POMEZIA-NOTIZIE
Maggio 2022
SONIA GIOVANNETTI PHARMAKON di Marina Caracciolo
T
UTTO comincia con una vox media: φάρμακον. Balsamo e droga insieme, come i veleni dei serpenti, che in certe dosi sono curativi ma in altre letali. Come la digitalis purpurea o l’atropa belladonna o altre piante medicinali che possono curare come anche portare alla morte. Un duplice aspetto, quello del phármakon, che rimanda alla complessità della vita e delle cose, alludendo ad un tempo alla loro complementare contraddittorietà. Un elemento bifronte che partecipa in egual modo del bene come del male, raffigurando ciò che è gradevole ma anche il suo contrario. E nell’uno e nell’altro dei suoi due volti risulta senza dubbio seducente perché trascina, perché induce ad uscire dai percorsi abituali e apre la strada al sortilegio, alla magia. E quale maggior magia, quale più grande sortilegio della poesia, che è una misteriosa congerie di dolceamari pensieri, sensazioni, sogni, incanti, memorie, intuizioni! Tutto ciò si ritrova puntulamente in questo nuovo, bellissimo libro di versi di Sonia Giovannetti. La poesia può curare perché porta ad accettare, proprio nel momento in cui lo afferma, il male del mondo, riuscendo ad esorcizzarlo pur senza mai poterlo eliminare del tutto. «Il dolore che il poeta prova – scrive la poetessa nella sua presentazione – quando, in esito al suo travaglio, arriva a nominare le cose è infatti spesso anche il segno e la condizione della sua guarigione:
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come ogni pharmakon, anche la parola è dunque, in qualche modo, antidoto di se stessa». Di quanti travagli sono densi questi versi! Il dolore della guerra, l’orrore mai dimenticato dell’Olocausto, il disagio dell’emigrazione, un amore che abbandona, drammatici enigmi rimasti irrisolti, speranze deluse, un’epidemia che terrorizza e allontana gli uomini dai loro simili, la nostalgia della giovinezza e delle sue gioie incontaminate, i quesiti esistenziali che urgono ma non trovano mai risposte certe. Ogni aspetto qui si fonde e si intreccia ad un altro, senza strappi né visibili suture, con un’impronta lirica sempre vellutata, leggera e piana, avvolta in una malinconica serenità che si tramuta nel naturale esito di un’aristocratica finezza espressiva. È come se il pensiero poetante dell’autrice fosse un crogiuolo, anzi una conca sotterranea colma di riflessioni, impressioni e ricordi, che tuttavia, pur nella sua profondità, non è mai oscura, perché c’è un raggio che vi penetra e la rischiara: è un anelito costante, che definirei luminoso, verso un approdo, una salda sponda che possa donare certezze e quiete; un punto d’appoggio nel faticoso itinerario del viandante, del Wanderer che procede instancabile, sempre cercando di accostarsi a quel dove irraggiungibile (Quel dove che tutto contiene / nella diversità dell’essere), proprio perché in quella tenace brama, in quell’incessante proseguire reclamando squarci di libertà sta il senso vero dell’esistenza. Il lessico poetico, cosparso di parole come mare, fiume, foce, vento, sentiero, stelle, onde, scoglio, voli, vela, ha appunto il fascino possente di un “fatale andare” mirando sempre oltre, in