Premiata Salumeria Italiana 2-2022

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Autorizzazione del Consorzio del Prosciutto di Parma del 21-4-98

Periodico bimestrale per gli addetti ai lavori D A L S A L U M I F I C I O A L L A S A L U M E R I A N O N S T O P Anno XXXIV N. 2 Marzo-Aprile 2022

€ 6,70



LA

BRESAOLA

RICC A

SAPERE

DI

S A PE R E /sa·pé·re/ sostantivo maschile

Dal latino sàpere “avere sapore”: intuire il gusto delle cose, ma anche insaporirle, renderle preziose. Possedere la conoscenza, la pratica e l’esperienza che permettono di riconoscere la qualità delle materie prime senza fermarsi alle apparenze. 6LJQLÀFD HVVHUH WUDVSDUHQWL LQ FLz FKH VL ID Sapere è l’amore che mettiamo in ogni gesto.

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N. 2 Anno XXXIV Marzo-Aprile 2022

€ 6,70 Gruppo editoriale Edizioni Pubblicità Italia Srl

Eurocarni – Premiata Salumeria Italiana – Il Pesce – Euro Annuario Carne – Euro Genuine Food Annuario del Pesce e della Pesca – US Annuario dei Fornitori della Sanità in Italia

Direttore responsabile e editoriale Elena Benedetti

Comitato di redazione Franco Ferrari – Clara Fossato (UNICEB) – Giuliano Marchesin (Unicarve) – Gianni Mozzoni (Legacoop) – Manrico Murzi – François Tomei (Assocarni)

Redazione Gaia Borghi – Federica Cornia – Marco Credi Segreteria di redazione Gaia Borghi

Comitato scientifico Prof. Giovanni Ballarini – Dr. Alfonso Piscopo Collaboratori scientifici Dr. Marco Cappelli – Dr. Massimo Chiappini Prof. Eugenio Del Toma – Dr. Emanuele Guidi Dr. Pierluigi Roncaglia – Prof. Andrea Strata

Prestampa Marco Credi Marketing e pubblicità Luigi Credi – Chiara Zaccaroni Fotografia Luigi Credi

Euro Annuario Carne

Abbonamenti Fioretta Fiorentin

EURO ANNUARIO CARNE 2022

Amministrazione Andrea Tomassone

La banca dati internazionale del mercato delle carni sempre aggiornata, utile strumento di lavoro per gli operatori del settore lavorazione, commercio e distribuzione carni. Edizione 2022 Copia cartacea: € 95,00

Dal 1984 Edizioni Pubblicità Italia compone le sue riviste con computer Apple®. Il testo è impaginato con Adobe® InDesign® CC 2019. Le illustrazioni sono realizzate con Adobe® Photoshop® CC 2019.

Direzione – Redazione Amministrazione – Pubblicità Edizioni Pubblicità Italia Srl Piazza Roma 3 – 41121 MODENA Tel. 059216688 – Fax 0598671709 E-mail: redazione@pubblicitaitalia.com Web: www.premiatasalumeriaitalianaonline.com — Reg. al Tribunale di Modena n. 921 del 29-04-1988

Premiata Salumeria Italiana, 2/22

Tariffe abbonamenti Ufficio stampa e Media Partner Annuale (6 numeri): Italia € 40,00 – Estero € 50,00 Sconto librerie: 10% Modalità: versamento su c/c postale n. 52411311 intestato a Edizioni Pubblicità Italia Srl Piazza Roma 3 – 41121 MODENA ISSN 1121-9068 – Iscritta nel ROC – Registro degli Operatori di Comunicazione al n. 11256 del 14/6/2005 Stampa

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ph: Franceschini Vincenzo

Da oltre 50 anni curiamo i nostri prodotti con grande amore. Selezioniamo solo le migliori carni di suini Italiani e le lavoriamo nel rispetto della tradizione.

FRANCESCHINI GINO & C. SRL Via dei Marmorari, 38 - 41057 Spilamberto (Mo) Tel. + 39 (0) 59784037 - Fax +39 (0) 59784075 - info@franceschinigino.it - www.franceschinigino.it


N. 2

€ 6,70 Eurocarni – Premiata Salumeria Italiana – Il Pesce – Euro Annuario Carne – Euro Genuine Food Annuario del Pesce e della Pesca – US Annuario dei Fornitori della Sanità in Italia

A pagina 42.

In questo numero:

Agenda

Barcellona, Spagna – Verona – Bologna

12

Immagini

Salumeria podolica

16

Italian wines export

18

Tendenze

Autentica: Dolce&Gabbana rende omaggio alle Botteghe storiche di Milano come la Salumeria-Rosticceria Fratelli Mai

20

Bottega moderna

Comunicare, comunicare, comunicare – L’accelerazione inarrestabile dell’e-commerce

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Fotografati e mangiati

Jamón Ibérico de Bellota – Croccantini cacao e nocciola

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La copertina esplosa

Speck Alto Adige IGP – Pasta all’uovo di Campofilone

26

Il food in rete

Social food

Indagini

XIX Rapporto Ismea-Qualivita, DOP e IGP nell’anno della pandemia Sebastiano Corona

32

Aziende

Prosciutto di Carpegna DOP: il prosciutto marchigiano, eccellenza italiana

38

Speciale pasta

Pasta, il rischio tangibile dello scaffale vuoto

Guido Guidi

La pasta nel mondo delle Indicazioni Geografiche

Sebastiano Corona

Elena Benedetti

Marcozzi, la storia dentro ad ogni singolo filo di pasta

30

42 48 54

Pasta all’uovo, consigli pratici per riconoscere quella di qualità

Chiara Papotti

58

Storia della pasta in dieci piatti

Federica Cornia

60

Mercati

Un 2021 da incorniciare per la Finocchiona IGP

64

Buona carne non mente

Porcomondo! Il campionato del mondo del musetto

Elisa Guizzo

72

Prodotti tipici

I prodotti delle Podoliche

Andrea Gaddini

76

Spianata e altre mortadelle romane

Giovanni Ballarini

82

Coccole nella nebbia: il piacere della Mariola cruda di Piacenza

Chiara Papotti

84

Mostardella, salume del popolo ligure

Giovanni Ballarini

86

A pagina 84.

Autorizzazione del Consorzio del Prosciutto di Parma del 21-4-98

Periodico bimestrale per gli addetti ai lavori D A L S A L U M I F I C I O A L L A S A L U M E R I A N O N S T O P Anno XXXIV N. 2 Marzo-Aprile 2022

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In copertina: è primavera con lo Speck Alto Adige IGP e la pasta all’uovo Marcozzi di Campofilone (photo © Massimiliano Rella).

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Week-end

Promesse d’amore e passeggiate al parco

Gaia Borghi

90

Fiere

Malaga H&T, idee per l’Ho.Re.Ca.

Riccardo Lagorio

96

L’agroalimentare affronta l’emergenza internazionale Formaggio

98

La Casearia Carpenedo

Gian Omar Bison

100

Il caprino più “fico”

Roberto Villa

104

La mozzarella firmata STG

Riccardo Lagorio

106

Olio

Olio extravergine: conoscerlo per non sprecarlo

110

Dolci

La Pasqua raccontata da tre dolci tradizionali che intrecciano sacro e profano

Chiara Papotti

112

Dino Villani e l’invenzione della Colomba di Pasqua

Giovanni Ballarini

116

A pagina 106.

A pagina 64.

A pagina 30.

www.premiatasalumeriaitaliana-online.com 8

Premiata Salumeria Italiana, 2/22



A pagina 38.

A pagina 100.

A pagina 116.

Pane

A merenda con salumi affumicati e l’antico Ur-Paarl della Val Venosta

Chiara Papotti

120

Vino

Le Volpi e Monte Fasolo: raccontare i Colli Euganei e berli nel bicchiere

Gian Omar Bison

124

Il vino marino in anfora di Antonio Arrighi e altre meraviglie elbane

Federica Cornia

128

Export vino valore record: 7,1 miliardi nel 2021

132

Tecnologie

Al Salumificio San Michele l’Industria 4.0 con CSB è già realtà

134

Libri

Esiste il cibo perfetto?

138

Un Re in Cucina, il Maiale

139

Cioccolato Teobromina 650mg – Parla mentre mangi – Steak house e macellerie d’Italia

140

Tre libri

www.premiatasalumeriaitaliana-online.com 10

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Referente vendite per l’Italia


AGENDA

Barcellona, Spagna Aprile inizia subito con un appuntamento da non mancare! Da lunedì 4 a giovedì 7 aprile a Barcellona prenderà vita Alimentaria, finalmente in presenza dopo la pausa forzata causata dalla pandemia. L’edizione 2022 si preannuncia ricca di novità e contenuti, con l’abbinamento a Hostelco, salone dedicato all’HO.RE.CA. Le due fiere insieme offriranno una piattaforma internazionale completa e trasversale. In qualità di fiera leader, ad ogni appuntamento Alimentaria anticipa le tendenze e offre opportunità di business. Articolata in dieci multi sotto-saloni che andranno a popolare i tanti padiglioni della Gran Via (Intercarn, Grocery Foods, Alimentaria Trends, Interlact, Expoconser, Restaurama, International pavilions, Lands of Spain, Mediterranean Foods e Snack, Biscuits and Confectionery), Alimentaria ospiterà al suo interno anche eventi incentrati su gastronomia, innovazione e tendenze di settore con The Alimentaria Hub, The Experience e Innoval 2022. Per gli operatori della filiera delle proteine animali Intercarn, il salone tematico dedicato alle carni e ai prodotti di salumeria, sarà sicuramente protagonista all’interno di Alimentaria 2022, sia per numero di aziende espositrici (oltre 500) che per i visitatori che metteranno in agenda la trasferta in fiera (photo © instagram.com/alimentariabcn). www.alimentaria-bcn.com

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Verona Dall’Europa agli Stati Uniti, da Singapore al Giappone, dall’Eurasia fino agli emergenti mercati africani: accelera il piano strategico di Veronafiere per l’edizione numero 54 di Vinitaly che, con più di 4.000 aziende espositrici, ritorna dal 10 al 13 aprile prossimi. Vinitaly si svolgerà in contemporanea a Enolitech, Salone internazionale delle tecnologie per la produzione di vino olio e birra, e a Sol&Agrifood, la rassegna dedicata all’agroalimentare di qualità. Secondo le disposizioni vigenti, l’accesso alle manifestazioni fieristiche sarà consentito solo con super green pass o, per espositori e visitatori esteri con status vaccinale diverso da quello riconosciuto dall’Italia, con green pass ottenuto tramite tampone. Nel quartiere fieristico di Veronafiere saranno comunque attivi strumenti e misure di controllo e di sicurezza (photo © solagrifood.com). www.vinitaly.com www.solagrifood.com

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Bologna Dopo l’annullamento dell’edizione in presenza del 2021 a causa dell’emergenza sanitaria, edizione sostituita dall’evento digitale Marca Digital Session, che ha consento alla business community di mantenere attivi i contatti commerciali (oltre 9.000 presenze, 30% estere e 175 buyer di importanti insegne estere), MarcabyBolognaFiere si ripresenta finalmente in presenza il 12 e 13 aprile nel suo format classico con un layout rinnovato. Saranno cinque i padiglioni coinvolti dal layout espositivo — 25, 26, 28, 29, 30 — con una tipologia merceologica suddivisa tra food e non-food e una parte riservata alle sezioni specializzate (Marca Tech e Marca Fresh), per un evento che concentra l’attenzione dell’intera business community della MDD, di cui fanno parte anche 18 grandi insegne della DMO che costituiscono il comitato tecnico-scientifico della manifestazione, coinvolto nella definizione dello sviluppo strategico dell’evento. Sul profilo internazionale è stata rinnovata la consolidata partnership con ICE-Agenzia, che porta ogni anno a Bologna delegazioni di operatori, coinvolgendo category manager e buyer delle principali catene internazionali per promuovere l’incontro tra aziende espositrici, top retailer e importatori provenienti dall’estero. MarcabyBolognaFiere 2022 rilancia, inoltre, l’offerta di momenti di formazione e informazione che daranno vita ad un ricco calendario di convegni, dibattiti, seminari e focus sulle principali tendenze espresse dal modern trade nel settore MDD (photo © Fresh Plaza). www.marca.bolognafiere.it

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Ritorna Terra Madre Salone del Gusto in presenza al Parco Dora di Torino dal 22 al 26 settembre Terra Madre Salone del Gusto torna a Torino dal 22 al 26 settembre 2022. La 14a edizione dell’evento organizzato da Slow Food insieme a Regione Piemonte e Città di Torino, e che vede protagonista il cibo buono, pulito e giusto, si terrà negli spazi di Parco Dora, ex area industriale che da circa quindici anni è al centro di un progetto di trasformazione e riqualificazione urbana. Per la prima volta Terra Madre Salone del Gusto approda in questo spazio della città e la scelta è fortemente simbolica: là dove, fino agli anni ‘90, sorgevano fabbriche e impianti produttivi, oggi si insedia l’evento internazionale dedicato all’agricoltura, all’allevamento e alla produzione alimentare più importante al mondo. Negli spazi un tempo destinati ad acciaierie e ferriere e ora trasformati in un polmone verde della città, Slow Food organizza convegni, conferenze, momenti di incontro e convivialità, degustazioni: una contraddizione soltanto apparente, perché è proprio in questo incontro tra passato, presente e futuro che si sviluppa il tema scelto per la cinque giorni di Terra Madre Salone del Gusto, cioè la rigenerazione. Rigenerare non significa ricostruire, quanto piuttosto rinascere. La rigenerazione secondo Slow Food è un tema trasversale: si rigenera un albero mutilato di un suo ramo, ad esempio, così come può rigenerarsi un suolo, impoverito da monocolture o da prodotti chimici, grazie a nuovi modi di coltivare e avere cura della terra. È possibile rigenerare la montagna grazie all’allevamento e al pascolo, sfidando l’abbandono delle terre alte. Acque dolci e acque salate possono invece venire rigenerate dal sapere e dalla cultura di chi da secoli si tramanda tradizioni, conoscenze e tecniche; le città, infine, lo possono fare cancellando la distanza tra produzione e consumo di cibo che si è venuta a creare con la Rivoluzione Verde del secolo scorso e che man mano ha reso invisibile gran parte della produzione di ciò che mangiamo. Si parlerà di rigenerazione, insomma, da molti punti di vista, privilegiando un approccio (eco)sistemico e mettendo a fuoco ciò che è e ciò che per Slow Food debba essere l’alimentazione. E quello per la rigenerazione è un invito rivolto a tutti noi, dopo gli anni segnati da una pandemia che ha spezzato i rapporti tra le persone e tra le comunità e acuito crisi e difficoltà: c’è bisogno di un nuovo sguardo, di un nuovo entusiasmo (in foto, uno scatto dell’edizione 2020 del salone al Laboratorio del gusto “Le soppresse naturali”; photo © Alessandro Vargiu / Archivio Slow Food). >> Link: www.slowfood.it

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IMMAGINI

Il ceppo Podolico è un gruppo di razze bovine Grigie di grande rusticità, discendenti da un’unica popolazione originaria, probabilmente arrivata in Europa insieme alle migrazioni umane dell’era neolitica. Molto popolari fino ai primi decenni del ‘900, per le doti di resistenza nel lavoro, furono quasi spazzate via dall’avvento della meccanizzazione, e solo alcune di esse sopravvissero grazie ad una selezione per i caratteri di produzione carne. Attualmente esiste una limitata produzione di salsicce e salami di carne di bovino Podolico, pura o miscelata con carne suina: non molto comune in Italia, è invece molto diffusa nei Paesi balcanici. Per saperne di più, leggete l’interessante articolo di Andrea Gaddini a pagina 76 (photo © tasteofartisan.com).

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Il calore di casa in ogni momento

Qualità

Famiglia

Tradizione

ANTICO MAGNO COSCIA ARROSTO

DA SUINI NATI E ALLEVATI IN ITALIA

COTTURA LENTA A BASSE TEMPERATURE

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SENZA LATTOSIO E DERIVATI DEL LATTE

SENZA GLUTINE


7,11 miliardi di euro: è il valore record delle esportazioni di vino italiano nel 2021 che emerge dalle elaborazioni dell’Osservatorio Qualivita Wine su dati Istat. Altri dati sull’export del comparto vinicolo nazionale li trovate a pagina 132 (photo © Zachary Brown x unsplash).

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TENDENZE Autentica: Dolce&Gabbana rende omaggio alle Botteghe storiche di Milano come la Salumeria-Rosticceria Fratelli Mai

Dodici botteghe autentiche: il brand Dolce&Gabbana rende omaggio alla città di Milano con uno speciale tributo alle sue botteghe storiche. “Luoghi familiari, intrisi di amore incondizionato per il proprio lavoro, che rappresentano un patrimonio sociale inestimabile da custodire e proteggere”. Il progetto si chiama Autentica e riguarda dodici botteghe di quartiere: l’obiettivo del marchio è infatti quello di celebrare gli artigiani locali e le attività che ancora resistono nonostante i momenti difficili, con l’obiettivo di supportarli e valorizzarli. Un’iniziativa che è una dichiarazione d’amore per l’artigianalità e le cose belle, espressa anche in un Manifesto creato per l’occasione e che, attraverso le nove lettere di “Autentica”, ne racconta tutti i valori e i principi cardine. E così, dal 22 al 28 febbraio scorso, in occasione della Milano Fashion Week, queste realtà si sono vestite di colori accesi e di una creatività esclusiva, sviluppata in collaborazione con Burro Studio. Dalla Macelleria Pellegrini alla Latteria Carlon, dal Bar Picchio alla Salumeria-Rosticceria Fratelli Mai – Dal 1943. I due fratelli Mai, CARMINE e DOMENICO, portano avanti questa attività da tempo punto di riferimento per i pranzi e le merende dei Milanesi, aperta dal padre nel 1943 in via Savona 23 (photo © world.dolcegabbana.com).

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PROTETT

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Tradizione di grande Nobiltà

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Un grande aceto che viene dalle tradizioni della nobiltà modenese

L’aceto balsamico ha avuto origine dall’antichissima usanza dei Romani di cuocere il mosto dell’uva, grazie alle caratteristiche delle uve del territorio modenese. Oltre alla produzione dell’Aceto Balsamico di Modena IGP, ottimo per l’uso quotidiano, nelle acetaie delle famiglie più ricche e nobili si è nei secoli sviluppato un processo lentissimo e laborioso che produce un aceto senza eguali, raro e prezioso. Arrivato ai nostri giorni è chiamato “Aceto Balsamico Tradizionale di Modena DOP (Denominazione di Origine Protetta); in passato veniva citato nei lasciti testamentari ed era dote prestigiosa per le giovani spose di aristocratiche origini. Era gelosamente conservato nei sottotetto e amorevolmente curato in famiglia, di generazione in generazione. Era considerato una sorta di Panacea dai principi medicamentosi in grado di curare tutti i mali e, nell’occasione, era considerato un regalo degno di “Re e Principi”.

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E L A Questa bottiglia da 100 ml

è garanzia di

originalità e qualità per l’ aceto della antica tradizione delle nobili famiglie modenesi.

con incarico di “Tutela” dal Ministero Politiche Agricole e Forestali per DM 16/10/2009, Gazz.Uff. 4/11/09

Aceto Balsamico Tradizionale di Modena DOP La tradizione produttiva è certamente antichissima, ma... che l’aceto invecchi è un dire tutto modenese. In realtà chi invecchia è il padrone, mentre l’Aceto Balsamico Tradizionale DOP matura nelle botticelle e sublima a pura essenza attraverso un lunghissimo processo produttivo. Si tratta di un processo “in continuo” che segue la famiglia e unisce le generazioni, e che solo dopo almeno 12 anni di attività, inizia a dare una piccola

aliquota annuale di prodotto finito. Si dovranno poi attendere almeno 25 anni per ottenere la qualità ”Extra Vecchio”. Solo dopo aver superato l’esame degli assaggiatori esperti, il prodotto viene imbottigliato presso il centro di imbottigliamento autorizzato, naturalmente nella famosa bottiglietta da 100 ml detta “di Giugiaro”, il famoso designer che la realizzò nel 1987 perchè fosse il simbolo di questo aceto unico nel mondo.

Consorzio Tutela Aceto Balsamico Tradizionale di Modena Viale Virgilio 55, 41123 Modena tel. 059 208604 fax 059 208606 consorzio.tradizionale@mo.camcom.it www.balsamico.tradizionale.it


BOTTEGA MODERNA

Comunicare, comunicare, comunicare Lavagne, pannelli, cartoncini, foglietti: va bene tutto purché si comunichi al cliente il valore aggiungo di quel dato salume, formaggio, vino o quant’altro. Abitualmente il tempo dedicato all’atto di acquisto è contenuto e di questi tempi, con tutte le complicazioni legate alla pandemia, si cercano di soddisfare rapidamente le tante richieste del cliente. Ecco che la comunicazione diventa ancora più strategica, per informare su eventuali servizi aggiuntivi della bottega (magari e-commerce, home delivery, ordini telefonici o su whatsapp), oppure per spiegare una linea di prodotti, il dettaglio su un fornitore, una proposta di abbinamenti come nel caso dei vini. Il tutto va fatto con una grafica il più possibile curata ma pur sempre spontanea.

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L’accelerazione inarrestabile dell’e-commerce I clienti facevano acquisti on-line già prima della pandemia, ma la necessità di limitare il contatto fisico nei negozi ha prodotto una nuova domanda e ha incoraggiato i retailer a sperimentare nuove opzioni, dando vita a nuove abitudini e aspettative delle persone. Mentre i consumatori di tutto il mondo continuano a fare acquisti negli store, sempre più spesso si affidano ai servizi click & collect e si iscrivono anche a servizi di delivery di generi alimentari. Mentre i comportamenti dei consumatori continuano ad evolversi, l’e-commerce insieme a quelle opzioni miste e ibride non fanno che aumentare. Le imprese, i retailer, gli store, dovrebbero ore chiedersi: “siamo attrezzati per affrontare queste nuove aspettative ibride dei clienti?” (fonte: MANHATTAN ASSOCIATES).

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FOTOGRAFATI E MANGIATI

JAMÓN IBÉRICO DE BELLOTA marcialguijuelo.es

Produttore: Marcial Castro S.L.U., Guijuelo, Salamanca. Paese: Spagna. Ingredienti: carne di suino iberico “de bellota” e sale marino. Senza: nitriti, nitrati, glutine, lattosio, destrosio. Descrizione: ecco un prodotto veramente unico, il jamón ibérico de bellota di Marcial Castro, azienda a conduzione famigliare con oltre 100 anni di esperienza nella produzione di salumi tipici spagnoli e rappresentata in Italia da ANDREA CONTICELLI MEAT & FOOD TRADING (andreaconticelli.com). Questo jamón è disponibile in un comodo pack già preaffettato e sottovuoto. La busta va aperta una quindicina di minuti prima dell’uso. All’assaggio risaltano i profumi e il sapore intenso e profondo del prosciutto, oltre alla piacevolezza e alla dolcezza della parte grassa e oleosa, che conferiscono a questo prodotto grande carattere. In abbinamento a: una bollicina senza dubbio, che sia un Franciacorta, uno Champagne o, per restare in zona iberica, un buon calice di Cava.

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CROCCANTINI CACAO E NOCCIOLA posillipodolceofficina.com

Produttore: Posillipo Dolce Officina, Gabicce Mare (PU). Regione: Marche. Ingredienti: nocciole Piemonte IGP, zucchero, cacao, albume. Senza: glutine e lattosio. Descrizione: scoperti alla Gastronomia Barozzini all’interno del Mercato Albinelli di Modena, questi biscotti croccanti con cacao puro in polvere e nocciole del Piemonte IGP sono diventati l’accompagnamento preferito a un caffè o tè in Redazione. Prodotti dall’azienda marchigiana Posillipo Dolce Officina, sono semplicemente buonissimi, dalla consistenza croccante ma leggera, quasi impalpabile. Da conservare in un luogo fresco e asciutto, al riparo dalla luce, hanno una shelflife di 120 giorni. Posillipo Dolce Officina realizza prodotti artigianali di altissima qualità tra colombe, panettoni, dolci, biscotti, sablé, frollini e croccantini. In abbinamento a: un buon caffè durante la giornata o un buon calice di vino dolce per un fine pasto perfetto.

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LA COPERTINA ESPLOSA

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Prodotto caratteristico della tradizione gastronomica dell’Alto Adige, lo Speck Alto Adige IGP deve il suo gusto unico e inconfondibile alla leggera speziatura con rosmarino, ginepro, alloro, poco sale e pepe, e al particolare metodo di produzione che unisce una leggera affumicatura alla stagionatura all’aria fresca di montagna. Ricco di proteine e poco grasso, lo Speck Alto Adige IGP è un’ottima scelta da gustare ad ogni età, in ogni situazione, tagliato al coltello, a dadini per la preparazione di un sugo, a fiammifero in insalata con il cavolo verza, da abbinare ad una pasta o ad un risotto (magari con le fragole!), oppure a listarelle per un aperitivo. www.speck.it

Nel cuore delle Marche, la FAMIGLIA MARCOZZI produce la tipica pasta all’uovo di Campofilone, piccolo borgo dove cultura e tradizione dell’arte pastaia si tramandano da secoli. Per la foto di copertina abbiamo scelto le Fettuccine allo zafferano della linea all’uovo speciale di Marcozzi di Campofilone, che fondono pasta all’uovo di Campofilone con i profumi e sapori della terra. Che siano allo zafferano o al tartufo, queste fettuccine sono sempre fatte solo con ingredienti naturali e selezionati naturalmente, senza coloranti né conservanti. Marcozzi le consiglia condite con olio, formaggio e prezzemolo oppure con asparagi, speck e vongole. Noi le abbiamo abbinate allo Speck Alto Adige IGP con qualche fragola di stagione. www.marcozzidicampofilone.it

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IL FOOD IN RETE

SOCIAL di Elena 1. Scaglie si rinnova Si chiama Scaglie il progetto editoriale del Consorzio del Parmigiano Reggiano nato dall’esigenza di raccontare i valori e l’eccellenza a cui il Consorzio tende quotidianamente. Attivo da due anni su scaglie.it, il portale si è rinnovato per celebrare questo traguardo. Tante le novità che si possono trovare sullo spazio virtuale che valorizza territorio e comunità del Parmigiano Reggiano parlando di natura, biodiversità e ambiente, cucina e tradizioni, storia e cultura (photo © Luz).

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2. Antica Salumeria Marchigiana Porta le tradizioni delle Marche sulle nostre tavole e lo fa proprio bene! L’Antica Salumeria Marchigiana è un bell’esempio di salumeria moderna che sfrutta anche il web e il digitale per promuovere il proprio business. Noi non ci perdiamo un loro post su instagram.com/salumeriamarchigiana e il loro ciauscolo è bello e buono (photo © instagram.com/salumeriamarchigiana).

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FOOD Benedetti

3. Driin, marketplace di prossimità Conoscete Driin? Il suo nome viene dal suono onomatopeico che fa il trillo del campanello di casa o delle biciclette. Questo marketplace è stato pensato per portare le prelibatezze delle botteghe storiche e dei piccoli negozi di quartiere on-line e consegnarle direttamente a casa dei clienti. Si tratta quindi di una piattaforma tecnologica in via di sviluppo (al momento è attiva su Bologna al link bologna.driiin.com) che permette ai consumatori di acquistare la spesa on-line dai negozi di prossimità e al contempo di preservare e valorizzare il patrimonio enogastronomico del territorio.

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4. Break-Slow, colazione slow Un e-commerce per gli amanti della colazione? C’è! Si chiama break-slow.com e comprende numerosi prodotti alimentari da scegliere nella dispensa virtuale, oltre a oggetti tra libri, coltelli e bellissimi taglieri. Da seguire anche su instagram.com/ breakslowofficial. Sono davvero bravi (photo © instagram. com/lucreziaworthington).

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INDAGINI

XIX Rapporto IsmeaQualivita, DOP e IGP nell’anno della pandemia Nell’anno che ha messo in discussione i fattori fondamentali alla base dei sistemi di produzione, distribuzione e consumo, la DOP economy conferma il suo ruolo fondamentale nei confronti dei territori, grazie al lavoro svolto da 200.000 operatori e 286 Consorzi di tutela dei comparti cibo e vino

Photo © stock.adobe.com

di Sebastiano Corona

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o conferma l’analisi ISMEA– QUALIVITA nel suo XIX Rapporto: i prodotti DOP IGP, nel 2020 raggiungono 16,6 miliardi di euro di valore alla produzione (–2,0%), pari al 19% del fatturato totale dell’agroalimentare italiano, e un export da 9,5 miliardi di euro (–0,1%), pari al 20% delle esportazioni nazionali di settore. A fine 2021 si contano complessivamente 3.249 prodotti DOP-IGP-STG nel mondo, 3.043 dei quali registrati nei Paesi europei, a cui si aggiungono le 206 produzioni DOP-IGP-STG riconosciute in 15 Paesi extracomunitari, Regno Unito compreso. In questo contesto l’Italia conferma il primato mondiale per numero di prodotti certificati con 841 DOP, IGP, STG. In Italia un euro su cinque dell’agroalimentare nazionale proviene da prodotti DOP-IGP. Un dato in calo rispetto al 2019, ma più che comprensibile nell’anno peggiore della storia recente, che conferma comunque la capacità di tenuta di un sistema diffuso in tutto il territorio. La DOP economy vale il 19% del fatturato complessivo del settore agroalimentare nazionale, grazie soprattutto al contributo delle grandi produzioni certificate, ma non mancano elementi che confermano un forte dinamismo del sistema delle Indicazioni Geografiche “minori” e più recenti, fra cui l’affermarsi di categorie come le Paste alimentari o i Prodotti della panetteria e pasticceria. Il comparto agroalimentare DOP-IGP vale 7,3 miliardi di euro alla produzione e il vitivinicolo imbottigliato raggiunge i 9,3 miliardi di euro. Sul fronte dell’export variano le dinamiche, ma si conferma il valore. Le esportazioni registrano infatti i 9,5 miliardi di euro (–0,1%), per un peso del 20% nell’export agroalimentare italiano. Si tratta di un risultato importante, con chiari effetti collegati alla pandemia sui mercati extra-UE, il cui calo è compensato da una crescita delle esportazioni verso destinazioni europee. Il valore complessivo è frutto anche di un andamento diverso fra i due comparti, con il cibo che con 3,92 miliardi di euro registra un incremento del valore esportato del +1,6% e il vino che con 5,57 miliardi di euro mostra un calo del –1,3%, dovuto ad evidenti ragioni legate ai problemi registrati dalla ristorazione per i vari lockdown.

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Pochi formaggi al mondo vantano origini così antiche come il Pecorino Romano, uno dei prodotti italiani più apprezzati, venduti e, ahimè, imitati all’estero. Ha ottenuto il riconoscimento DOP nel 1996 e con 500 milioni di valore generato è la seconda voce del PIL della Sardegna (photo © Consorzio per la Tutela del Formaggio Pecorino Romano). Mercati principali si confermano Germania (770 mln di euro), USA (647 mln di euro), Francia (520 mln di euro) e Regno Unito (268 mln di euro). Per ciò che riguarda il vitivinicolo invece, l’export raggiunge 5,6 miliardi di euro, per un –1,3% su base annua e un trend del +71% dal 2010. Risentono degli effetti della pandemia soprattutto i mercati extra-UE (–4,3%), mentre cresce l’export in UE (+4,1%) con incrementi a doppia cifra per i Paesi scandinavi e del Nord Europa. Anche l’impatto territoriale è positivo per la distribuzione nella maggior parte del Paese degli effetti positivi del sistema. Tutte le regioni e le province italiane registrano un impatto economico delle filiere DOP-IGP, anche se si conferma la concentrazione del valore nel Nord Italia. Fra le prime venti province per valore, ben undici sono delle regioni del Nord-Est, a partire dalle prime tre — Treviso, Parma e Verona — che registrano un impatto territoriale oltre il miliardo di euro. Tuttavia, nel 2020 l’area “Sud e Isole” mostra un incremento complessivo

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del valore rispetto all’anno precedente (+7,5%), con crescite importanti soprattutto per Puglia e Sardegna. L’agroalimentare a denominazione coinvolge oggi oltre 86.000 operatori, 165 Consorzi autorizzati e 46 organismi di controllo. Nel 2020 raggiunge i 7,3 miliardi di euro di valore alla produzione, per un –3,8% in un anno e con un trend del +29% dal 2010. Stabile il valore al consumo a 15,2 miliardi di euro, per un andamento del +34% sul 2010. Stabile il valore al consumo a 15,2 miliardi di euro per un andamento del +34% sul 2010. Il vitivinicolo invece riguarda oltre 113.000 operatori, 121 Consorzi autorizzati e 12 organismi di controllo. Nel 2020 registra 24,3 milioni di ettolitri di vino IG imbottigliato (+1,7% in un anno), con le DOP che rappresentano il 68% della produzione e le IGP il 32%. Il valore della produzione sfusa di vini IG è di 3,2 miliardi di euro, mentre all’imbottigliato è 9,3 miliardi di euro (–0,6%) con le DOP che ricoprono un peso economico pari all’81%.

Il Rapporto Ismea-Qualivita evidenzia ancora una volta l’aspetto principale che caratterizza in maniera specifica il settore: tutte le regioni e le province italiane hanno una ricaduta economica dovuta alle filiere dei prodotti DOP-IGP, con risvolti in ambito economico, sociale, di occupazione. Le prime cinque regioni che superano 1 miliardo di valore economico delle filiere IG sono Veneto (3,7 mld di euro), Emilia-Romagna (3,3 mld di euro), Lombardia (2,1 mld di euro), Piemonte (1,4 mld di euro) e Toscana (1,15 mld di euro). Fra le prime 20 province per valore 11 sono del Nord-Est, a partire dalle prime tre che registrano un impatto territoriale che supera il miliardo di euro: Treviso (1,6 mld di euro), Parma (1,3 mld di euro) e Verona (1,2 mld di euro). Come crescita annuale, fra le prime province i risultati migliori sono quelli di Trento (+10,7%) e Bolzano (+6,4%), Asti (+10,2%) e Napoli (+15,8%). La crescita che si registra in alcune province, soprattutto del Sud Italia, conferma lo sviluppo di alcuni poli economici nati intorno ai Consorzi di tutela che, sebbene non appartenenti ai grandi distretti produttivi, sanno porsi al centro di sistemi territoriali di qualità sostenibile. Prodotti a base di carne Tra le produzioni, quelle a base di carne contano 43 denominazioni e 3.877 operatori che generano un valore di 1,87 miliardi di euro alla produzione (–2,0%) pari al 26% del comparto Cibo DOP-IGP. Tengono i dati della categoria, mediamente in calo del –2% sia in termini di quantità certificata che di valore, con alcune eccezioni di denominazioni che hanno mantenuto il valore sul mercato. Le esportazioni raggiungono i 555 milioni di euro (–6,3%), con gli effetti della pandemia legati ai prodotti che hanno i Paesi Extra-UE fra i maggiori mercati di destinazione. In Emilia-Romagna si concentra oltre la metà del valore della categoria con più di 1 miliardo di euro; seguono Friuli-Venezia Giulia (311 milioni di euro) e Lombardia (307 milioni di euro). Le prime cinque filiere per valore alla produzione sono Prosciutto di Parma DOP, Prosciutto di San Daniele DOP, Mortadella Bologna IGP, Bresaola della Valtellina IGP, Speck Alto Adige

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IGP, che complessivamente valgono 1,6 miliardi di euro. Carni fresche Le carni fresche DOP-IGP contano 6 denominazioni e 10.293 operatori, che generano un valore di 92 milioni di euro alla produzione (–0,5%) pari all’1% del comparto Cibo DOP-IGP. L’export raggiunge 10 milioni di euro (+1,0%) e coinvolge il 9% della produzione certificata. In Sardegna (33 milioni di euro) e Toscana (18 milioni di euro) si concentra oltre la metà del valore totale della categoria. In crescita le prime tre denominazioni per ordine di valore generato Vitellone Bianco dell’Appennino Centrale IGP, Agnello di Sardegna IGP, Agnello del Centro Italia IGP. Formaggi La categoria dei formaggi conta 56 denominazioni e 25.830 operatori, che generano un valore di 4,18 miliardi di euro alla produzione (–7,8%), pari al 57% del comparto Cibo DOP-IGP. Cresce la quantità certificata, ma cala il valore per alcuni formaggi DOP per le difficoltà di assorbimento del mercato interno, soprattutto per la chiusura dell’HO.RE.CA. Le prime cinque filiere per valore alla produzione sono Grana Padano DOP, Parmigiano Reggiano DOP, Mozzarella di Bufala Campana DOP, Gorgonzola DOP e Pecorino Romano DOP, che complessivamente valgono 3,7 miliardi di euro. Aceti balsamici Il settore degli aceti balsamici conta 3 denominazioni e 672 operatori, che generano un valore di 368 milioni di euro alla produzione (–5,5%) pari al 5% del comparto Cibo DOP-IGP. Cala la quantità certificata che, dopo la crescita del 2019, torna sui livelli dell’anno precedente e la stessa dinamica si riflette sul valore, grazie alla stabilità del prezzo medio riconosciuto. L’export vale 843 milioni di euro, interessa il 92% della produzione certificata e rappresenta il 22% delle esportazioni di Cibo DOP-IGP. Ortofrutticoli Gli ortofrutticoli DOP IGP contano 118 denominazioni e 20.717 operatori, che generano un valore di 404 milioni di euro alla produzione (+26,9%) pari al

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In Toscana (25 milioni di euro), Sicilia (15 milioni di euro) e Puglia (9 milioni di euro) si concentra circa il 70% del valore totale della categoria degli oli certificati. Le prime cinque filiere per valore sono Toscano IGP, Terra di Bari DOP, Sicilia IGP, Val di Mazara DOP e Riviera Ligure DOP, che in totale valgono 47 milioni di euro. (photo © stock.adobe.com). 6% del comparto Cibo DOP-IGP. I dati sono complessivamente in crescita, grazie soprattutto all’incremento produttivo e di valore delle principali categorie del comparto che sono: mele (214 milioni di euro, +44%), frutta a guscio (44 milioni di euro, +31%), agrumi (39 milioni di euro, +25%) e frutta estiva (30 milioni di euro, +17%). Le esportazioni interessano il 27% della produzione certificata e valgono 178 milioni di euro, con una crescita del +32,8%. Oli di oliva La categoria degli oli di oliva conta 49 denominazioni e 23.160 operatori che generano un valore di 71 milioni di euro alla produzione (–14,0%), pari all’1% del comparto Cibo DOP-IGP. L’export vale 52 milioni di euro e interessa il 38% della produzione certificata a denominazione. Paste alimentari / Panetteria e pasticceria Le Paste alimentari si affermano come 5a categoria in assoluto per valore alla

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produzione con 240 milioni di euro, grazie alla Pasta di Gragnano IGP, 9o prodotto del comparto Cibo IG. Bene la categoria Panetteria e pasticceria con 82 milioni di euro trainata da Piadina Romagnola IGP (50 milioni di euro) e Cantuccini Toscani IGP (24 milioni di euro) a cui si aggiungono segnali positivi dai pani DOP. Altre categorie Fra le altre categorie (9 milioni di euro) bene soprattutto Cioccolato e Pesci e molluschi. DOP economy, un modello efficace di sviluppo dei territori Non nasconde la sua soddisfazione il Ministro delle Politiche Agricole STEFANO PATUANELLI, che sottolinea come i dati del Rapporto presentato il 14 febbraio scorso a Roma confermino la distintività e la tradizione delle nostre produzioni, pur oggi messe in pericolo da una politica europea che rischia di farne perdere il senso reale (vedi esempi di Aceto Bal-

samico e Prosecco). Ma proprio per il grande valore che la DOP economy rappresenta è necessario salvaguardare e tutelare l’intero sistema produttivo dai rischi che possono generare l’omologazione alimentare, i sistemi di etichettatura fuorvianti come il Nutriscore, le fake news, i tentativi di imitazione sia sui mercati comunitari, che su quelli terzi. «Il PNRR, con i Contratti di filiera e di distretto, gli incentivi all’innovazione, la digitalizzazione, rappresenta una grande occasione per la crescita delle filiere DOP IGP, e come MIPAAF ci impegniamo già da subito ad accompagnare le imprese in questo delicato momento, con la volontà di metterle nelle migliori condizioni per intercettarne le opportunità e compiere un ulteriore salto di qualità nel mondo e in Europa» ha dichiarato il Ministro. ANGELO FRASCARELLI, presidente ISMEA, ha ribadito che la differenziazione, insieme a innovazione e organizzazione, sia la leva del successo dell’agroalimentare italiano. Il nostro è un modello produttivo fortemente orientato alla qualità, al legame territoriale e a una differenziazione multilivello. Ma in prospettiva è necessario che la filiera agroalimentare affronti la questione con ancora più impegno rispetto al passato, orientando i propri sforzi per uscire dalla logica delle commodity e fare della distintività l’elemento cardine delle strategie produttive e commerciali. CESARE MAZZETTI, presidente Fondazione Qualivita, ha sottolineato come la DOP economy rappresenti un modello efficace di sviluppo dei territori. La coesione delle filiere, la garanzia di sicurezza per i consumatori e la capacità di dialogo con le istituzioni hanno rappresentato punti di forza per la tenuta del settore in risposta alle difficoltà emerse durante la prima fase della pandemia. I numeri delle analisi Qualivita-Ismea sono il frutto del lavoro congiunto di operatori, Consorzi di tutela, enti e istituzioni in tutta Italia. La Fondazione Qualivita continuerà a supportare il sistema attraverso l’analisi del settore, proponendo elementi utili a definire una nuova visione strategica sulla qualità in risposta ai mutamenti in atto e ai nuovi obiettivi della transizione ecologica. Sebastiano Corona

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Gorgonzola: al 5o posto tra le DOP italiane e 3o tra i formaggi vaccini Il XIX Rapporto Ismea-Qualivita colloca il Gorgonzola al quinto posto tra l’insieme dei prodotti certificati DOP dell’agroalimentare italiano grazie ad un aumento del 6,9% del valore economico nel 2020 rispetto al 2019. Con oltre 5 milioni e 250.000 forme prodotte e un volume d’affari al consumo di circa 800 milioni di euro, il Gorgonzola si conferma, inoltre, terzo formaggio di latte vaccino tra le DOP casearie italiane, che conta complessivamente 56 denominazioni. La produzione di Gorgonzola, che si divide tra Lombardia e Piemonte, traina il comparto delle due regioni, rispettivamente terza e quarta per valore economico complessivo di DOP e IGP. In particolare in Piemonte, dove si concentra la produzione (3 milioni e 700.000 forme circa prodotte nel 2021), il Gorgonzola guida la compagine degli 82 prodotti certificati capaci di generare, col solo food, un valore di 361 milioni di euro. In Lombardia, dove la produzione si attesta su poco meno di 1 milione e 530.000 forme, il Gorgonzola si colloca al quarto posto tra i prodotti DOP. >> Link: www.gorgonzola.com


AZIENDE

PROSCIUTTO DI CARPEGNA DOP: IL PROSCIUTTO MARCHIGIANO, ECCELLENZA ITALIANA

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Origini e tradizioni secolari, un patrimonio immenso fatto di gusto, profumo e sofficità uniche

I

l territorio in cui nasce il Prosciutto di Carpegna DOP è il Montefeltro, caratteristico panorama marchigiano in cui dolci valli boscose si alternano a colline e promontori sino ad arricchirsi di profili appenninici. Qui l’aria è asciutta e le correnti portano con loro il profumo dell’Adriatico, generando un microclima estremamente particolare che contribuisce alla straordinarietà di questo protagonista indiscusso della salumeria italiana. Percorrendo a ritroso la storia della sua lavorazione — artigianale e tramandata da generazioni — si arriva al 1400. In quegli anni si effettuava un processo di trattamento e stagionatura delle carni suine giunto integro fino ai giorni nostri che ha permesso al Prosciutto di Carpegna DOP di presenziare sulle tavole attraverso i secoli. La qualità Elevatissima e preservata da un Disciplinare ferreo che definisce ogni passaggio della produzione del Carpegna DOP, così da offrire al consumatore finale un prodotto tutelato e garantito. La geografia La provenienza d’origine della materia prima comprende solo tre regioni: Lombardia, Emilia-Romagna e Marche.

La lavorazione Riprende fedelmente la tradizione: dal massaggio alla salagione fino ad arrivare alla stuccatura, passaggio, quest’ultimo, che contribuisce all’unicità del Prosciutto di Carpegna DOP. Lo stucco del Carpegna, infatti, è un composto rigorosamente applicato a mano costituito da strutto, farina di riso, aromi naturali ed un mix segreto di spezie, tra cui si riconoscono pepe e paprika che ne caratterizzano il gusto intenso e aromatico. In condizioni ambientali costantemente monitorate il prosciutto viene legato e appeso alle scalere mediante corda “a strozzo” e stipato nelle cantine per proseguire la stagionatura. Un ulteriore passaggio di controllo è quello olfattivo, mediante la spillatura, che viene fatta in precisi

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In alto: stabilimento di produzione a Carpegna. In basso: la stagionatura dei prosciutti. punti delle cosce con un osso affilato. Se la coscia raggiunge gli standard qualitativi espressi nel Disciplinare si procede alla marchiatura a fuoco, che sigilla a vista la garanzia di un prodotto di elevata qualità. Il processo di selezione e lavorazione che porta il Prosciutto di Carpegna DOP al banco della salumeria e sulle nostre tavole è ricco di passaggi preziosi e fatto anche di numeri: • 160 kg, il peso minimo che deve avere il suino; • 12 kg, il peso minimo della singola coscia fresca rifilata; • 15 °C e 20 °C, la temperatura di stagionatura, in un ambiente dove penetra l’aria pura e salubre qualitativamente riconosciuta dalla Bandiera trasparente ricevuta dal comune di Carpegna;

• 13, i mesi minimi di stagionatura del Prosciutto di Carpegna DOP. Le caratteristiche Dopo questo prezioso lavoro, il Prosciutto di Carpegna DOP arriva sulle nostre tavole dove può sprigionare tutta la sua pregevole sofficità e la sua fragranza aromatica. Un vero tributo alla gastronomia italiana. Il pane lo esalta nella sua purezza e il colore, leggermente ambrato, sollecita ogni senso. Ma il Prosciutto di Carpegna DOP è perfetto anche per arricchire piatti e stuzzichini grazie alla sua nota sapida e inconfondibile. >> Link: consorzioprosciuttodicarpegna.it Nota Photo © P. Savino.

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Veroni Salumi lancia Briosa, mortadella con carne di prosciutto e guanciale ma soprattutto meno grassi e sale del salume tradizionale Veroni Salumi ha iniziato il 2022 con una novità dedicata agli appassionati della mortadella: la Briosa, preparata con carne di prosciutto e guanciale. Una ricetta studiata dalla storica azienda emiliana per offrire uno dei salumi più amati in una variante all’avanguardia dal punto di vista nutrizionale: la Briosa contiene infatti il 40% in meno di grassi e il 30% in meno di sale e calorie rispetto alla mortadella Bologna IGP. Il salumificio Veroni si è da sempre contraddistinto per la produzione di mortadelle di alta qualità, una passione trasmessa di generazione in generazione all’interno della famiglia Veroni. La Briosa va ad arricchire l’offerta di questa specialità con un prodotto che soddisfa i bisogni di consumatori sempre più attenti ad un’alimentazione sana ed equilibrata ma che, allo stesso tempo, non rinunciano al profumo e al gusto distintivo del celebre insaccato. «Ci siamo concentrati sul salume che più ci rappresenta per proporre al mercato una variante innovativa, frutto del connubio tra la nostra esperienza quasi centenaria e la costante attività di ricerca e sviluppo», spiega Emanuela Bigi, marketing manager di Veroni. «Il risultato è una mortadella che incontra le esigenze alimentari del consumatore di oggi, sempre più consapevole di quello che porta in tavola». La parte magra della nuova mortadella Veroni è realizzata con carne di prosciutto, mentre per i lardelli è utilizzato il guanciale. Insaporita da una miscela di spezie selezionate, la Briosa garantisce un alto contenuto di proteine a fronte di un minore apporto di calorie, grassi e sale. Il nome scelto gioca con l’aspetto emozionale della mortadella, un salume associato all’allegria, e con le caratteristiche che rendono questa variante più leggera. Sin dalla sua fondazione nel 1925, il salumificio emiliano ha fatto della mortadella il suo punto di forza. Già negli anni Trenta è stato il primo a produrre in Italia le mortadelle di grandi dimensioni e il Guinness dei primati, ottenuto nel 1996, è la prova della grande passione della famiglia Veroni. Fedele alla tradizione ma con uno sguardo attento al futuro, l’azienda ha selezionato per la Briosa solo ingredienti di alta qualità e di filiera tracciata. La lenta cottura nei tradizionali forni di mattoni ne assicura il gusto delicato e la morbidezza tipica della mortadella. La Briosa conferma l’impegno del salumificio nel proporre prodotti all’avanguardia a livello nutrizionale. Un passo importante in questa direzione è il recente lancio della linea BrioBrain, la colazione salata sviluppata con la consulenza di una nutrizionista per garantire il corretto mix di carboidrati, proteine e grassi buoni sin dal mattino. Per questa linea, composta da 4 referenze, Veroni ha scelto salumi ricchi di proteine e poveri di grassi come il prosciutto crudo, il cotto, la fesa di tacchino e la nuova mortadella Briosa per farcire una brioche integrale salata o un gnocchino. La Briosa è disponibile al banco salumi dei negozi al dettaglio e si aggiunge come nuova referenza alla linea “Gli Affettati Nature”, una selezione delle specialità della tradizione italiana proposte in vaschette eco-friendly in carta certificata FSC e con il 75% di plastica in meno rispetto ai tradizionali pack Veroni. >> Link: www.veroni.it

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SPECIALE PASTA

Pasta,

IL RISCHIO TANGIBILE DELLO SCAFFALE VUOTO Prima la pandemia, poi il rincaro delle materie prime alimentari e non, e ora la guerra, in una escalation senza fine. L’abbiamo ripetuto spesso negli ultimi due anni, ma mai ci saremmo aspettati che le cose si aggravassero ulteriormente in maniera così drammatica di Guido Guidi

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L’agroalimentare italiano, che solo qualche settimana fa festeggiava il superamento dello storico traguardo dei 50 miliardi di euro di export e un rimbalzo del PIL che non si vedeva da decenni, non solo deve fare i conti con l’incremento dei costi di produzione, già divenuti insostenibili a fine anno, ma anche con un conflitto bellico dalle innumerevoli conseguenze economiche e finanziarie che saranno in molti a pagare, non solo Ucraina e Russia

La pandemia prima e le tensioni nell’Est Europa poi, ci hanno dimostrato quanto siamo interconnessi e quanto sia necessario ritagliarsi uno spazio che garantisca una certa autonomia produttiva ed energetica. Stavamo andando verso la Rivoluzione verde, oggi siamo chiamati ad uno stop per tamponare una situazione senza precedenti. La storia ci sta presentando il conto

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È

complesso rappresentare una situazione definita in un momento di forte evoluzione come quello che stiamo vivendo. Certamente una fase storica senza precedenti nell’ultimo secolo. Si rischia di dare informazioni ormai superate, perché le novità sono all’ordine del giorno. L’agroalimentare italiano, che solo qualche settimana fa festeggiava il superamento dello storico traguardo dei 50 miliardi di euro di export e un rimbalzo del PIL che non si vedeva da decenni, non solo deve fare i conti con l’incremento dei costi di produzione, già divenuti insostenibili a fine anno, ma anche con un conflitto bellico dalle innumerevoli conseguenze economiche e finanziarie che saranno in molti a pagare, non solo Ucraina e Russia. Come sottolinea anche l’ISMEA in un comunicato, “lo scoppio del conflitto si è innanzitutto inserito in un contesto di tensioni sui mercati dei cereali come non si vedeva dalla precedente crisi dei prezzi del 2007-2008. Tensioni scatenate da un insieme di fattori di tipo congiunturale, geopolitico e non ultimo speculativo, che rendono l’Italia particolarmente vulnerabile in ragione dell’alto grado di dipendenza dall’estero per gli approvvigionamenti di grano e mais”. Sarebbe forse affrontabile un problema di questo genere, se non fosse che il Belpaese ha la Russia tra i principali clienti del comparto agroalimentare e vede così chiudersi un mercato proficuo e remunerativo, sul quale si era anche investito nei decenni. L’Italia è il settimo fornitore agroalimentare della Russia, dove esporta soprattutto vini e spumanti, caffè e pasta, mentre come Paese acquirente scivola nella classifica al 33o posto. Siamo invece il secondo fornitore di prodotti agroalimentari di Kiev e al decimo posto tra i Paesi clienti. Anche in questo caso esportiamo soprattutto prodotti ad alto valore aggiunto come vino, caffè e pasta, mentre acquistiamo dall’Ucraina soprattutto oli grezzi di girasole, mais (il 13% in volume delle forniture provenienti dall’estero nel 2020) e frumento tenero (5%). Sempre secondo ISMEA, frumento tenero, frumento duro e mais hanno raggiunto in Italia e all’estero quotazioni

mai toccate prima. Il grano duro ha segnato nel nostro Paese la sua massima quotazione di sempre nelle scorse settimane, dovuta soprattutto al vuoto nell’offerta, venutosi a creare dopo il crollo dei raccolti in Canada (–60%, principale esportatore mondiale) e il calo di altri importanti Paesi produttori. Ma non sembra arrestarsi. Nelle forniture globali di grano duro, il ruolo degli Stati direttamente coinvolti dal conflitto oppure rientranti geograficamente o politicamente nell’orbita russa è risibile, poiché la produzione è concentrata soprattutto in Europa, Canada, USA, Turchia e Algeria. Ma rimane il problema del frumento tenero, dove invece le quote russa e ucraina sulla produzione mondiale sono del 14% circa, pertanto lo scontro si sta riverberando in maniera decisa sulle principali piazze di scambio internazionali e sui mercati dei futures. Per il mais il problema è ancora diverso, perché i rialzi si sono generati a seguito dell’impennata della domanda cinese, legata al riavvio della produzione suinicola all’indomani del dilagare della peste suina. A tutto questo si sommano rincari e speculazioni dovute al clima di incertezza che regna sovrano. Quanto descritto sarebbe di per sé motivo di grande sconforto, se non si aggiungesse a tutto questo l’aumento della stragrande maggioranza delle materie prime e, in cima e trasversalmente, un’impennata senza precedenti di energia elettrica e gas. I prezzi erano già alle stelle prima dell’inizio del conflitto, facendo segnare, secondo l’ISTAT, l’inflazione a febbraio a quota 5,7% su base annua, il massimo storico dal 1995. Non c’era da aspettarsi nulla di diverso visto che, in un valzer di rincari e di numeri che si rincorrono, tra ipotesi e dati certi, i beni regolamentati quali energia elettrica e gas, su 12 mesi, registrano un aumento del 94%, falciando indistintamente famiglie e imprese, in un circolo vizioso e nefasto per tutti. L’Unione nazionale consumatori stima un aumento dei costi complessivi medi per famiglia di 1.668 euro, che vanno oltre i 2.000 euro per un nucleo familiare composto da marito, moglie e due figli e a 2.127 euro per una coppia senza figli con meno di 35 anni. Se non dovesse verificarsi un’inversione

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L’abbandono delle campagne per delegare quasi completamente la produzione di materia prima all’estero è un errore che oggi stiamo pagando caro, al pari della dipendenza energetica, frutto di mancate scelte politiche (photo © Zhao Jiankang). di tendenza a breve, la conseguenza sarà una contrazione degli acquisti, con tutte le ulteriori conseguenze del caso. Non sappiamo al momento se la situazione possa precipitare, ma tutto lascia intendere che il peggio debba ancora venire. D’altronde, nella sommatoria dei problemi appena elencati, mancano all’appello le conseguenze indirette delle sanzioni alla Russia. L’abbandono dell’Orso sul fronte turistico, dei consumi e degli investimenti nel nostro Paese, sta già iniziando a generare conseguenze drammatiche. Il comparto tutto è in subbuglio, non ultime le produzioni di pane e pasta, elementi fondamentali della Dieta Mediterranea, ma anche pilastri dell’economia del Paese. Il grano sta finendo: i raccolti in tutto il mondo sono stati scarsi, gli speculatori l’hanno tesaurizzato, la Cina se l’è accaparrato quando era il momento, la guerra sta dando il colpo di grazia, bloccando le movimentazioni di quello rimasto. In Canada e negli Stati Uniti il raccolto si è pressoché dimezzato, mentre in Italia

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la scorsa campagna del grano è stata discreta. Ma questo fatto, di per sé positivo, ha avuto come ovvia conseguenza un aumento sia del prezzo del grano italiano, sia di quello canadese. Resta poi il fatto che, seppur la produzione sia andata bene, non siamo mai stati un Paese autosufficiente, quindi i problemi sono tutt’altro che superati. «Gli squilibri sul mercato mondiale non finiranno qui e nell’inverno del 2022 avremo nuovi problemi, comprese le fiammate speculative. Ci dobbiamo abituare al fatto che un prodotto possa finire e che non ne arrivi più» aveva precisato RICCARDO FELICETTI, dell’omonimo pastificio, diversi mesi fa, quando ancora il conflitto bellico in Ucraina era solo una remota ipotesi. Ma di quello che è successo dopo sono testimoni gli innumerevoli colleghi, industriali e artigiani della pasta. «Il rischio è di dover fermare la produzione»: VINCENZO DIVELLA, CEO dell’omonimo pastificio, qualche settimana fa dichiarava: «il nostro grano è bloccato nei porti del mare di Azov, se non arriva entro una settimana fermiamo gli impianti».

Ma anche altri nomi altisonanti come La Molisana e Rummo hanno dovuto prendere in considerazione scelte drastiche e senza precedenti e non sono i soli. Oltre ai problemi di approvvigionamento di materie prime i cui prezzi sono alle stelle, gli impianti sono talmente energivori che fermare tutto limita i danni. Si sommano le impennate delle quotazioni di altri prodotti collaterali ma indispensabili: materiale per imballaggio, detergenti, qualunque altro bene utile direttamente o indirettamente alla produzione. Si aggiungono i costi di trasporto, oggi all’80% su gomma, con prezzi del gasolio mai visti prima. Non va meglio a chi, in luogo della pasta secca, produce quella fresca e magari ripiena. FABIO FONTANETO, AD del raviolificio Fontaneto Srl, dichiara: «da settembre abbiamo registrato aumenti delle semole di grano duro anche a doppia cifra percentuale, ma non basta. Facciamo pasta fresca ripiena e abbiamo subito un’impennata dei prezzi di molte altre materie prime, come il burro, salito di quasi il 70%, o il semolino

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Il settore della pasta, composto da 120 aziende che danno lavoro a oltre 10.000 persone, sta attraversando una crisi senza precedenti, legata al rincaro delle materie prime e a quello dei costi di energia, petrolio e materiali da imballaggio. di riso, che usiamo per “spolverare” i ravioli, aumentato di oltre il 40%, o ancora le uova, impiegate per la pasta all’uovo, anch’esse lievitate del 40%, e la carne bovina, usata per il ripieno, con un +30%». Non sono mancati nemmeno rincari considerevoli, dal 20 al 50%, dei materiali da imballo, come vaschette, cartoni, etichette e persino dei bancali di legno, indispensabili per la movimentazione dei prodotti alimentari, che oltre ad essere quasi introvabili hanno ormai un costo proibitivo. Dall’altra parte c’è l’impossibilità di aumentare i prezzi al consumatore in maniera proporzionale; c’è un cliente finale che non può assorbire completamente e subito l’aumento, ma c’è anche la Grande Distribuzione, che non sempre è disponibile a parare il colpo ribaltando gli aumenti allo scaffale. Fatto sta che con un incremento medio dei costi di produzione per la pasta pari al 40% circa, anche il prezzo del prodotto al chilo non poteva che aumentare proporzionalmente o quasi, andando ad impattare su portafogli già

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discretamente provati. I consumatori sono tendenzialmente informati, perché il tamtam dei rincari è noto da mesi e, soprattutto, perché hanno toccato con mano l’impennata delle bollette, ma a fatica riescono ad assorbire ulteriori aumenti. Per fortuna, la pasta resta comunque, nel complesso, un alimento dal forte valore nutritivo, formidabile per le variazioni sul tema che consente a tavola e in cucina e che tutti si possono permettere. La GDO sta facendo certamente resistenza, anche se le situazioni sono molto diverse tra loro e dipendono in larga misura dal potere contrattuale di ogni fornitore. Anche le grandi insegne sono a loro volta aziende che devono far quadrare i conti e che stanno subendo le conseguenze della situazione in atto. A denunce di totale chiusura all’ipotesi di adeguamento dei prezzi, si affiancano aperture all’introduzione di aumenti graduali. Ma non sono poche le situazioni di pastifici che sperano di avere meno richieste possibili, per limitare i danni derivanti da accordi presi in tempi non sospetti e con tutt’altri listini.

ALBERTO CELLINO, dell’omonimo pastificio di pasta secca, ma anche attore importante dell’industria molitoria, è durissimo nelle sue dichiarazioni: «siamo in guerra. Se la GDO non adeguerà i prezzi, gli scaffali resteranno vuoti. Le imprese saranno costrette a bloccare la produzione, poste davanti al problema di scegliere se pagare imposte, fornitori o dipendenti. Ma chi, come noi, ha diverse centinaia di persone a libro paga, non ha solo la preoccupazione di mandare avanti l’azienda, porta sulle spalle anche la responsabilità di centinaia di famiglie». Gli fa eco VITO ARRA, artigiano della pasta fresca ripiena, che precisa: «in molti casi la GDO sta facendo uno sforzo, consapevole che i rincari sono oggettivi e ci sono per tutti, ma gli aumenti vengono assorbiti in maniera molto graduale e diversa a seconda dei contesti. Noi trasformatori siamo un anello intermedio della filiera, schiacciati tra il primario e la distribuzione, talvolta accusati di essere la causa di problemi o speculazioni, di cui invece siamo le prime vittime».

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I consumatori oggi sono tendenzialmente informati dei rincari, avendo toccato con mano l’impennata delle bollette, ma a fatica riescono ad assorbire ulteriori aumenti. Per fortuna, la pasta resta comunque, nel complesso, un alimento dal forte valore nutritivo, formidabile per le variazioni sul tema che consente a tavola e in cucina e che tutti si possono permettere. Si lamentano, dunque e a ragion veduta i pastifici, soprattutto quelli più piccoli che hanno poco potere contrattuale in fase di acquisto quanto di vendita, ma la GDO non ci sta ad assumersi responsabilità che non ritiene proprie. Ognuno cerca di parare il colpo, ma il momento è drammatico per tutti, dove più dove meno. FRANCESCO PUGLIESE, amministratore delegato di Conad, denuncia: «Abbiamo avuto un incremento dei listini dell’1,8% complessivo, con punte del 16% per la pasta». L’energia elettrica è un costo ormai insopportabile tanto per i fornitori quanto per le insegne della distribuzione, con un aumento dell’85%. «Qualcuno — aggiunge Pugliese — rischia di vedersi azzerare i profitti perché il calo dei consumi si può forse smorzare, ma non fermare completamente, e presto si andrà a risparmiare ulteriormente sul cibo, promozioni e sconti non basteranno più». Paradossalmente per molti pastifici la speranza è di avere meno richieste e parare così un colpo che si anticipa

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durissimo. E qui si rifà vivo più che mai un tema delicato come quello delle pratiche sleali nel comparto agroalimentare, in cui i soggetti più forti nella filiera tendono ad esercitare il proprio potere contrattuale imponendo agli altri, più deboli, le proprie condizioni. All’indomani dell’entrata in vigore del decreto legislativo 8 novembre 2021, che attua la direttiva (UE) 2019/633 del Parlamento europeo e del Consiglio, in materia, in tanti ne invocano piena attuazione, denunciando soprusi e vessazioni e nel contempo chiedendo trasparenza, correttezza, proporzionalità e reciproca corrispettività delle prestazioni. Secondo un’altra lettura, al momento sarebbe proprio la GDO a fare invece da cuscinetto tra produzione e consumatore, impedendo un’ulteriore impennata fuori misura dei prezzi di prodotti alimentari e proteggendo le famiglie da rincari che non sono più alla portata di tutti. La verità è però che siamo in guerra. Lo siamo in senso lato e in senso reale.

La pandemia prima e le tensioni nell’Est europeo poi, ci hanno dimostrato quanto siamo interconnessi ma allo stesso tempo quanto sia necessario ritagliarsi uno spazio che garantisca una certa autonomia in ambito produttivo ed energetico. Al momento dobbiamo cercare di superare la fase. Da domani però è certo che qualcosa vada rivisto: l’abbandono delle campagne per delegare quasi completamente la produzione di materia prima all’estero è un errore che stiamo pagando caro. Così come stiamo pagando cara la dipendenza energetica, frutto di mancate scelte politiche in materia negli ultimi 30 anni. Eravamo in procinto di voltare pagina verso la Rivoluzione verde, quando siamo stati chiamati ad una netta inversione di tendenza per tamponare una situazione senza precedenti. La storia, quella più recente, ci sta presentando il conto. Speriamo almeno serva a non ripetere certi grossolani errori nel prossimo futuro. Guido Guidi

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LA PASTA

NEL MONDO DELLE INDICAZIONI GEOGRAFICHE Già quinta categoria in assoluto per valore alla produzione, mostra potenzialità di gran lunga superiori di Sebastiano Corona

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A sinistra: Culurgionis d’Ogliastra IGP, tradizionali ravioli ripieni sardi. In basso: pasta di Gragnano IGP. Di colore giallo paglierino omogeneo, si caratterizza per la sua superficie rugosa, conferita dall’uso di trafile al bronzo, che ne determinano la straordinaria capacità di legare con i diversi condimenti (photo © Emanato Photo & ADV).

stato un anno difficile il 2020. È stato l’anno che ha messo in discussione i fattori alla base dei sistemi di produzione, distribuzione e consumo, ma in cui i prodotti a denominazione hanno retto e confermato, semmai ce se fosse stato bisogno, il ruolo fondamentale che rivestono nei confronti dei territori, grazie al lavoro svolto da oltre 200.000 operatori e 286 Consorzi di tutela dei comparti cibo e vino. L’analisi ISMEA-QUALIVITA (si veda l’articolo a pagina 32) rileva che i prodotti DOP e IGP, nel 2020, hanno raggiunto i 16,6 miliardi di euro di valore alla produzione, pari al 19% del fatturato totale dell’agroalimentare italiano, e un export da 9,5 miliardi di euro, corrispondente al 20% delle esportazioni nazionali di settore. A fine 2021 si contano nel mondo, complessivamente, 3.249 DOP, IGP ed STG, di cui 3.043 registrate nei Paesi europei, a cui si aggiungono le 206 produzioni riconosciute in 15 Paesi extracomunitari.

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In questo contesto il Belpaese conferma il primato mondiale per numero di prodotti certificati con 841 Indicazioni Geografiche. Di queste, solo 5 fanno capo alla classe delle paste alimentari. La prima ad ottenere il riconoscimento è stata quella di Gragnano, che tuttora registra i maggiori numeri e che, grazie anche alla IGP, sembra destinata a confermare il suo primato in Italia e nel mondo. A seguire, nel 2013, è stata la volta dei Maccheroncini di Campofilone, e nel 2016, anno evidentemente molto fortunato, il riconoscimento è arrivato prima ai Cappellacci di Zucca Ferraresi e poi, in perfetta sincronia e nello stesso numero della Gazzetta Ufficiale, ai Pizzoccheri della Valtellina e ai Culurgionis d’Ogliastra. Si tratta unicamente di IGP, in parte perché per i prodotti trasformati, soprattutto per quelli molto elaborati come le paste ripiene, l’Indicazione Geografica Protetta meglio risponde alla complessità dei processi. Ma anche perché talvolta, la mancanza di materia prima

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Piatto della tradizione contadina, cucinato con ingredienti semplici, i Pizzoccheri della Valtellina IGP sono diventati il vero e proprio simbolo gastronomico della valle. locale impedisce di optare con serenità e certezza verso la Denominazione ad Origine Protetta. In ogni caso, la pasta è la testimonianza del fatto che il Belpaese non vanta solo ottime materie prime, ma trova nella trasformazione la maggiore espressione della competenza e l’estro nazionali in fatto di cibo. Non si spiegherebbe altrimenti come siamo diventati leader e maestri nel lavorare prodotti che, per questioni climatiche e oggettive, non sono mai stati coltivati né in Italia, né nel Vecchio Continente. I dati su cibo e vino IG sono lusinghieri da ogni punto di vista e confermano che la qualità premia. Le ricadute sul territorio sono evidenti,

quelle dirette, quanto quelle indirette. In Italia un euro su cinque dell’agroalimentare italiano proviene da prodotti DOP e IGP. Un dato in calo rispetto al 2019, ma più che comprensibile nell’anno peggiore della storia recente. Un elemento che conferma comunque la capacità di tenuta di un sistema diffuso ovunque. La DOP Economy vale il 19% del fatturato complessivo del settore agroalimentare nazionale, grazie soprattutto al contributo delle grandi produzioni certificate, ma non mancano elementi che evidenziano un forte dinamismo del sistema delle Indicazioni Geografiche “minori” e più recenti. Il comparto agroalimentare DOP e IGP vale 7,3

LA PASTA È LA TESTIMONIANZA DEL FATTO CHE L’ITALIA NON VANTA SOLO OTTIME MATERIE PRIME, MA TROVA NELLA TRASFORMAZIONE LA MAGGIOR ESPRESSIONE DELLA COMPETENZA E L’ESTRO NAZIONALI IN FATTO DI CIBO

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miliardi di euro alla produzione e il vitivinicolo imbottigliato raggiunge i 9,3 miliardi di euro. Dall’indagine ISMEA-QUALIVITA emerge che le paste alimentari contavano nel 2019 un valore alla produzione di 205 milioni di euro, giunti poi a 250 nel 2020, segnando un incremento del 17%. Il valore al consumo è invece passato da 287 nel 2019 a 336 nel 2020, anche qui con un +17%. È chiaro che il 2020 e il 2021 siano stati due anni particolari, ma i consumi di pasta, in generale, compresa quella a denominazione, hanno retto in maniera decisa l’impatto della pandemia. Tutte le IG della pasta stanno registrando una fase di crescita, sebbene l’incidenza di quella di Gragnano rispetto alle altre 4 sia netta. Con 240 milioni di euro di valore alla produzione, è Gragnano il nono prodotto del comparto Cibo IG. In fatto di export, le paste a denominazione, sempre secondo il Rapporto succitato, sono passate da un valore di 148 nel 2019 a 201 nel 2020, segnando un incremento del 35,7%. Le paste a denominazione sono al momento solo 5, come detto, ma sono diversi i produttori e i territori che vogliono scommettere sulla propria specialità locale, nella convinzione che l’Indicazione Geografica non sia solo un modo per dare una marcia in più ad un prodotto, ma anche la strada per garantirne la tutela e per proteggere il consumatore da imitazioni di inferiore qualità. È certamente lo scopo dei produttori del Tortello maremmano, della Pasta di Sicilia e dell’Agnolotto Piemontese, che alla causa stanno lavorando alacremente. Ma anche dei sardi che, dopo l’ottenimento della IGP per i Culurgionis d’Ogliastra, hanno ritenuto opportuno presentare la richiesta anche per le Sebadas di Sardegna, da qualche tempo al vaglio del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali. La IG consente al prodotto di entrare ufficialmente nell’Olimpo delle eccellenze mondiali. Si tratta del massimo riconoscimento per una specialità alimentare, sia essa DOP o IGP. Lega indissolubilmente il prodotto al territorio, ne certifica lo standard di produzione e, essendo uno strumento che in realtà nasce a tutela del consumatore e non

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Tortelli maremmani al ragù (photo © unpezzodellamiamaremma.com). del produttore, è un biglietto da visita eccezionale per i mercati. Ottenerlo è un fatto importante che conferisce grande prestigio per chi produce e vende, ma anche per le comunità che ne vantano l’origine. Ci sono luoghi dei quali era ignota ai più l’esistenza sino a quando non è giunto il riconoscimento della IG. Gli esempi sono innumerevoli: si pensi a Colonnata, Tropea, Altamura, Zibello, Asiago. Sono solo alcuni comuni divenuti famosi soprattutto a seguito dell’acquisizione del noto logo per uno dei propri prodotti alimentari. L’iter per l’ottenimento è tutt’altro che semplice e veloce, ma i dati parlano chiaro: ne vale la pena. Ne vale la pena soprattutto se il riconoscimento viene visto dai produttori come un punto di partenza e non d’arrivo, come testimoniato dai Consorzi di tutela. Nel caso della Pasta di Gragnano i numeri parlano da soli. La grande capacità produttiva, la lunga shelf-life del prodotto che, al contrario del fresco, permette di raggiungere anche mercati molto distanti geograficamente, ma, soprattutto, la consapevolezza diffusa tra i pastifici gragnanesi che la denominazione sia uno strumento formidabile

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da spendere nei mercati, ha permesso un incremento di produzione, vendita ed esportazione che traina tutta la filiera delle denominazioni nella pasta. Dal Consorzio di tutela fanno sapere che oggi Gragnano è la prima città in Italia per produzione ed export di pasta secca di semola di grano duro. Nel 2020 sono state prodotte 92.000 tonnellate a marchio IGP, il 30% in più sul 2019, a conferma di un trend consolidato di crescita che, dal 2017, registra un aumento annuo costante di 20.000 tonnellate. Il Consorzio, fondato nel 2003, raggruppa 13 dei 23 pastifici attualmente attivi, ma si tratta di una compagine che rappresenta oltre il 97% in termini di volume prodotto e valore della produzione della Pasta di Gragnano IGP (www.consorziogragnanocittadellapasta.it). Che il mondo delle Indicazioni Geografiche non sia riservato unicamente a grandi realtà produttive è dimostrato da altri territori, non ultimo quello di Campofilone, un piccolo comune marchigiano dove tutti fanno la pasta. Poco meno di 2.000 abitanti, Campofilone è celebre soprattutto per la preparazione dei Maccheroncini che fanno da traino all’economia dell’intero territorio.

I Cappellacci di Zucca Ferraresi IGP non hanno ancora un Consorzio di tutela, ma non di meno richiamano e incarnano un modello di sviluppo che tiene insieme capacità di conquista di nuovi mercati e valorizzazione del capitale umano. Una ricchezza che, anche grazie alla IGP, crea valore dal punto di vista culturale, sociale ed economico, che si sposa perfettamente con la politica locale che unisce turismo ed enogastronomia e contribuisce a potenziare la domanda di tricolore nel mondo. Hanno invece costituito il Consorzio di tutela i produttori di Culurgionis d’Ogliastra IGP, che confessano di aver avuto un’enorme visibilità del prodotto a seguito dell’acquisizione della denominazione. Il solo fatto di aver ricevuto il riconoscimento ha portato una tale notorietà al fagottino chiuso a spighetta che il rischio è quello della volgare imitazione di prodotti similari che sfruttano parassitariamente il nome. Ma, come detto, il Consorzio non è un punto d’arrivo, come non lo è la IGP. È invece un punto di partenza. Lo scopo è quello di estendere la base e ottenere quante più ricadute sul territorio è possibile avere, con uno strumento come la denominazione. Nel 2020 i Culurgionis d’Ogliastra IGP hanno registrato un incremento dell’export del 5% e nel periodo del lockdown è aumentato anche il consumo in generale, nonostante si sia registrato il crollo delle vendite nell’HO.RE.CA. Simile destino per i Pizzoccheri della Valtellina IGP, che dal 2016 hanno visto crescere notevolmente i volumi. Grazie all’IGP la produzione ha infatti raggiunto, nel 2020, quasi due milioni di chili prodotti. Sta dando soddisfazione pure l’export in Europa, soprattutto nei Paesi confinanti, ma anche in Canada, Stati Uniti, Giappone e Nuova Zelanda. Il Consorzio (www. pizzoccheridellavaltellina.eu), al fine di attivare sinergie virtuose, ha aderito al Distretto Agroalimentare di qualità valtellinese e, insieme ai Consorzi del Bitto DOP, Valtellina Casera DOP, Bresaola della Valtellina IGP, Mele della Valtellina IGP e ai vini della Valtellina collabora per la promozione e la valorizzazione dei prodotti di qualità. Anche in questo caso, l’unione fa la forza. Sebastiano Corona

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La pasta all’uovo

Marcozzi di Campofilone nasce in un piccolo borgo nelle Marche, a Campofilone, dove si conservano tradizioni e sapori autentici. Scegliamo le migliori semole di grano duro e uova da galline allevate a terra. Metodo artigianale e lenta essiccazione a bassa temperatura per una specialità ruvida e porosa di alta qualità.

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MARCOZZI, LA STORIA DENTRO AD OGNI SINGOLO FILO DI PASTA

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a vita è una combinazione di pasta e magia” sosteneva FEDERICO FELLINI. Dal Nord a Sud della Penisola, l’arte della pasta si srotola in un’infinita quantità di varianti, una diversa dall’altra, una più buona dell’altra. Come i Maccheroncini di Campofilone, piccolo borgo medievale nella provincia di Fermo, poco distante dalla costa adriatica: “nel 2013, la prima pasta all’uovo italiana ad ottenere la certificazione europea dell’Indicazione Geografica Protetta per diventare così il nostro orgoglio: i Maccheroncini di Campofilone IGP”.

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A Campofilone ci sono le vergare, le abili sfogline capaci di tirare una sfoglia talmente sottile da non raggiungere il millimetro di spessore. Lunghi lunghi, fini fini, da cuocere velocemente ma da assaporare lentamente: i Maccheroncini di Campofilone IGP, col loro gusto inconfondibile della pasta ruvida e porosa sottoposta a lenta essiccazione, semplice ed elaborata da ingredienti genuini, sono una delle specialità del pastificio familiare Marcozzi. Nato come laboratorio artigiano quasi 30 anni fa, Marcozzi è oggi un’impresa moderna e strutturata, con una gamma di prodotti sempre più estesa e presente sulle tavole di tutto il mondo.

I Maccheroncini di Campofilone IGP, la nostra storia, il nostro orgoglio «A Campofilone la nonna Adelina con l’abilità delle sue mani impastava la semola con le uova dalle nostre galline, rigorosamente senza acqua. Perché, si sa, in primavera le galline depongono molte più uova rispetto alle altre stagioni. Questa abbondanza ha ispirato l’ingegno delle “vergare di Campofilone” a fare la pasta all’uovo in casa come modo di conservare le sennò deperibili uova» raccontano i tre fratelli GABRIELE, BARBARA e ATTILIO MARCOZZI, fondatori dell’azienda che nasce dalla memoria

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Il pastificio familiare Marcozzi da quasi trent’anni produce l’autentica pasta all’uovo di Campofilone. Da laboratorio artigiano, nato dal desiderio di trasmettere le tradizioni culinarie apprese da nonna Adelina (in foto) e di mantenere vivo il “calore delle emozioni che nascevano in famiglia attorno ad una tavola”, ad impresa moderna e strutturata, con una gamma di prodotti sempre più estesa e presente sulle tavole di tutto il mondo.

di un mondo “in cui le uova avevano il sapore delle feste” e dal desiderio di mantenere vivo il “calore delle emozioni che nascevano in famiglia attorno ad una tavola”. «Anche nonna Adelina stendeva la pasta con il mattarello fino ad ottenere sottili, morbide e dorate sfoglie, che faceva riposare in panni di cotone. Tagliava poi la sfoglia in fili sottili sottili, che sembravano “capelli d’angelo”, e li lasciava essiccare in una stanza ventilata. Dopo tante ore di essiccazione, quelle striscioline erano pronte per il pranzo della domenica. Un momento magico che noi, i suoi tre nipoti,

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aspettavamo; la nostra domenica in famiglia». La tradizione familiare che si fa imprenditoria moderna. «Abbiamo voluto trasmettere la tradizione dei maccheroncini come un dono della nostra nonna» proseguono Gabriele, Barbara e Attilio Marcozzi. «Così prima abbiamo creato un piccolo laboratorio artigianale per la produzione di pasta di 80 m2, poi abbiamo aperto il pastificio, dove nasce l’omonimo brand. La gamma dei prodotti si è via via ampliata sempre più e oggi è destinata ai negozi specializzati, enoteche, ristoranti e botteghe in Italia e all’estero».

Ingredienti made in Italy, attenzione e cura del fatto a mano con le garanzie igienico-sanitarie moderne Il 13 novembre 2013 i Maccheroncini di Campofilone hanno ottenuto il riconoscimento IGP: «una certificazione d’origine che viene attribuita dall’Unione Europea a quelle tipicità agricole ed alimentari che sono prodotte in un’area geografica determinata, nel nostro caso a Campofilone. I Maccheroncini di Campofilone IGP, infatti, possono essere prodotti soltanto in questo comune, rispettando un rigido disciplinare. E così sono diventati il nostro orgoglio».

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Uova fresche da galline italiane che razzolano a terra all’interno di allevamenti non intensivi, nutrite con cereali privi di OGM, e semola di grano duro selezionata, proveniente da campi di grano italiani: sono gli ingredienti alla base della bontà e della genuinità dei Maccheroncini di Campofilone IGP della Marcozzi. I foglietti con la pasta fresca vengono adagiati in appositi telai e passano alla prolungata essiccazione (20-36 ore) a bassa temperatura (28-54 °C). L’essiccazione è personalizzata in relazione all’umidità e alla ventilazione per ogni formato. Nell’ottica di una produzione eco-sostenibile, gli essiccatoi sono alimentati da energia solare.

Una tradizione antica La tradizione dei maccheroncini di Campofilone inizia secondo le leggende popolari già nel 1400, con una ricetta in cui si citano i “maccheroncini fini fini”, mentre i primi documenti certi che si riferiscono a questa pasta, denominata anche “capelli d’angelo” per la loro estrema sottigliezza, risalgono al Concilio di Trento (1560), dove viene menzionata con la dicitura “così sottile da sciogliersi in bocca”. Si parla dei maccheroncini di Campofilone anche nelle ricette del 1700 e del 1800 di alcune case nobili come i conti Stelluti-Scala e i Vinci e i capelli d’angelo sono citati dal poeta recanatese GIACOMO LEOPARDI in uno dei suoi quaderni destinati al cuoco di famiglia, nel quale indica i tre modi in cui li preferisce.

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L’ingredientistica made in Italy è fondamentale. «Per un prodotto di qualità scegliamo solo materie prime di origine al 100% italiana: la semola di grano duro selezionata e le uova dalle galline da allevamenti non intensivi, nutrite con cereali prive di OGM» continuano i tre fratelli Marcozzi. L’impasto viene steso successivamente su foglietti alimentari di carta (stesura): un procedimento che a tutt’oggi viene affidato solamente al personale più abile. «Questa tipica operazione dei pastai di Campofilone consiste nel disporre manualmente i fili di pasta sui fogli di carta con la lama di un coltello, garantendo, nel caso dei maccheroncini, uno spessore inferiore a 0,7 mm, un primato che pochissimi in Italia possono vantare e da cui deriva la straordinaria velocità di cottura: la maggior parte delle paste lunghe Marcozzi è pronta in soli 2/3 minuti! Poi la pasta viene essiccata lentamente a bassa temperatura, proprio come nonna Adelina ci ha insegnato: ciò consente al prodotto di ottenere

un’ottima resa in cottura (pensate che con soli 250 grammi si ottengono quattro porzioni) e un’alta digeribilità. Il suo aspetto ruvido e poroso, infine, è una caratteristica indispensabile che consente alla pasta di legarsi perfettamente ad ogni condimento». La linea salutistica e la nuova linea gourmet Mannetti Con i suoi 27 anni di esperienza, il pastificio Marcozzi è oggi arrivato alla terza generazione, diversificando nel tempo la propria produzione al fine di soddisfare una sempre più ampia clientela. «Sappiamo leggere e soddisfare le esigenze di tutti i nostri clienti, come evidenzia la linea salutistica coi marchi Fermanette e Vivien Pro Salus, nella quale vengono impiegati farro, orzo, avena, cinque cereali. Sono paste ricche di fibre, biologiche, 100% integrali e 100% con ingredienti italiani, perfette per chi è attento alla propria alimentazione come gli sportivi, per i diabetici, e per tutti coloro che vogliono mangiare sano senza rinunciare al gusto».

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Il pastificio Marcozzi riprende il marchio storico di Antrodoco “Mannetti” riproponendo la pasta di semola di grano duro bio in una nuova veste. La produzione avviene nel pastifico Strampelli Srl di Amatrice, sito in posizione privilegiata in un luogo incontaminato, il che consente di utilizzare ingredienti puri come l’acqua delle sorgenti del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga. L’attenta lavorazione e la lenta essiccazione, l’aspetto ruvido e poroso, garantiscono al prodotto il riconoscimento PAT (Prodotti Agroalimentari Tradizionali) del Lazio. È recente la decisione di espandere la produzione verso la pasta di semola di grano duro: è infatti in arrivo una nuova linea gourmet dedicata ai negozi specializzati, enoteche, botteghe e alta ristorazione. Si tratta del marchio storico di Antrodoco “Mannetti”, che riprende la sua storia e il legame col territorio valorizzandolo attraverso una pasta di semola di grano duro bio nazionale. «La storia del pastifico Mannetti rinasce grazie al pastifico Strampelli Srl di Amatrice» puntualizzano. «La sua posizione privilegiata in un luogo incontaminato ci è favorevole per utilizzare solo ingredienti puri: l’acqua delle vicine sorgenti del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga e la semola di grano duro bio 100% italiano. La sua attenta lavorazione e la lenta essiccazione, l’aspetto ruvido e poroso, garantiscono al prodotto il riconoscimento PAT (Prodotti Agroalimentari Tradizionali) del Lazio e un sapore inconfondibile. Il confezionamento della pasta avviene rigorosamente a mano, a sot-

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tolineare l’artigianalità del prodotto, e i formati promuovono la tradizione culinaria italiana per ricette come Amatriciana e Gricia». L’impegno: la cura del cliente, la sostenibilità e l’attenzione per l’ambiente «Da sempre garantiamo la qualità in ogni aspetto della lavorazione di tutti i nostri prodotti e una particolare cura dei dettagli, impegnandoci a trasmettere una cultura culinaria che assume un aspetto sempre più importante nella vita quotidiana dei nostri clienti» affermano orgogliosamente Gabriele, Barbara e Attilio Marcozzi. «Tutto questo nella massima sostenibilità ambientale: i nostri astucci, ad esempio, completamente riciclabili nella carta, sono realizzati in un materiale biodegradabile e compostabile; riduciamo l’impatto sull’ambiente nel trasporto con un costante impegno per le energie rinnovabili, così come anche i nostri essiccatoi che sono alimentati da energia solare».

«Cosa significa oggi per voi produrre pasta? Significa porre al centro della nostra attenzione il cliente, capire le sue necessità, instaurare un rapporto di fiducia e soddisfare anche i palati più esigenti. Inoltre significa trasmettere le tradizioni, i ricordi di infanzia, di un pranzo della domenica in famiglia, tutto il calore e l’amore che mettiamo in ogni singolo piatto di pasta»

>> Link: www.marcozzibrand.it

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Pasta all’uovo, CONSIGLI PRATICI PER RICONOSCERE QUELLA DI QUALITÀ di Chiara Papotti

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siste forse un alimento che esprima meglio della pasta la nostra cultura gastronomica? La maggior parte di noi la porta in tavola ogni giorno, semplice per ingredienti e in apparenza per lavorazione, racconta, con le sue mille forme, la più famosa tradizione italiana. La legge la distingue in due grandi categorie: la fresca e la secca. Probabilmente quella della pasta all’uovo è una tradizione più antica di quanto risulti dai documenti storici. Le teorie sono molteplici, ma tutte sembrano concordi nell’attribuire alla Pianura Padana la nascita della sfoglia con farina di grano tenero e uova. In Emilia era, infatti, storicamente diffusa la coltivazione del grano tenero e non di quello duro, tipico del Sud Italia. Tagliatelle, pappardelle, fettuccine, lasagne, garganelli… tante sono le forme che si ottengono con soli due ingredienti: uova e sfarinato di grano.

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D’altronde, il segreto della pasta all’uovo è quello di combinare perfettamente gli ingredienti fondamentali, nelle giuste quantità e nelle forme più adatte per esaltare aromi e sapori dei tanti condimenti. La qualità e la quantità delle uova, la provenienza e la tipologia della farina, l’impasto, il taglio, le temperature e i tempi di lavorazione… sono tutti fattori che influenzano la riuscita di un prodotto conosciuto ed apprezzato in tutto il mondo. Dalla lasagna alla “bolognese”, ideale per adagiare strati di ragù e besciamella, ai tajerin (o tajarin) piemontesi, eccellenti con il sugo d’arrosto o con olio extravergine e lamelle di tartufo, ai bigoli al torchio veneti: non c’è regione in Italia che non vanti una propria specialità. Eppure, proprio noi Italiani, abituati alla sua presenza in tavola, finiamo per dedicare alla pasta poca attenzione, affidandole il ruolo di semplice supporto

per il sugo, quasi avesse poca rilevanza. In realtà, è soprattutto attraverso il suo sapore e la sua consistenza che il prodotto di qualità diventa protagonista. Andiamo, dunque, a scoprire i segreti della pasta all’uovo che si può trovare in commercio. Nell’industria alimentare la pasta all’uovo viene preparata con uova, farina, eventualmente con l’aggiunta di acqua e sale. Gli ingredienti vengono miscelati nella macchina impastatrice e impastati in modo omogeneo per realizzare l’idratazione delle proteine e dell’amido. Al termine di questa fase fondamentale, la pasta all’uovo viene mandata al calibratore, un macchinario costituito da cilindri di acciaio che la trasformano in una sfoglia sempre più fine, sino a raggiungere lo spessore desiderato. A questo punto, la sfoglia viene adagiata su dei nastri trasportatori, che la portano alle taglierine per ottenere i diversi formati.

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Per garantire al prodotto il rispetto delle norme igieniche sanitarie previste nell’industria alimentare, la pasta subisce un primo trattamento di pastorizzazione intorno a 80-85 °C, a cui segue una fase di asciugatura con aria calda e un successivo raffreddamento. Il metodo di conservazione più in uso è sicuramente quello dell’atmosfera modificata: il prodotto viene inserito in contenitori di plastica, nei quali si introducono due gas inerti (anidride carbonica e azoto), al fine di creare un ambiente protettivo funzionale ad una maggiore durata. Il ciclo di produzione si può concludere con un ulteriore pastorizzazione, seguita da raffreddamento. Se la pasta all’uovo la si vuole, invece, secca, la preparazione prevede anche una fase di essiccamento, realizzato a temperature e tempistiche variabili a seconda del laboratorio. La pasta all’uovo secca non presenta par-

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ticolari problemi di conservabilità e si mantiene in dispensa per lungo tempo a temperatura ambiente; quella fresca, in particolare quella sfusa, invece, è necessario mantenerla in frigorifero alla temperatura di 4 °C, per evitare proliferazioni microbiche e mantenere le caratteristiche del prodotto. La legge italiana stabilisce che, nella produzione della pasta all’uovo, si debbano usare almeno quattro uova intere di gallina, prive di guscio, per un peso complessivo non inferiore a 200 grammi di uovo per ogni chilogrammo di semola. Si tratta di un limite minimo e la bontà della sfoglia cresce proporzionalmente col numero di uova aggiunte: possiamo definire di ottima qualità quelle che raggiungono anche il 40% di uova. Al momento dell’acquisto, dunque, la prima cosa da fare è leggere tra gli ingredienti la percentuale di uova dichiarate: sotto al 25% non si è certo in presenza di un buon prodotto.

Le uova possono essere sostituite da una corrispondente quantità di ovoprodotto liquido fabbricato esclusivamente con uova intere di gallina; è chiaro che la dicitura “uova fresche” indica sempre un livello di qualità superiore. La vera prova di qualità del prodotto la si ha dopo la cottura. L’odore della pasta cotta deve essere gradevole, senza il minimo sentore di uovo poco fresco. Deve, inoltre, rimanere facilmente separabile, non si deve ammassare né incollare. Una perfetta valutazione andrebbe eseguita lasciando la pasta al naturale, senza alcun tipo di condimento, con un cucchiaino di olio extravergine di oliva. Quella di buona qualità ha un sapore proprio, che nasce dal fondersi armonico delle fragranze dell’uovo con quelle del grano, e il semplice accompagnamento con Parmigiano Reggiano grattugiato basta a valorizzarla al meglio. Chiara Papotti

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L’invenzione della cucina tradizionale

Storia della pasta in dieci piatti

Photo © Gianluca Simoni

di Federica Cornia

el Rinascimento la parola “maccherone” indicava diversi tipi di pasta, formati simili a tagliatelle o spaghetti, mentre la pasta in Italia si affermò solo nell’Ottocento. Nei ricettari antichi c’è traccia di lasagne e di tortellini, ma non certo come li conosciamo oggi. Che poi, come si è arrivati a concepire una tale concentrazione di elementi e sapori in uno spazio così piccolo come il tortellino? Della ricetta della Carbonara non si trova testimonianza scritta prima degli anni ‘50 e nell’Amatriciana si usavano cipolla e aglio, i grandi rinnegati della canonica ricetta attuale. “La storia della pasta in dieci piatti. Dai tortellini alla carbonara” di LUCA CESARI (edizioni Il Saggiatore, 2021), risponde a queste domande e lo fa, ahimè per i cosiddetti “puristi della tradizione”, smontando l’assunto di base che i piatti della tradizione siano sempre stati gli stessi, identici a quelli che mangiamo oggi e che siano arrivati sulle nostre tavole attraversando secoli di storia senza perturbazioni di sorta in pentola. Tradotto in 7 lingue — in alcuni Paesi già uscito, altri lo pub-

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blicheranno a breve —, vincitore del Premio Bancarella della cucina 2021, ha ottenuto anche la nomina a libro dell’anno dal GAMBERO ROSSO ed è stato adottato come libro di testo al corso di Storia dell’alimentazione all’Università di Parma. Insomma, un grande successo. Ne abbiamo parlato con l’autore. Com’è nata l’idea di questo libro? «Mi interesso di storia della gastronomia fin dai tempi dell’università. Pur avendo studiato storia dell’arte, mi sono sempre documentato e tenuto aggiornato leggendo i libri dei grandi maestri, MASSIMO MONTANARI, ALBERTO CAPATTI, che si occupano di storia dell’alimentazione, della cucina legata alla storia dei costumi italiani. Ad un certo punto ho realizzato che mancava qualcosa, mancava uno studio verticale, che andasse a ricostruire la storia, la genealogia, l’evoluzione dei singoli piatti. Di quei piatti che oggi noi abbiamo assunto quali monumenti della nostra gastronomia. Circa 7/8 anni fa ho cominciato a fare delle ricerche utilizzando anche vecchi ricettari. Procedendo a ritroso ho trovato versioni molto diverse dei piatti

rispetto le ricette che conosciamo oggi. Nel frattempo mi sono letto “L’invenzione della tradizione” di ERIC HOBSBAWM e, mettendo insieme le due cose, mi sono accorto che effettivamente la storia della gastronomia italiana raccontata oggi è in buona parte frutto di una ricostruzione posteriore di come ci sarebbe piaciuto che fosse andata… ma non è andata così. E che la cucina è molto, molto più sfaccettata, molto più mobile e segue molto di più i tempi a cui fa riferimento di quanto si possa pensare. Qualunque cosa si dica, di ricette del Medioevo non ne mangiamo nemmeno una, o comunque pochissime. Vale lo stesso per quelle del Rinascimento, del Seicento e del Settecento. Durante la mia ricerca mi sono reso conto che nessuno entrava nel merito del singolo ricettario, della singola ricetta, della preparazione degli ingredienti che venivano utilizzati. Questo si faceva per epoche molto recenti, prendi ad esempio l’ARTUSI, ma prima nessuno si prendeva la briga di andare a vedere com’era il Tortellino alla Bolognese di FRANCESCO LEONARDI, famosissisimo cuoco che lavorò anche per Caterina di Russia. Oppure

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c’erano intestazioni completamente errate. Sul web, per esempio, in molti siti si sostiene che l’Amatriciana sia stata inventata da LEONARDI, che scrive il suo trattato “L’Apicio Moderno” nel 1790 (2a edizione 1807). In realtà Leonardi in entrambe le edizioni ha aggiunto il pomodoro nei Maccheroni alla napoletana. Ma non si sarebbe mai sognato di fare una ricetta come quella dell’Amatriciana che conosciamo oggi, estremamente moderna. Quando ho cominciato a pubblicare i risultati delle ricerche sul mio blog (ricettestoriche.it, NdR), che inizialmente doveva essere sulla storia dei tortellini, non c’era affatto l’idea di fare un libro. Poi, procedendo col lavoro, mi sono accorto che c’erano altri filoni di ricerca interessanti, uno sul ragù e un altro sulla Carbonara. Ho iniziato ad approfondire andando spesso alla biblioteca gastronomica della Fondazione Barilla a Parma. Hanno una raccolta di testi specializzati sulla storia dell’alimentazione e gastronomia che comprende testi antichi e testi che arrivano fino ai giorni nostri. Così ho iniziato a raccogliere tutte le notizie che trovavo sulla Carbonara da articoli di giornale e a collezionare tutte le ricette, a partire da ricettari antichi, che mi hanno fornito la spina dorsale lungo la quale muovermi per proseguire nella mia ricerca, perché man mano che si va indietro nel tempo è più difficile trovare documenti e materiale. Considera che prima del 1952 non c’era una ricetta della Carbonara, c’era una Polenta alla carbonara ma si tratta più che altro un caso di omonimia. La ricetta compare per la prima volta in un articolo de LA STAMPA nel 1950. La Carbonara di MARISA MERLINI che descrivo nel libro, ad esempio, non è riportata in nessun ricettario ma viene descritta da un cronista invitato a cena da Marisa e che la vede preparare il piatto. E quella che descrive è per noi una Carbonara assurda perché a base di uovo, Parmigiano e prosciutto San Daniele e che, tra parentesi, è buonissima. Grazie alla ricetta della Carbonara pubblicata sul mio blog sono entrato in contatto col GAMBERO ROSSO, per il quale ho cominciato a scrivere articoli. Un editor de IL SAGGIATORE li ha letti e mi ha contattato. Mi ha chiesto se avevo qualcosa di più da dire sull’argomento.

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Siccome di materiale ne avevo messo insieme parecchio abbiamo fatto un indice, lo abbiamo presentato in casa editrice e subito sono stati tutti d’accordo sulla realizzazione del libro». L’indice assomigliava a quello a di oggi? «L’indice in pratica era già come quello attuale. L’unica differenza è che in origine le ricette erano 9, poi sono diventate 10 perché sul ragù c’era molto materiale, molto da dire, e il capitolo si è sdoppiato, per cui ce n’è uno sul Ragù alla napoletana e uno sul Ragù alla bolognese. Il libro l’ho impostato durante la pandemia, molte cose le avevo già fatte, già pronte». Credo che questo libro avrà un certo impatto, e qui cito dall’Introduzione, su quel particolare tipo umano che definisci “gastropurista”, il purista della tradizione. Ci puoi spiegare perché? «Perché la narrazione che è stata fatta a partire circa dagli anni ‘60 sui piatti della tradizione è basata su leggende, non tanto sul ricordo, ma su quello che si sarebbe voluto che fosse la cucina italiana, cioè antichissima e immutabile. L’antichità e la stabilità nel tempo sono i due cardini che Hobsbawm, nel libro citato, pone quali presupposti per dire che qualcosa è tradizionale. Una cosa che è iniziata l’anno scorso non può essere considerata tradizionale, devono passare molti anni perché lo sia. E se una cosa che è considerata tradizionale cambia, non è più tradizionale. Cosa succede quando uno vuole stabilire con questi parametri che cos’è tradizionale in cucina, che per sua natura è assolutamente cangiante? Che si trova in difficoltà, perché un simbolo è un simbolo. Nel momento in cui in Italia si è sentita fortissima l’esigenza di stabilire che cos’era la cucina nazionale, in un contesto in cui nell’alta cucina imperava la cucina francese — considera che nei ristoranti più rinomati si parlava all’epoca ancora francese —, gastronomi, critici e giornalisti, LUIGI VERONELLI tra tutti, o LUIGI CARNACINA, si sono dovuti scontrare con un problema enorme: quello di costruire una cucina nazionale che in Italia non c’era, non c'era mai stata e non c’è tutt'ora in realtà. È un’invenzione. Un’invenzione che ha guardato al moderno modello della cucina francese.

Se però la Francia è una nazione unita e ha una grande città, Parigi, attorno alla quale ruotano altre città-satellite, l’Italia è tutto fuorché questo, costellata da realtà comunali che sin dai tempi del Barbarossa hanno fatto il bello e il cattivo tempo. In Italia nessuno avrebbe potuto creare l’idea di una cucina nazionale se non sacrificando tantissimo, e cioè sacrificando tutta la variabilità e la varietà della cucina di quel momento. Ma quell’operazione di ripulitura all’epoca era corretta, perché la cucina italiana è dov’è oggi nel mondo per ciò che hanno fatto loro. Quell’operazione consisteva anche in una narrazione che si basava sul fatto che la nostra cucina sarebbe sempre stata così e quindi la popolarono di leggende, di contadini che si portavano in saccoccia il guanciale e il pecorino per farsi la Carbonara mentre erano in montagna, di Caterine dei Medici che si portavano le ricette in Francia, di personaggi che non avevano nessun contatto con la storia, nessuna valenza di realtà. Noi siamo rimasti ancorati a questa ricostruzione della cucina storica, che è ben diversa dalla realtà storica. Anche se a un certo punto c’è stato un momento di liberazione e sperimentazione negli anni ‘80, periodo in cui a

LUCA CESARI Storia della pasta in dieci piatti Dai tortellini alla carbonara Edizioni: Il Saggiatore, 2021 pp. 280 – € 22,00

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Ci fai un esempio? «Sulla Carbonara ci sono le peggio liti. All’inizio tutte le ricette di Carbonara sono con il Parmigiano e con la pancetta. Non ce n’è una col guanciale e il pecorino. Il guanciale si inizia a utilizzare nel 1960. Poi si inserisce anche la panna, che è rimasta all’interno della Carbonara molto a lungo, negli anni ‘80 e fino agli anni 2000. Per cui in realtà ad un certo punto qualcuno ha detto no, la Carbonara si fa senza panna, senza pancetta e col guanciale». Quindi l’istituzione della ricetta tradizionale in realtà è un’operazione culturale? «Sì, come sostiene Hobsbawm, è un’operazione culturale richiesta dal basso e imposta dall’alto. È il frutto della sintesi di queste due istanze che si incontrano».

Luca Cesari scrive di storia della gastronomia sul Gambero Rosso e dal 2021 cura la rubrica quindicinale “Indovina chi sviene a cena” sull’inserto culturale del Sole 24 Ore. Alla passione per la storia dell’alimentazione e della gastronomia affianca quella per la scherma antica (photo @ Gianluca Simoni). nessuno fregava niente se mettevi la panna nella Carbonara. Però poi la visione si è fatta sempre più stringente intorno all’idea di ricetta canonica: la ricetta giusta è questa ed è così che bisogna farla. Questo processo inizia negli anni ‘70, quando alla Camera di Commercio di Bologna cominciano ad essere depositate le ricette, che è un assurdo, perché alla Camera di Commercio si depositano i brevetti, un ragù non può essere brevettato, eppure viene fatto. Così come c’è la misura del metro ufficiale di Età napoleonica a Parigi, in Camera di Commercio a Bologna c’è la misura della vera Tagliatella di Bologna, depositata nel ‘72 insieme alla ricetta e alla Tagliatella d’oro. Nel ‘74 viene depositata la ricetta dei Tortellini, nel 1982 quella del Ragù. Le ricette depositate si moltiplicano e diventano “ricette

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ufficiali”, però di ufficiale non hanno nulla, perché le ricette, calate nella realtà quotidiana, cambiano di continuo». In pratica sono ufficiali per quel momento storico? «Sì, corrispondono a quel momento preciso. Nella ricetta depositata del ragù, per esempio, consigliano di metterci il latte e la panna. Questo perché è una ricetta dell’82. Nessuno oggi si sognerebbe di farlo così il ragù. Non è che quelle ricette lì sono state scolpite sulle tavole della legge! Le ricette sono figlie del proprio tempo. Prima di finire in Camera di Commercio le avevano scritte delle massaie o dei cuochi. Però, sai cosa succede, che i puristi della tradizione gastronomica si mantengono fedeli a questa linea: c’è una sola ed unica ricetta perché c’è una sola e unica cucina italiana».

Se la tradizione è un’invenzione, allora si può dire che diventa una costruzione mitica anche quella della cosiddetta “vera” ricetta tradizionale? E che esiste un gruppo di persone “custode” della “vera” ricetta di un piatto tradizionale? «Bellissima domanda. Si può dire che c’è un gruppo di persone che decide che POLLOCK sia il più grande pittore dell’avanguardia statunitense? Qualcuno ha deciso che il gesto di Pollock di sgocciolare colore sulla tela fosse un gesto artistico. Quando DUCHAMP prende una ruota di una bicicletta e la mette sullo sgabello quella è arte. È arte per chi? Per una classe di persone, i critici, che dicono che questa è un’opera che va messa in un museo. Questi sono esempi estremi presi dal mondo dell’arte che possono essere ribaltati qua. Chi è che decide? È molto complicato, è una questione di estetica. Altro esempio: io possiedo un bulldog inglese, lo porto ad un’esposizione canina. Per passare la selezione e partecipare al concorso di esposizione canina deve rispondere a determinati criteri. Il bulldog inglese 100 anni fa era completamente diverso da quello di oggi. Se io prendessi adesso un bulldog inglese non mi ammetterebbero di certo. E all’epoca chi è che ha deciso quali dovevano essere le caratteristiche del bulldog inglese? Una commissione cinofila che nel tempo ha modificato la norma generale che definiva le caratteristiche del bulldog inglese.

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Chi può dire come si fa una Carbonara? Ho fatto una personale classifica delle migliori carbonare di Roma, sono stato in 22 ristoranti in tre giorni. E la maggior parte dei ristoratori non usa il pecorino in purezza, usa pecorino e parmigiano. Se tu questa cosa qua la dici, tutti insorgono. In realtà se tu usi soltanto il pecorino è molto probabile che il piatto risulti salatissimo. Perché il pecorino serve a dargli cremosità ma è notoriamente molto sapido. Perciò, chi ha ragione? La maggior parte dei ristoratori romani o i puristi della tradizione? Dire chi è che decide, chi ha ragione, è complesso. Poi c’è il popolo di internet, il popolo dei social. Qui sono tanti i difensori della tradizione più ortodossa e vanno dalla casalinga di Voghera al cuoco per hobby. Però si ritrovano d’accordo su una precisa ricetta. Aiuta molto quando le ricette sono depositate. Per il tortellino L’Accademia della Cucina Italiana e la Confraternita del tortellino, due enti riconosciuti, hanno depositato presso un altro ente riconosciuto, la Camera di Commercio, un’unica ricetta. Ricetta che nel corso degli anni ha fatto piazza pulita di quasi tutte le varianti. Difficilissimo oggi trovare un tortellino che abbia al suo interno qualche traccia di carne che non sia maiale. C’è forse ancora qualcuno che mette un po’ di pollo, un po’ di vitello. Quella ricetta lì ha segnato uno spartiacque come fece l’Artusi nel 1891 col trattato “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”. Con la sua pubblicazione infatti cominciamo a vedere circolare moltissime ricette artusiane». In che senso Artusi è stato uno spartiacque? «È uno spartiacque perché il suo libro, col quale ha fatto una grandissima operazione di recupero dal basso delle ricette popolari, diventa talmente celebre che fa tendenza e sposta l’ago della bilancia verso la cucina di stampo italiano in un momento in cui domina la cucina francese. Artusi era un grande sostenitore della cucina italiana e riteneva che dovesse avere una propria identità, staccata dalla cucina francese». Con il trattato dell’Artusi si può parlare di un’operazione di canonizzazione, ovvero di un’operazione che ha l’intento di dare valore di regola alle ricette?

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«No, perché più che altro lui le ricette le raccoglie, è ancora un cuoco ed è aperto; di una sola ricetta, infatti, fornisce le diverse varianti. La canonizzazione delle ricette, che stringe di più le maglie attorno ad un’unica versione di un piatto, avviene dopo. La cosa importante dell’opera dell’Artusi è che porta avanti il processo di emancipazione della cucina italiana da quella francese, processo iniziato un secolo prima con Francesco Leonardi. Artusi dà un altro colpo di coda. Il taglio netto con la cucina francese avviene poi nel dopoguerra. I nostri piatti, gli Spaghetti alla bolognese, le Fettuccine Alfredo, gli Spaghetti alla carbonara, cominciano ad essere esportati. Prima di tutto negli Stati Uniti. E l’America fa da antenna di distribuzione in tutto il mondo». Perciò non ci sono ingredienti eretici né vere e proprie eresie in cucina? «È ovvio che non voglio dire che non esiste la tradizione: la tradizione esiste, però è tradizionale in questo momento. Cioè, la ricetta tradizionale della Carbonara c’è, quella canonica in questo momento prevede guanciale, pecorino, uova e pepe, con rigatoni o spaghetti. Se io ti dico però qual era la ricetta tradizionale del 1980 non era così: c’erano la cipolla e la panna. Cosa significa? Che la ricetta tradizionale esiste ma è cambiata nel tempo. Ci si è arrivati attraverso un passaggio». Non dovremo stupirci allora se in un prossimo futuro nella Carbonara ritroveremo la panna? «Esatto. O altre modificazioni. Prendi il Ragù alla bolognese, ora gli chef non seguono mai la ricetta della Camera di Commercio. Sono cambiate le carni, i metodi di cottura, sono cambiati in parte gli ingredienti, nessuno ad esempio ci mette il latte. Sono cambiamenti minimi che magari non vediamo nel corso della nostra vita. La Carbonara invece l’abbiamo vista cambiare molto, perché è una ricetta giovane e, quando le ricette sono giovani, sono molto instabili. Siccome non c’è una storia dietro, una vera letteratura, ognuno la fa un po’ come vuole e nessuno ha niente da dire. Abbiamo visto la Carbonara con la panna, la cipolla, quella sfumata col vino. Adesso ce n’è solo una. Il fatto è che la sperimentazione non si può bloccare».

Hai provato a realizzare alcune delle ricette riportate nel libro? Qual è la più buona e quale la più assurda? «La più assurda sono gli Spaghetti alla carbonara con le vongole, ripresa dal magazine statunitense HARPER’S BAZAAR. È un po’ assurda non solo per la presenza delle vongole al posto del guanciale, ma perché le vongole sono tritate. È del 1954, data in cui compare la prima ricetta della carbonara italiana che è col groviera. La ricetta migliore in assoluto che ho provato è invece il ragù dell’Artusi. Un ragù senza pomodoro, con un po’ di pancetta per fare la base per gli odori, sedano, carota cotta e cipolla, e poi di solo vitello, tirato col brodo, per cui fa una grande reazione di Maillard, diventa color palissandro bello carico ed è spettacolare. Lui lo consiglia con i maccheroni e poi con le tagliatelle. Se fatto bene è stratosferico». Un’ultima curiosità: tra tutte le tue collaborazioni c’è quella al progetto Ragureti e archivi del gusto. Puoi spiegarci brevemente di cosa si tratta? «Quello è un progetto importantissimo, ideato e portato avanti da MILA FUMINI. Si tratta di una raccolta di ricettari di famiglia. Sono delle fonti inesauribili, bellissime, che danno un focus sulla gastronomia popolare e che vanno inesorabilmente persi mentre invece sono una fonte preziosissima di dati. Purtroppo con la raccolta non si riesce ad andare tanto indietro nel tempo. Si sarebbe dovuto iniziare a farla negli anni ‘70. Spesso i ricettari sono di dolci perché per i dolci occorrono dosi precise mentre per il ragù no, tanto che a volte trovi segnati solo gli ingredienti senza nemmeno il procedimento. Con alcune preparazioni, come le torte di guerra, fatte col pane secco, si ritorna a determinati momenti della storia. Questi ricettari di famiglia sono fondamentali per dare l’idea di quanto fosse vasto il panorama gastronomico al di là e oltre i ricettari scritti da una élite che aveva accesso ai mezzi di informazione e sapeva scrivere. Non è mai stata data voce alla massaia che magari non sapeva scrivere. Le uniche erano le signore altoborghesi. Parliamo sempre di una fascia piuttosto alta e rappresentativa solo di una minima parte della società». Federica Cornia

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MERCATI

UN 2021 DA INCORNICIARE PER LA FINOCCHIONA IGP 64

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Photo © Bruno Bruchi, www.brunobruchi.it

Un anno in crescita per la “regina dei salumi toscani” el 2021 la Finocchiona IGP aveva già registrato un primo semestre con aumenti significativi persino migliori del 2019 — fino allo scorso 31 dicembre l’annata più importante di sempre per il Consorzio —, segnando punte fino al +72,5% per il mese di giugno rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. La crescita di produzione, evidente fin dalla primavera, ha avuto una decisa impennata nel secondo semestre dell’anno che, col dato di +22,7% rispetto agli ultimi sei mesi del 2020, ha portato la denominazione a chiudere il 2021 con il record di produzione a oltre 2 milioni di chilogrammi di impasto insaccato, ossia 1 milione e 92.000 pezzi prodotti.

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Morbida, saporita, garantita: mangiarne una fetta è come fare un viaggio nella Toscana più autentica e verace alla scoperta delle tradizioni contadine, dei borghi meno conosciuti e degli scorci più nascosti. La Finocchiona IGP conquista al primo assaggio e cresce sul mercato: il 2021 è stato infatti il miglior anno di produzione, certificazione, affettamento e confezionamento in tranci sottovuoto per la Finocchiona IGP dal giorno del riconoscimento ad oggi.

Numeri che testimoniano l’efficacia del lavoro di valorizzazione della Finocchiona IGP espresso dal Consorzio di tutela e del valore aggiunto dato dal riconoscimento di Indicazione Geografica Protetta al tipico salume toscano, esempio di come questa tipicità alimentare sia rappresentativa ed identitaria del suo territorio di provenienza, la Toscana. Nel corso dell’intero anno 2021 sono stati insaccati oltre 248.000 chilogrammi in più rispetto al 2020, ossia il 20,88% in più rispetto all’anno precedente. «Un anno con dati così positivi, ben oltre le aspettative, non si era mai registrato per la Finocchiona IGP dal riconoscimento della Indicazione Geografica Protetta del 2015» afferma ALESSANDRO IACOMONI, presidente del Consorzio di tutela della Finocchiona IGP.

«Siamo orgogliosi di questi dati che affermano quanto la Finocchiona IGP sia apprezzata sul mercato e come ogni giorno guadagni quote di mercato grazie al suo gusto unico e inconfondibile. Registriamo incrementi a doppia cifra in tutti gli aspetti della nostra produzione: di questi risultati dobbiamo ringraziare i nostri soci che, quotidianamente, si impegnano nella produzione di qualità della Finocchiona IGP». Il 2021 pertanto segna il passo, oltre all’insacco, anche sugli altri fronti: sono stati certificati 1.723.000 chilogrammi di Finocchiona IGP pari a 1.018.443 pezzi ossia il +15,75% in peso e +36,14% in pezzi rispetto al 2020. L’affettato in vaschetta registra numeri davvero importanti con un totale di oltre 3 milioni e 500.000 pezzi, pari più di 352.000 kg, ossia +13,48% in pezzi

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Insacco dal 2017 al 2021

Il mercato della Finocchiona IGP

e +13,08% in peso. Anche i tranci confezionati in sottovuoto registrano un nuovo record: sono oltre 561.000 chilogrammi (+17.39%) per ben più di 532.000 pezzi (+44,82%) confezionati rispetto al 2020. Pertanto, la Finocchiona IGP rappresenta per i salumifici toscani un mercato in deciso aumento con un

valore superiore a € 12.900.000 alla produzione ed un valore alla vendita di circa € 22.400.000. L’Italia si conferma come il principale mercato, con una stima di circa 1.270.000 kg di prodotto, ossia il 72,4% del totale. Seguono il mercato europeo, con il 25,7%, e l’extra-UE, con il 1,9%. Rispetto al 2020, la quo-

L’Italia si conferma il principale mercato della Finocchiona IGP, con una stima di circa 1.270.000 kg di prodotto, ossia il 72,4% del totale. Seguono il mercato europeo, col 25,7%, e l’extra-UE, col 1,9%. Sul 2020 la quota nazionale è aumentata del 1,12%

ta italiana è aumentata del 1,12%, cedono l’UE con –0,58% e l’extra-UE con –0,5%. Le quote di mercato per singolo Paese vedono dopo l’Italia attestarsi la Germania, con il 17,5%, la Svezia, con il 2,02%, la Danimarca, con 1,26%, la Francia, con 1,15%. Le quote relative ai Paesi extra-UE vedono in testa l’Inghilterra, con lo 0,75% del prodotto certificato, seguita dalla Svizzera, con lo 0,46%, e dal Canada, con lo 0,32%. Le province che per certificazione guidano la classifica di mercato sono Arezzo, che con 672.809 kg rappresenta il 39,03% della produzione certificata ed immessa sul mercato; seguono Siena, con 542.530 kg (31,48%) e Firenze, con 371.725 kg (21,57%). Rispetto al 2020 tutte le province toscane aumentano la percentuale di prodotto certificato, ma il maggior incremento lo fa registrare la provincia di Lucca, che rispetto allo scorso anno certifica il 79,98% in più. In questo quadro di ottimi risultati il Consorzio si trova a fare il punto della situazione e a tracciare la rotta dei prossimi mesi: «Nel corso del 2022 vorremmo cercare di consolidare la posizione di mercato della Finocchiona IGP e l’apprezzamento acquisito durante lo scorso anno» prosegue Iacomoni. «Stiamo pianificando una serie di attività di promozione dall’importante valore strategico per la nostra denominazione. Parteciperemo a Cibus, importante vetrina internazionale, e porteremo avanti le nostre attività, sempre molto partecipate sia in Italia che in Germania, il nostro primo mercato per export». Ma non finisce qui: il Consorzio sta tracciando la rotta per i prossimi anni grazie a un percorso legato a doppio filo alla sostenibilità. «Stiamo pianificando progetti di sostenibilità che presto vedranno la luce: già nel 2021 abbiamo lanciato la nostra iniziativa di mantenimento della biodiversità grazie all’acquisto ed installazione nelle campagne toscane di alveari per le api impollinatrici a cui vorremo dare seguito anche nel 2022». Nei prossimi mesi il Consorzio pianificherà ulteriori progetti strategici: un ulteriore passo avanti per la Finocchiona IGP. >> Link: www.finocchionaigp.it

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Tradizione e genuinità dal 1910

Prosciutto di Modena Dop un capolavoro del gusto italiano

Prosciuttificio Nini Gianfranco Srl Via Sicilia, 61 - 41056 Savignano sul Panaro (MO), Italy - Tel.: 059 730103 - Fax: 059 731599 E-mail: info@prosciuttificionini.it - Web: www.prosciuttificionini.it


Trend positivo per lo Speck Alto Adige IGP È cresciuto del 2,79% il consumo di Speck Alto Adige IGP nel 2021, anno in cui anche la produzione ha subito un’accelerazione: sono state infatti 2.881.229 le baffe contrassegnate, pari a +43,14 % della produzione complessiva del Consorzio Tutela Speck Alto Adige. Un trend, questo, che prosegue da diversi anni: si registrano due picchi di produzione, il primo dal 1996 al 2003 e il secondo dal 2013 al 2020, con un periodo intermedio di stagnazione, dal 2003 al 2013, e un anno difficile a causa dell’emergenza sanitaria e della crisi della materia prima, in seguito al quale torna a registrarsi nuovamente una tendenza positiva per il prodotto certificato. La produzione di speck non certificato IGP ha registrato nuovamente un calo del 1,8%. «Siamo orgogliosi di questo nuovo traguardo — sostiene il neoeletto presidente del Consorzio Paul Recla — e speriamo che il 2022 non sarà da meno. In un anno di riconferma così importante, sono onorato di guidare i produttori di Speck Alto Adige IGP in questa nuova avventura». Per Paul Recla, i temi centrali del Consorzio dello Speck Alto Adige rimangono al centro dell’attenzione: «Ci impegniamo a migliorare costantemente la qualità dei prodotti dello Speck Alto Adige IGP, ad aumentare ulteriormente la notorietà del marchio “Speck Alto Adige” attraverso misure efficaci e a proteggere il marchio dall’abuso». L’Italia, in particolare l’Alto Adige e tutto il settentrione, si riconferma anche nel 2021 il maggiore mercato di vendita dello Speck Alto Adige IGP, con un solido 66,3%, pressoché invariato rispetto all’anno precedente. Grande novità è la sempre maggiore richiesta del prodotto anche nelle regioni meridionali e oltre i confini nazionali. Con una quota del 33,7%, lo Speck Alto Adige IGP è infatti uno dei salumi italiani più esportati verso i mercati stranieri: sul podio, Germania (28,9%) e USA (1,9%), dove la popolarità del prodotto è cresciuta negli ultimi anni e le esportazioni aumentate. Altri mercati sono rappresentati da Francia (1,4%), Svizzera (0,6%) e Austria (0,5%), a cui si aggiungono Belgio, Gran Bretagna, Polonia, Finlandia, Canada e altri 20 Paesi(0,4% ciascuno), in cui lo sviluppo positivo dell’export è stato influenzato dalla pandemia. Resta la GDO il principale canale commerciale, con un dato che supera il 65%. Seguono discount (22%cresciuti di 4 punti percentuali rispetto al 2019), la gastronomia (5,3% stabile rispetto al 2019), grossisti (3,8%) e punti vendita al dettaglio (3,4%). In Alto Adige, i negozi al dettaglio, particolarmente diffusi su tutto il territorio, registrano il 53% circa delle vendite nell’intera provincia, mentre il 18,3% resta appannaggio della ristorazione. Importanti anche i dati relativi alle tipologie di confezionamento. Delle 46.079.882 di confezioni di Speck Alto Adige IGP preaffettato prodotte nel 2021(+3% netto rispetto 2020), la più apprezzata è stata ancora una volta quella da 100 g, seguita dai 90 g, i 125 g e 150 g. La comodità è ancora una volta la domanda numero uno dei consumatori moderni, a cui il Consorzio di tutela risponde con confezioni pratiche e pensate per tutti i nuclei familiari, dai più grandi ai più contenuti (photo © Helmuth Rier). >> Link: www.speck.it

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Prosciutto di San Daniele DOP: fatturato 2021 a +14% Anche nel 2021 il Prosciutto di San Daniele DOP si conferma uno dei prodotti enogastronomici italiani più acquistati e consumati, in Italia e all’estero. La produzione totale lo scorso anno ha conosciuto un incremento del 3% con 2.630.000 cosce di suino prodotte, provenienti dai 45 macelli e lavorate dai 3.626 allevamenti italiani autorizzati. Le cosce vendute nel 2021 sono state 2,8 milioni, generando un fatturato totale di 350 milioni di euro, pari a un +14% rispetto al 2020. L’83% della produzione totale è stata destinata al consumo interno, mentre il 17% ha varcato i confini nazionali. L’export vede ottimi risultati, che confermano il riconoscimento e l’apprezzamento a livello mondiale del San Daniele DOP, facendo registrare, per il prodotto diretto al mercato extra-Italia, un +17% delle vendite sull’anno precedente. Il 56% delle quote estere ha raggiunto i mercati di Paesi facenti capo all’Unione Europea. In generale, tra le nazioni più rilevanti per l’esportazione si confermano, in testa, la Francia, gli Stati Uniti, la Germania, l’Australia e il Belgio. Risultati positivi giungono anche da Polonia, Austria, Paesi Bassi, Canada e Brasile. La produzione di vaschette di preaffettato ha registrato un aumento dell’8%, con oltre 23,1 milioni di confezioni certificate, pari a 465.000 prosciutti e un totale di oltre 2,15 milioni di chili. «La capacità di adattamento ai nuovi modelli di consumo e l’elevata qualità del San Daniele hanno contribuito a mantenere il posizionamento del brand e consolidare i risultati economici» ha dichiarato Giuseppe Villani, presidente del Consorzio.

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Prosciutto di Parma in vaschetta, un’ottima annata con 2 milioni di prosciutti affettati e oltre 100 milioni di confezioni vendute Nonostante l’incertezza generale dovuta al perdurare della crisi pandemica, il 2021 è stato un anno record per le vendite di Prosciutto di Parma in vaschetta, che sono cresciute di circa il 6% e per la prima volta sono stati superati i 2 milioni di prosciutti affettati per oltre 100 milioni di confezioni. Dopo un periodo abbastanza stabile, a partire dal 2019 le vendite del Parma preaffettato hanno ricominciato a crescere fino a registrare una vera e propria impennata nel corso di quest’ultimo biennio, spinte anche dai grandi mutamenti portati dalla crisi pandemica, in particolar modo in Italia che ha visto nel 2021 un aumento di circa il 12% pari a 30 milioni di confezioni vendute. «Il preaffettato sta dimostrando anno dopo anno tutta la sua forza: le vendite nel 2021 sono state favorite dal confinamento imposto dalla pandemia, dai prezzi e dall’allungamento della shelf-life della vaschetta, ma si tratta di un trend destinato a durare e a consolidarsi sempre più. Per questo è importante continuare a investire per crescere soprattutto all’estero», ha dichiarato Alessandro Utini, presidente del Consorzio del Prosciutto di Parma. «Sui mercati internazionali lavoreremo come lo scorso anno per consolidare questi brillanti risultati definendo delle iniziative promozionali con alcune grandi catene della GDO europea; questo ci permetterà di fidelizzare i consumatori e di valorizzare il prodotto e la sua facilità di utilizzo». Nel 2021 sono state esportate 72 milioni di vaschette, in aumento del 3% rispetto all’anno precedente. L’Europa è il mercato di gran lunga più importante per il Prosciutto di Parma preaffettato, per la vicinanza e per ragioni legate alla shelf-life del prodotto: qui — Italia inclusa — viene venduto l’86% di tutto l’affettato del Parma, pari a 1.760.000 prosciutti affettati; i mercati extraeuropei assorbono invece il 14% delle vendite, pari a 390.000 prosciutti affettati. Sui mercati internazionali abbiamo assistito ad un significativo cambio al vertice: gli USA, dopo un triennio di forte crescita, diventano il primo mercato estero anche nel segmento del Parma preaffettato con 275.000 prosciutti affettati (+10,4%), andando a scalzare il Regno Unito, che invece mostra un trend di medio periodo negativo, accentuato ora dalla Brexit. Fra i Paesi con un trend particolarmente positivo segnaliamo la Germania, con 255.000 prosciutti affettati in crescita del 5%; la Polonia, il Giappone e l’Irlanda, quest’ultima sta probabilmente assorbendo una piccola parte delle perdite registrate nel Regno Unito. Per quanto riguarda la stagionalità dei consumi del prodotto, nel 2021 tutti i trimestri hanno fatto registrare vendite record rispetto al passato: il 3o trimestre dell’anno in particolare — il periodo estivo — è quello con un picco di vendite eccezionale, sia in Italia sia all’estero che tuttavia ha una ripartizione più equilibrata nel corso dell’anno (fonte e photo © prosciuttodiparma.com).

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BUONA CARNE NON MENTE

PORCOMONDO! IL CAMPIONATO DEL MONDO DEL MUSETTO di Elisa Guizzo

ual è la parola che fa più paura al consumatore italiano? Il grasso. Quel grasso che suona come una blasfemia, eluso dalle nostre tavole e condannato alla reclusione come il peggior nemico della salute umana. Eppure gli animali allevati oggi sono più magri: “Le carni bovine contengono meno della metà del contenuto totale di grassi; nel caso delle suine, negli ultimi 40 anni sono cambiate in maniera significativa sia la quantità sia la distribuzione del grasso sottocuta-

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neo, con una tendenza alla diminuzione di spessore del lardo e a un aumento del grasso nella pancetta” (BORTOLOTTI, 2020). Occorre ricordare che i grassi svolgono funzioni molto importanti per il nostro organismo: apportano energia, forniscono vitamine liposolubili (ADEK) e acidi grassi essenziali e creano il bouquet organolettico nelle carni in termini di tenerezza, succosità e sapidità. Le carni suine rappresentano il primo impatto che il consumatore ha con il grasso, basti pensare a quante

volte, al banco frigo, si sente richiedere del prosciutto magrissimo da parte di clienti incuranti del fatto che la famigerata grassezza generi la complessità aromatica delle carni. I consumatori italiani dunque risultano particolarmente sensibili in termini negativi nei confronti del grasso. Questa concezione però stride profondamente con quella diffusa nella stragrande maggioranza degli altri Paesi nel mondo, in cui la presenza de grasso è un elemento imprescindibile della carne di qualità.

A sinistra, Walter Porcellato, vicepresidente della Confraternita del museto, il vincitore Pierluigi De Meneghi, Federico Caner, assessore al turismo e agricoltura della Regione Veneto, e Elisa Guizzo.

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In Italia esiste un paese diventato il punto nevralgico della nobile grassezza suina: Riese Pio X, piccolo comune della provincia di Treviso che conta diecimila anime; un paese santo che deve il proprio nome a Pio X — proclamato Papa il 4 agosto del 1903. MATTEO GUIDOLIN, giovane prorompente e talentuoso nonché sindaco del paese, ha avuto l’intuizione di valorizzare un prodotto tanto umile quanto ricco di tradizioni e di sapori, il musetto, creando nel 2018 l’Ingorda Confraternita del Museto (in Veneto con una t). Il museto o musetto è un insaccato di origini friulane e venete fatto con le parti umili del maiale quali il muso, da cui prende appunto il nome, la cotica, i muscoletti di spalla e la gola; facoltativi sono l’uso della lingua e delle orecchie. L’impasto ottenuto con la macinatura delle diverse parti, che deve essere di grana grossa, viene salato e pepato. L’aggiunta all’impasto di alcune spezie come cannella, noce moscata, coriandolo e chiodi di garofano è a discrezione del norcino, così come l’aggiunta di vino rosso. L’impasto è insaccato in un budello ricavato dall’intestino del maiale stesso e legato a mano. L’ultima fase è quella dell’asciugatura che avviene in un paio di giorni ad una temperatura di 12 °C. Il peso del musetto varia dai 500 grammi a 1 kg. Il cugino del musetto è il cotechino, che differisce per l’aggiunta nell’impasto di pancetta, parti della coscia e rifilature delle parti magre del maiale. Il cotechino a differenza del musetto ha più cotica nell’impasto. La cotenna, conosciuta come cotica dal latino “cutis” (pelle), è formata dal tessuto connettivo che rientra nella famiglia delle proteine dello stroma, che rappresentano circa il 10% delle proteine muscolari totali. Il tessuto connettivo è costituito da collagene ed elastina, proteine insolubili in acqua. Il collagene, principale costituente del tessuto connettivo, durante la cottura prima si contrae, poi in tempi prolungati e in presenza di acqua gelatinizza. L’elastina, invece, presente in minor quantità nel connettivo, durante la cottura si contrae ma non gelatinizza a differenza del collagene. Occorre precisare che il collagene viene anche apportato in maniera preponderante dai muscoli del muso che

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caratterizzano fortemente il musetto e che permettono di sviluppare un aspetto organolettico piuttosto singolare che spicca con la valutazione tattile: la collosità. Per meglio dire, il musetto deve appiccicare i polpastrelli delle dita, in Veneto si usa dire che “el museto se lè bon el peta” — “il musetto se è buono appiccica” — più marcata è la collosità più buono è il musetto. Il musetto si consuma cotto dopo un attenta e meticolosa preparazione: va forato con uno spillone, poi messo in pentola con acqua fredda e fatto cuocere lentamente per circa 3 ore; la durata della cottura è proporzionale al suo peso (più pesa e più necessita di cottura). Al palato il musetto è un vero e proprio capolavoro culinario la cui sapidità si alterna alla cremosità del grasso che crea una patina lipidica aromatica in bocca. Matteo Guidolin si è messo in prima fila per la valorizzazione di questo nobile insaccato, non solo con la creazione della Confraternita di cui è presidente ma anche dedicandogli un festival, il festival del maiale: Porcomondo!, che vede coinvolta tutta la comunità di Riese Pio X. La vicepresidenza della Confraternita è stata affidata invece al ristoratore trevigiano: WALTER PORCELLATO, della storica trattoria La Caneva dei Biasio a Riese Pio X, punto di riferimento della cucina trevigiana e sede di numerosi eventi gastronomici. A La Caneva si svolge ogni anno, e precisamente il 17 gennaio, la gara dei museti. Non una data qualunque quindi, ma il giorno di Sant’Antonio Abate, il santo protettore dei norcini e dei macellai. Il duello tra museti ha avuto il suo esordio nel 2018 con la nascita della Confraternita e, dopo una battuta d’arresto nel 2021, quest’anno è tornata più viva che mai. Un’edizione straordinaria, caratterizzata da una fitta agenda di appuntamenti, ben undici, dedicati a Sua maestà il maiale. Un viaggio di sapori durato due mesi (28 novembre – 21 gennaio) che ha coinvolto non solo Riese Pio X ma anche gli altri comuni limitrofi: Castelfranco Veneto, Maser e Montebelluna. Il primo appuntamento del tour suino si è aperto con la visita all’allevamento di PIERLUIGI DE MENEGHI, vincitore dell’ultima

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Al palato il museto è un vero e proprio capolavoro culinario, la cui sapidità si alterna alla cremosità del grasso, che crea una patina lipidica aromatica in bocca (photo © Facebook Confraternita del musetto). gara del museto del 2020. A seguire si sono alternate: una cena a tema a base di lardo e una cena di gala che ha visto la partecipazione di OSCAR FARINETTI, al quale è stato consegnato il premio Suin generis. Si sono svolti inoltre due importanti convegni: uno su una razza suina in via di estinzione, il Nero friulano, e l’altro sulla Biosfera del Grappa divenuto Patrimonio dell’UNESCO. Si sono disputate infine tre simpatiche gare, non solo quella del musetto ma anche quella del “cren” (il rafano) e quella delle martondee (polpette fatte con le parti più vascolarizzate dell’animale, polmoni e reni). La Notte degli Oscar suini ha visto la partecipazione di ventidue norcini provenienti da ogni angolo del Veneto,

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i musetti in gara sono stati assaggiati da una attenta e scrupolosa giuria capitanata da GIANCARLO SARAN, noto enogastronomo trevigiano. La giuria mi ha vista coinvolta insieme a numerose figure illustri del territorio Veneto come FEDERICO CANER, assessore al turismo, agricoltura e commercio estero della Regione, CESARE DE STEFANI, titolare dell’omonimo salumificio che sorge sulle colline del prosecco a Valdobbiadene (TV), FABIO BONA, presidente della Confraternita del formaggio Piave DOP, BRUNO VALLE per la sopressa di Bassano del Grappa, MARINA GRASSO, giornalista e presidente Fondaco del Gusto, CRISTINA SPARVOLI, giornalista della TRIBUNA DI TREVISO. I musetti sono stato valutati attraverso l’analisi sensoriale: l’esame visivo tattile

della fetta che analizza l’omogeneità di colorazione dell’impasto e la famosa collosità, l’esame olfattivo che permette di individuare odori anomali e quello gustativo in cui si dà spazio alla sapidità. Dopo un’attenta e certosina analisi, durata circa due ore, il podio è stato assegnato nuovamente a Pierluigi De Meneghi, vincitore dell’edizione 2020. Pierluigi alleva una trentina di maiali e rientra nelle PPL (Piccole Produzioni Locali), un progetto della Regione Veneto che permette la vendita di prodotti agricoli in piccole quantità nel rispetto degli standard igienico sanitari. I maiali allevati da Pierluigi rappresentano l’esempio del benessere animale, scorrazzano liberi all’aperto e ascoltano dell’ottima musica impostata da un timer: la radio suona per 20 minuti ogni due ore. Durante il periodo estivo godono invece di una doccia d’acqua fresca. La loro alimentazione si basa prevalentemente su cereali: mais, crusca, soia, orzo, tutti di produzione propria; non mancano poi i sali minerali necessari per rafforzare il sistema immunitario. Gli animali, al raggiungimento di 270 kg di peso vivo, sono macellati in una struttura certificata della provincia di Treviso; successivamente le mezzene sono trasportate nel laboratorio specializzato di Pierluigi dove nascono preziosi prodotti come museti, salami, soppresse, pancette. Il Campionato del Mondo del Museto è un intreccio di emozioni culinarie e conoscitive risultato di un lavoro accurato fatto dalla Confraternita del Museto. Oserei fare una bucolica equazione: il Bue Grasso sta a Carrù come il Maiale sta a Riese Pio X. Il maiale da sempre considerato l’anima rurale e la fonte principale di proteine nobili è il simbolo del mondo agricolo, un mondo fatto di tradizioni, un mondo che ci ha tramandato insegnamenti alimentari e ci ha insegnato il rispetto verso Madre Natura. Occorrono eventi come questi per ripristinare il patrimonio fatto di cultura, conoscenza e umiltà, un patrimonio di sapori. Non dobbiamo lasciar andare questo patrimonio e dinnanzi a tutto ciò la ristorazione deve compiere la sua parte. Pierluigi, qual è il segreto per un buon museto? «Il farlo con amore». Elisa Guizzo

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PRODOTTI TIPICI

I prodotti delle Podoliche di Andrea Gaddini

l ceppo Podolico è un gruppo di razze bovine Grigie di grande rusticità, diffuse in Italia e nei Balcani, discendenti da un’unica popolazione originaria, probabilmente arrivata in Europa insieme alle migrazioni umane dell’era neolitica. Molto popolari fino ai primi decenni del Novecento, per le loro eccezionali doti di resistenza nel lavoro, furono quasi spazzate via dall’avvento della meccanizzazione, e solo alcune di esse riuscirono a sopravvivere grazie

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ad una selezione per i caratteri di produzione carne. Le razze Podoliche si caratterizzano per una grande frugalità, essendo in grado di vivere e produrre con risorse alimentari di bassa qualità e di pascolare in zone impervie, non accessibili alle razze più selezionate. Un’altra caratteristica positiva di queste razze è di essere associate a prodotti locali tipici, che vantano quindi un’immagine di tradizionalità, sicurezza e legame con il territorio, in linea con le richieste che emergono dai consumatori.

I prodotti alimentari legati alle podoliche sono spesso protetti dai marchi dell’UE, la Denominazione di Origine Protetta (DOP), l’Indicazione Geografica Protetta (IGP) e la Specialità Tradizionale Garantita (STG) o sono registrati dalle singole Regioni come PAT (Prodotto agroalimentare tradizionale). Carni e prodotti a base di carne in Italia La IGP Vitellone bianco dell’Appennino Centrale, istituita con Regolamento eu-

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In alto: il peposo, ricetta tipica toscana simile ad uno spezzatino o stufato. Il tipo di cottura necessita di una carne come il muscolo che, con le sue nervature di connettivo e di grasso, diventerà lentamente morbida. Si prepara tradizionalmente con la carne di razza Maremmana. A sinistra: esemplare di Podolica al pascolo nell’altopiano della Sila.

ropeo il 20 gennaio 1998, comprende le carni di bovini macellati tra i 12 e i 24 mesi, allevati in varie province delle regioni Emilia-Romagna, Marche, Lazio, Umbria, Abruzzo, Molise e Campania, di razza Chianina, Marchigiana e Romagnola. Le ultime due razze fanno parte del ceppo Podolico, mentre la Chianina è normalmente considerata non Podolica, nonostante la forte somiglianza con la razza Marchigiana, che ha avuto origine da insanguamenti di tori Chianini su vacche Podoliche

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marchigiane. Diverse carni delle razze Podoliche sono registrate come PAT: la regione Emilia-Romagna conta la carne bovina di razza Romagnola, Vidlò, Tor, Burela (vitellone, toro e vacca) e la carne della razza bovina Marchigiana, quest’ultima è registrata anche dalla Regione Marche. La razza Romagnola è anche inserita nell’Arca del Gusto della Fondazione Slow Food, che raccoglie i prodotti tradizionali e le razze locali. La carne della Romagnola era ed è utilizzata per il tipico lesso romagnolo,

con il relativo brodo destinato a cuocere cappelletti, passatelli e garganelli. La carne della razza Maremmana è registrata come PAT dalle regioni Toscana e Lazio e inserita nell’Arca del Gusto e come presidio Slow Food dall’omonima fondazione. In passato è stata studiata la possibilità di istituire una IGP, ma l’idea è stata abbandonata per gli alti costi e le ridotte produzioni. Un’antica ricetta della tradizione toscana legata alla carne di Maremmana è il peposo, uno stufato fatto con i tagli più

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La carne della Grigia ungherese è tradizionalmente usata per la preparazione del pörkölt, lo stufato di carne con paprika e cipolle noto come gulash.

ricchi di connettivo, cotto a fuoco molto basso per varie ore con vino rosso e pepe in grani. Il piatto è noto perché il BRUNELLESCHI lo avrebbe modificato con l’aggiunta delle spezie, per proporlo come pasto agli operai che costruivano la cupola del Duomo di Firenze, e la cottura lenta avveniva all’imboccatura delle fornaci nelle quali si cuocevano i mattoni per la cupola. La regione Lazio ha registrato come PAT il vitellone di Itri, prodotto nell’omonimo comune in provincia di Latina, nella zona dei monti Ausoni ed Aurunci. È un meticcio risultante da Maremmana e Podolica, incrociato di solito con Marchigiana in F1, anche con possibile incrocio F2 ancora con Marchigiana. La razza Podolica è registrata come PAT in varie regioni: si contano la carne Podolica lucana, la carne Podolica calabrese, la carne di bovino Podolico dalla regione Campania e nella regione Puglia la carne Podolica, bovino

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pugliese. Anche per la razza Podolica è stata studiata la possibilità di istituire una IGP, che per il momento non è stata messa in atto. La razza bovina Podolica calabrese e la Vacca podolica del Gargano sono anche registrate come presidi Slow Food e inserite nell’Arca del Gusto insieme alla vacca Podolica della Basilicata. Esiste anche una limitata produzione di salsicce e salami di carne di bovino Podolico, pura o miscelata con carne suina. Questo tipo di prodotti non è molto comune in Italia, dove si preferiscono quelli di suino, mentre è molto più diffuso nei Paesi balcanici, che vantano una tradizione per questo tipo di salumi. Carni e prodotti a base di carne all’estero In Croazia la carne della razza istriana (Istarsko Govedo) è utilizzata per produrre salami misti con carne suina, in rapporto di circa 1:1, aromatizzati con

tartufi, erbe aromatiche o vino Terrano locale. Si producono anche salsicce aromatizzate con Malvasia e affettato freddo di coscia in olio extravergine di oliva. I prodotti sono commercializzati dall’Agenzia statale per lo sviluppo rurale dell’Istria (AZRRI – Agencija za ruralni razvoj Istre) usando i nomi tradizionali che venivano dati ai bovini istriani, come Bakin, Kaparin, Morožin, Viola e Gajardo. In Ungheria la IGP Magyar szürkemarha hús riguarda le carni della razza Grigia ungherese (Magyar szürkemarha), che è stata inserita dalla Fondazione Slow Food nell’Arca del Gusto e che manifesta una forte somiglianza con la nostra Maremmana. La razza è allevata al pascolo da aprile a novembre e la sua carne contiene soltanto una minima quantità di grasso intramuscolare (circa l’1,2%). Questo prodotto ha un forte richiamo per i consumatori ungheresi per il suo legame con l’epopea dei mandriani della puszta (la vastissima

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La Grigia bulgara, con carne piuttosto grassa, si usa per la produzione di insaccati come il salame Smyadovska lukanka.

steppa ungherese) e con la loro vita in un ambiente molto difficile, spesso ai confini della legalità. L’attrattiva verso la carne DOP della Grigia va al di là della zona di produzione, e si estende a tutta l’Ungheria. La carne della Grigia ungherese è tradizionalmente usata per la preparazione del pörkölt, lo stufato di carne con paprika e cipolle, da noi conosciuto come gulash, che valorizza tagli di carne di minore tenerezza. Il nome gulash deriva dal termine gulyás-leves, ossia la zuppa del mandriano. Il pörkölt, nella tradizione dei mandriani ungheresi, è cotto in grandi pentoloni e accompagnato dalla puliszka, una sorta di polenta di grano tenero, oppure da pasta molto cotta. Altra specialità dei mandriani della puszta sono le palacsinte, delle crêpes ripiene di carne macinata. La razza Grigia ungherese fornisce tradizionalmente anche prodotti non alimentari molto apprezzati, come le ampie corna e vari oggetti fabbricate con esse.

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In Serbia la carne della razza locale, la Podolsko goveče, inserita nell’Arca del Gusto di Slow Food e usata per la produzione del tradizionale Podolski goulash, derivato dall’analogo ungherese. Oltre al goulash la carne della Podolica serba è usata nella regione di Bačka Topola, al confine con l’Ungheria, per produrre salsiccia essiccata e affumicata, pasticcio di carne, prosciutto, carne secca stagionata e affettati di carne. La proposta di istituzione di una denominazione geografica per la carne presso l’Unione Europea incontra l’ostacolo del basso numero di capi allevati, che rende insostenibili i costi per la procedura di registrazione e per la successiva gestione. In Romania la razza Sura de Stepǎ è stata inserita dalla Fondazione Slow Food nell’Arca del Gusto e non si segnalano particolari prodotti di carne. In Bulgaria la razza Grigia bulgara (Balgarsko Sivo Govedo), anch’essa inserita nell’Arca del Gusto, ha una

carne piuttosto grassa, particolarmente adatta per la produzione di insaccati, ed è una delle due tipologie di carne usata per la produzione di Smyadovska lukanka, un salame tradizionale. Tra i salumi registrati con denominazioni geografiche si conta il Gornooryahovski Sudzhuk della regione di Veliko Tărnovo, di sola carne di bovino, aromatizzata con pepe nero, cumino e santoreggia, che dal 2011 ha ottenuto dall’Unione Europea la registrazione come Indicazione Geografica Protetta (IGP) e le Specialità Tradizionali Garantite (STG) Pastarma govezhda, di sola carne bovina cruda pressata e stagionata, e la Lukanka panagyurska, insaccato misto di bovino o bufalo e suino. In Grecia la carne della razza Katerini è usata, insieme a quella del suino nero greco, per produrre salsicce, da consumare cotte, aromatizzate con porri e spezie, soprattutto origano locale, e affumicate con legno di faggio, secondo

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Caciocavallo podolico, varietà prodotta esclusivamente con il latte delle vacche Podoliche (photo © Claudio Rampinini).

una ricetta tradizionale. Si produce inoltre il pastrami, prodotto da pezzi interi di manzo della coscia, marinati e ricoperti con grani interi di spezie e peperoni. Anche questo prodotto è affumicato e cotto lentamente su legno di faggio, e si consuma soprattutto per riempire panini. La Katerini fornisce inoltre nella zona di produzione della Tessaglia, carni pregiate ai ristoranti, anche gestiti dagli stessi allevatori. Le carni sono anche vendute come specialità gastronomiche nei negozi di Atene e Salonicco. La carne della razza Sykià è venduta localmente. L’Austria non ha dato origine a razze podoliche, ma il Parco nazionale di Neusiedlersee-Seewinkel, ai margini della steppa pannonica, forma un tutt’uno con il parco nazionale ungherese Fertő-Hanság Nemzeti Park. Nel parco si allevano capi della razza Grigia ungherese, localmente detta Steppenrind. La carne di questi bovini rifornisce ben sedici ristoranti convenzionati, che

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servono specialità di podolica, come le salsicce Steppenrindwurst o il prosciutto bovino, che sono anche venduti on-line, soprattutto in Austria. In Ucraina la razza podolica locale, la Razza grigia ucraina, è stata inserita dalla Fondazione Slow Food nell’Arca del Gusto. La carne della razza è magra, dato che il grasso tende a depositarsi nello strato sottocutaneo, anziché come grasso di marezzatura. Non si segnalano prodotti a base di carne ottenuti da questa razza. Formaggi Le razze podoliche erano specializzate nella produzione del lavoro, ma le condizioni estremamente disagiate delle regioni in cui vivevano le rendevano di fatto a triplice attitudine. In diversi luoghi di allevamento venivano munte nel passato e fornivano una piccola quantità di latte, oltre a quello destinato al vitello, con un alto tasso di grasso e proteine, destinato soprattutto all’uso familiare.

Nel Sud Italia la razza podolica fornisce tuttora la materia prima per la produzione di formaggi molto pregiati, anche se la scarsa quantità di latte disponibile porta spesso ad integrarlo con quello di razze lattifere specializzate come la Bruna Alpina e la Pezzata Nera. Il caciocavallo silano, formaggio di latte di vacca semi-duro a pasta filata, protetto fin dal 1955 con Decreto del Presidente della Repubblica, e registrato come DOP nel 1996. Il formaggio è prodotto in varie province di Calabria, Campania, Molise, Puglia e Basilicata. Il caciocavallo Podolico del Gargano riconosciuto come presidio Slow Food, mentre diverse regioni hanno registrato delle PAT, come il caciocavallo podolico dauno della Regione Puglia, il caciocavallo podolico lucano, della Regione Basilicata, il caciocavallo podolico e il caciocavallo podolico dei Monti Picentini della Regione Campania e il caciocavallo podolico della Regione Calabria.

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Il cacio di Vacca bianca è un formaggio a pasta morbida ottenuto da latte generalmente di razza Marchigiana o Podolica, prodotto in tutto il territorio della regione Abruzzo, che lo ha registrato come PAT. Il latte delle Podoliche è anche usato per produrre altri latticini, come la ricotta, ed altri formaggi, come la mozzarella, la scamorza o il primo sale. Nei Balcani invece le Podoliche oggi di solito non vengono munte, e quando lo sono il latte viene piuttosto utilizzato tal quale, visto che la produzione del formaggio di latte vaccino non è molto comune nelle tradizioni gastronomiche locali, mentre c’è preferenza per i formaggi di latte ovino e caprino. Conclusioni Come è noto è molto diffusa una “informazione” secondo la quale l’allevamento, e in particolare quello bovino, sarebbe il principale responsabile del cambiamento climatico, tramite la produzione di gas a effetto serra. Un recente convegno dell’IFAD (International Fund for Agricultural Development), il fondo delle Nazioni Unite per lo sviluppo agricolo, ha decisamente smentito questa valutazione, attribuendo agli allevamenti solo il 5% delle emissioni dirette, e il 14% di quelle indirette, invitando anche ad utilizzare per il calcolo sistemi di stima più affidabili, come quello della FAO, organizzazione delle Nazioni Unite per il cibo e l’agricoltura.

Il convegno dell’IFAD ha messo anche in luce l’importanza vitale dell’allevamento zootecnico per la sopravvivenza di molte popolazioni, il suo grande rilievo sociale per l’occupazione in loco, e quindi contro l’emigrazione, e in particolare per l’occupazione femminile. Agli allevamenti è comunque richiesta una riduzione delle emissioni e più in generale dell’impatto sull’ambiente, e le scelte politiche legate ai gravi problemi derivati dal cambiamento climatico fanno sì che l’esistenza stessa degli allevamenti zootecnici venga messa in questione, o come minimo venga richiesta una riduzione del numero dei capi allevati. Le razze rustiche, tra le quali le Podoliche, rispondono perfettamente allo scopo di garantire un allevamento sostenibile, a basso impatto sull’ambiente e sul clima, con la loro capacità di fornire prodotti sfruttando risorse marginali, e con la loro resistenza alle avversità climatiche e ambientali, richiedendo tra l’altro meno interventi veterinari, farmacologici e tecnologici. Queste caratteristiche sono in linea con le richieste delle norme della Politica Agricola Comune del ciclo 20232027, che impongono, in particolare agli allevamenti bovini, una maggiore sostenibilità verso l’ambiente, il clima e il benessere animale, e una riduzione dell’uso di farmaci. Quindi le razze rustiche, comprese le Podoliche, non sono un residuo del passato, da conservare come in un

museo, ma costituiscono una risorsa indispensabile per un nuovo sviluppo più sostenibile. Andrea Gaddini Bibliografia 1. BODÓ IMRE (a cura di, 2011), Characterization of Indigenous and Improved Breeds, Te-Art-Rum Bt., Budapest. 2. KARETSOS SOTIRIOS (2021), Comunicazione personale. 3. MINISTERO DELLE POLITICHE AGRICOLE, ALIMENTARI E FORESTALI (2021), Aggiornamento dell’Elenco nazionale dei prodotti agroalimentari tradizionali ai sensi dell’articolo 12, comma 1, della legge 12 dicembre 2016, n. 238. 4. ŠIMIC FILIP, ŠAKIĆ BOBIĆ BRANKA, ČOP TAJANA, GRGIĆ ZORAN (2018), Isplativost uzgoja Istarskog goveda. Proceedings of 53rd Croatian and 13th International Symposium on Agriculture, 18-23 febbraio 2018, Vodice, Croazia, pp. 170-174. 5. STOJANOVIĆ SRDJAN (2021), Comunicazione personale. Sitografia • AZRRI – Agenzia Sviluppo Rurale dell’Istria, www.azrri.hr/index. php?id=241&L=2 • Commissione europea eAmbrosia, Registro delle Indicazioni Geografiche dell’UE, ec.europa.eu/info/ food-farming-fisheries/food-safetyand-quality/certification/qualitylabels/geographical-indicationsregister

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Spianata e altre mortadelle romane Spianata romana (photo © www.cibariasrl.com)

di Giovanni Ballarini

a spianata romana è un salame tipico del Lazio chiamata schiacciata o mortadella cruda. Questo tipico salume stagionato, originario delle campagne romane, è di produzione umile e d’antica e imprecisa nascita. Come gran parte delle tradizioni rurali e contadine italiane di questo genere è quindi di genitori ignoti che, oltretutto, non l’hanno battezzato e per questo gli hanno dato molti nomi: spianata per la sua forma, schiacciata perché il salume era stagionato schiacciandolo tra due

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assi di legno, mortadella in quanto la carne era finemente sminuzzata nel mortaio (mortarium) o aromatizzata con il mirto (mirtatum). Queste denominazioni sono antiche e mortadelle fatte con carne di maiale già si trovano nei ricettari e libri del 1300 e 1400, pur non conoscendone composizione, metodo di preparazione e forma. Nel passato il periodo di produzione tradizionale erano i mesi invernali, oggi è tutto l’anno. Il salume è attualmente preparato con carni magre di maiale finemente macinate per mezzo di un

tritacarne e miscelate con lardelli di grasso (25-30%) tagliati a punta di coltello. L’impasto è aromatizzato con pepe nero in grani ed eventualmente aglio fresco schiacciato nel vino. Esistono però anche versioni piccanti aromatizzate con finocchio e peperoncino. Dopo insaccatura in budello il salume è sottoposto a stufatura, asciugato e stagionato. Durante la stagionatura è mantenuto in apposite gabbiette che gli conferiscono la caratteristica forma schiacciata, leggermente curva. La stagionatura avviene in cantine ben

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ventilate e fresche, ma anche in cella, per 35/40 giorni ad una temperatura iniziale di 14-15 °C fino a raggiungere una temperatura di 18 °C circa dopo 12/15 giorni. Al taglio la fetta si presenta lunga e dalla forma ovale. Con la denominazione di Mortadella romana il salume è riconosciuto come Prodotto Agroalimentare Tradizionale Italiano (PAT). Altre mortadelle laziali Nel Viterbese la mortadella cruda non è schiacciata e viene prodotta con le rifilature magre di costato, spalla, coscia e pancetta di maiale. Caratteristica è la triturazione fine delle carni ed il rapporto magro/grasso che ne deriva. Il prodotto, di pezzatura compresa tra circa uno e tre chilogrammi, ha una forma cilindrica, colore rosso, sapore sapido e stagionatura di 3/4 mesi. La guida del TOURING CLUB ITALIANO nel 1931 già cita tra i prodotti tipici di area laziale la Mortadella di Viterbo. Pur essendo un salume tipico di tutto il Lazio, la Mortadella romana assume il nome di altre località dove è prodotta con modalità particolari e da qui la Mortadella di Ariccia con il pistacchio. La Mortadella di Accumuli si fa risalire al 1700, schiacciata tra due stecche di faggio, stagionata per non meno di 4 mesi è di forma cilindrica, peso di circa un chilo e mezzo e colore rosso cupo screziato bianco. La Mortadella di Amatrice è di forma ovale allungata, schiacciata nella parte centrale con stecche di legno di nocciolo; al taglio la fetta si presenta a forma di otto rovesciato, consistenza compatta e colore rosso vinaccia, il sapore intenso e profumato. Tipica dell’Alto Lazio è una mortadella cotta prodotta con carne magra e priva di nervi di coscia suina (cosiddetto prosciutto), macinata grossa, speziata e con aggiunta di pistacchi che conferiscono colore al salume che dopo insaccatura è asciugato in stufa per un breve periodo con una lenta affumicatura e poi cotto in caldaia in modo che il prodotto si sgrassi. Questa mortadella è magra, di colore rosa e con i pistacchi in evidenza, con un gusto delicato e aromatico. Affettata sottilmente se ne apprezzano la morbidezza e la fragranza. Prof. Em. Giovanni Ballarini Università degli Studi di Parma

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Photo © www.assaporapiacenza.it

COCCOLE NELLA NEBBIA: IL PIACERE DELLA MARIOLA CRUDA DI PIACENZA di Chiara Papotti 84

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isitare Piacenza e i suoi dintorni, fino alla Bassa Parmense, in un giorno d’inverno, è certamente un’ottima occasione per entrare nello spirito della gastronomia tradizionale emiliana, in cui primeggiano gli insaccati di maiale, come la coppa, il salame e la pancetta, seguiti dai classici primi come gli anolini in brodo, i turtei di ricotta ed erbette e i poveri, ma gustosissimi pisarei e fasö, gnocchetti preparati col pane grattugiato raffermo e conditi con sugo di fagioli in umido. Stinco di vitello arrosto e trito di cavallo in umido corteggiano il Gutturnio, il tipico vino di queste parti, che sostiene con forza i piatti della tradizione e scalda cuore e palato. Quando il pallido sole di una tipica giornata invernale lascia il posto alla surreale atmosfera serale creata dalla nebbia, si prova un autentico piacere nel rifugiarsi tra le mura domestiche per farsi coccolare dalle prelibatezze che abitano queste terre. Per recuperare intatta la poesia gastronomica, Piacentini e Parmensi affidano i loro desideri culinari ai Fratelli Salini (www.fratellisalini.it), famiglia che dal 1820 sui Monti di Groppallo sviluppa l’artigianato dei norcini ed è riconosciuta da Slow Food come produttrice ufficiale della Mariola Cruda Piacentina, dialettalmente nota come mariöla, attualmente tutelata dal presidio. Il nome di questo salume deriva dal budello in cui viene insaccato, l’intestino cieco del maiale, noto appunto come mariöla. Nel Vocabolario Piacentino-Italiano di LORENZO FORESTI, nella versione edita dalla tipografia Francesco Solari del 1883, alla voce “Mariöla” compare, infatti, la definizione “intestino cieco del maiale”, nel quale veniva insaccato un impasto simile a quello del salame. Nella produzione della mariola cruda piacentina si utilizzano esclusivamente carni di maiale nazionale pesante, allevato per lo più in EmiliaRomagna, e in particolare il guanciale, la gola, la spalla, il lombo e la coscia. La proporzione tra i vari tagli deve essere tale da garantire una percentuale inferiore al 30% di parti grasse. Alle carni mandate a mano con il coltello e a quelle macinate viene aggiunto vino bianco della provincia

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La mariola è uno dei salami più tradizionali della Bassa Parmense, del Piacentino e di parte del Cremonese, dove è chiamata “ciota”. Ne esistono due versioni: cotta e cruda. Un tempo i “signori” volevano soltanto la seconda, la più complessa da stagionare. I più poveri, invece, non potevano permettersi un prodotto così difficile da conservare: la loro mariola era quella di cotechino, da cuocere di Piacenza (in quantità non superiore al 2% della carne), sale e pepe nero macinato fresco. Sono, inoltre, ammesse nella preparazione alcune spezie della tradizione norcina popolare, come chiodi di garofano, noce moscata, cannella e aglio. Prima dell’insaccatura, l’intestino cieco viene accuratamente lavato in acqua corrente e lasciato deodorare in aceto. A questo punto, le carni sono insaccate e legate a mano con spago di medio calibro che dividerà il prodotto in 12 spicchi, più una legatura centrale orizzontale che conferirà una forma ovale al tanto ricercato presidio. Appese a pertiche preferibilmente di legno, le mariole sostano per il tempo necessario all’asciugatura della pelle esterna in un ambiente riscaldato fino ad un massimo di 22 °C. Si passa poi alla stagionatura, in ambienti adatti alla produzione delle muffe, indispensabili in questa fase. Il microclima della zona collinare del Piacentino è particolarmente adatto alla stagionatura dei salumi: grazie alla vicinanza con la Liguria, e quindi all’influenza del clima marino, si creano infatti le condizioni perfette per esaltare i profumi e i sapori della mariola. Per rasentare la perfezione si consiglia, inoltre, di far riposare gli insaccati in locali con pavimenti in terra battuta e “muri al massimo intonacati”, per un minimo di 6 mesi e un massimo di 12, con etichettatura che ne garantisca i tempi di invecchiamento. La lunga stagionatura del prodotto lo rende “non particolarmente commerciale”, avendo un grosso calo di peso, che può arrivare anche al 50%. Il periodo di produzione va dall’inizio dell’autunno fino alla fine della primavera, quando le temperature

basse facilitano la conservazione delle carni. Ritrovare la materia prima che si utilizzava un tempo (la Mora romagnola, la Nera parmigiana e la Borghigiana) e chi la produce ancora col metodo tradizionale, salvaguardandone la peculiarità, sono gli obiettivi che si è posto Slow Food nel tutelare la mariola cruda. Il presidio vuole valorizzare gli ultimi norcini che ancora la producono con metodologia artigianale in piccole quantità e che ancora la stagionano a lungo come la tradizione vuole. Quando è ben affinata, al taglio presenta la classica lacrima, segno di grande nobiltà per i salumi stravecchi. Il profumo rimanda all’odore del muschio, l’aroma è complesso, lieve di spezie, con una piacevole nota di funghi. Al palato è fondente, sapida, un po’ astringente, con un retrogusto lunghissimo. Un buon pane con farina di crusca cotto nel forno a legna e i migliori vini piacentini la accompagnano sulle tavole di chi ha il piacere di assaggiarla. Quando si pensa alla mariola è bello immaginare che, col calare della sera, nelle zone dove la si produce, si alzi leggera la nebbia, che regala un’indimenticabile sensazione di sospensione del tempo. Le finestre illuminate delle case sulle colline chiamano alla buona compagnia e ad un bicchiere di rosso che riscaldi i cuori. A Piacenza, nella Bassa, pianura grassa e generosa, gelida d’inverno e calda d’estate, sempre e comunque umida e impregnata di profumi succulenti, è possibile concedersi una coccola gastronomica unica. Al calore di una tavola ricca di sapori, quegli stessi, impagabili, frutto di una tradizione, per fortuna, ancora viva e forte. Chiara Papotti

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Mostardella, SALUME DEL POPOLO LIGURE di Giovanni Ballarini

a Liguria non è regione di allevamenti animali, anche se noti sono quelli di suini in Val Polcevera, almeno fino al 1500, periodo in cui sono sostituiti dalla coltivazione dell’olivo. Fin dai tempi preistorici i liguri, nei loro contatti con i popoli delle pianure dell’entroterra e con i commerci marittimi, sviluppano nuove conoscenze sugli alimenti e, soprattutto, su quelli di maggior pregio quali sono le carni da conservare o conservate utili se non preziose per i viaggi di mare. Coi loro commerci i liguri non solo scambiano merci, alimenti e costumi ma anche parole che modificano adattandole alla loro lingua, per cui è oggi difficile se non

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impossibile ricostruire l’origine come è il caso della mostardella, salume tipico che da povero è divenuto una raffinata preziosità gastronomica. Il nome Che i nomi delle cose cambino è indubbio, come dimostrano esempi recenti, alcuni dei quali sotto gli occhi di tutti. Prima di salire in macchina guardo le righe sulla fiancata che devo far cancellare dal carrozziere, metto la sacca nel baule, prima d’accendere il motore dal cruscotto prendo gli occhiali da sole, per uscire dal parcheggio metto la freccia e lancio un accidente al salame che ha parcheggiato in malo modo la

sua macchina rendendomi difficile la manovra. In questo breve racconto vi è una serie di parole che nel corso di alcuni decenni hanno cambiato il loro significato originario. Il carrozziere non costruisce e non ripara più le carrozze, il baule dell’auto non è più una capace e robusta cassa da viaggio, il cruscotto non è la cassetta contenente la crusca per alimentare il cavallo che il cocchiere ha davanti a sé, la freccia che si levava letteralmente dal lato destro o sinistro dell’auto non esiste più, è sostituita dal lampeggiare di lampadine poste avanti e dietro all’auto… e salame non è chi mal parcheggia ma un cibo gustoso cibo.

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In alto: tipico “salame dei poveri”, in origine la mostardella era composta con gli scarti delle lavorazione di salumi di carne suina e bovina. In particolare l’impasto era formato da nervetti, piccoli pezzi di carne rimasti attaccati alle ossa e grasso, il tutto legato insieme da vino e condito con sale e aromi. Oggi è un salume raffinato, la cui preparazione si effettua attraverso un’accurata scelta delle carni (photo © massatorazza.it). A sinistra: il Castello della Pietra di Vobbia, ubicato nell'omonima valle tributaria del torrente Scrivia (photo © Roberto Lo Savio).

Pensiamo ora al nome della mortadella con tutte le sue varianti di mortadello, mostardella, mustardela, mortoriola e altre dialettali per indicare una carne conservata in budello che aveva il nome latino di botulus. Difficile risalire all’origine, anche se vi sono le due principali possibilità, mortatum e mirtatum, e cioè carne finemente sminuzzata nel mortaio (mortatum) e o aromatizzata con il mirto (mirtatum). Possibilità entrambe presenti in Liguria, regione dove il mortaio sta alla base del pesto, tradizionale condimento, e dove il mirto era ben noto anche per i rapporti con le grandi isole mediterranee.

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Che i commerci modifichino il significato delle parole vi è il rappresentativo esempio genovese del termine jean, usato per indicare un certo tipo di stoffa e poi di indumento per i lavoratori, oggi di gran diffusione, che sarebbe la storpiatura derivata dall’antico termine Jeane o Jannes utilizzato in francese per nominare la città di Genova e dalla conseguente pronuncia inglesizzata del più recente termine francese Gênes. Impossibile se non inutile pensare di poter stabilire il momento se non il luogo di sostituzione del termine latino botulus a quello volgare di mortadella e sue varianti. Più probabile invece è il ruolo di alcune popolazioni di

commercianti nel diffondere il nome di mostardella o mortadella, anche nelle sue ulteriori modifiche come avvenuto per i jeans. Significativo è il caso proprio della mortadella che fuori dai territori bolognesi, dalla relativamente vicina Milano alla lontana America settentrionale, è nota con il nome di Bologna e nell’America meridionale di Bolonia. In ogni modo, se oggi la Mortadella è di Bologna, la Mostardella è ligure. Mostardella La mostardella è un insaccato di carni i cui metodi di lavorazione e conservazione risultano consolidati nel tempo e abbastanza omogenei in tutto il territorio

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A sinistra: la mostardella di Vobbia. Nel comune in provincia di Genova in ottobre si svolge la storica Sagra della Mostardella (photo © consorziosantalimbania.org). A destra: classico della tradizione contadina, la mostardella di Sant’Olcese con uova al tegamino e bastoncini grigliati di panissa, a base di farina di ceci (photo © ciro-f.jimdofree.com). ligure. Questo salume dei poveri nel passato era composto da scarti della lavorazione di salumi di carne suina e bovina e in particolare da nervetti, piccoli pezzi di carne rimasti attaccati alle ossa e grasso, il tutto legato da vino e condito con sale e aromi. In tempi a noi vicini e oggi la mostardella è un raffinato salume preparato con un’accurata scelta di carni suine e bovine, in parti equivalenti, alle quali è unito il 30% di grasso suino molle. Con aggiunta di sale, pepe e aromi naturali l’impasto è insaccato in budello naturale, ottenendo un salume con la forma simile a quella di un cacciatorino fresco, di colore rosso scuro con parti di grasso bianco ben visibili e che subisce una breve stagionatura. La Mostardella nel 2006 ha ottenuto la DE.CO., Denominazione Comunale. Prodotta in tutto l’entroterra genovese, la mostardella era diffusa in Valle Scrivia, in particolare a Casella, Savignone e soprattutto a Vobbia, assumendo caratteristiche particolari. Il comune di Sant’Olcese, e un tempo anche la confinante frazione Orero del comune di Serra Riccò, è noto per la produzione di questo salume tipico. At-

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tualmente sono utilizzate carni di pregio provenienti da una zona compresa fra Piemonte e Valle Scrivia. La mostardella si consuma fresca, spalmata su pane o arrostita e in cucina è un ingrediente per insaporire minestre e ricette tipiche, con le uova al tegamino o scottata “sce u cuercettu da stiva” (sul coperchio della stufa), un metodo che ammorbidisce la consistenza delle carni, grasso e nervetti. Tra le usanze del passato si ricorda che nelle zone di produzione l’aspirante sposo portava ai genitori della fanciulla una mostardella e il taglio del salume da parte del padre della futura sposa concludeva l’accettazione della proposta di matrimonio. Durante i mesi invernali i contadini trovavano lavoro stagionale presso i salumieri che li pagavano con un chilo e mezzo di mostardella e una lira alla settimana. Ancora oggi a Vobbia in ottobre si svolge la storica Sagra della mostardella e in aprile vi è la Sagra della Mostardella a Vicomorasso (Sant’Olcese). Mustardela delle Valli Valdesi, sanguinaccio piemontese A dimostrazione che termini molto simili

indicano salumi diversi, la mostardella della Liguria non è confondere con la mustardela delle Valli Valdesi, salume tipico della ricca e creativa tradizione alimentare della Val Pellice. Costituita da ingredienti poveri e genuini, l’antica e complessa ricetta contadina della mustardela vede la presenza del sangue del maiale raccolto durante la macellazione, unito a un trito grossolano di carni lessate in quantità variabili ricavate da testa, cotenna, orecchie, lingua, polmoni e rognoni, ai ciccioli di queste carni, sale e spezie. Il composto è insaccato nel budello torto di bovino e lessato per breve tempo. Il salume ha forma cilindrica e di medie dimensioni, dalla pelle lucida, elastica e violacea. Questo sanguinaccio è gustato fresco, tagliato a fette e accompagnato dal pane, o passato in padella con le cipolle ed è l’ingrediente principale di un’antichissima pietanza valdese. Dopo bollitura, caldo è accompagnato da patate, purè o polenta. La mustardela è uno dei presidi Slow Food della provincia di Torino. Prof. Em. Giovanni Ballarini Università degli Studi di Parma

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ANTICA CORTE PALLAVICINA Ristorante “AL CAVALLINO BIANCO” 43010 Polesine Parmense (PR) Tel. 0524 96136 – Fax 0524 96416 www.acpallavicina.com

Nel 1905, nostro nonno Spigaroli Luigi riesce a diventare fittavolo dell’Antica Corte Pallavicina. Il vecchio castello eretto nel 1400 dai Marchesi Pallavicino, trasformato nel 1700 in azienda agricola, è situato sulla riva del Po. Nascono sei figli e l’ultimo, nel 1916, è nostro padre Spigaroli Marcello. Egli diceva che nel castello si stava bene, avevano il traghetto sul fiume, in estate curavano il podere, allevavano come sempre parecchi maiali che in inverno macellavano e facevano i salumi. Salumi che venivano venduti, da prima interi, ai passeggeri del loro traghetto poi, in seguito, al sorgere di una prima baracchetta di legno in riva al Po, affettati insieme al pane, a coloro che, sulle rive del fiume, si recavano in passeggiata anche dai paesi vicini. Da quella baracchetta successivamente ampliata, ma sempre in legno, e divenuta il “Lido di Polesine”, nel quale si ballava e si facevano merende, trarrà origine, dall’immane sforzo congiunto della zia Emilia e dei nostri genitori, il ristorante “Al Cavallino Bianco”. Di posti come il vecchio castello in riva al fiume non ne esistono quasi più, con muri di oltre un metro di spessore, con cantine stupende dove i marchesi stagionavano i loro salumi che inviavano agli Sforza a Milano. Infatti più i salumi e i culatelli sono vicini al grande fiume e più sono buoni!! Tutti quei racconti non li abbiamo mai dimenticati e quando dieci anni fa viene venduta la vecchia Corte Pallavicina decidiamo di acquistarla, con grandi sforzi economici, per poter continuare come il bisnonno, il nonno, il papà a fare dei salumi unici, non sintetici, che mangiandoli scopri da dove vengono e chi li ha fatti. Del resto alla nostra famiglia il senso del buono l’ha insegnato una persona che di cose buone se ne intendeva e noi non ce la sentivamo proprio di lasciar perdere tutta questa esperienza. Massimo e Luciano Spigaroli figli di Marcello.


Photo © Pro Loco Valeggio

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LE STORIE E I LUOGHI DEI TORTELLINI DI VALEGGIO SUL MINCIO

PROMESSE D’AMORE E PASSEGGIATE AL PARCO di Gaia Borghi

na delle caratteristiche che distingue le preparazioni gastronomiche del nostro Belpaese, e che crea molto spesso una discreta confusione nel turista straniero (ma non solo) che si trova a viaggiare e, soprattutto, a mangiare

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nella nostra Penisola, è che uno stesso nome può indicare due cose molto diverse tra loro. Faccio un esempio a me geograficamente vicino: se a Modena con il termine crescentina si indica un tipo di pane o facaccina di forma circolare tipica dell’Appennino,

da cuocere sul fuoco/gas o con la apposita tigelliera elettrica, a Bologna la crescentina si frigge, diventando quindi molto simile, ma non uguale!, al gnocco fritto modenese. E se eliminiamo il diminutivo? Cambia di nuovo tutto. La crescente bolognese, infatti, è una

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morbida focaccia arricchita con dadini di pancetta o ritagli di prosciutto, simile, ma non uguale!, al cosiddetto gnocco ingrassato modenese… Ecco, di esempi come questo la gastronomia regionale italiana è stracolma, interessando anche il piatto simbolo delle due province emiliane appena citate: il tortellino. Fonte di infinite dispute tra Modena e Bologna, che se ne contendono da sempre la paternità, questo primo piatto ricco, immancabile sulla tavola delle feste o degli avvenimenti più importanti — che ha una ricetta “ufficiale” depositata nel 1974 presso la Camera di Commercio cittadina dalla Dotta Confraternita del Tortellino e dall’Accademia Italiana della Cucina, ma di cui ogni famiglia detiene gelosamente la propria versione “ufficiale” —, lo ritroviamo anche in provincia di Verona e più precisamente nel bellissimo borgo medievale di Valeggio sul Mincio. Il tortellino più romantico che ci sia I tortellini di Valeggio, chiamati in dialetto “agnolin“, agnolini (ricordiamo che siamo sì in Veneto, ma la provincia lombarda di Mantova, dove si mangiano gli agnolini, è proprio lì a due passi), sono un tipo di pasta all’uovo che viene servita solitamente asciutta, con un condimento abbondante di burro e profumo di salvia, oppure in brodo di cappone o misto cappone/manzo. Sottilissima pasta sfoglia, quasi un velo (si parla di uno spessore di circa 0,3 mm, massimo 0,5 mm), tirata a mano dalle cosiddette sfogline, e ripieno di carne macinata, manzo cucinato a stracotto nel burro e bagnato con vino bianco di Custoza, maiale e vitello in uguale quantità, durelli di pollo. Il tutto mantecato solamente con un uovo (per 275 grammi circa di macinato) e un pizzico di noce moscata: niente Parmigiano Reggiano, prosciutto crudo o mortadella. Si ritaglia la sfoglia a quadretti di circa 3 cm per lato, sistemando al centro un cucchiaino di ripieno: fondamentale sarà la velocità nel richiudere il tortellino, perché la pasta tende a seccarsi molto in fretta. Il risultato è un impasto dal sapore delicato, che si scioglie letteralmente in bocca grazie all’estrema sottigliezza della sfoglia, e che rende i tortellini di

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Ogni anno nel mese di giugno, dal 1993, a Valeggio si tiene una festa proprio in onore del “nodo d’amore”, che culmina con una sontuosa cena all’aperto per oltre 4.000 commensali seduti attorno a una tavola lunga più di 1 km sul Ponte Visconteo. E, per l’occasione, si sfornano ben 13 quintali di tortellini! Annullata ancora per questioni legate all’emergenza sanitaria l’edizione del 2022, aspettiamo tutti con ansia quella dell’anno prossimo.

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Al Parco Sigurtà tra tulipani, rose antiche, labirinti e galline col ciuffo Parlando di bellezza e romanticismo, a Valeggio non si può non pensare e quindi non citare immediatamente il Parco Giardino Sigurtà, designato nel 2013 come Parco più bello d’Italia e nel 2015 come secondo Parco più bello d’Europa. La sua storia risale al maggio del 1407, quando, durante la dominazione veneziana del territorio, il patrizio Gerolamo Nicolò Contarini acquistò l’intera proprietà, che al tempo aveva una funzione puramente agricola. Si trattava infatti di una fattoria o, meglio, di un “brolo cinto de mura”, terre coltivate con foraggi racchiuse all’interno di un’alta muraglia. Nell’ambito del brolo esisteva però anche un piccolo giardino, dedicato all’ozio dei nobili: ed è esattamente da qui che risalgono le origini del parco. Varie furono le dinastie che si succedettero nel possesso della proprietà, fino alla primavera del 1941, quando l’industriale farmaceutico, dottor Giuseppe Carlo Sigurtà, acquistò il terreno, divenuto una sorta di ingombrante monumento in vendita ormai da diversi anni. Sigurtà iniziò la grandiosa opera di riqualificazione del parco e, grazie ad una multa di 15 lire, scoprì di avere un antico diritto di prelevare acqua dal fiume Mincio, possibilità dimenticata dai predecessori. Con l’irrigazione iniziò così la trasformazione del giardino, che non solo fu abbellito, ma crebbe anche nelle dimensioni, sino agli attuali 60 ettari. Ad attirare i tanti visitatori che ogni anno ne popolano viali e vialetti sono senza dubbio le strabilianti fioriture stagionali, come quella dei tulipani di marzo e aprile (la famosissima Tulipanomania), quando sbocciano oltre un milione di bulbi chiazzati dalle più svariate tonalità: non a caso, nel 2019, la World Tulip Society ha conferito al Parco il World Tulip Destination Worth Travelling For per l’eccellenza nella promozione e nella celebrazione del tulipano e, sempre nello stesso anno, il conte Giuseppe Inga Sigurtà è stato nominato membro dell’Ordine dei tulipani. Il viale di trentamila rose, i narcisi, muscari e giacinti, iris, ninfee e fiori di loto: primavera dopo primavera la fioritura al Parco Sigurtà è un appuntamento imperdibile per gli appassionati di fiori e fotografia. Curiosità: la fattoria del parco ospita due presidi Slow Food e più precisamente quello della Gallina Padovana riconoscibile per il grande ciuffo e quello della Pecora Brogna della Lessinia (Prealpi venete). Infine, il Parco ospita cinque punti ristoro, per fare colazione, merenda, mangiare un panino veloce, un gelato o un caffè. Tappa imperdibile prima o dopo aver assaggiato i tortellini. >> Link: www.sigurta.it

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Valeggio molto diversi da quelli emiliani ben più noti. Come molto diverse sono le “leggende” che accompagnano la nascita dei due prodotti: una ha per protagonista un oste “guardone” di Castelfranco Emilia, località a metà via tra la città di San Geminiano e quella di San Petronio, il quale, spiando attraverso il buco della serratura una bella dama ospite della sua locanda, decise di replicare le fattezze del suo ombelico in cucina, creando appunto il tortellino, l’Ombelico di Venere in forma di pasta; l’altra, anch’essa ambientata nel Medioevo, ma decisamente più romantica, racconta di un amore contrastato tra un ufficiale valoroso e una ninfa di fiume. Siamo alla fine del ‘300, l’Italia settentrionale è attraversata da numerose guerre e il signore di Milano, GIANGALEAZZO VISCONTI, si apposta con le sue truppe sulle sponde del Mincio per organizzare l’attacco al nemico. Il fiume è però abitato da ninfe camuffate da streghe che, durante la notte, iniziano a danzare tra le tende dell’accampamento. Uno dei soldati, il capitano Malco, risvegliatosi improvvisamente dal sonno, affronta con coraggio i misteriosi esseri incappucciati, catturandone uno, che rivela possedere le fattezze di una splendida fanciulla di nome Silvia. Tra i due, naturalmente, è amore a prima vista, con tanto di promessa di eterna fedeltà. L’happy end però non appartiene a questa fiaba: il legame è infatti osteggiato da una nobildonna gelosa, che accusa Silvia di stregoneria e costringe i due innamorati alla fuga. La storia termina drammaticamente nelle acque del fiume, che li inghiotte, in prossimità della località di Borghetto, e sulle cui sponde viene trovato un fazzoletto di seta dorata annodato, simbolo di un amore che non potrà così mai avere fine. Per ricordare gli sfortunati innamorati si dice che le donne di Valeggio iniziarono da quel giorno a riprodurre quel “nodo d’amore” attraverso una sfoglia sottile come la seta e gialla come l’oro, simbolicamente “annodata” come il drappo di Silvia e Malco. La storia tragica ha un autore, ALBERTO ZUCCHETTA, maestro orafo, studioso di simbologia medievale e grande appassionato di cucina, al quale si deve anche l’idea, realizzata insieme

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Tortellinoteca Remelli, fratelli di tortellini Laboratorio, punto vendita e ristorante: il tortellino è senza dubbio il punto d’orgoglio e il cuore pulsante della produzione e vendita del Pastificio Remelli, uno dei tanti pastifici artigianali di Valeggio sul Mincio. I due fratelli Luciana e Guido Remelli decisero di aprire un negozio di pasta fresca nel 1988, recuperando la propria cultura contadina e soprattutto i preziosi insegnamenti culinari tramandati da nonna Mora. Sapori e memorie di un tempo sono stati perfezionati in laboratorio, avvalendosi della collaborazione delle vere artefici della grandezza del tortellino di Valeggio, ovvero venti esperte pastaie, che, ogni giorno, con ingredienti freschissimi e velocissime dita, fanno nascere migliaia di tortellini. Al piccolo laboratorio con punto vendita, sito proprio di fronte alla chiesa del paese (e dove è possibile acquistare altri prodotti di gastronomia e prodotti e vini locali), si è aggiunto pochi anni fa un ristorante nel quale gustare tortellini e altri piatti tipici: la Tortellinoteca. Il locale propone anche il menu degustazione di tortellini (photo © Pastificio Remelli – Tortellini di Valeggio sul Mincio Srl). >> Link: pastificioremelli.it

all’Associazione Ristoratori locale, di istituire una festa speciale dedicata al “nodo d’amore”. L’appuntamento annuale si tiene ogni terzo martedì di giugno dal 1993 sul Ponte Visconteo di Borghetto, sul quale viene apparecchiata una tavolata lunga più di un chilometro in grado di ospitare oltre 4.000 ospiti e per i quali si arrivano a preparare 13 quintali — almeno! — di tortellini, tutti rigorosamente fatti a mano. I tortellini di Valeggio sono da tempo riconosciuti come Prodotto

Agroalimentare Tradizionale Italiano (PAT) della Regione Veneto e possono inoltre fregiarsi della Denominazione Comunale (DE.CO.), loro attribuita già 10 anni fa dal sindaco di Valeggio ANGELO TOSINI. La ricetta originale è invece stata depositata dall’Associazione Ristoratori di Valeggio (ristorantivaleggio.it); grazie alla targa affissa all’ingresso di ciascun locale aderente, è possibile riconoscere facilmente quelli in cui degustare l’autentico nodo d’amore. Gaia Borghi

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Peck presenta la sua prima linea di cocktail artigianali ready to drink Nel DNA del brand Peck c’è da sempre la volontà di offrire il meglio ai propri clienti attraverso prodotti d’eccellenza: la stessa qualità si ritrova nella prima linea di cocktail già pronti. Negroni, Martini Dry e Cosmopolitan sono i tre miscelati pensati per vivere direttamente a casa propria uno dei momenti della giornata più importanti per i milanesi, l’aperitivo. Per un perfetto abbinamento di sapori, i cocktail sono proposti anche in speciali box con una selezione di proposte food firmate Peck. La selezione degli ingredienti utilizzati nei cocktail rispecchia la cura per il dettaglio e per la qualità delle materie prime che contraddistingue il brand di alta gastronomia, nonché la ricerca dei migliori produttori, con l’incarico della realizzazione dei miscelati ad una delle più rinomate distillerie italiane, attiva dal 1890. A caratterizzare ulteriormente la nuova linea beverage è il concept grafico, un omaggio di Peck ai suoi clienti e alla città di Milano. Le etichette delle tre bottiglie sono nate dalla fantasia dell’illustratore GIANLUCA BISCALCHIN: dal giovane bon viveur che sorseggia il suo Negroni sullo sfondo di Gae Aulenti, alla signora glamour che gusta il suo Cosmopolitan di fronte a Torre Velasca, per arrivare al classico uomo d’affari col suo Martini Dry davanti al Duomo. L’idea è quella di rendere il momento dell’aperitivo — un rito di condivisione così amato a Milano e non solo — colorato e ironico, pieno di humour, citando i grandi disegnatori del passato: da Depero a Saul Steinberg. Uno dei simboli di Milano La storia di Peck comincia nel 1883. È proprio a Milano, già all’epoca considerata la capitale economica d’Italia, che l’intraprendente salumiere di Praga Francesco Peck decide di aprire una bottega di salumi e carni affumicate di tipo tedesco in via Orefici 2, con l’ambizione di renderla la più prestigiosa salumeria della città. Selezionare, trasformare, produrre, proporre, interpretare: nel tempo Peck è cresciuto arrivando in nuovi Paesi, ampliando le categorie di prodotto, interpretando gli stili e i tempi con formule gastronomiche in costante divenire. Sono nati negozi Peck all’estero e format pensati per occasioni speciali, come Expo Milano 2015, quando Peck è stato scelto come ristorante ufficiale del Padiglione Italia. Peck ha anche una lunga tradizione legata ai vini e agli spirits: partendo dall’enoteca del negozio di via Spadari — una delle più grandi d’Italia con la sua selezione di oltre 3.000 etichette — per arrivare al cocktail bar di Peck CityLife, nato nel 2018 e diventato un punto di riferimento nel mondo della mixology milanese. >> Link: peck.it

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Riconoscere la qualità, realizzarla e portarla sulla tavola di tutti

SUINCOM S.p.a. Strada Comunale del Cristo 12/14 - 41014 Solignano di Castelvetro (Mo) - Italy tel. +39 059 748711 - fax +39 059 532038 - info@suincomgroup.it - www.suincomgroup.it


FIERE

MALAGA H&T, IDEE PER L’HO.RE.CA. di Riccardo Lagorio

è una città spagnola poco nota al pubblico italiano come meta turistica, ma assai ambita dagli Europei del nord. Malaga si affaccia sul mare e le sue periferie sono costellate da spiagge incantate, onde perfette per il surf e borghi dove il tessuto urbano romano e quello arabo si intersecano al Barocco che segue la Reconquista e agli influssi modernisti degli ultimi due secoli. Recentemente ROSA SÁNCHEZ, assessore

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la Turismo della Comunità autonoma dell’Andalusia, ha affermato che «il dinamismo della città, che assiste all’arrivo di imponenti investimenti, esige che si aiutino i professionisti e le imprese a far fronte alle sfide del mercato anche grazie a una fiera specifica dedicata ai professionisti del tema». Così Malaga è anche diventata sede di una fiera internazionale dedicata al canale HO.RE.CA. che dal 7 al 9 febbraio scorsi ha compiuto il

24o anno. Il suo nome, H&T (Salón de Innovación en Hostelería), come accade per la città patria di PABLO PICASSO che la ospita, può non dire molto ai nostri lettori. Tuttavia, si è rilevato un appuntamento stimolante sotto il profilo delle proposte tecnologiche, con la presentazione del primo bar robot (la trasposizione di GIUSEPPE CIPRIANI in chiave R2-D2) e dell’automazione nel mondo delle prenotazioni e dei pagamenti al ristorante.

L’alta ristorazione spagnola in cattedra alla 24a edizione del salone di Malaga dedicato all’innovazione nel settore Ho.Re.Ca. H&T.

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250 espositori provenienti da Paesi Bassi, Portogallo, Francia, Regno Unito e Italia hanno movimentato il salone delle attrezzature e della tecnologia mentre il reparto dell’alimentazione era per gran parte dedicato ad aziende locali e spagnole. Continuando con le curiosità, il settore dell’ortofrutta è stato quello più gettonato, visto che sulla costa orientale della provincia di Malaga, nell’area denominata Axarquía, si coltivano da alcuni anni mango e avocado, trasformato in guacamole da Trops, un’azienda specializzata in frutta esotica d’origine spagnola. Coltivazioni che hanno dato spunto a MAITE SÁNCHEZ di Maychoco di utilizzare le fette di frutta essiccata che viene arricchita dal suo sorprendente cioccolato, ottenuto dalla lavorazione delle fave (maychoco.es). Dal tardo pomeriggio un padiglione viene destinato ai gin e ai liquori da cocktail sotto il nome di Ginebralia, appuntamento imperdibile per chi si vuole accaparrare una fetta dei giovani turisti nordeuropei. La novità di questo “salone nel salone” è stata la presentazione di Cannagin, un gin composto da cardamomo, melissa e lime e da un’altra mezza dozzina di erbe aromatizzato alla canapa. Ma l’aspetto certamente più considerevole è stato l’intervento di 26 cuochi di alto profilo come PACO RONCERO, che vanta 2 Stelle Michelin a Madrid. Il mare al centro delle conversazioni di PABLO SÁNCHEZ del ristorante Los Marinos José di Fuengirola (che vanta 2 Soli della guida Repsol, assai innovativa e acclamata nel Paese iberico), che ha sottolineato l’importanza nella scelta e nella riconoscibilità del pesce e dei crostacei freschi, e di YAYO DAPORTA,

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In alto: l’azienda Dax Robotics ha presentato al salone H&T il suo primo prototipo di bar robot. In basso: Maite Sánchez, fondatrice della piccola torrefazione di cacao Maychoco, Benajarafe, sulla Costa del Sol, dedicata alla trasformazione artigianale della fava di cacao in cioccolato “Bean to Bar”. cuoco galiziano tra i più capaci a mantenere in vita le tradizioni marinare della regione assecondandole ai gusti e alle tendenze attuali. Il suo intervento, Cucinare il territorio, è un’idea oramai acquisita in ogni consesso e il suo Piede di cornucopia e codium (Colpo di mare), dove lo iodio sprigionato da mollusco e alga per alcuni è un pugno nello stomaco, per altri una somma delizia, è entrato negli abbecedari della gastronomia spagnola. Sintesi delle argomentazioni a favore dell’alta cucina di tradizione le

ha portate il giovane JOSÉ LUÍS ESTEVAN de Fonda de la confianza di Madrid. Scorrendo il menu del locale ecco le imperiture marinature (di pernice e funghi o coturnice e melanzane con vino di Malaga) e la proposta di paella è quella autentica di coniglio e chiocciole o, in versione vegetariana, di carciofi, fave e talli d’aglio. C’è sempre un limite al modernismo e alle scelte foreste delle fermentazioni e degli abbinamenti azzardati sembra volere affermare il cuoco. E chi scrive con lui. Riccardo Lagorio

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L’AGROALIMENTARE AFFRONTA L’EMERGENZA INTERNAZIONALE

Photo © www.cibus.it

La 21a edizione di Cibus, organizzata da Fiere di Parma e Federalimentare, si terrà a Parma dal 3 al 6 maggio prossimi. L’allentamento dell’emergenza pandemica e le nuove norme a favore della partecipazione fieristica da parte di operatori extra-UE consentirà l’arrivo di buyer e operatori da ogni continente. Gli interventi alla conferenza stampa di presentazione

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ibus (Parma, 3-6 maggio) sarà la prima grande fiera internazionale dell’agroalimentare che vedrà il ritorno dei buyer esteri. Sono attesi circa 60.000 visitatori professionali e circa 3.000 aziende espositrici. La guerra in Ucraina e la delicata situazione geopolitica internazionale sta condizionando anche il settore alimentare: gli aumenti del gas e delle materie prime e i problemi logistici stanno, infatti, mettendo a dura prova il Food & Beverage italiano. Ma proprio questa particolare situazione assegna agli eventi fieristici come Cibus un ruolo delicato: da un lato tentare una sintesi proiettiva tra domanda e offerta, dall’altro pianificare approvvigionamenti e assortimenti superando le difficoltà della supply chain. D’altronde, è sempre forte la domanda di agroalimentare italiano nel mondo. Basta scorrere le statistiche dell’export dell’industria alimentare: USA +14,3%, Cina +32,7%, Corea del Sud +30,7%, Cile +50,5%, Sudafrica +21,2%, Polonia +21,4%, Spagna +19,6%, Germania + 6,7%, Francia +7,1%, (dati FEDERALIMENTARE elaborati su base ISTAT, gennaio/novembre 2021). Cibus 2022 rimetterà il cibo al centro del dibattito sociale ed economico, mostrando gli scenari e il suo ruolo imprescindibile all’interno della nostra società. La manifestazione ribadisce il ruolo del food come archetipo dei rapporti sociali, inquadrando come questa attenzione possa riconciliarci con un modello di sviluppo coerente alle istanze del consumatore, delle comunità, dell’ambiente e delle aziende agroalimentari sempre più orientate a comportamenti virtuosi. A Cibus 2022 l’attenzione alla sostenibilità sarà intesa in tutti i suoi molteplici aspetti: ambientale, economica e sociale. Protagonisti di Cibus anche i prodotti IG italiani ed internazionali, per la promozione e la valorizzazione dei territori d’origine, il set informativo necessario a creare valore sugli scaffali e un’area start-up con realtà italiane ed estere come incubatore di proposte innovative. Non mancherà, poi, la valorizzazione delle buone pratiche dell’industria agroalimentare per innescare una reazione a catena positiva lungo tutta la filiera.

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In conferenza stampa è stato letto un indirizzo di saluto di LUIGI DI MAIO, Ministro degli Affari esteri e cooperazione internazionale: «Cibus è un esempio della resilienza e della capacità di ripartire, essendo stata tra le prime manifestazioni fieristiche a svolgersi in presenza lo scorso anno dopo la fase più acuta dell’emergenza sanitaria globale. Siamo pienamente consapevoli che le prossime saranno settimane complesse da gestire. Voglio rassicurarvi in merito al fatto che la Farnesina continuerà a lavorare con la medesima, accresciuta intensità che ci ha consentito, nell’ultimo biennio, di sostenere e promuovere il made in Italy. Nei giorni scorsi abbiamo avviato una riflessione insieme ai Ministeri delle Finanze e dello Sviluppo economico per potenziare il nostro sostegno alle filiere più esposte alle tensioni con la Russia». È poi intervenuto MANLIO DI STEFANO, Sottosegretario di Stato al Ministero degli Affari esteri e cooperazione internazionale: «Guardando il contesto generale, al di là della crisi attuale, il Ministero degli esteri è impegnato nel sostegno all’export italiano, grazie al “Patto per l’Export”. Ricordiamo che l’Italia vanta un primato mondiale sulle produzioni biologiche, il record per le produzioni agroalimentari a denominazione d’origine e una varietà produttiva unica. Sulla crisi russo/ucraina, stiamo attivando dei giri di tavolo per sostenere le imprese esportatrici, eventualmente riprogrammare su altri mercati le perdite sui mercati russo/ucraini ed esplorare risposte compensative». I riflessi delle tensioni internazionali sul settore agroalimentare sono stati al centro dell’intervento di IVANO VACONDIO, presidente di FEDERALIMENTARE: «L’appuntamento di Cibus serve a ribadire la centralità delle nostre imprese alimentari che, pur in condizioni sfavorevoli, continuano a produrre, a cercare nuove soluzioni, consapevoli del fatto che fermarsi non è possibile. Cibus ci ricorda così il valore del Food & Beverage in condizioni ordinarie e, ancor di più, in condizioni extra-ordinarie». Un sostegno alle imprese e a Cibus viene assicurato da ICE – Agenzia, come ha riferito il presidente CARLO FERRO: «L’export del nostro Paese è ripartito nel 2021 e così l’agroalimentare italiano, che

ha registrato una crescita del +14,7% rispetto al 2019. Alle nuove sfide dei mercati internazionali post-Covid, si aggiunge, tuttavia, uno scenario internazionale dominato da inattese e drammatiche complessità geopolitiche. In questo quadro fare sistema è ancor più importante. ICE Agenzia sostiene la 21a edizione di Cibus con lo stanziamento di risorse più importante negli ultimi sei anni. Per questa edizione i nostri uffici prevedono di portare a Parma 380 buyer specializzati e 10 giornalisti da 42 Paesi e faciliteranno la diffusione della piattaforma My Business Cibus. E l’auspicio, di cuore, che ben prima della data di apertura della fiera il mondo abbia ritrovato la pace». Cibus 2022 sarà un’occasione per definire il ruolo di resilienza dell’agroalimentare, come ha detto ANTONIO CELLIE, CEO di Fiere di Parma: «Il made in Italy durante il Covid ha mostrato tutta la sua resilienza quindi si candida, anche in questa delicata fase, a fornire “creativamente” la distribuzione mondiale. Migliaia di buyer verranno a Cibus con questo spirito: capire con i loro fornitori chiave come gestire l’emergenza e, auspicabilmente, uscirne. Il cibo è un bene primario e personalmente auspico che il dibattito della community di fronte alla tragedia umanitaria in Ucraina viri rapidamente dagli aspetti economici a quelli sociali. Su questo infatti apriamo Cibus 2022: come l’agroalimentare può e potrà contribuire alla stabilità dei territori e all’inclusione delle persone». Su Cibus capitale della Food Valley GINO GANDOLFI, presidente di Fiere di Parma: «Radicata sul territorio e in stretta collaborazione con le istituzioni, Cibus costituisce l’ingresso ideale per i buyer che provengono da tutto il mondo per scoprire la Food Valley e i suoi prodotti. La pandemia ci ha offerto l’opportunità di ripensare alcuni processi e di ottimizzare le nostre risorse. Grazie ai ristori del Governo, al grande impianto fotovoltaico e alle decisioni assunte, possiamo presentare oggi una manifestazione in grado di creare valore e di generare anche un rilevante impatto economico e sociale per la comunità locale e per l’intero territorio nazionale». >> Link: www.cibus.it

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FORMAGGIO

La Casearia Carpenedo La storia di una famiglia e, soprattutto, di un metodo, vittima di molti tentativi di imitazione ma impossibile da riprodurre. Una lavorazione tanto complessa quanto unica che, tra gusti sorprendenti e accostamenti inediti, cambia il formaggio nella sua essenza di Gian Omar Bison

Lavorazione del formaggio di latte vaccino “Vento d’Estate”.

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accontare la storia de La Casearia Carpenedo significa raccontare la storia di una famiglia di affinatori di formaggio. Creativi prestati ai sapori e ai profumi. Curiosi e gourmet, perennemente col naso all’insù! Era il 1961 quando A NTONIO CARPENEDO, ancora giovanissimo, aiutava il padre ERNESTO nel mestiere del casoin. Oggi Antonio è ancora il faro dell’azienda di Camalò (TV), guidata dai figli ERNESTO e ALESSANDRO. Il loro segreto si chiama Metodo Carpenedo: una raccolta di protocolli di lavorazione specifici, segreti, risultato di anni di curiosità, esperimenti e perfezionamenti. Un mix di Tempo, Umidità, Temperatura e Ambiente, la T.U.T.A., differentemente coniugati per diverse tipologie di formaggio. Si parte da un ottimo cacio, realizzato da caseifici che rispettano ambiente e biodiversità, scelto in base alla tipologia dell’ingrediente, come dice Antonio, con cui “dovrà fare l’amore”: vino e vinacce, fieno e birra, spezie, mirtilli rossi e uva passa, miele e tartufi fino all’ultima creazione con il Gin. Un processo nato con la creazione del primo formaggio Carpenedo: l’Ubriaco di Raboso. Negli anni la creatività del fondatore lo ha portato a sviluppare tecniche di affinamento in barrique e lavorazioni più complesse utilizzando formaggi erborinati. Tra questi il Basajo, che ha conquistato, unico veneto, il Super Gold al World Cheese Awards 2021, il campionato del mondo dei formaggi (oltre 4.000 formaggi in rappresentanza di 45 Paesi, valutati da 250 esperti) tenutosi a novembre 2021 ad Oviedo, Spagna. Il Basajo è un formaggio erborinato a latte crudo ovino, affinato in vino Passito di Pantelleria e uva Zibibbo appassita. Ma tutti i sei formaggi presentati al Concorso sono stati premiati: medaglia d’oro al Dolomitico, argento al BriscolaBio, bronzo a Blu61, BluGins e BaroneRosso. Personalmente, mi piace ricordare, tra i tanti ideati dai Carpenedo, il Vento d’Estate, creato da Antonio, inebriato, durante una gita fuori porta, dal profumo di fieno di montagna appena tagliato emanato da un carretto che gli percorreva la strada davanti. Riempì il baule dell’auto perché

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Alessandro Carpenedo, alla guida dell’omonima azienda casearia con il fratello Ernesto e il padre Antonio. era sicuro che sarebbe stato affascinato dal suo corredo aromatico. Da quella intuizione uscì un formaggio vaccino a pasta dura, affinato in barrique con fieno di alta montagna di primo taglio. Un’esplosione di profumi che spaziano dal fieno alle erbe aromatiche e fiori delicati, su tutti la camomilla, la malva e la mentuccia selvatica. «Tutto — ricorda Alessandro — è iniziato con mio nonno Ernesto Carpenedo ai primi del Novecento in una bottega di generi alimentari a Preganziol (TV). Era un grande commerciante, avveniristico, basti pensare che si faceva arrivare a vagonate le budella salate dalla Francia, tutte della stessa misura per salami più eleganti e calibrati; inoltre, era un frequentatore abituale della Fiera di Milano, dove acquisiva la conoscenza delle ultime novità agroalimentari nel panorama italiano ed internazionale. Mio padre Antonio è cresciuto in bottega e da subito si è appassionato al lavoro di famiglia, occupandosi in particolare di distribuzione all’ingrosso.

Ha ulteriormente potenziato l’azienda introducendo attività diverse, tra le quali l’acquisizione di un piccolo caseificio turnario che stava per chiudere, dove ha iniziato a produrre formaggio con il solo aiuto di un tecnico. Inizialmente si è concentrato sui formaggi tipici del territorio che oggi si chiamano Casatella, Latteria, Montasio. Ricorda spesso mio padre con una punta d’orgoglio di essere stato tra i primi a proporre e vendere la Casatella al di fuori del Veneto». L’evoluzione successiva è avvenuta con l’acquisizione di un terreno a San Biagio di Callalta (TV), dove Antonio ha fatto costruire un caseificio ampliando la produzione e avviando un’attività di stagionatura conto terzi. «La sua bravura era tale per cui — continua Alessandro — c’erano produttori che gli portavano formaggi difettati che non riuscivano a sistemare e che lui “correggeva” con particolari metodi di stagionatura naturale, lavorando sulle temperature».

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La tradizione casearia con il vino è particolarmente radicata nel Trevigiano e gli Ubriachi® raccontano l’essenza del Metodo Carpenedo, un know-how in grado di elevare la profondità delle caratteristiche gusto-olfattive di due prodotti apparentemente semplici come formaggio e vino.

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Che cos’è l’affinatura per la famiglia Carpenedo? “Prendi un prodotto, già eccellente e di alta qualità e rendilo unico. Trasformalo, con un processo quasi alchemico fatto di abbinamenti inediti e processi di lavorazione complessi, in qualcosa di mai visto, incredibilmente buono e dai sapori indimenticabili”. Il 1976 fu un anno particolare: un contadino che gli conferiva il latte chiese ad Antonio di dargli alcune forme di formaggio. Le avrebbe messe sotto le vinacce come faceva suo nonno, il quale, durante la prima guerra mondiale, nascondeva così il formaggio per non farselo rubare dai soldati italiani ed austriaci affamati al fronte. «Mio padre, incuriosito, provò a mettere le prime forme di latteria sotto le vinacce di Raboso. Il risultato fu un prodotto ricco nei profumi, nei sapori e nel colore. A quel punto pensò di rivendere il prodotto e lo chiamò Ubriaco®, ancor oggi marchio registrato. Sono nati così l’Ubriaco di Raboso, al Prosecco DOC, il Brillo di Treviso, ecc… Nel tempo sono poi arrivati i barricati nelle botti di rovere. Tutti prodotti che sono stati ispirati da esperienze di vita e di viaggi. Il lavoro di affinamento divenne così importante che mio padre decise di non produrre più i formaggi ma di farli preparare a caseifici certificati che lavorassero in modo rigoroso e disciplinato la materia prima di qualità. Da quel momento è nata la nostra storia di affinatori». L’intuizione di Antonio è stata quella di non dedicarsi più alla trasformazione di latte in formaggio ma di trasformare il formaggio in qualcosa di diverso. «Non tutti i formaggi — puntualizza

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Alessandro — si prestano ad essere affinati, e su questo siamo estremamente rigorosi, imponendo ai nostri fornitori di riferimento ricette disciplinate in maniera specifica, per ogni tipologia di prodotto». Alessandro ha 44 anni ed è entrato in azienda nel 1997 dopo il servizio militare, proprio nel momento in cui era stato selezionato per iniziare a lavorare presso gli uffici di un noto tour operator trevigiano. «Ho avvertito la necessità di proseguire l’attività di famiglia e di trasferirla alle prossime generazioni. Quando sono entrato io, Ernesto lavorava già in azienda ed eravamo agli albori dell’idea di impresa che poi si sarebbe concretizzata e perfezionata nel tempo, sia dal punto di vista organizzativo che distributivo. Si vendeva principalmente a negozi specializzati sparsi un po’ in tutta Italia. Nel frattempo avevamo iniziato a fare le prime fiere. Eravamo quindi, sostanzialmente, un’azienda che vendeva al 100% in Italia. Il mio ingresso ha portato la conoscenza dell’inglese e la dimestichezza con i viaggi». Negli anni è aumentata la domanda estera. «Ciò ha avuto come conseguenza, in proporzione, un aumento decisivo della quantità di formaggio affinato prodotto, l’assortimento dell’offerta e quindi la dimensione dell’azienda, sotto tutti i punti di vista. Attualmente produciamo una ventina di referenze e

il formaggio più conosciuto e venduto nel mondo è il Blu61. Mi soffermo, in modo particolare, a parlare di questo straordinario prodotto che unisce la creatività alla tecnica e la performance professionale all’anima. Infatti, il Blu61 nasce nel 2011, in occasione del 50o anniversario di matrimonio tra i miei genitori. Un traguardo speciale, per due innamorati senza tempo». Per l’occasione, Antonio decise infatti di regalare a Giuseppina un “gioiello” di formaggio che diventerà, in pochissimi anni, un’icona mondiale dei prodotti gourmet italiani. Il Blu61 è un ambasciatore dei valori italiani di bellezza, suggestione, piacevolezza e pura passione. Lo si trova da diversi anni da Harrod’s a Londra e molti altri negozi distribuiti su 30 Paesi nel mondo passando per Parigi Tokyo, Sydney e New York. Al momento l’azienda dispone di uno show room e di una sala congressi. Il Cheese Restaurant? Un’idea stuzzicante, accarezzata dai Carpenedo che, forse, vedrà la luce nel 2023. Gian Omar Bison La Casearia Carpenedo Via Santandrà 17 31050 Camalò di Povegliano (TV) Telefono: 0422 872178 E-mail: info@lacasearia.com Web: www.lacasearia.com

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IL CAPRINO PIÙ “FICO”

Fresco e stagionato, il caprino con caglio vegetale al lattice di fico è un Prodotto Agroalimentare Tradizionale (PAT) delle Marche di Roberto Villa

Storia e legame con il territorio uore dell’antico Ducato di Urbino (1443-1631), divenuto tale per la nomina papale di ODDANTONIO II da Montefeltro a partire dalla medievale omonima contea istituita nel 1213, l’area del Montefeltro è un territorio ricco di colline, boschi ed acque che ha saputo generare specificità alimentari giunte

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sino ai giorni nostri, come raccontato dalla sociologa rurale GRAZIELLA PICCHI in un testo di inizio millennio1. Dopo la brevissima esperienza di Oddantonio II, dissipato, militarmente incapace e odiato dalla popolazione a causa dell’inasprimento di tasse e balzelli d’ogni sorta, assassinato — tradunt2 — dal fratellastro FEDERICO (sì, quello del famoso profilo di PIERO DELLA FRANCESCA), il Ducato cercò di suggellare alleanze che

ne consentissero l’indipendenza e fece largo uso nei decenni di mecenatismo verso artisti del calibro dei pittori PIERO DELLA FRANCESCA, RAFFAELLO, BRAMANTINO, LUCA SIGNORELLI e del letterato BALDASSARRE CASTIGLIONE (autore de Il Cortegiano, che descrive in quattro tomi gli usi e costumi del perfetto cortigiano), fino alla devoluzione allo Stato Pontificio nel 1631 per l’inaspettata e misteriosa morte nel 1623 dell’unico erede maschio di FRANCESCO

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MARIA II DELLA ROVERE, FEDERICO UBALDO, appena prima di essere nominato duca. L’utilizzo del caglio vegetale è di antichissima origine, molto diffuso presso i Greci e poi presso i Romani, alternativa a quella del caglio di vitello o di capretto. Può essere derivato da varie specie spontanee e coltivate, come il cardo (Cynara cardunculus L.), l’erba zolfina (Galium verum L.) ed altre specie congeneri (Galium album Miller, Galium tricornutum Dandy e numerose altre), altrimenti denominate caglio — nomen omen — che prendono il nome Galium dal greco γάλα (gala), che significa latte; e appunto il fico (Ficus carica L.), tanto comune in tutto l’areale mediterraneo, sotto forma di lattice. Se in tutte le aree alpine ed appenniniche era diffuso l’uso del caglio da erbe spontanee di montagna, in poche è rimasta questa tradizionale pratica. Sopravvive nel Montefeltro, e soprattutto a Monte Paganuccio, nel comune di Cagli — nomen omen bis — dove l’impiego del lattice di fico è applicato alla produzione di formaggi caprini che si distinguono per sapore e consistenza. Antica città romana di Cale posta sulla via Flaminia, dalla fine del XIV secolo Cagli divenne uno dei capisaldi del Montefeltro: terza città per importanza, trampolino di lancio per la conquista dei territori umbri, Gubbio in testa, residenza prediletta del Duca durante i suoi viaggi in zona. FRANCESCO DI GIORGIO MARTINI edificò una delle sue inespugnabili fortezze sulla sommità dell'odierno colle dei cappuccini, collegata alla torre che ancora oggi svetta alle porte della città. Descrizione del prodotto Viene caseificato dalla primavera sino a tutto l’autunno ricorrendo a metodi e strumenti tradizionali (caldaie in rame, attrezzi in legno). Il latte intero caprino crudo è portato alla temperatura di 36-38 °C e fatto coagulare tramite immersione di un rametto di fico inciso, sottoposto manualmente ad un movimento di rotazione finché il latte non si rapprende. L’abilità dei casari sta nel lasciare immerso il rametto per il tempo giusto, poiché un tempo troppo esiguo non darebbe luogo alla coagulazione voluta mentre un’immersione troppo prolungata conferirebbe al formaggio un sapore amaro e sgradevole. Dopo

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In alto: l’utilizzo del lattice di fico come coagulante è un metodo legato al passato che è stato recuperato per ottenere questo particolare formaggio marchigiano. A pagina 104: il castello di Naro, nel comune di Cagli (photo © MC – Mamaphoto Wedding Photography). adeguato riposo la cagliata viene rotta alle dimensioni di un chicco di riso e lasciata depositare sul fondo, quando si procede all’estrazione e al posizionamento in appositi stampi al fine di sgrondare del siero, infine pressata con le mani. La salatura delle forme viene effettuata a secco e dura al massimo due giorni, segue la fase di maturazione che può durare da un mese sino ad un anno. Il caprino ha una forma cilindrica di dimensione variabile, può essere a scalzo diritto e facce piane oppure longitudinale a sezione tonda. La versione fresca ha crosta ruvida ed asciutta, pulita, di colore avorio o grigio cenere, sottile; la pasta di colore bianco ha consistenza compatta ed abbastanza morbida, con occhiatura rada. La versione stagionata ha una crosta di colore giallo paglierino, più spessa; la pasta assume un colore avorio e una consistenza via via più compatta con il progredire dell’invecchiamento mantenendo sempre la grana fine. Il profumo da mediamente persistente e con punte ircine (di latte di capra fresco) diventa con la stagionatura più intenso, di latte cotto e burro, di erbe, con note aromatiche decise. Il sapore è sapido e lievemente acido nel formaggio giovane per divenire più caratterizzato, armonico e leggermente piccante con il protrarsi della maturazione.

Occasioni di consumo e abbinamenti Si può consumare come antipasto con altri formaggi della zona (raviggiolo o felciata, caciotta del Montefeltro), con pane semplice oppure accompagnato alla crescia brusca (un tempo detta crescia di Pasqua perché consumata solo come alimento rituale nella festività cristiana), insieme a olive sottolio o pinzimonio. Sprigiona tutta la sua essenza anche come ingrediente di una torta rustica con peperoni o come ripieno di ravioli di magro con erbe di campo o dell’orto. L’abbinamento con il vino del territorio può trovare un buon compagno nel Colli Pesaresi bianco DOC3 o nel più aromatico e maggiormente noto Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC3; con stagionature superiori ai 6 mesi è consigliabile anche un rosso non troppo tannico come il Rosso Conero DOC3. Roberto Villa Note 1. GRAZIELLA PICCHI (2001), La mappa del gusto. Il Montefeltro: la gente, i luoghi, il cibo, Agenzia Turistica Montefeltro, Sant’Angelo in Vado (PU). 2. www.treccani.it/enciclopedia/ oddantonio-da-montefeltro_(Dizionario-Biografico). 3. imtdoc.it/vino

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La mozzarella firmata STG di Riccardo Lagorio

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Paolo Cesaretti, responsabile aziendale di Trevalli Cooperlat, terza cooperativa nel mondo caseario in Italia e produttrice della Mozzarella STG (Specialità Tradizionale Garantita) Bontà del Parco, realizzata con latte vaccino selezionato dell’area dei Monti Sibillini.

na delle sigle del mondo alimentare con cui inizieremo a confrontarci è l’STG», afferma PAOLO CESARETTI, responsabile aziendale di Trevalli Cooperlat, terza cooperativa nel mondo caseario in Italia. A pochi passi da Amandola, nel Fermano, esiste una delle quattro sedi produttive che lavora il latte delle oltre mille aziende agricole associate e dalla quale esce Mozzarella STG. «Con tale sigla si riconoscono i prodotti ottenuti secondo un metodo di produzione tipico e tradizionale di una particolare zona geografica, ma che non vengono prodotti necessariamente solo in tale zona. Ad esempio, vengono esclusi da

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questa disciplina i prodotti il cui carattere peculiare sia legato alla provenienza o all’origine geografica, che li distingue dalle DOP e dalle IGP» spiega il funzionario davanti ad una confezione di Mozzarella STG. La mozzarella è del resto l’unico, tra i formaggi italiani, a vantare questa denominazione. E in questo caso si tratta di una mozzarella davvero speciale, elaborata con il latte che proviene dal Parco Nazionale dei Monti Sibillini, area verde incuneata tra le Marche e l’Umbria, la cui designazione si racconta derivi dalla presenza della Sibilla, figura protettrice e nume tutelare della cultura e del sapere contadino. «Per noi è stato doveroso chiamare la

Mozzarella STG col nome di Mozzarella Bontà del Parco». Come segno di legame all’area la Trevalli Cooperlat, cooperativa di secondo livello, ha investito circa 3.000.000 di euro negli ultimi anni per mantenere l’importante presidio produttivo del territorio. Una scelta fatta anche per rivalutare la zona colpita dagli eventi sismici del 2016 e il lavoro quotidiano dei soci allevatori che custodiscono l’area dei Sibillini. «La Mozzarella Bontà del Parco STG è un formaggio fresco a pasta filata, molle, a fermentazione lattica elaborata partendo da latte crudo vaccino». Il latto-innesto naturale utilizzato nello stabilimento di Amandola si ottiene favorendo lo sviluppo della microflora nativa

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La Mozzarella Bontà del Parco STG è un formaggio fresco a pasta filata, molle, a fermentazione lattica elaborata da latte crudo vaccino dei Monti Sibillini, area verde tra le Marche e l’Umbria. Con 30.000 tonnellate di latte lavorato ogni anno, il caseificio di Amandola realizza 4.300 tonnellate di mozzarella in maggior parte STG.

La normativa prevede che la Mozzarella STG abbia forma sferoidale, eventualmente con testina, o a treccia. La pelle è di consistenza tenera, la superficie è liscia e lucente, omogenea, color bianco latte. Una volta prodotta, riposa nel liquido di governo, costituito da acqua con eventuale aggiunta di sale.

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Trevalli Cooperlat ha investito circa 3.000.000 di euro negli ultimi anni per mantenere l’importante presidio produttivo del territorio. Una scelta fatta anche per rivalutare la zona colpita dal sisma del 2016 e il lavoro quotidiano dei soci allevatori che custodiscono l’area

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nel latte crudo. Il latte viene refrigerato immediatamente dopo la mungitura, portandolo ad una temperatura tra 8 e 10 °C per almeno 12 ore ed essere consegnato in stabilimento. La normativa prevede che la Mozzarella STG abbia una forma sferoidale, eventualmente con testina, o a treccia, e il peso sgocciolato compreso tra 20 grammi, ovvero 125 grammi per la forma a treccia, a 250 grammi. La pelle è di consistenza tenera, la superficie si contraddistingue per essere liscia e lucente, omogenea, di color bianco latte. La pasta è di struttura fibrosa più pronunciata al momento della produzione a foglie sovrapposte, che rilascia al taglio e per leggera compressione del liquido lattiginoso. Da esso è possibile la presenza di distacchi, ma non di occhiatura. Il colore è omogeneo, la consistenza morbida e leggermente elastica. La Mozzarella STG possiede inoltre sapore sapido, fresco, delicatamente acidulo, e un odore fragrante, delicato, di latte lievemente acidulo. Una volta prodotta, la Mozzarella STG riposa nel liquido di governo, costituito da acqua con eventuale aggiunta di sale. «Con 30.000 tonnellate di latte lavorato ogni anno, il caseificio di Amandola realizza 4.300 tonnellate di mozzarella in maggior parte STG. Dal siero della lavorazione otteniamo ricotta. Nel 2021 la produzione è aumentata del 10% rispetto al 2020» rivela Cesaretti. La Trevalli Cooperlat nel suo complesso ha un fatturato superiore a 227 milioni di euro e impiega oltre 600 addetti: ne fanno parte 13 cooperative di base e un consorzio. Tra i suoi assi nella manica la Mozzarella STG e la Casciotta di Urbino DOP nella sede di Montemaggiore al Metauro, nel Pesarese. «Il punto nodale della strategia del Gruppo è riuscire a bilanciare una produzione nazionale e internazionale con la territorialità dei marchi e delle materie prime locali. Ne sono un esempio tangibile il latte fresco e, soprattutto, i formaggi DOP e STG che traggono dall’imprescindibile legame col territorio un forte valore aggiunto» aggiunge. Riccardo Lagorio

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OLIO I consigli di ASSITOL, Associazione Italiana dell’Industria olearia

OLIO EXTRAVERGINE: CONOSCERLO PER NON SPRECARLO

questo l’invito lanciato da ASSITOL, l’Associazione Italiana dell’Industria olearia, in occasione della Giornata nazionale di Prevenzione dello spreco alimentare, appuntamento che, dal 2014, il 5 di febbraio di ogni anno, cerca di sensibilizzare l’opinione pubblica sullo spreco di cibo. L’iniziativa vuole promuovere le buone pratiche nella gestione del cibo, spesso mal utilizzato o mal conservato e quindi “condannato” ad essere sprecato. Ed è quello che purtroppo capita annualmente a circa il

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17% degli alimenti prodotti, pari a 931 milioni di tonnellate di cibo, secondo le stime della FAO, l’organizzazione ONU per l’alimentazione e agricoltura. Un rischio che riguarda persino un alimento prezioso e amatissimo in Italia come l’extravergine d’oliva. «Si pensa sempre che l’olio non vada sprecato — afferma ANNA CANE, presidente del Gruppo olio d’oliva dell’associazione — ma è un’impressione errata. È vero che ha una vita relativamente lunga, ma può deteriorarsi se non viene preservato con cura. Inoltre, se in cucina è abbinato in

modo improprio, non potrà esprimere fino in fondo le sue caratteristiche organolettiche, andando sprecato in termine di resa nei piatti e di valorizzazione delle pietanze alle quali è accostato». È un peccato sciupare un alimento così importante, ma bastano alcune indicazioni pratiche per proteggere l’alimento simbolo della Dieta Mediterranea. L’olio d’oliva non ha infatti una vera scadenza, tanto che si preferisce parlare di “termine minimo di conservazione”, vale a dire il periodo in cui il prodotto mantiene tutte le sue

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qualità sensoriali e salutistiche. In media l’olio dura circa 18 mesi, ma è sempre opportuno controllare l’indicazione in etichetta, che raccomanda fino a quando può essere utilizzato. Tuttavia, l’olio è un alimento “vivo” e rischia di perdere facilmente il suo tesoro di sapori e proprietà nutrizionali. Come prevenire il problema? Le regole suggerite da ASSITOL sono chiare: l’olio d’oliva deve stare lontano dalla luce, dalla temperatura in eccesso, dall’aria e dagli odori impregnanti. In pratica, l’extravergine vive bene in dispensa, in un luogo buio e senza eccessi di calore o freddo. Dopo l’uso va tappato accuratamente ed è sempre meglio scegliere prodotti in bottiglia scura. Per aiutare i consumatori ad impiegare e conservare nel modo giusto questo prodotto ASSITOL, in collaborazione con l’Unione Nazionale Consumatori, ha stilato la guida “Olio extravergine di oliva. Un tesoro da custodire”, scaricabile gratuitamente on-line all’indirizzo www.assitol.it/guida. Il consumatore che non voglia sprecare questo concentrato di gusto e salute deve anche imparare ad impiegarlo bene a tavola. Un olio dal fruttato più intenso andrà bene sulla carne e sui primi piatti importanti, uno più delicato sarà perfetto su pesce e verdure, mentre sulla pasta tutto dipende dal tipo di sugo preparato. È utile anche differenziare l’olio per il condimento a crudo da quello destinato alla cottura. «Se si conosce l’extravergine d’oliva, lo si impiega in modo corretto e non se ne spreca nemmeno una goccia» conclude Anna Cane. Fonte: ASSITOL assitol.it

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DOLCI

LA PASQUA RACCONTATA DA TRE DOLCI

TRADIZIONALI CHE INTRECCIANO SACRO E PROFANO

Pastiera napoletana.

di Chiara Papotti

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La celebrazione cristiana della Resurrezione, l’arrivo della primavera e la rinascita della Natura caratterizzano un’infinità di ricette regionali che nelle loro differenze compongono la tradizione italiana dei dolci di Pasqua. Noi ne abbiamo scelti tre, particolarmente significativi a livello storico e simbolico

Pastiera napoletana, cassata siciliana e Colomba pasquale, un trionfo di ricotta e canditi, un inno alla bellezza della propria terra a forma di sole e un dolce leggendario che domina sulle tavole del periodo e che ci ricorda come la pace sia un valore assoluto a cui tendere in ogni momento

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omenica. Le campane delle chiese non hanno ancora finito di suonare i rintocchi che indicano la fine della Messa di Pasqua e già tutti corrono in pasticceria: una specie di caccia al dolce pasquale tradizionale, da portare a casa e mangiare in famiglia o con gli amici. Da Nord a Sud, isole comprese, si festeggia la Resurrezione rimanendo fedeli alle più antiche tradizioni gastronomiche. Andiamo dunque alla scoperta dei dolci sacri, quelli che non possono mancare sulla tavola della festa e rallegrano gli animi. Pastiera napoletana Un morbido impasto di ricotta e canditi, preparato nel regno partenopeo secondo l’antica ricetta. In ogni famiglia si tramanda ancora il manoscritto segreto della nonna per cucinare la pastiera, dolce pasquale dalla storia antichissima. Sembra, infatti, che questo famoso dessert fosse già presente sulle tavole pagane per celebrare il ritorno della primavera. Era il tempo in cui, secondo la leggenda, la sirena Partenope riaffiorava dalle acque tra il Golfo di Posillipo e il Vesuvio. L’epopea narra che un giorno il suo canto fu così dolce e incantevole che gli abitanti accorsero sulla riva del mare e le fecero sette preziosi omaggi: farina e grano tenero come simbolo di ricchezza del raccolto nei campi, uova come simbolo della vita, ricotta a rappresentare il lavoro dei pastori e acqua di fiori d’arancio a rappresentare i profumi della terra, spezie a ricordare i popoli più lontani e infine zucchero come tributo alla dolcezza del canto. La sirena, fondatrice di Napoli, portò i doni in fondo al mare e li depose a cospetto degli Dei che, grati a loro volta, li mescolarono dando luogo alla prima pastiera della storia. Fuori dal contesto epico, l’attuale ricetta sembra trovare origine in un monastero sconosciuto napoletano, un’ipotesi confermata dal fatto un tempo erano le monache ad occuparsi dei dolci nel periodo pasquale. Le suore del convento di San Giorgio Armeno sono sempre state considerate insuperabili nella preparazione della pastiera e, in occasione della festa di Resurrezione, ne cucinavano in grandi quantità per soddisfare le richieste che arrivavano dalle famiglie nobili e dai ricchi borghesi

che abitavano nella zona. Ancora oggi, chi la prepara in casa ne fa sempre più di una da regalare ad amici e parenti. Si cuociono nei “ruoti”, le tipiche teglie rotonde che si possono trovare in diverse dimensioni, a seconda che si cucini per famiglie numerose o meno. A distanza di secoli dalla sua origine una convinzione oggi è ancora diffusa: la pastiera migliore si cucina sempre in casa propria. I pasticceri napoletani, però, ne preparano versioni diverse e di grande valore. Tutti sono concordi nel ritenere che la ricotta, esclusivamente di pecora, debba essere magra, perché se fosse grassa il dolce si gonfierebbe troppo e si formerebbe una crosta in superficie. Un’altro punto sul quale non si discute è il tempo di cottura, rigorosamente lungo, grazie al quale il ripieno resta umido e succoso. A completare il gusto non mancano l’inconfondibile tocco dell’acqua di fiori di arancio e l’acciaccatura, ossia l’aggiunta di frutta candita come arancia e cedro, in alcuni casi di zucca. Una rivisitazione della pastiera più recente la vuole, insieme alla ricotta, con la crema pasticcera nella farcia, al fine di renderla più leggera. Sulla validità o meno di questa aggiunta a Napoli le discussioni non mancano: ognuno impugna la ricetta di famiglia ed è impossibile venirne a capo. Cassata siciliana Inno alla bellezza, ha un legame indissolubile con la sua terra: la cassata per i Siciliani è molto più di un dolce. È parte della storia ed è uno dei pochi casi della gastronomia isolana in cui valenze sacre e profane si intrecciano. La tradizione la vede trionfare sulle mense pasquali: la celebrazione cristiana, che coincide con la rinascita della natura in primavera. La sua sagoma richiama il sole, anche nella composizione del bordo, dove si alternano raggi di pan di Spagna e di marzapane, il cerchio figura divina è simbolo di perfezione. Anche in questo caso, come per la pastiera napoletana, la figura della monaca è di rilievo: nei monasteri femminili siciliani era infatti compito delle religiose cucinare prelibatezze dalle finalità celebrative. Dolce dai vivaci colori, ricolmo di aromi, la cassata è un trionfo per occhi e palato. La sua eleganza ricorda lo stile barocco di Palermo.

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A sinistra: la cassata siciliana moderna, la cui antenata è la meno nota cassata al forno. Nel 1886, Salvatore Gulì, pasticciere palermitano, decorò la cassata con la “zuccata”, la zucca candita, dandole l’attuale aspetto e facendola diventare uno dei dolci siciliani per antonomasia. A destra: la classica Colomba pasquale (photo © Marco Bagnoli). La ricotta è ingrediente principale; particolarmente aromatica e soda in primavera, viene selezionata prima che il caldo dell’estate possa compromettere la sua delicatezza. Viene, quindi, lavorata insieme al cioccolato e allo zucchero, e racchiusa in uno scrigno di pan di Spagna e marzapane, sul quale si disegnano fiori in perfetto stile liberty con la frutta candita. Sulla superficie glassata i maestri pasticceri adagiano interi mandarini, spicchi di arance, ciliegie, pere e fichi tagliati a metà. Ingrediente immancabile è poi la zuccata, polpa candita della zucca bianca, dalla quale si ottengono lunghe strisce con cui comporre i petali del grande fiore. La versione più tradizionale che oggi si può ancora trovare nelle storiche pasticcerie siciliane non è, tuttavia, la preparazione più antica. Una leggenda vuole che il nome di questo dolce derivi da qas’at, parola araba che indica un contenitore a forma sferica, ma la prima citazione del termine “cassata” risale ad un dizionario di lingua sicilianolatino che la definisce “cibo composto da

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pasta di pane e formaggio”. Una ricetta rustica, che allude ad una preparazione al forno, in cui la ricotta era il ripieno di un involucro di pasta, simile alla frolla. Così la intendevano gli isolani fino a quando, nel 1886, il pasticcere SALVATORE GULI, originario di Palermo, creò per primo la cassata in versione fiorita, col solo scopo di utilizzare i canditi che egli stesso produceva in proprio. La cassata tradizionale rimane ancora oggi un dolce riservato alle festività; per altre occasioni si può trovare una versione “più leggera”, con un velo di ricotta zuccherata al posto della glassa e con meno canditi. Un piacere che vale concedersi, nella versione classica, una volta l’anno. Colomba pasquale Tra tutti i dolci pasquali è lei, senza ombra di dubbio, la regina delle valenze simboliche. Per forma che richiama alla pace e all’amore universale, la colomba ha una storia fatta di miti, leggende, regine, santi e battaglie. La prima storia che la vede protagonista è datata 572 d.C., nella bellissima città di Pavia,

quando il re longobardo Alboino fece guerra all’Italia bizantina. Dopo tre anni di assedio, la resistenza venne vinta e i barbari entrarono in città. Fu in quel momento che gli abitanti regalarono agli invasori soffici pani a forma di colomba in segno di resa. Un gesto di pace che, secondo la storia, evitò il saccheggio e diede alla città il titolo di capitale del nuovo regno. Anche per la seconda leggenda la colomba avrebbe origini lombarde, sempre nello scenario di Pavia. Si narra che, nell’anno 610 d.C., la regina longobarda Teodolinda ospitò un gruppo di pellegrini irlandesi, guidati da San Colombano. La sovrana, per l’occasione, fece preparare selvaggina ed elaborate portate in quantità. Ma il santo rifiutò qualsiasi cosa gli venne offerta perché era tempo di Quaresima. Fu allora che Colombano, benedicendo la carne sulla tavola, la trasformò in bianche colombe di pane. Ultima leggenda in ordine cronologico è, invece, il racconto che riguarda la battaglia di Legnano del 1176, storico avvenimento che vide la vittoria dei

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Comuni della Lega Lombarda su l’Imperatore germanico Federico Barbarossa. Si narra che un soldato del carroccio vide due colombe posarsi sopra gli stemmi della Lega. Per dare coraggio alle sue truppe, il valoroso condottiero fece preparare dai cuochi dell’esercito pani a forma di colomba, fatti di uova, farina e lievito. Tre leggende che mescolano sacro e profano, e lasciano intuire che la forma di queste preparazioni ha da sempre avuto una forte valenza simbolica. La colomba che oggi tutti noi conosciamo e degustiamo in tempo di Pasqua ha invece origini più recenti. Dobbiamo andare a Milano, nei primi anni ‘30, quando all’artista e pubblicitario DINO VILLANI venne l’idea di sfruttare gli impianti che l’azienda Motta utilizzava per produrre i panettoni ideando un nuovo dolce pasquale dalla ricetta molto simile al dolce natalizio (si legga la sua “intervista” del professor GIOVANNI BALLARINI a pagina 116). In questo modo si arrivò a creare il dolce pasquale più famoso, dagli ingredienti semplici, ma dalla procedura molto laboriosa.

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Tre sono infatti le lievitazioni che servono per ottenere un prodotto di alta qualità. Per il primo impasto vengono amalgamati farina, acqua, latte e lievito, e lasciati lievitare per un paio d’ore. Poi si passa al secondo impasto, durante il quale andranno aggiunti farina, zucchero e burro, da far lievitare per un’altra ora e mezza. A questo punto si passa al terzo e ultimo impasto: farina, burro, uvetta, uova, zucchero, sale, vaniglia e arance candite vengono aggiunte all’ultimo impasto e il tutto lo si lascia lievitare per 16 ore. Infine, il composto si sistema nello stampo a forma di colomba, viene coperto con una glassa e guarnito con mandorle e granella di zucchero, e lasciato cuocere in forno. In tutta Italia c’è sempre spazio per il dolce nelle tavole pasquali. Storie affascinanti, che raccontano chi siamo e da dove veniamo. Il fine pasto diventa un momento rituale, che richiede una consumazione meditata e meno frettolosa. Chiara Papotti

Il mio ERP. Così ho tutto sotto controllo. (੕FLHQ]D WUDVSDUHQ]D ÁHVVLELOLWj ² TXHVWR q FLz FKH FRQWD RUD /·,7 q OD FKLDYH SHU RWWHQHUOR &KH VL WUDWWL GL (53 0(6 PDFHOOD]LRQH H VH]LRQDPHQWR R GL VRIWZDUH SHU OD SLDQLÀFD]LRQH LQWHOOLJHQWH LO &6% 6\VWHP q OD VROX]LRQH FRPSOHWD SHU OH D]LHQGH GHO VHWWRUH &DUQH &RVu JLj RJJL SRWHWH RWWLPL]]DUH OD YRVWUD SURGX]LRQH H GRPDQL GLJLWDOL]]HUHWH O·LQWHUD D]LHQGD

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DINO VILLANI E L’INVENZIONE DELLA COLOMBA DI PASQUA di Giovanni Ballarini

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ino Villani (1898-1989), pubblicitario, pittore, incisore e critico d’arte, in Italia è considerato l’inventore della cosiddetta comunicazione integrata (slogan, valorizzazione del prodotto, azione di sostegno dei media, NdR). Nasce a Nogara, nel Veronese, e nella giovinezza vive a Suzzara, nel Mantovano. Nel 1930 si trasferisce a Milano dedicandosi all’attività che gli procura il successo, la pubblicità, collaborando coi grandi cartellonisti dell’epoca: GINO BOCCASILE, MARCELLO DUDOVICH e LEONETTO CAPPIELLO. Nel 1934 diviene direttore pubblicità della società dolciaria Motta: suo è il celebre logo della “M”. Proprio qui, con l’obiettivo di non interrompere l’attività produttiva alla fine della stagione dei panettoni natalizi, utilizzando una pasta analoga e gli stessi macchinari, inventa un nuovo dolce primaverile, la Colomba di Pasqua, che in breve tempo si impone nella tradizione nazionale. Dal 1938 amplia la sua attività, inventa il Concorso Miss Italia, il Premio Suzzara, intraprende un’attività di docenza presso l’Università Bocconi e, nel 1953, chiamato dal giornalista ORIO VERGANI, è tra i fondatori dell’Accademia Italiana della Cucina1, nata con lo scopo di promuovere la cultura culinaria nazionale all’estero, che nella primavera del 1964 affianca con i Ristoranti del Buon Ricordo. Sulla Colomba pasquale si dicono e si leggono tante cose e per questo motivo abbiamo ritenuto interessante intervistare il diretto interessato.

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Leggende e storia della Colomba moderna Gentile Dino Villani, a lei si attribuisce l’invenzione della Colomba, uno dei dolci tradizionali più consumati durante la festività pasquali. Come docente e accademico, invece, qual è il suo parere sulle leggendarie origini di una Colomba come dolce pasquale? «Vecchia storia è quella che, quando un’invenzione ha successo, vi è sempre qualcuno che interviene dicendo ma io, o qualche altro, l’ha detto o fatto prima. Indubbiamente non una, ma mille e mille volte una donna di casa, un panettiere o anche un pasticcere

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nei giorni antecedenti la Pasqua hanno fatto un biscotto o una torta a forma di colomba, soprattutto se si trattava di una Pasqua speciale. Un fatto occasionale che è ben diverso da una produzione organizzata, sistematica e a tutto tondo, dalla forma, nome, composizione dolciaria e, soprattutto, diffusione. Per fare un esempio: chi ha inventato l’automobile? Tanti hanno costruito un triciclo o un quadriciclo con un motore, ma il vero inventore dell’automobile è stato HENRY FORD che per primo ha dato l’automobile a tutti, come ho fatto io con la Colomba Motta». Certamente conoscerà la leggenda che vede protagonista il re Alboino e quella sul monaco irlandese San Colombano… «Sono due belle leggende, che riguardano, la prima, un evento occasionale e, la seconda, un miracolo, che avviene in un periodo, la Quaresima, nel quale non vi erano, a nostra conoscenza, leggi religiose sui cibi come quelle che sarebbero state discusse e stabilite nel Concilio di Aquisgrana dell’anno 817. Già che siamo in argomento, non vi è alcuna documentazione per l’evento, anche questo occasionale, che farebbe risalire l’origine della colomba alla battaglia di Legnano (29 maggio 1176). Oltretutto, in quell’anno, la Pasqua era già caduta il 24 aprile 1176». Lei che nasce in territorio veronese, un tempo sotto la Repubblica Veneta della Serenissima, saprà senz’altro che, soprattutto a Verona, ma anche Vicenza, Treviso (proprio trevigiana è la probabile origine), nel periodo pasquale si prepara una focaccia con farina, zucchero, burro, lievito e uova. Sull’antichità di questa focaccia non vi sono dubbi, mentre una versione “a colomba” è incerta, anche se pare che a Verona esistesse già alla fine dell’Ottocento. «Non nego quanto mi dice e posso solo aggiungere che dolci a forma di colomba in Italia sono ben conosciuti da tempi antichi, nessuno può negarlo. Ma, come ho già detto, si tratta di produzioni legate a eventi occasionali, mentre alla base della mia intuizione di progettare e soprattutto far realizzare un prodotto ben definito e di largo consumo».

Villani fu una figura molto importante e preziosa per l’azienda dolciaria di Angelo Motta; oltre alla Colomba, nella sua mente “lievitarono” molte idee che sono una riprova del carattere poliedrico, eclettico, geniale e ancora attuale di questo incredibile personaggio considerato oggi uno dei padri della pubblicità.

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contribuiranno a fare della Colomba di Pasqua un dolce che anche all’estero segnala un’identità italiana».

Dino Villani e Cesare Zavattini al Premio Suzzara (photo © ilpaesaggiodellabonifica.it). Grande è stato nel tempo il successo di quella che possiamo definire la sua Colomba. Come giudica la comparsa successiva di colombe di altre marche, prima tra tutte quella della ditta Vergani? «Non deve sembrare strano, ma non mi è dispiaciuto, anzi, sono rimasto contento che altri abbiano seguito la strada

da me iniziata a metà degli anni ‘30, dimostrando, proprio nel 1944 in piena guerra, l’importanza di un buon dolce capace di dare piacere e soprattutto fiducia. Mi riferisco proprio ad ANGELO VERGANI, che in un piccolo laboratorio di pasticceria a Milano, in Viale Monza, fonda un’azienda nella quale produce colombe, e poi anche alle altre ditte che

Come partecipante alla fondazione dell’Accademia Italiana della Cucina, qual è il suo giudizio sull’industrializzazione della cucina e, soprattutto, l’invenzione di nuove ricette, piatti e denominazioni gastronomiche? «La cucina e la pasticceria per essere vitali devono interpretare e soddisfare le richieste, anche inconsce, di una società in continuo e sempre più rapido cambiamento, incessantemente avida di novità e varietà che solo un’industria può dare con prodotti nuovi e anche reinterpretando prodotti e modelli antichi e tradizionali. Sotto questo aspetto la colomba può essere considerata anche un’interpretazione pasquale del panettone natalizio». Prof. Em. Giovanni Ballarini Università degli Studi di Parma Nota 1. Dino Villani, oltre che uno dei fondatori, fu a lungo presidente dell’Accademia Italiana della Cucina. In sua memoria è stato istituto un premio, il “Premio Dino Villani”, attribuito a coloro “che si distinguono nella valorizzazione dei prodotti alimentari italiani con alti livelli di qualità”.

La focaccia veneta è un pane lievitato preparato in occasione delle feste (principalmente a Pasqua, da cui il nome di pane dolce di Pasqua; per questo motivo poteva assumere anche la forma di colomba), in cui, all’impasto base del pane, venivano aggiunte uova, burro e zucchero, e persino miele, marsala o scorza di arancia e limone. In ogni zona del Veneto lo si può trovare nelle sue differenti varianti che lo rendono unico da località a località. Leggenda vuole che la sua creazione sia dovuta all’idea di un fornaio trevigiano che lavorò la sua pasta di pane con burro, uova e miele fino ad ottenere un dolce soffice e leggero, che regalava ai suoi clienti in occasione delle feste pasquali. Secondo quanto tramandato dalla tradizione, la fugassa veniva anche preparata in occasioni di fidanzamenti, regalata alla famiglia della promessa sposa con nascosto al suo interno l’anello di fidanzamento.

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Nasce “Dolce Treviso” al Radicchio Rosso di Treviso IGP Il Radicchio Rosso di Treviso IGP è un’eccellenza della regione Veneto che oggi si presta ad un nuovo utilizzo in versione dolce. È stato infatti presentato al SIGEP, il Salone Internazionale della Gelateria, Pasticceria, Panificazione Artigianali e Caffè, il Dolce Treviso, che ambisce a diventare un classico della tradizione gastronomica del Trevigiano. Il “nuovo” dolce sarà prodotto e venduto solo da una ventina tra pasticcerie e forni artigianali selezionati della provincia: laboratori che si impegnano a non modificare né rielaborare una ricetta codificata e ben bilanciata in tutti i suoi ingredienti: farina, burro extra quality, lievito madre, zucchero e Radicchio Rosso di Treviso IGP. Il gusto caratteristico del nuovo lievitato deve gran parte della sua fortuna, spiegano gli inventori, alla particolare lavorazione del radicchio messa a punto da Magnoberta Distilleria, un processo “unico ed esclusivo che permette di mantenere la naturalità del radicchio, garantendo inalterate le sue proprietà organolettiche”. Il radicchio così lavorato “si inserisce a pieno diritto tra i prodotti di nicchia della frutta al naturale non candita”. Il Radicchio Rosso di Treviso IGP viene coltivato, secondo Disciplinare, solo nelle province di Treviso, Padova e Venezia. La ricetta del Dolce Treviso è realizzata con il Radicchio Rosso di Treviso IGP tardivo, il più pregiato delle varietà, raccolto a partire dal mese di novembre. Il tardivo è ottenuto grazie alla particolare tecnica di forzatura e imbianchimento, che prevede che dopo la raccolta il radicchio venga immerso in vasche d’acqua di risorgiva. Una volta ottenuti i nuovi germogli (generalmente servono due settimane di tempo), si passa al lavaggio e al confezionamento. >> Link: www.dolcetreviso.it


PANE

A MERENDA CON SALUMI AFFUMICATI E L’ANTICO UR-PAARL DELLA VAL VENOSTA di Chiara Papotti

l profumo affumicato dello speck e il sapore acidulo e pieno del pane di segale si accompagna alle note floreali dei vini bianchi nati in altitudine. Nelle stube, rivestite di abete bianco, si consuma da sempre la caratteristica merenda, al calore confortante delle stufe in muratura. Tutto intorno racconta la fede semplice e la vita delle famiglie sudtirolesi, dai ritmi lenti e tenacemente legati alla tradizio-

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ne. Nei vecchi masi si possono vedere ancora le cucine nere di fuliggine, dove l’affumicatura degli speck durava mesi. Oggi, purtroppo, sono rimasti in pochi a produrre in casa il companatico, ma in alcuni casi è possibile ritrovare ancora i sapori di un tempo. Su queste alture, quando si parla di cibo, si pensa subito al pane. L’associazione dei due termini è radicata in moltissime espressioni popolari, che

riportano alla essenzialità di questo prodotto nella nostra cultura. “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”, recitano i Cristiani, ed è nel pane e nel vino che trova massima espressione la simbologia religiosa. Perché proprio nel pane e non nell’acqua o nella frutta che cresce spontanea da sempre? Forse perché di acqua e frutta si cibano tutti, gli animali come l’uomo. Del pane, no: esso è il risultato di una trasformazione

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In alto: l’Ur-Paarl nach Klosterart, che in tedesco significa l’originario pane di segale doppio alla maniera del convento, è la variante più antica del tipico Vinschger Paarl della Val Venosta. La forma tradizionale è una specie di “otto” schiacciato, ottenuta unendo due pani rotondi e piatti. Per questo si chiama paarl, che significa coppia (photo © www.merano-suedtirol.it). A sinistra: fresco, spalmato di un velo di burro, l’Ur-Paarl si usa accompagnare allo speck e agli altri salumi affumicati della tradizione(photo © Klaus Peterlin).

raffinata e complessa, fondata sull’uso di biotecnologie naturali, la fermentazione. È col pane che si è sancita l’evoluzione dell’uomo sulle altre specie viventi. Non a caso, per OMERO “mangiatori di pane” è sinonimo di “uomini”. Il marchio “Südtirol” garantisce la lavorazione artigianale di alta qualità per molte varietà di pane, dalle forme tipiche: pani bassi tondi, a volte doppi o tripli, spesso arricchiti con semi di

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vario genere, dal cumino al girasole. Quello più tipico, sempre presente sulle tavole contadine, è lo “Schüttelbrot”, una focaccia di farina di segale che si consuma secca, anche dopo dieci mesi, ottima con lo speck e un bicchiere di vivace Vernatsch. La variante più antica è invece l’Ur-Paarl nacht Klosterart della Val Venosta, che in tedesco significa “l’originario pane di segale doppio alla maniera del convento”. I

custodi della ricetta sono infatti i frati benedettini del Convento di Monte Maria, sopra Burgusio, nel comune di Malles. La riscoperta di questo pane è avvenuta grazie al recupero dell’antica ricetta custodita dall’ultimo frate fornaio, FRATEL ALOIS ZOSCHG, e poi ripresa da un piccolo gruppo di produttori dell’Alta Val Venosta, grazie ai quali oggi si è potuto insignire questo pane del titolo di presidio Slow Food.

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La pagnotta di pasta madre, cumino, trigonella e finocchio fu inventata nel XIII secolo nell’abbazia benedettina di Monte Maria, vicino a Burgusio. L’impasto contiene una percentuale di circa il 70% di farina di segale, oltre a farina di frumento e di farro (photo © www.schuster.it). Il Paarl è uno dei tre tipici “pani di scorta” dell’Alto Adige, oltre allo Schüttelbrot e al Pusterer Breatl della Val Pusteria. La forma tradizionale del presidio è una specie di “otto” schiacciato, ottenuta unendo due pani rotondi e piatti. Per questo motivo si chiama Paar, che significa coppia. La dimensione è variabile: va dai 10 ai 30 centimetri di diametro e 2-3 centimetri di spessore. Ha una crosta morbida e marrone scura, una pasta soffice e brunita per la presenza di farina di segale. La caratteristica di questi pani è quella di essere consumati anche dopo molte settimane; venivano tradizionalmente conservati in rastrelliere di legno dove, col passare del tempo, si essiccavano naturalmente Oggi l’Ur-Paarl viene sfornato quotidianamente, ma un tempo si cuoceva esclusivamente nei forni a legna due o tre volte l’anno, come avviene ancora oggi in pochissimi masi di montagna. La filiera del presidio è composta da alcune decine di contadini che hanno deciso di reintrodurre la coltivazione della segale nei loro campi. Fino agli anni ‘50 questo cereale era molto diffuso

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nei campi, grazie al clima secco e poco piovoso. Si distingue, infatti, tra gli altri per essere molto resistente ai climi freddi e all’aridità, tanto che la media e l’alta Val Venosta sono da sempre conosciute come il “granaio del Tirolo”. Il presidio è sostenuto dall’Assessorato dell’Economia e delle Finanze della Provincia Autonoma di Bolzano e dalla Camera di Commercio di Bolzano. L’obiettivo principale che ci si è posti è quello di far conoscere e valorizzare l’Ur-Paarl dai fornai venostani e, in prospettiva, di reintrodurre l’antica varietà di segale coltivata nei secoli passati su queste terre. Il Paarl viene oggi arricchito con dosi variabili di semi di finocchio, cumino selvatico e trigonella caerulea, oltre che con erbe raccolte sui pascoli della valle. Nonostante la fragranza e l’aroma di un buon pane regalino da sole grandi soddisfazioni al palato, non c’è dubbio che il suo destino sia quello di accompagnarsi ad altri sapori, integrandone ed esaltandone le varie sfumature. Spalmato di un velo di burro si sposa perfettamente con le confetture, ma la classica merenda lo vede protago-

nista insieme allo speck e altri salumi affumicati. Oggi gli speck prodotti artigianalmente sono ottenuti soprattutto dalle cosce di animali allevati localmente, ma anche importati dalla Germania. I tempi di produzione si sono accorciati, ma la qualità è garantita dalla scelta delle materie prime e dall’accurata lavorazione. Le stessa macellerie artigiane producono anche i Kaminwurzen, salamini affumicati che non mancano mai nella tradizionale merenda. Infine, va ricordato che il pane è il più classico ingrediente della “zuppa”, cibo nato povero, ma che è capace di regalare ad ogni buongustaio sensazioni assolutamente apprezzabili, specialmente durante i freddi inverni di alta quota. Con l’Ur-Paarl secco si prepara la Lottensuppe, la “minestra dei poveri”, fatta con il brodo, qualche pezzetto di carne o di Speck e, appunto, il pane duro spezzato. Mentre con l’aggiunta di frutta — albicocche, pere, frutti di bosco — diventa un pane dolce buonissimo: il Früchtebrot. Un valido e gustoso motivo per visitare l’Alto Adige, tra le nevi, la buona cucina e il calore di stube. Chiara Papotti

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VINO

LE VOLPI E MONTE FASOLO: RACCONTARE I COLLI EUGANEI E BERLI NEL BICCHIERE di Gian Omar Bison

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e aziende agricole Le Volpi e Monte Fasolo, di proprietà della FAMIGLIA ROSSI LUCIANI, sorgono in provincia di Padova, nel cuore dei Colli Euganei, e costituiscono oggi una delle novità più interessanti del panorama enogastronomico e turistico della zona. LUIGI ROSSI LUCIANI, noto imprenditore padovano e grande appassionato di viticoltura euganea, ha deciso di investire in prima persone per il recupero e la valorizzazione di strutture e vigneti che al momento dell’acquisto si trovavano in stato di incuria ed abbandono. Il progetto di fusione tra le aziende agricole Le Volpi e Monte Fasolo, per un totale di oltre 200 ettari complessivi, 95 dei quali a vigneto, rappresenta l’attività vitivinicola privata più estesa dei Colli Euganei. Fanno parte della proprietà anche 5.000 ulivi, i cui frutti vengono lavorati direttamente nel frantoio aziendale. «L’obiettivo — puntualizza Rossi Luciani — è preservare il territorio, lavorarlo con rispetto e dedizione per la produzione di frutti sani ed integri, in grado di dare vita a prodotti di qualità, espressione di una identità netta che sappia raccontare i Colli Euganei».

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Le Volpi L’azienda agricola Le Volpi, che sorge sui colli di Baone, è stata acquisita nel 2007 e avviata da subito alla conduzione biologica ed alla valorizzazione dei vitigni autoctoni e tradizionali, con particolare attenzione al Moscato Giallo Fior d’Arancio, unica DOCG dei Colli, e ai tipici vitigni del Rosso dei Colli Euganei DOC (Merlot, Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc). L’azienda produce anche Prosecco ed un Manzoni Bianco di grande beva. I vini de Le Volpi sono certificati biologici dal 2013 e vegani dal 2016. Notevole il progetto di ospitalità portato avanti col casale trasformato in un agriturismo di 14 stanze e piscina a sfioro sulle vigne. Monte Fasolo L’azienda agricola Monte Fasolo, contigua a Le Volpi, è un luogo ricco di tradizione e una delle mete più frequentate dei Colli Euganei. Fondata negli anni ‘60 sulla sommità del monte Fasolo (del cui comprensorio fa parte anche la chiesa di San Gaetano, meta di pellegrinaggi), ha alle spalle una lunga

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In alto: l’ingresso alle cantine sotterranee. In basso: il Cabernet Colli Euganei “8 Mesi” DOC Le Volpi.

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storia di produzione vinicola purtroppo seguita da un periodo di declino. Nel 2017 Luigi Rossi Luciani ne rileva la proprietà e mette in atto un progetto di ristrutturazione e valorizzazione della cantina e del territorio circostante. Tutti i vigneti di pertinenza (complessivamente circa 70 ettari, 25 dei quali di reimpianto) sono attualmente in conversione e i vini di Monte Fasolo saranno certificati biologici a partire dalla vendemmia 2022. «Alcuni sentieri di nostra proprietà — sottolinea Rossi Luciani — si snodano tra boschi e vigneti e sono meta particolarmente gradita dagli amanti delle escursioni e della bicicletta di ogni livello. Per questo sull’etichetta dei vini della linea “I sentieri di Monte Fasolo” si trova il profilo del Sentiero 12, che passa proprio dalla nostra cantina». La produzione, come detto, include il vitigno autoctono Fior d’Arancio, unica DOCG dei Colli e i vitigni rossi tipici del Rosso dei Colli DOC (Merlot, Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc), ma le particolarità del progetto vitivinicolo attualmente in corso a Monte Fasolo sono la valorizzazione del vitigno storico Carmenere e la produzione di spumante Metodo Classico. «Gli studi e le sperimentazioni svolte nel corso di

questi anni — puntualizza Rossi Luciani — hanno permesso di approfondire la conoscenza della risposta dei vari vitigni in ogni singolo appezzamento della tenuta. L’obiettivo è andare oltre al concetto di biologico nella continua ricerca dell’equilibrio tra qualità del prodotto, benessere della persona e rispetto dell’ambiente. La nostra stella polare, per quanto possibile, saranno sempre i vitigni autoctoni lavorati con tecniche di affinamento innovative e metodi in grado di risaltare l’unicità dei vini lavorati». I Colli Euganei si sono formati a seguito di un susseguirsi di differenti manifestazioni vulcaniche avvenute circa 35 milioni di anni fa e il suolo vulcanico e la pluralità di microzone sono la fortuna dei prodotti di quest’area, donando loro carattere, mineralità e longevità unici. «Una vocazione che intendiamo rispettare a pieno. Le coltivazioni, complessivamente, si espandono tra tre macroaree: San Gaetano e Monte Rusta, nel comune di Cinto Euganeo, e le Tavole, nel comune di Baone. Possiamo così contare su diverse tipologie di terroir, microclimi e conformazioni del terreno».

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La cantina in grotte adatte per la produzione di Metodo Classico. Per le fermentazioni vengono utilizzati principalmente lieviti indigeni selezionati, microrganismi naturalmente presenti sulle uve. «Abbiamo inoltre scelto di utilizzare un processo di filtrazione delicato, a maglia molto larga per preservare l’integrità di gusto, aroma e colore del vino».

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A Monte Fasolo è possibile vivere l’esperienza della visita guidata con degustazione. La cantina presenta un percorso sotterraneo — di oltre 200 metri — sviluppato in grotte adatte per la produzione del Metodo Classico, in cui è possibile scoprire il mondo della riserva storica Monte Fasolo. Si può

seguire tutto il processo produttivo: vigna, vinificazione, affinamento, imbottigliamento per poi arrivare a degustare i vini. Presso l’enoteca dal venerdì alla domenica è possibile degustare i vini aziendali in abbinamento a prodotti tipici locali. Il punto vendita, aperto tutta la settimana, consente di fare acquisti direttamente in cantina. Monte Fasolo dispone inoltre di una sala eventi ed ampi spazi a disposizione per matrimoni, feste private, convegni o team building. Nella bella stagione, spazio agli eventi serali nell’anfiteatro naturale creato all’interno della proprietà. Come detto, sui terreni di proprietà, tra boschi e vigneti, si contano più di 5.000 piante di ulivo, alcune secolari. «Le nostre aziende — conclude Rossi Luciani — hanno iniziato la produzione di olio secondo i metodi antichi: dalla raccolta “a mano” alla spremitura delle olive. La presenza del frantoio all’interno dell’azienda costituisce un valore aggiunto anche per la produzione. Possiamo così frangere le olive entro 8 ore dalla raccolta, ottenendo un olio con bassissima acidità e poco ossidato». Gian Omar Bison >> Link: www.levolpi.it

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Viticoltura isolana, sperimentazioni e archeologia enoica

IL VINO MARINO IN ANFORA DI ANTONIO ARRIGHI E ALTRE MERAVIGLIE ELBANE di Federica Cornia 128

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aino in spalla, scivolando tra le vigne, arriviamo finalmente a Porto Azzurro. È la nostra prima tappa della GTE, la Grande Traversata Elbana. Ci fermiamo un po’ prima dell’ingresso del paese perché abbiamo un appuntamento con Antonio Arrighi, viticoltore elbano che, gentilissimo, ci dedica il tempo di un’intervista, nonostante sia domenica e nonostante siamo un po’ in ritardo sulla tabella di marcia. Protagonista di un esperimento scientifico unico al mondo e che ha portato alla nascita di Nesos, il vino marino, passando di qui non potevamo non cercare di incontrarlo. Ad intervistarlo sono già passati in molti: Sereno Variabile, il TG3, RAI News 24: «Non mi aspettavo questa attenzione mediatica» ci dice Antonio. «Qualche giorno fa sono stato contattato anche da un giornalista del NATIONAL GEOGRAPHIC. In rete sono apparsi articoli su siti del settore in Polonia, India, Canada, Giappone e USA. La nostra sperimentazione è stata raccontata anche in un cortometraggio

che ha ricevuto due premi e dalla prima degustazione del vino marino Nesos è nata l’idea per un libro». Libro nel quale Antonio è uno dei protagonisti e tra i personaggi che lo popolano compaiono la figlia Giulia e altre personalità dell’Isola d’Elba (ROBERTO BIANCHIN, LUCA COLFERAI, I misteri di Porto Longone, Antichi Editori Venezia, 2021, NdR). È sorpreso Antonio perché, a ripensarci, tutto è iniziato un po’ per caso qualche anno fa, nel 2018, dall’incontro con il professor ATTILIO SCIENZA, ordinario di Viticoltura presso l’Università degli Studi di Milano. In quell’occasione il professor Scienza, venuto a tenere un convegno sull’isola d’Elba sul tema vino e archeologia, presentò la sua ricerca che riguardava il vino dell’isola di Chio: come mai i vini di questa piccola isola dell’Egeo nell’antichità avevano tanto lustro da essere considerati dei prodotti di lusso sul mercato di Marsiglia prima, e su quello di Roma poi? PLINIO IL VECCHIO, nei suoi scritti, ricorda che CESARE li offrì al banchetto per celebrare il suo terzo consolato;

VARRONE ne parla come del “vino dei ricchi”. Era dolce e alcolico, qualità necessaria per sopportare i trasporti via mare, ma aveva qualcosa che gli altri vini dell’epoca non avevano, qualcosa che lo rendeva particolarmente aromatico. Si è poi scoperto che il segreto che i produttori di Chio custodivano gelosamente e che caratterizzava l’aroma del loro vino era la presenza del sale. Gli isolani di Chio, infatti, immergevano per qualche giorno l’uva in mare, chiusa in ceste, per eliminare dalla buccia la pruina, sostanza cerosa, e accelerare così l’appassimento al sole, preservando l’aroma del vitigno. Il professor Scienza da un po’ cercava un produttore disponibile a fare una sperimentazione, a riproporre al palato quel vino antico, e Antonio si fa avanti: è da qualche anno infatti che, incuriosito dai metodi di lavorazione e trasporto del vino degli antichi Romani, prova a fare il vino in anfora. E lo fa con l’Ansonica, l’uva bianca caratteristica dell’isola d’Elba discendente dalle uve che usavano i Greci

Preparazione (pagina a fianco) e immersione delle nasse con uve di Aleatico in mare.

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Operazioni di immersione di uva Ansonica in mare.

Nesos, il vino marino, nasce da un esperimento iniziato nel settembre 2018, con l’obiettivo di riprodurre le imprese enologiche degli antichi greci dell’isola di Chio.

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di Chio, un probabile incrocio di due antiche uve dell’Egeo, il Rhoditis e il Sideritis, varietà caratterizzate da una buccia molto resistente che ha permesso una lunga permanenza in mare. Era chiaro che il professor Attilio Scienza aveva trovato il suo uomo. È da questo incontro che prende corpo il progetto Nesos, che in greco antico significa “isola”, esperimento enologico che ha portato a riprodurre il mitico vino degli antichi Greci utilizzando il vitigno autoctono dell’Ansonica, ritenuto particolarmente adatto per l’operazione. Al progetto ha preso parte anche l’Università di Pisa occupandosi delle analisi del vino. Superato il primo ostacolo delle ceste di vimini da utilizzare per contenere l’uva, trovate da Antonio a Castelsardo, in Sardegna, le nasse sono state calate in mare poco lontano dal porto di Porto Azzurro e lasciate in acqua per 5 giorni a circa 10 metri di profondità. Dopo l’immersione, periodo in cui il sale marino penetra per osmosi all’interno dell’acino senza danneggiarlo grazie allo spessore della buccia, l’appassimento al sole dell’uva, la diraspatura e, infine, il passaggio in anfore di terracotta con tutte le bucce. Ed è qui la cosa interessante di questo

esperimento: la presenza del sale che, col suo effetto antiossidante e disinfettante, ha permesso di realizzare un vino molto naturale senza l’utilizzo di solfiti come stabilizzatori. Un vino che, dopo un anno di affinamento in bottiglia, è pronto e ti riporta indietro nel tempo di 2500 anni in un sorso. Quando gli chiediamo, ma il vino com’è?, Antonio ci risponde che: «Per ora è molto salato. Almeno quello che abbiamo sentito nel novembre del 2019. Il primo esperimento del 2018 prevedeva una permanenza in mare maggiore quindi risultava più intensa la parte salina — ci spiega — ma l’Ansonica era sempre predominante. Con la permanenza in mare di 5 giorni il vino risulta ancora più armonioso, con sapidità e morbidezze equilibrate e una bella freschezza». Lascia comunque intendere che ci sia ancora del lavoro da fare. Quando intraprendi una strada sperimentale d’altronde è così, il percorso è fatto di esiti incerti e tutto è perfettibile. Lo sa bene lui che ha iniziato più o meno 12 anni fa, in tempi non sospetti, a produrre il vino in anfora. «Oggi riusciamo a fare vini delicati, ma il percorso per arrivare fino a qui è stato lungo. E l’esperienza fatta incalcolabile».

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Passaggio in anfora delle uve di Ansonica dopo l’immersione in mare, l’appassimento al sole e la diraspatura.

Le anfore, realizzate a mano, arrivano da Impruneta, dalla fornace Parisi. E ci racconta il perché di quest’altra sperimentazione: «Il vino ha bisogno di respirare. L’acciaio è un ambiente riduttivo che non favorisce la microssigenazione. La barrique, invece, essendo il materiale poroso, la favorisce, permette al vino di maturare ed evolvere ma contiene sostanze che, a contatto col liquido, reagiscono rilasciando composti aromatici percepibili a livello olfattivo e che ricordano note legnose. L’argilla è neutra ed esalta esclusivamente i varietali delle uve» spiega Antonio. «È l’unico materiale che fa evolvere il vino così com’è». Oltre al Nesos, oggi Arrighi realizza in anfora l’Hermia, da uve a bacca bianca di Viognier in purezza, con le bucce lasciate a contatto con il vino per mesi, il Tresse (Sangiovese 50%, Syrah 30%, Sagrantino 20%), cru dell’azienda, prodotto da uve di un solo vigneto posizionato su un altopiano molto luminoso, e il Valerius, Ansonica 100%. Con la sperimentazione, prima del vino in anfora, poi dei grappoli calati in mare, a cui si aggiunge quella del primo aceto di Aleatico, Ace di Ale, prodotto da uve di Aleatico insieme all’antica acetaia Cavedoni di Castelvetro in

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provincia di Modena, Antonio spera si torni a parlare della secolare vocazione vitivinicola elbana. Perché qui sull’isola, come testimoniano i ritrovamenti dello scavo archeologico della villa rustica romana di San Giovanni, nella rada di Portoferraio, dal quale sono emerse anfore vinarie e dolia, grandi vasi interrati che contenevano ciascuno più di mille litri, si fa il vino dal tempo degli Etruschi e dei Romani. Fino alla prima metà dell’Ottocento l’Elba era il principale produttore di uva della Toscana. Con 32 milioni di viti coltivate ad alberello, sistema ereditato dagli antichi greci (10.000 ceppi per ettaro), vendeva vino alla Toscana, alla Liguria e l’esportazione arrivava fino a Marsiglia e nel sud della Francia. «L’avvento della fillossera a fine Ottocento e il boom turistico degli anni ‘60 comportarono un massiccio abbandono delle vigne e dei terrazzamenti fino ad arrivare al minimo storico di 100 ettari. Ora siamo ripartiti con 300 ettari, per un totale di 800.000 bottiglie di vini autoctoni» ci dice Antonio. Che l’Elba avesse una secolare vocazione vitivinicola che ha rischiato di sparire nel nulla lo imparo da lui, che con la sua storia personale sembra ridisegnare la parabola enoica che ha

interessato l’isola intera nel corso dei secoli: da fiorente centro di produzione del vino al rischio dell’estinzione dell’attività fino all’attuale ripresa. La sua famiglia, infatti, si occupa di vino da quattro generazioni ma è con lui che gli ettari di terra aumentano, dai 2 ai 15 di oggi, 8 dei quali vitati. Prima di congedarci e lasciare Porto Azzurro, per continuare la nostra traversata zaino in spalla, Antonio ci consiglia di passare nella vallata dell’anfiteatro. Così salutiamo questa tappa gettando un occhio dall’alto ai terrazzamenti ricreati con gli storici muretti a secco dove oggi sono reimpiantati principalmente Ansonica e Aleatico, ma anche vigneti di Chardonnay, Manzoni, Viognier, Syrah, Sagrantino, risultato della sperimentazione decennale portata avanti insieme alla Regione Toscana e al Consiglio per la ricerca in agricoltura, per capire quali sono i vitigni più adatti all’ambiente pedoclimatico elbano. “La vita non è che una serie di incessanti esperimenti” diceva il MAHATMA GANDHI. Mi sa che anche per Antonio Arrighi sia così. Federica Cornia Nota Photo © Roberto Ridi.

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EXPORT VINO VALORE RECORD:

7,1 MILIARDI NEL 2021 Dalle elaborazioni Osservatorio Qualivita Wine su dati Istat emerge un aumento pari a un +12,4% in un anno. Europa mercato da 4,3 miliardi, in USA il 24% dell’export in valore n valore record da 7,11 miliardi di euro per le esportazioni di vino italiano nel 2021, un risultato che segna un +12,4% su base annua e recupera abbondantemente il –2,2% registrato nel 2020: è quanto emerge dalle elaborazioni dell’Osservatorio Qualivita Wine su dati ISTAT, che descrivono le esportazioni del comparto vinicolo italiano. L’Europa assorbe il 60% delle

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esportazioni in valore del vino italiano, con 4,28 miliardi di euro nel 2021, per una crescita di 351 milioni in un anno pari al +8,9%. Forte recupero nel continente americano dove sono stati destinati 2,23 miliardi di euro di export, per una crescita del +16,7% in un solo anno che recupera la frenata del –4,3% registrata nel 2020. Anche i mercati asiatici, che avevano riscontrato maggiori difficoltà nel 2020 (con

un calo del –12,6%), nel 2021 hanno visto le esportazioni superare il mezzo miliardo di euro per una crescita del +22,5% su base annua. Fra le principali destinazioni, gli Stati Uniti superano 1,72 miliardi di euro e assorbono il 24,2% delle esportazioni vinicole made in Italy: un risultato che porta l’export in valore verso gli USA al +18,4% rispetto al 2020 e al +12% sul 2019.

Il 2021 è stato un anno d’oro per il vino italiano, con incrementi delle vendite a doppia cifra per tutte le categorie di prodotto. 132

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Grafico 1 – Export vino italiano anno 2021 (valori in milioni di euro)

Fonte: Fondazione Qualivita su dati Istat.

Grafico 2 – Export vino italiano anno 2021 (valori in tonnellate)

Fonte: Fondazione Qualivita su dati Istat. Prosegue l’andamento positivo in Germania, iniziato nel secondo semestre del 2020, che porta l’export italiano oltre 1,13 miliardi di euro nel 2021. A seguire il Regno Unito, che, con un +5,1%, recupera solo parzialmente il calo del 2020, mentre la Svizzera compie un deciso passo avanti e supera i 415 milioni di euro nel 2021. Fra gli altri i mercati, molto bene il Canada (+10,9%) e, soprattutto, i Paesi Bassi (che crescono per il secondo anno consecutivo, segnando un +37% rispetto al 2019). Riprende la crescita in Francia, dopo lo stop del 2020, e raggiunge i 222 milioni di euro; da segnalare anche il risultato in Belgio, che in due anni è passato da 140 milioni di euro a 197 milioni di euro (+41% rispetto al 2019). Alla luce dello scenario emerso dal conflitto militare in Ucraina, è signifiPremiata Salumeria Italiana, 2/22

cativo evidenziare che la Russia, con 149 milioni di euro di esportazioni, è il 12o mercato di destinazione per il vino italiano nel 2021, con una crescita del +18,4% su base annua. Un mercato complesso, nel quale l’Italia è riuscita ad imporsi con una crescita dell’export vinicolo del +91% in cinque anni. In Russia, l’Italia vanta la leadership tra i fornitori di vino e copre il 30% delle importazioni vinicole complessive nel Paese, seguita dalla Francia con il 17% (domina inoltre nella categoria degli spumanti con punte del 60% di quote di mercato di vino importato). In termini di quantità l’export vinicolo made in Italy nel 2021 ha raggiunto i 2,23 milioni di tonnellate, per una crescita del +7,3% rispetto al 2020. Fonte: Comunicazione Fondazione Qualivita


TECNOLOGIE

AL SALUMIFICIO SAN MICHELE L’INDUSTRIA 4.0 CON CSB È GIÀ REALTÀ a storia del Salumificio San Michele inizia più di 40 anni fa a San Michele Tiorre, alle porte di Parma, nel cuore della Food Valley, ad opera della FAMIGLIA CREMONESI, che ancora oggi ne è proprietaria. Nel corso degli anni, allo stabilimento storico si sono aggiunti prima quello di Langhirano, poi quello di Offanengo, dedicato al disosso e

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alla logistica, e, infine, un secondo impianto, sempre a Langhirano, dedicato all’affettamento. Infatti, oltre alla produzione di prosciutti, che è il core business dell’azienda, San Michele affetta e commercializza anche diverse tipologie di salumi: bresaola, culatello, pancetta, prosciutto cotto, mortadella, salame, speck e tanti altri. È CATERINA CREMONESI, responsabile

amministrativa, a dire: «Noi oggi integriamo completamente tutte le fasi di lavorazione e produzione dei prosciutti. Produciamo circa 800.000 prosciutti all’anno, riuscendo a soddisfare le richieste sia del mercato nazionale che di quello estero, che comprende i mercati di Canada, Giappone, Stati Uniti, Russia e Argentina. Nel 2020, seppur vincolati dalla pandemia, siamo

Salumificio San Michele, lo stabilimento di Langhirano (PR).

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Caterina e Gabriele Cremonesi, rispettivamente responsabile amministrativa e amministratore e responsabile di produzione dell’azienda. approdati oltre oceano anche in Messico e Uruguay». L’ERP CSB-System, che Salumificio San Michele impiega con successo dal 2014, è cresciuto negli anni assieme all’azienda ed oggi consente la gestione intercompany delle tre unità produttive senza necessità di trasferimento di dati ed informazioni da una sede all’altra. Con i moduli integrati per gli Acquisti, Magazzino, Produzione, Tracciabilità, EDI per scambio dati con la GDO, M-Erp, Contabilità e Vendite con peso-prezzatura, il CSB-System copre efficacemente tutti gli ambiti e le esigenze aziendali. La direzione è così in grado di prendere decisioni basate su dati in tempo reale e gli operatori possono svolgere tutte le operazioni senza doppi inserimenti di dati, garantendo allo stesso tempo rintracciabilità e contabilità industriale lungo tutto il processo. L’azienda lombarda impiega, inoltre, i CSB-Rack, PC industriali a muro, collegati con le varie periferiche quali bilance, scanner, peso-prezzatrici, etichettatrici, per gestire il ricevimento

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merci, l’uscita produzione, la pesoprezzatura e l’evasione dell’ordine con l’etichettatura in fase di spedizione. Il processo produttivo Le linee di prodotto di Salumificio San Michele comprendono diversi tagli, pezzature intere e le classiche vaschette di affettato. I loro prosciutti sono seguiti dalla scelta della materia prima alla stagionatura, per poi procedere con il disosso, l’affettamento ed il confezionamento, ottenuti attraverso l’impiego della miglior tecnologia presente sul mercato. I primi passi del processo produttivo prevedono, all’arrivo delle carni, che le cosce fresche siano attentamente valutate, in base ai requisiti previsti dal disciplinare interno di produzione. A seguire, si procede coi delicati processi di salagione e stagionatura, «una fase lenta ed essenziale, durante la quale avvengono fondamentali processi biochimici ed enzimatici» spiega DANIELE CREMONESI, amministratore e responsabile di produzione, e aggiunge «Proprio in questo momento, infatti i, prosciutti acquisiscono il loro intenso

e distintivo profumo e l’inconfondibile dolcezza». È soltanto dopo un’accurata selezione dei prosciutti già stagionati che avviene il disosso, il cuore dell’attività di San Michele. Una lavorazione molto delicata e importante, eseguita per rispondere alle specifiche esigenze di gusto, taglio e pezzatura di ciascuno dei clienti. L’ERP CSB-System e l’automazione del disosso Sulla base degli ordini di vendita e produzione a stock, l’ERP CSB-System elabora il piano di produzione giornaliero. Ogni sera il responsabile produzione seleziona il piano di produzione e carica i lotti di merce da lavorare. I prosciutti vengono quindi caricati su un nastro trasportatore dove gli operatori effettuano manualmente le operazioni di pulitura e disosso. La prima macchina selezionatrice, quindi, identifica e divide i prosciutti per tipologia e qualità. Questi sono poi depositati in cassoni. Successivamente, tramite un impilatore, ha luogo la cosiddetta fase di “carico impilatore”, durante la quale i prosciutti

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CSB-Rack verticale per la registrazione dei dati di produzione. vengono spostati dai cassoni in totem verticali e i dati sulle quantità prodotte sono trasmessi on-line e in tempo reale dalle macchine operatrici all’ERP CSB-

System. I totem sono poi posizionati nel magazzino di raffreddamento e ripresi il giorno successivo una volta stampati nel formato richiesto.

IL SALUMIFICIO SAN MICHELE VUOLE CONTINUARE A GIOCARE UN RUOLO DI PRIMO PIANO TRA LE AZIENDE DEL SETTORE E A PERCORRERE LA STRADA VERSO LA FABBRICA INTELLIGENTE SFRUTTANDO SOLUZIONI ALL’AVANGUARDIA, QUALI SONO APPUNTO LE SOLUZIONI INDUSTRIA 4.0 DI CSB-SYSTEM

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L’ERP CSB-System per l’automazione del confezionamento Dopo il disosso, si procede con i processi di confezionamento. Lì il disimpilatore effettua lo “scarico dei totem” e i prosciutti vengono confezionati e pesoprezzati per le vendite oppure trasferiti a Langhirano per l’affettamento. Durante la produzione, ogni fine linea e scarico impilatore, a contenitore completato, invia al gestionale CSB-System il dato delle quantità ottenute, suddivise per tipologia e/o qualità, in pezzi e chilogrammi. Al termine dell’ordine di produzione, l’addetto dichiara la chiusura del lotto di produzione direttamente sulla macchina. L’ERP CSB-System riceve questo input e provvede alla chiusura dello stesso con il relativo calcolo di rese e costi di produzione. Grazie all’automazione dei processi di disosso e confezionamento, l’operatore genera una sola volta nel CSB-System il piano produzione per i vari articoli. L’interfaccia gestita dal CSB-System effettua lo scambio dati con i vari macchinari di produzione comunicando in entrambe le direzioni. Le probabilità di commettere errori sono pertanto quasi nulle. Allo stesso tempo si mantiene un attento controllo dei dati in ogni fase produttiva. In virtù degli ingenti investimenti effettuati, della qualità dei suoi prodotti e della sempre maggiore attenzione verso la clientela, Salumificio San Michele vuole continuare a giocare un ruolo di primo piano tra le aziende del settore e a percorrere la strada verso la fabbrica intelligente sfruttando soluzioni all’avanguardia, quali appunto le soluzioni Industria 4.0 di CSB-System.

Referente: • Dott. A. MUEHLBERGER CSB-System Srl Via del Commercio 3-5 37012 Bussolengo (VR) Telefono: 045 8905593 Fax: 045 8905586 E-mail: info.it@csb.com Web: www.csb.com

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LIBRI

ESISTE IL CIBO PERFETTO? Esiste un cibo che sia vantaggioso per la salute, amico dell’ambiente e buono da mangiare? he si tratti di mangiare in modo migliore per se stessi e per il Pianeta o di comunicare bene la propria sostenibilità, fare la scelta giusta non è mai qualcosa di semplice. Quesiti e tematiche a cui cerca di dare risposta la nuova edizione del volume Il Cibo Perfetto. Aziende, consumatori e impatto ambientale del cibo, di MASSIMO MARINO e CARLO ALBERTO PRATESI, che già nella prima edizione aiutava consumatori e aziende a muoversi in questa direzione con consapevolezza e ora torna in libreria con un nuovo look e nuovi contenuti. Il libro nasce dal prendere coscienza di un fatto: c’è qualcosa che non va nel modo in cui produciamo il cibo e lo mangiamo. Come è noto, il sistema agroalimentare non solo contribuisce a una parte delle emissioni di gas serra, ma è al contempo al centro di una grande quantità di dinamiche bizzarre, basti pensare che un terzo del cibo prodotto viene sprecato mentre centinaia di milioni di persone soffrono fame o malnutrizione. Per fortuna, è vero anche che l’economia circolare e l’impegno a ridurre le emissioni da parte delle imprese possono contribuire a cambiare questa situazione. La nuova edizione de Il Cibo Perfetto sceglie di esaminare tutti passaggi della filiera agroalimentare, dal campo alla tavola, indicando per ognuno impatti e possibili percorsi di riduzione in un’ottica di circolarità, prendendo in esame una lunga serie di temi: dai fertilizzanti agli agrofarmaci,

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dai metodi per rigenerare i suoli all’utilizzo dei Big Data e dell’Intelligenza Artificiale in agricoltura, fino a questioni più quotidiane come la scelta tra i diversi tipi di imballaggi e tra le produzioni biologiche o convenzionali. Di tutto questo raccontano gli autori — Massimo Marino, dottore di ricerca in LCA e fondatore della società di consulenza Perfect Food, e Carlo Alberto Pratesi, ordinario all’Università Roma Tre, dove è titolare del corso Marketing, Innovazione e Sostenibilità, e fondatore di EIIS – European Institute of Innovation for Sustainability —, i quali delineano un percorso credibile per le aziende che vogliono produrre in modo sostenibile. Non solo, essi illustrano bene anche quelli che sono i passaggi fondamentali per una comunicazione efficace, snodo ineludibile per tutte le imprese che puntano sulla riduzione degli impatti sull’ambiente e vogliono comunicarlo in modo corretto. Mettersi alla ricerca del cibo perfetto espone insomma a numerose difficoltà, in primis perché non esiste una formula universale e perché non esistono ricette facili: ogni scelta alimentare ha conseguenze complesse, con vantaggi e controindicazioni tanto per noi quanto per l’ambiente. In altre parole, il cibo perfetto non esiste. Tutto sta, piuttosto, negli obiettivi che ognuno si dà come consumatore e come produttore. Ed è proprio attorno a questa consapevolezza che il libro è costruito. Fonte: EFA News European Food Agency

MASSIMO MARINO, CARLO ALBERTO PRATESI PREFAZIONE: ALESSANDRO CECCHI PAONE Il cibo perfetto Aziende, consumatori e impatto ambientale del cibo Edizioni Ambiente 200 pp. – € 22,00

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Un Re in Cucina, il Maiale n’opera che nasce da una ricerca durata due anni da parte di tutte le condotte Slow Food d’Italia; un progetto unico nel suo genere su un tema tanto importante come quello di un ingrediente fondamentale e millenario della cucina italiana, in grado di unire senza soluzione di continuità Nord e Sud, il maiale. Questo è il volume “Un Re in Cucina, il Maiale. Ricette, storie, curiosità dalle condotte Slow Food d’Italia”. Un saggio, ma anche un ricettario e un romanzo con aneddoti, tradizioni e ricette relative non solo al maiale, ma alla cultura culinaria italiana nel suo essere straordinariamente variegata e radicata nel tessuto culturale del Paese. “La gente, soprattutto in questo momento difficile, cerca condivisione, sostegno, solidarietà. In queste pagine sono raccontati esempi concreti di come ancora oggi sia possibile far sì che il cibo sia capace di tessere relazioni, di promuovere tradizioni e di difendere la bellezza della biodiversità culturale: tutto nel totale rispetto del benessere animale”. Sono queste sono alcune delle parole di CARLO PETRINI, fondatore di Slow Food, che aprono il testo. «Abbiamo voluto iniziare un viaggio nelle tradizioni e nei profumi che abbiamo avuto la fortuna di vivere, da spettatori si intende, ma che ora ci danno la consapevolezza di quanto siamo stati fortunati» ha dichiarato ROBERTO PELOSINI, fiduciario Condotta Slow Food Novara. «Comunità è anche condivisione, e quindi abbiamo deciso di lanciare l’invito agli altri amici delle Condotte Slow Food italiane affinché potessero raccontarci le loro storie, i loro prodotti, i racconti di una convivialità ricca di sentimento. Al centro lui, il maiale, accudito, coccolato, che per un certo

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periodo diventa quasi “uno di casa”, rispettato come essere vivente, anche se predestinato al sostentamento di altri esseri viventi, insostituibile nell’economia delle famiglie contadine. Quello che avete tra le mani è un volume che vuole essere esso stesso Comunità, che unisce in una grande rete di rapporti personali tutti coloro che con il loro lavoro, la loro passione, le loro convinzioni e perché no la loro curiosità, credono in un domani diverso per il benessere animale e di conseguenza per il cibo, l’ambiente e l’uomo stesso: uno stimolo alla consapevolezza e alla responsabilità. Siamo una piccola Comunità, vogliamo cogliere l’occasione per continuare a scambiarci idee ed emozioni, rafforzare legami e unire campanili in un unico grande abbraccio alla nostra bella penisola Slow».

Un Re in Cucina, il Maiale Ricette, storie, curiosità dalle Condotte Slow Food Italia Comunità d’la Duja Nuarésa per la salvaguardia dei metodi di conservazione secondo le antiche tradizioni novaresi (a cura di) Introduzione di CARLO PETRINI Edizioni Astragalo, 2021 228 pp. – € 25,00

>> Link: unreincucina.it

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TRE LIBRI

ARIANNA ROSSONI Cioccolato Teobromina 650mg Leggere attentamente il foglietto illustrativo Edizioni Quinto Quarto 128 pp. – € 10,00

ALBERTO GRANDI Parla mentre mangi Cose da sapere sul cibo per fare bella figura a tavola Edizioni Mondadori 148 pp. – € 17,00

MICHELE RUSCHIONI GIANLUCA BIANCHINI (a cura di) GIUSEPPE ROMEO (collaboratore) MARCO PORCHERI (collaboratore) Steak house e macellerie d’Italia La guida per gli amanti della bistecca Edizioni: Braciamiancora, 2022 336 pp. – € 13,52 ISBN-13 979-8403345576

Il cioccolato può essere il miglior amico o il peggior nemico dell’uomo. A fare la differenza, come per una banalissima aspirina, sono le dosi, le interazioni, la composizione, i metodi di conservazione. ARIANNA ROSSONI, dietista specializzata in alimentazione e fertilità, ipotiroidismo e patologie autoimmuni, conosciuta e molto seguita sui social come Una dietista controcorrente (instragram) e Alimentazione in equilibrio (blog e facebook), stila quindi un “bugiardino” del cioccolato, grazie al quale scopriamo il motivo per cui le donne una volta al mese smontano la dispensa alla ricerca di un quadratino di cioccolato, o le ragioni per cui una tavoletta conservata a temperature troppo basse sviluppa quella patina bianca nefasta e poco invitante, o il potere antinfiammatorio di un extrafondente di qualità. Cioccolato 650mg ci insegna a rifuggire dai luoghi comuni (il cioccolato in sé NON fa ingrassare) e ci guida al consumo responsabile e oculato di un alimento tra i più amati dal nostro palato.

Durante un convegno sulla Dieta Mediterranea, una docente americana, stupita nel vedere i propri colleghi accapigliarsi a tavola per futili motivi, del tipo “nell’amatriciana ci vuole l’aglio oppure no”, “nella carbonara è meglio il guanciale o la pancetta”, “il prosciutto San Daniele è migliore o no di quello di Parma”, rivolse al professor ALBERTO GRANDI la fatidica domanda: “Ma perché gli Italiani parlano sempre di cibo a tavola?”. L’autore di “Denominazione d’origine inventata” ha fatto sue queste domande e ci ha scritto sopra un libro dal provocatorio titolo “Parla mentre mangi”. Sì, perché è vero che gli Italiani, a differenza di altre comunità nazionali, sono ossessionati dal cibo, ma sono anche appassionati delle storie che lo accompagnano. Tanto che oggi saper parlare con competenza dei piatti che mangiamo consente di fare bella figura in società. Ecco quindi un agile testo che aiuta a raggiungere questo obiettivo, raccontando le storie scientificamente provate relative ai prodotti e ai piatti che compaiono sulle nostre tavole, dagli antipasti ai dolci.

350 pagine utili a raccontare oltre 400 realtà carnivore sparse per tutta la Penisola. Si intitola “Steak house e macellerie d’Italia” ed è la prima guida italiana dedicata a questo settore della gastronomia. Un lavoro che da Nord a Sud (isole comprese) racconta storiche conferme e va a scovare novità emergenti. Sono presenti tutte le province. La pubblicazione di questo lavoro è una novità assoluta per il panorama editoriale italiano poiché nessuno, fino ad oggi, aveva dedicato pagine e pagine solo e soltanto ai migliori indirizzi “di carne” dello Stivale. Il progetto è di MICHELE RUSCHIONI, giornalista e youtuber romano, fondatore nel 2016 di Braciamiancora, network editoriale dedicato al mondo della carne che tra Facebook, Youtube, Instagram, TikTok e Telegram conta un milione di follower. «L’idea di pubblicare un lavoro del genere nasce dalle continue richieste dei nostri follower e da una carenza generale sull’argomento. Insomma, ci siamo trovati di fronte ad un vuoto editoriale che abbiamo deciso di colmare», spiega Ruschioni. La guida è acquistabile su Amazon.

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