizioni polemicamente antagonistiche, ma non può costituire la prospettiva della stessa storicità dei processi sociali, i quali, 339
proprio perché umani, sono aperti alla Possibilità e quindi alla libertà di determinarsi diversamente dalla loro destinazione attuale. Asserire, pertanto, come fa Scheler, che “l‟europeismo oggi sorretto tanto dal basso quanto dall‟alto sia, appunto, un destino […] non una scelta”,681 equivale a determinare, sia pure nella dimensione del futuro, anziché del passato come nella prospettiva hegeliana, una modalità d‟essere storica che è ontologicamente aperta alla possibilità. Quanto, poi, al controllo politico del processo di “livellamento”, esso presuppone una stabilità di condizione del sistema istituzionale che proprio quel processo metteva radicalmente in crisi. Infatti non ci sarebbe stata alcuna “crisi” se fosse stato possibile al sistema assorbirlo e neutralizzarlo, mentre invece essa testimoniava proprio tale impossibilità sistemica, denunciandone l‟esistenza solo possibile e non necessaria della sua realtà storica. A meno che Scheler non intendesse per “controllo politico” una riconciliazione (Versoehnung) spirituale avviata sotto la forma politica tra i popoli e le culture europee dopo la lunga stagione scismatica. Rispetto al processo di consolidamento della civiltà romana avviato dalla Chiesa alla fine dell‟Impero, la condizione assente nella presente fase storica era la forza morale del movimento cristiano. Al contrario, la crisi della civiltà europea nasceva come crisi della cristianità, ossia del progetto restauratore dell‟Imperium in senso cristiano. L‟analogia tra i due contesti storici consisteva sicuramente nella falsa coscienza dominante nella cultura e nella mentalità delle rispettive civiltà in crisi, le cui ragioni Scheler rinveniva, per l‟epoca presente, all‟idoleggiamento di false profezie sociologiche, paragonabili alle mistificazioni dell‟idolatria pagana combattuta a suo tempo da Agostino. Le concezioni della storia, in quanto evento prevalentemente collettivo oppure come opera prevalente di grandi personalità; in quanto processo dialettico del divenire oppure come somma di eventi divenuti nei “limiti” di uno stabile “ordinamento divino” teleologico […] – tanto le une quanto le altre non sono, da ambedue i lati, fondate nelle cose stesse. Sono categorie logiche, ideologie, che sono condizionate unilateralmente da miti di classe – testimonianze del potere degli interessi sulla ragione. Chi voglia vedere politicamente chiaro, deve eliminare le une e le altre […] e potrà scorgere le realtà con sobria chiarezza e, per tal via, anche possibili vie per superare le opposizioni in esse rinvenibili.682
Tra queste “ideologie”, Scheler include anche il “teismo personalistico”, 681 682
Ivi, pag. 315. Ivi, pagg. 317-318.
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proprio delle “grandi monarchie orientali, nonché di una cultura e di una mentalità assai unilateralmente patriarcale”,683 e le “concezioni panteistiche di Dio in quanto spirito puro”, entrambe espressioni ideologiche delle “classi superiori”, alle quali corrisponde l‟altrettanto unilaterale “concezione puramente naturalistica dell‟uomo”. Egli pertanto invoca una riforma religiosa dello spirito europeo, capace di dare impulso alla sua civiltà decadente, così come il Cristianesimo fece con il decadente Impero romano. Una suprema unificazione e riconciliazione, metafisica e religiosa e, pertanto, anche politico-sociale, degli strati sociali sarà possibile soltanto sul terreno di una metafisica, di un‟intuizione di sé, del mondo e di Dio, che abbracci luci e ombre, lo spirito e l‟elemento demoniaco dell‟impulso all‟esistenza e alla vita, che determina i destini – che radichi l‟uomo tanto come essere spirituale quanto come essere pulsionale nel fondamento originario divino; che assuma il riferimento necessario, generale ed esteso, della vita e rispettivamente della natura allo spirito, e dello spirito alla vita e alla natura, in maniera unificata, nell‟idea del fondamento del mondo, che, in quanto sostanza, è sublimemente elevato al di sopra dei due opposti, in cui però solo nel corso della storia universale, e non indipendentemente dall‟azione dell‟uomo, si realizza l‟unificazione di spirito e vita, i idea e potenza. 684
Ma, la stessa esigenza di una riforma spirituale dell‟Europa implicava la intrascendibilità dalla crisi epocale, e cioè la sua necessità d‟essere in un contesto ideale e morale ormai irrimediabilmente compromesso dagli errori di cultura della stessa civilizzazione cristiana restauratrice. Ciò che Scheler richiede, al di là della “riconciliazione”, è un riesame della situazione religiosa dell‟Europa, preventivo a ogni rinascita etico-politica. Un nuovo Rinascimento della civiltà, non attraverso le schegge scientifiche dell‟implosione del cosmo cristiano, ma sul “fondamento originario divino”, ossia una rinnovata fede ontologica nell‟Essere spirituale, posto a fondamento metafisico di ogni esperienza ideale e sociale del rinato uomo europeo. Il lato problematico di questa ipotesi è il rapporto tra Religione e Politica, che richiamava a sua volta il rapporto tra Spirito e Natura che aveva diviso profondamente la cultura filosofica tedesca tra le due Guerre mondiali, divaricata tra la prospettiva ontologistica nata dalla fenomenologia di Husserl, che annoverava tra gli altri proprio Scheler, e che trovava in prima linea Heidegger, e la prospettiva antropologica, che 683 684
Ivi, pag. 318. Ivi, pag. 319.
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aveva soprattutto in Plessner il suo campione teorico, inviso, non solo teoreticamente, tanto a Scheler che a Heidegger.685 Come, infatti, era possibile pensare a un “essere spirituale” che non fosse in rapporto dialettico con un “essere pulsionale” sul quale prevalere e affermarsi, senza rimettere in discussione il fondamento razionalistico della attuale civiltà scientifico-tecnologica, che aveva assegnato alla sfera economica la prevalenza su ogni altro aspetto spirituale dell‟esperienza umana? E come, inoltre, poter risolvere tale rapporto in una visione politica che fosse insieme strumento di riconciliazione e “testimonianza del potere degli interessi sulla ragione”? La implicita polemica religiosa di questo periodo intellettuale di Scheler lo spinsero verso posizioni non certo prive di una certa equivocità. Lo stesso proponimento di una regolamentazione e di un controllo dei processi di “livellamento” costituiva il preludio teorico della pianificazione statalistica avviata dai regimi totalitari, e che verrà ripresa significativamente nel secondo dopo-guerra da Mannheim relativamente ai regimi democratici. Segno evidente, ma non scorto da Scheler, e neppure in verità da Mannheim, che le distinte forme dei regimi politici, ideologicamente contrapposti, di “controllo del livellamento” appartenevano a uno stesso macro-fenomeno epocale di massificazione della civiltà, di cui le democrazie erano solo l‟espressione politicoistituzionale. Il dato saliente dell‟analisi di Scheler è l‟implicita riaffermazione della centralità della politica come luogo, non solo istituzionale ma ideale, di mediazione (Vermittlung) e riconciliazione (Versoehnung) dei contrapposti motivi culturali e dei conflitti sociali. Ciò presuppone quella dissociazione, tipicamente razionalistica, del “metodo” tecnico dal “sistema” dei valor, che distingue i “fini” dai “mezzi” allo scopo di cambiare la destinazione dei processi storici e ideali in conformità di fini diversi da quelli del processo originario in vista dei quali i mezzi erano stati concepiti. Così era stato per la rivoluzione cristiana alla fine dell‟Impero romano, altrettanto per la rivoluzione socialista alla fine dell‟Impero russo, secondo le direttive teoriche dei rispettivi profeti del cambiamento, Agostino e Marx. Scheler non si avvede che soltanto attraverso una neutralizzazione culturale del politico, inteso come principio esclusivistico delle decisioni 685
Ved. G. Raulet, Max Scheler. L‟anthropologie philosophique en Allemagne dans l‟entre-deux-guerres, Paris, 2002; M.L. Pansera, Antropologia filosofica. La peculiarità dell‟uomo in Scheler, Gehlen e Plessner, Milano, 2001.
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dialettiche di Governo, a favore della politica, intesa come attività parlamentare mediatrice tra opposti interessi socio-economici, si poteva conseguire quella gestione amministrativa del “livellamento” della vita sociale in tutti i suoi aspetti, che avrebbe esautorato la funzione propria di ogni élite profetica in direzione della sua burocratizzazione e quindi costituzione oligarchica. Questo fenomeno era ancora parzialmente visibile nella Russia post-rivoluzionaria ai tempi in cui scriveva Scheler, ma si era inequivocabilmente manifestato nella storia della Chiesa, che, ancora una volta, aveva offerto il modello fenomenologico di quel processo auspicato ora da Scheler a rimedio della crisi questa volta della civiltà cristiana e della stessa Chiesa. Scheler, in altri termini, non pare rendersi conto che il governo della complessità della civiltà moderna in termini di universale semplificazione della società, che egli chiama “livellamento”, ma che in realtà è un processo di riduzione metafisica dell‟esserci (Dasein) a materialità economica, può realizzarsi sul piano politico solo a condizione di neutralizzare, in senso schmittiano, la politica astraendola dal proprio fine essenziale, la “decisione”, provandola così della sua stessa ragion d‟essere, che è il Governo. L‟esautorazione del politico dalla politica, apre il campo d‟influenza universale all‟economia, che costituisce appunto l‟essenza tecnica della mediazione, inclusiva anche dell‟elemento di scarto della decisione di Governo, che nella logica esclusivista del politico erano i “nemici”, e che ora sono invece inclusi nel processo di mediazione come “consumatori”. Nn è difficile vedere nella mediazione economica il senso universalizzato, e quindi reso astratto di ogni contenuto esistenziale, della pacificazione del rapporto hegeliano Servo-Padrone, divenuto, da antico rapporto di stima a nuovo rapporto di solidarietà produttiva. Nell‟ottica del progressivo “livellamento” di pacificazione universale, ogni finalismo escatologico socialmente rivoluzionario doveva infrangersi come un naviglio politico dalla rotta ideologicamente fantasiosa sugli scogli della necessità legata alla logica del suo fondamento d‟essere economico. Rispetto al fine, autenticamente universale, della pacifica amministrazione del “livellamento” umano, ogni tensione politica particolare e regionale appare un moto impulsivo irrazionale, collegabile a persistenti superstizioni religiose dell‟epoca pre-economica, quando ancora non si era del tutto o punto affermato l‟orizzonte di senso capitalistico, la cui “preghiera” di pace sociale è lo “interesse”. L‟economia è dunque una politiche che non decide, ossia una politica 343
senza il momento politico, una amministrazione senza Governo. Questa ulteriore neutralizzazione culturale del nostro tempo si sviluppa parallelamente alla dislocazione della funzione mediatrice dal piano teoretico a quello pratico, nel quale si evita ogni implicazione “logica” delle posizioni in conflitto, che lasciando dunque impregiudicata la questione della “verità”, esautora dal processo della mediazione ogni contenuto ideale, ritenuto discriminante e non derimente. La politica non può essere considerata uno “stile di pensiero”, alla stregua di una corrente ideologica, poiché la dimensione che essa presuppone è quella della scelta ideale, non della composizione degli interessi. La dimensione della scelta, la dimensione ideale, è fondata sulla domanda ontologica essenziale “perché l‟Essere anziché il Nulla?”, sulla quale si de-finisce il processo logico della conoscenza del mondo. La dimensione della composizione, invece, assume l‟essere del mondo come l‟unico ambito di realtà esistenziale, per cui essa è fondata sulla domanda “come posso adattarmi al mondo?”, che è un interrogativo precipuamente economico e naturalistico, e non logico, teso a sopravvivere nel mondo, non già a determinarlo secondo la sua ipotesi definitoria. Il generale processo di “livellamento” della civiltà opera nel senso della omologazione dell‟esperienza umana a quella di ogni altro ente naturale, anteponendo la “vita” alla “esistenza”.686 Governare questo processo epocale significa assecondarlo, assegnandolo alla coscienza come un “destino”, al quale, alla maniera del razionalismo greco, sarebbe vano contrapporsi. Ora, sulla “vanità del vero” ha legato le sorti il Cristianesimo, erede spirituale non del naturalismo greco e del suo fatalismo antropologico, ma dell‟idealismo greco, fondato sul criterio dialettico della logica distinguente, che presume la separazione (chorismos) tra la realtà ideale e quella del mondo-della-vita. Il governo del mondo, idealisticamente, consiste nella sua logicizzazione, ossia nella trasformazione nel senso dell‟Essere di ciò che semplicemente appare. Questo inveramento della realtà naturale, trasferito dal campo noetico della teoresi, a quello pratico della politica, costituisce il processo universale di razionalizzazione del mondo operato dalla scienza, che ha preso il posto della filosofia in conseguenza della stessa universalizzazione del processo e ala 231
.Ved. H. Plessner, Der Aussagewert einer Philosophischen Antropologie (1973), tr. it. in Id., Antropologia filosofica, a c. di O. Tolone, Brescia, 2010, pagg. 77-113.
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emancipazione del sapere razionalistico dal suo fondamento ontologico, ossia dal suo originario orizzonte di senso, che per la cultura greca era mitico, mentre per la cultura cristiana era teologico. Il processo storico di razionalizzazione del mondo è avvenuto, teoreticamente attraverso la rielaborazione filosofica dei fondamenti fideistici, costitutivo della fase greca dell‟affermazione del Lògos, e praticamente attraverso lo strumento politico dell‟Imperium, costitutivo della sua fase romana. Entrambi questi distinti momenti sono stati inclusi nel progetto di governo cattolico del Cristianesimo di universalizzazione della fede e di governo razionale del mondo. In tal senso, la religione e la politica diventano il fine e lo strumento dell‟affermazione universale dell‟orizzonte di senso cristiano. Il progetto cristiano, nella originaria versione cattolica, si è incrinato, una prima volta, allorquando l‟ecumene imperiale si è concentrata nella parte occidentale dell‟antico Imperium romano, e una seconda volta con lo scisma d‟Occidente e la Riforma protestante. La nascita del capitalismo, come versione infra-mondana dell‟etica protestante, segna la trasformazione dell‟originario progetto teo-logico nella sua versione compiutamente antropo-logica di universale affermazione dell‟Allmensch di cui parla Scheler. Ciò vuol dire che lo stesso capitalismo si pone all‟interno dello spazio ideale del razionalismo greco e della politica imperiale romana, elaborato scientificamente nel senso della esautorazione di ogni finalismo escatologico di tipo teologico, e ideologicamente nel senso della neutralizzazione di ogni conflittualità politica. Il primo momento è quello della secolarizzazione della cultura religiosa, con la fine di ogni ordine ontologicamente gerarchico, a partire dalla eliminazione della mediazione ecclesiastica; il secondo momento è quello della democratizzazione dei rapporti sociali, con la fine di ogni ordinamento gerarchico della società, che ha per fine la neutralizzazione della politica degli Stati tradizionali. Spogliato di ogni determinazione logica, l‟uomo in quali termini potrà rappresentare la sua esperienza di pensiero e di vita se non per successive omologazioni egalitarie fino alla sua completa assimilazione agi enti naturali? Ma non è questo obiettivo naturalistico, secolarizzato, l‟analogo dell‟uguaglianza fraterna auspicata dal Cristianesimo in ambito spiritualistico? Ossia, la distruzione di ogni cultura particolare, di ogni storica civiltà, in nome dell‟uguaglianza fondamentale tra gli uomini, non è inscritta sia nel lògos razionalistico greco che in quello teologico cristiano? E non è questo obiettivo antropologico l‟essenza stessa di ogni 345
processo di liberazione dalla storia, quale luogo della realtà finita contrapposto a quello meta-storico delle Idee o del Regno celeste o della Libertà? Vi è dunque in seno stesso al movimento ideale del Cristianesimo una tensione razionalistica che tende a proiettare i processi della coscienza personale in forme valoriali universali, al fine di tradurre il Bene dell‟anima in Giustizia sociale, estinguendo così dal mondo la presenza del Male col negarne la sostanzialità. L‟eliminazione del Male, che è il proponimento di ogni messianismo religioso, comporta l‟estinzione della politica come esercizio di composizione dei conflitti sociali, e con essa dello Stato e del potere mondano a favore di quello spirituale della Chiesa, non più istituzionale ma come corpo mistico, astratto da ogni determinazione storico-reale particolare. Ma che altro è il Mercato se non il corpo mistico della produzione e consumazione del Bene economico, entificato simbolicamente nel Capitalismo? A questo punto ci è chiaro come il processo di razionalizzazione innesti, all‟interno dell‟orizzonte di coscienza mitico e simbolico, una tendenza dialettica ad astrarre il Bene logicamente determinato, dal Male praticamente negato, al fine di universalizzare in senso totalizzante l‟esclusivo elemento razionale, cioè giustificato secondo il criterio discretivo ideale. In tal senso la lotta contro il Mito coincide con lo stesso esercizio di discriminazione politica, che si determina teoreticaente nella polemica contro ogni forma di sofistica – e nel Cristianesimo, contro ogni forma di manicheismo -, e praticamente come lotta contro lo Stato di potenza, cioè la politica decisionistica di Governo. Non era stato Agostino ad affermare che senza giustizia, gli Stati non sono altro che “delle grandi bande di ladri” coperte dalla “impunità”?687 Possiamo anche comprendere la ragione fondamentale dell‟incontro del Cristianesimo delle origini con la metafisica greca, consistente nella lotta teoretica di entrambi contro ogni forma di dualismo, a favore del monismo ontologico, si chiami Idea o Dio. La stessa esistenza separata del mondo iperuraneo può superarsi attraverso la oggettivazione dei prodotti della coscienza in forme istituzionali. Ma questa condizione è il presupposto da cui parte il Cristianesimo come culto dello Spirito di Dio che si oggettiva, si fa carne, in Cristo. La diatriba ideale, il confronto fra sistemi teorici, viene mondanizzata in termini politicamente derimibili. Senza tale riduzione mondana, la 687
Agostino, La città di Dio, IV, 4, ed. cit., pag. 171.
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politica non potrebbe agire efficacemente, controllando le procedure delle idee socialmente omologate. La cultura ridotta ad attività istituzionale segna il dominio del fare sul pensare, spostando l‟asse teleologico dall‟attività concettuale delle definizioni al rapporto tra gli enti politicamente rilevanti, che si giudicano sempre in termini di “tenuta” sociale. Tale procedimento ha caratterizzato la nascita dello Stato contrattualistico, quale forma di “composizione” politica delle istanze teologiche contrapposte e destabilizzanti gli assetti sociali, la cui traduzione in petizioni politiche ha neutralizzato. E‟ singolare che Scheler faccia implicito riferimento al paradigma liberale di azione politico-sociale per stabilire la nuova “pace sociale” tra indirizzi metafisici secolarizzati. Un tale paradigma ha esautorato, non salvaguardato, il pensiero metafisico a favore di una concezione empiristica della coscienza umana. Senza contare, inoltre, che le posizioni categoriali, in quanto intuizioni del mondo, non possono relazionarsi che in termini logici con altre intuizioni ideali, secondo un processo dialettico che non snaturi le loro rispettive posizioni fondamentali. In questa fondamentale persistenza entro uno stesso orizzonte di senso simbolico, si stabilisce la differenza di rapporto tra dimensioni di pensiero e posizioni socio-politiche, soggette queste a un dinamismo di natura pratica, di tipo evolutivo e relativo al contesto dei bisogni di gruppi umani. La struttura ideale, invece, non può avere la stessa processualità delle strutture sociali, per quanto stretta possa essere la connessione organica tra modelli formali e istituzioni storiche, poiché ogni struttura ideale si definisce attraverso connessioni logiche, astratte dalla negatività del divenire, che hanno a fondamento una credenza trascendente, meta-empirica, non già un postulato empirico temporalmente determinabile come “principio” razionale del processo sociale (a es. il “patto sociale”), da cui si sviluppa la trama causale dei fenomeni storici, che su quel presupposto acquistano un senso razionale. Nella sfera ideale non vigono rapporti causali, tali che il seguito sia il risultato dell‟azione promossa dal precedente, che è il procedimento tipico dei nessi tra enti storico-mondani, ma inferenze intuitive di relazioni possibili, ognuna avente un senso esplicativo, anche se non sempre cognitivo di senso empirico. Perciò il pensiero metafisico era dai classici equiparato a una “contemplazione” – e non appunto a una “cognizione” – dell‟Essere. La politica può agire solo su una base di storicità sociologica, ma non può intervenire a mediare i rapporti logici, finquando rimangono di natura 347
teoretica. Una interferenza ideologica presuppone che le sfere di pensiero siano tradotte in relazioni formali, le quali soltanto possono consistere secondo modalità istituzionali. Da questo punto di vista, il passaggio dal pensare dialogico al pensiero scritto ha costituito la premessa dell‟universalizzazione della logica come tecnica del discorso razionale in un sistema formalizzato. Tale traduzione costituisce il movimento che caratterizza ogni processo di secolarizzazione, intesa in senso generale come “passaggio” dalla sfera del sacro a quella del mondo profano, nel cui ambito hanno valore politicamente reale le posizioni ideali, che sono perciò politicamente mediabili. La dinamica sociologica di “conservazione” e “progresso” può inerire a una dimensione eticizzata dei valori ideali quando lo scontro ideale viene assunto in termini afferenti a relazioni di interessi sociali tra movimenti politici contrapposti, cioè viene ricodificato in senso istituzionale, legato cioè al controllo di quella dinamica. Ma sul piano dei rapporti puramente ideali, la polemica ideologica non ha alcun senso logico, poiché le rispettive assunzioni di principio non possono derogare ai propri fondamenti intuitivi, per cui la loro diversità di principio non è derimibile sulla base di opzioni di convenienza. In questo senso, il dialogo teoretico si stabilisce sempre, se dialogo è, su un piano di convenzione formale che oggettiva le forme del pensiero, senza però mai de-fiinirlo, in quanto idealmente le differenze restano connotati non disponibili, meta-fisici. Conseguentemente, un dialogo propriamente ideale non può stabilirsi se non nei termini e nei limiti di un assentimento ovvero di un dissenso di chi ascolta al pensiero di chi parla. Per questa ragione la forma scritta ha coniugato alla maggiore elaborazione formale del pensiero la condizione mono-logica propria di chi non ha contraddittorio, e perciò può meglio astrarre dalla fisicità del negativo dialettico. La “fisicità” è la pre-condizione di ogni relazione formale, e quindi politicizzabile attraverso il controllo giuridico dello Stato sul pensiero istituzionalizzato. Su tale presupposto “fisico” viene fondato lo Stato assolutistico hobbesiano, ed è sullo stesso presupposto che si opera ogni controllo sul pensiero attraverso la regolamentazione istituzionale delle sue espressioni formali, cioè delle sue possibilità di libertà. In questo senso, dal punto di vista della sfera del pensiero, il Potere non è altro in essenza che il controllo ermeneutico del pensare, e sulla pretesa del monopolio ermeneutico la Chiesa ha stabilito le sue prerogative di potere teologico-politico sulla cristianità. La coesistenza di sistemi di pensiero diversi, non va confusa con la 348
molteplicità delle strutture storico-sociali, i quanto la “razionalizzazione” moderna dei sistemi comunicativi infra-sociali assume come rilevante la sola attualità avvenimenziale, tale che la sua rilevazione razionale sia possibile per causas, cioè sulla base di una prevedibile causalità sistemica, scientificamente metodizzata. Ragione e calcolo sono dunque correlativi e sinonimi di un unico processo di riduzione dei fenomeni al loro dato oggettivabile e mediabile. Se si è inteso il rapporto epocale della mediazione politica con l‟economia, ci si rende conto della natura e del fondamento del capitalismo moderno. Infatti, con la espansione del capitalismo e della sua “organizzazione” e cioè razionalizzazione dei fenomeni mondani, “l‟uomo viene a essere trattato sempre più come una grandezza astratta calcolabile ed esperimenta sempre più il mondo esterno in base a queste relazioni astratte”. Scheler crede di poter pronosticare che una “suprema unificazione e riconciliazione, metafisica e religiosa e, pertanto, anche politico-sociale, degli strati sociali”,688 sarà in grado di confutare le diverse “fonti dell‟illusione”, cioè “le idee della nostra epoca per quanto riguarda l‟uomo e la divinità”, che appartengono “a epoche di un‟umanità infante, che preme ancora poco nella direzione del livellamento, in cerchie culturali saldamente chiuse”, e che pertanto “non corrispondono più al livello storico-universale dell‟essere e delle strutture sociali dell‟umanità di oggi”. All‟uopo indica “quattro possibili generi di presa di posizione di una élite politica rispetto alla religione e alla metafisica”. La prima, è la “credenza confessionale in una dogmatica ecclesiastica”. La seconda, è il rifiuto programmatico di ogni ipotesi di trascendenza, come nel marxismo. La terza, è l‟atteggiamento machiavellico di legare al modo fascista funzionalmente la religione al potere. La quarta, classica in filosofia, è di considerare la religione come “la metafisica delle masse”.689 Nessuna di queste quattro prese di posizione soddisfa l‟esigenza di guidare il “livellamento” epocale, che è quella di rigettare ogni tipo di rapporto metafisico univoco con “le cose ultime”, e invece di dare “spazio all‟intera pienezza delle vedute, che la storia della religione e della metafisica le offre”, cercando di “decidere” ciò che della tradizione può avere ancora un senso attuale.690 Dell‟intera tradizione, dunque, va espunto ciò che è vivo da ciò che è morto, secondo un 688
M. Scheler, Loc. cit., pag. 319. Ivi, pagg. 320-321. 690 Ivi, pag. 322. 689
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procedimento cognitivo tipico del razionalismo rielaboratore di miti, tale da assicurare alla memoria dell‟umanità un compendio di saggezza universale cui attingere come a un archivio ben ordinato del sapere umano. Non si può negare che il sincretismo pragmatico sia divenuto il metodo più diffuso della nuova élite della cultura massificata. Basti considerare la produzione culturale di massa offerta al godimento universale da parte delle “fonti dell‟illusione” occidentali. Ma l‟idea di una religione universale che potesse riassumere il fiore delle esperienze culturali particolari dell‟umanità è stata già adombrata da Cusano, e fa parte anch‟essa dunque del patrimonio teologico del cattolicesimo, anche recente.691 D‟altronde, che le opzioni elencate da Scheler non fossero esclusive, lo attesta il percorso stesso della Chiesa, la quale ha congiunto al confessionalismo tradizionale il puro spirito machiavellico nelle relazioni internazionali, sottoscrivendo concordati con i regimi totalitari diffondendo una mentalità cinica nei paesi dove, nel secondo dopoguerra, ha prevalso il consenso ai partiti cattolici che a essa facevano diretto o indiretto riferimento morale ed elettorale. Tutto ciò in nome della salvaguardia dei suoi interessi mondani e della sua sopravvivenza, come se l‟abeas corpus fosse il suo fine, e non già la testimonianza della verità. L‟alternativa poteva essere la sua morte in croce, che l‟avrebbe riscattata, con una rinascita spirituale, non soltanto della morte fisica di Gesù, ma dal coinvolgimento alle storiche nefandezze della cristianità romana, che ancora lacerano il tessuto bimillenario del Cristianesimo, che si voleva inconsutile. Solo una grande conversione potrebbe invocare Dio per salvare l‟umanità dalla sua stessa diabolica civilizzazione. La struttura globale del capitalismo contemporaneo porta a un livello spazialmente più comprensivo dell‟antico Imperium l‟astrattezza del regime sociale basato sul principio economicistico della convivenza umana. Il processo già da secoli avviato di identificazione-riduzione dell‟etico al tecnico, cioè della politica all‟economia, si costituisce come un‟espansione della logica del conflitto a detrimento di ogni criterio morale della carità, per cui l‟attuale configurazione super-nazionale del capitalismo è strutturalmente coerente con le sue premesse deontologiche ed epistemologiche. Tutti vengono infatti chiamati a produrre e a consumare quale dovere coincidente con la teleologia strutturale. La redenzione da questa condizione umana non può essere politica, 691
Ved. V. Mancuso, Io e Dio. Una guida dei perplessi, Milano, 2011, che propone al cattolicesimo odierno “una fede più umana”, ossia di privilegiare al concetto dottrinale di verità “una visione dinamica e non più statica”: pagg. 429- 446.
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perché anch‟essa è espressione della riduzione dell‟Essere all‟ente, dell‟etica a tecnica. La politica astratta dal suo fondamento morale e ridotta a tecnica di controllo sociale, a economia, si converte da principio d‟ordine (Governo) nel suo opposto logico, a ragione conflittuale (economia). Come ogni principio astratto, di mezzo assunto come fine in sé, la politica, che in origine secondo il suo fine etico era strumento di pace sociale, senza quel fine diventa logica del conflitto economico: dalla “pace” sociale alla “concorrenza” degli interessi privati, il percorso dialettico della politica la costituisce nel suo fine immanente. Come ogni pensiero astratto dal suo fine trascendente, anche la politica si converte nel suo opposto dialettico. Da strumento di pace a tecnica del conflitto umano, la politica subisce la sua tra svalutazione dei fini, in ragione della sua astratta considerazione “tecnica” di relazionalità umana. Anche la politica, astratta dal suo fine etico di cui è strumento razionale, diventa altro-da-sé, si muta nel suo opposto logico. Ciò vuol dire che ogni strumento tecnico è qualificato logicamente dal suo fine, che è il suo principio costitutivo. Se il fine è diverso dal suo principio, lo strumento persegue il suo principio contraddicendo il fine improprio, rivelando pertanto il suo errore rivelandosi falso. Ciò comporta, conformemente all‟intuizione aristotelica, che ogni ente è la realtà della sua potenza ideale, cioè della possibilità insita nel suo principio, che è logico in quanto inscritto nel suo fondamento ontologico, che è l‟orizzonte di senso di ogni realtà d‟essere degli enti. Intervenendo sui mezzi, la volontà umana può mutarne la destinazione empirica, ma non la loro ragione ideale, che costituisce la loro verità. Verità è ciò che non è disponibile per azione umana a una destinazione diversa dal suo fine fondamentale; e ciò che non è manipolabile è ciò che è in sé il suo se stesso. L‟immodificabilità di ogni vero, riduce l‟azione sui mezzi una pratica illusoria, destinata a fallire i suoi scopi teleologici astrattamente preordinati dalla superba volontà umana in preda al suo demone poietico, che sta diabolicamente conducendo l‟umanità alla fine della sua identità divina. E consapevoli di ciò, disincantati verso il mito razionalistico dell‟umano potere della politica, quale antropologia, cultura e morale potrebbe, all‟uopo, più di quella cristiana assumersi il compito di ripensare a una Città dell‟uomo ispirata al principio impolitico della carità e liberata dell‟antico retaggio razionalistico pagano? 351