POMEZIA-NOTIZIE
Maggio 2022
L’Arte in tutte le sue manifestazioni in tempo di pace è realtà effimera, piacevole ma non indispensabile come non lo è stato il teatro, il cinema, le mostre, il balletto, i concerti musicali dei cantanti nei grandi stadi quando è stato deciso di fare guerra pesante al virus; viappiù, quando s’è imposto di dover vivere ciascuno alimentandosi del proprio mondo interiore durante la reclusione nelle proprie case, allora l’Arte è divenuta ‘albero maestro’ dell’umana nave esistenziale! Forse chi non era artista lo è diventato per la potente necessità di nutrirsi della bellezza che la pandemia stava soffocando, come chi non era atleta s’è improvvisato pur di compiere qualche corsetta fuori dalle mura domestiche. E forse anche chi non era poeta lo è divenuto pur di farsi compagnia nell’estensione compatta della solitudine fattasi gelatina palpabile, affinché le parole e i versi potessero in essa infiltrarsi per corromperla. E chi già era poeta altresì non poteva non versificare sull’evento e le sue deleterie conseguenze, magari in forma diaristica, consequenziale, tenendo conto dell’evoluzione e dell’involuzione a fasi alterne del male collettivo. Fasi alterne che hanno assunto colorazioni dettate dall’organo governativo e la più famigerata è stata quando l’intera Italia è entrata In zona rossa e oltre, ovvero anche l’Europa e gli altri continenti. «Basso Molise, zona rossa./ Per due settimane, alla finestra,/ staremo a guardare lo spuntare/ del sole sul mare, l’innalzarsi/ del disco rosso per le libere/ plaghe del cielo, eclissarsi/ come un solitario peregrino/ cui è stata negata la persistenza/ dentro città e borghi malati/ di funesta pandemia. Salgono/ la malinconia e la tristezza,/ nell’arresto domiciliare, imposto,/ ma con disarmata volontà accettato. […] Cala torva la prima sera./ Domani sapremo chi e quanti/ sono stati morsi dalla tarantola nera/ e gettati nell’angoscia d’affrontare/ il calvario, a rischio di chiodi e croce.// Termoli, 8 febbraio 2021». (Pagg. 37-38). Il poeta saggista ricercatore storico traduttore molisano, Antonio Crecchia, è ricorso all’arte sua poetica per spiegare il ghermente accadimento e lo ha fatto componendo liriche nel lasso di tempo di venti mesi, quindi, comprendente due primavere, due Pasque (2020-2021), un Natale (2020), due estati, un autunno e un lunghissimo senso d’equidistanza dal nulla e dalla certezza perché il dato sicuro è stato solo il virus che cambiava pelle nelle sue imprevedibili variabili. Leggendo le poesie di questa silloge a tema il lettore si sentirà di stare accanto al poeta di Termoli, proprio nella sua casa ad ascoltare il propalarsi delle notizie inerenti la pandemia; si sentirà suo
Pag. 28
ospite non occupante né spazio a tavola né altrove, ma presente virtualmente tra quelle pareti domestiche che ogni giorno hanno visto l’autore compartecipe della tragedia che si stava svolgendo ovunque fuori. «È calata un’ombra nera/ sulla Terra. Un’ombra/ che oscura il sole della vita,/ toglie alla labbra il sorriso,/ detta sentenze di morte/ dov’essa lesta e torva arriva.// Ci toglie dalle mani le palme/ dell’ulivo, la gioia di tuffarci/ nei raggianti colori del mattino;/ priva i bimbi d’una corsa sui prati,/ tra erbe fresche e fiori immacolati;/ annulla della Pasqua i riti sacri/ e tutti ci tiene nella sua ferrigna/ rete di famelica pescatrice.» (Pag. 14). Ma è anche vero che la poetica di Antonio Crecchia possiede le tonalità giuste della convincente risalita – ricordiamo che l’autore è nato sotto il Segno zodiacale del Capricorno, tanto pervicace quanto fiducioso di raggiungere la cima dell’amata altura – per cui accanto a tanta rovina causata da un organismo infinitesimale, il Nostro ha puntato alla sconfitta dello stesso e ad una possibile via d’uscita perché la natura con le sue attrattive è là che attende, come il padre della parabola del figliol prodigo, ciascuno di noi. «Temporali di idee. Rovesci di parole./ Contemplazione del verde estivo/ disteso a macchie di pioppi e lecci,/ vecchie canne e piante d’ulivo./ Conto il transito delle ore, legate/ al mobile cocchio del sole.// Mi sfiorano carezze di vento/ odoroso d’acqua di mare,/ messaggero di rare canzoni/ sussurrate da non so quali bocche/ ritrose all’eccesso di calura./ Sul trono dell’estate l’azzurro/ cielo riposa con occhi incantati.» (Pag. 90). Isabella Michela Affinito
DOMENICO DEFELICE NON CIRCOLA L’ARIA Genesi Editrice S.A.S. Torino, Dicembre 2020. Anch'io, quando ero un bambino, sognavo una FIAT Topolino, proprio come l'autore- protagonista del racconto “500, amore mio!”. Era l'auto che mi sarebbe piaciuto acquistare da grande. “Alla presentazione di Roma – scrive Domenico Defelice, riferendosi proprio alla nuova versione della FIAT 500 – ero commosso. (…). Pensavo alla mitica Topolino, alla vecchia 500 e alle sue tante, successive versioni (…). Appena diplomato, mi buttai a capofitto in un lavoro di magazzino. Dopo due anni, firmando un mazzo di farfalle, mi comprai la 500. Ricordo che sono andato a ritirarla presso un rivenditore autorizzato di Gioia Tauro” (Cfr. Domenico Defelice, “500, amore mio” pp. 116- 117).