I’GIORNALINO
NO 16 APRILE 2021
“La fotografia è l’arte di mostrare di quanti istanti effimeri la vita sia fatta” - Marcel Proust
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REDAZIONE
Direttrice AURORA GORI (VA)
Redattori
GIULIA AGRESTI (IVB), MARGHERITA ARENA (IVB), FILIPPO BELLOCCHI (IIIB), GIORGIA BERRETTINI (IB), GEMMA BERTI (IIIB), NICCOLÒ BETTINI (IIIB), GIULIA BOLOGNESE (IIIA), EMANUELE IPPOLITO BOZZO (IA), DIEGO BRASCHI (VA), ELENA CASATI (IIIB), GIOVANNI CAVALIERI (IIA), ELISA CIABATTI (VB), FILIPPO DEL CORONA (IIIB), GIOVANNI GIULIO GORI (IIB), DANIELE GULIZIA (VB), MATILDE MAZZOTTA (VC), RACHELE MONACO (IIB), ALESSIA MUÇA (VA), ALLEGRA NICCOLI (IIIB), ALESSIA ORETI (IVA), FRANCESCA ORITI (IVB), SARRIE PATOZI (IVB), PIETRO SANTI (VA), IRENE SPALLETTI (VA)
Fotografi SILVIA BRIZIOLI (caposervizio, VA), MARIA VITTORIA D’ANNUNZIO (IIIB)
Collaboratori MARGHERITA CIACCIARELLI (IIB), MADDALENA GRILLO (VB), ALLEGRA NICCOLI (IIIB), ALESSIA ORETI (IVA), ALICE ORETI (VB) Art Director DANIELE GULIZIA (VB)
Disegnatori GREGORIO BITOSSI (IVA), VIOLA FANFANI (IVA), FABIOLA MANNUCCI (IVA), CATERINA MEGLI (IVA), SILVIA MONNO (IVA), REBECCA POGGIALI (VA), ERICA SETTESOLDI (IVA), FRANCESCA TIRINNANZI (IVB)
Social Media MARGHERITA ARENA (IV B), MARIANNA CARNIANI (IVB), MARTA SUPPA (IVA)
Ufficio Comunicazioni GIULIA AGRESTI (IVB)
Impaginatori GIULIA AGRESTI (IVB), DIEGO BRASCHI (VA), PIETRO SANTI (VA)
Collaboratore esterno GIULIA PROVVEDI
Referenti PROF. CASTELLANA, PROF.SSA TENDUCCI
ARIA SOTTILE………………………………………………..4 “DIFFERENT, NOT LESS”…………………………………..8 MEGA UTILE………………………………………………..12 LA TECNICA DI CARLA ACCARDI………………………14 STORIA DI PAROLE………………………………………..15 “NON È MAI STATO COSÌ FACILE STUDIARE IN UNA TOP UNIVERSITY”…………………………………………16 L’ELICOTTERO INGENUITY HA COMPLETATO CON SUCCESSO IL SECONDO VOLO SU MARTE………….20 LA SUPERLEGA…………………………………………….22 LISBONA…………………………………………………….24
INDICE
CASTELROTTO……………………………………………..25 RESOCONTI DEL SALOTTINO…………………………..26
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ARIA SOTTILE
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di Irene Spalletti
SPEDIZIONE DEL 1996 Una scalata alla vetta...e una discesa nella tempesta
Nella primavera del 1996, Rob Hall saluta la moglie incinta e parte dalla Nuova Zelanda insieme agli amici e compagni di scalata Andy Harris e Mike Groot e alla responsabile dei servizi Helen Wilton, per guidare una nuova spedizione sull'Everest organizzata dalla sua compagnia, l’Adventure Consultants. Il gruppo è composto da dieci clienti con esperienza abbastanza eterogenea di alpinismo, tra cui il postino Doug Hansen, il medico patologo Beck Weathers, il giornalista della rivista “Outside” Jon Krakauer e la manager Yasuko Namba, che ha già conquistato sei dei Seven Summits. La spedizione arriva al campo base dell’Everest a marzo e inizia la preparazione alla scalata. Tuttavia, a causa della fama raggiunta dall'iniziativa lanciata da Hall, sulla montagna si accalcano sette spedizioni e decine di persone, causando veri e propri "ingorghi" e una crescente tensione tra gli organizzatori e i partecipanti. Per evitare incidenti, Rob propone alle altre guide di affrontare la scalata alla vetta partendo scaglionati, ma nessuno accetta. Solo Scott Fischer, capo spedizione della società concorrente di Adventure Consultants, la Mountain Madness, si mostra collaborativo e si accorda con il collega neozelandese per organizzare una scalata congiunta, mettendo a disposizione la sua esperta guida, l'alpinista professionista kazako Anatolij Bukreev. Poco dopo la mezzanotte del 10 maggio 1996 la spedizione della Adventure Consultants di Rob Hall iniziò il suo tentativo di raggiungere la vetta dell’Everest dal Campo 4, che si trova sulla sommità del Colle Sud, a 7.900 m. A loro si unirono i sei clienti, le tre guide e gli sherpa della spedizione della Mountain Madness di Scott Fischer e una spedizione sponsorizzata dal governo di Taiwan. Le spedizioni cominciarono presto ad incontrare imprevisti. A causa, probabilmente, di un’incomprensione fra Ang Dorje Sherpa e Lopsang Jangbu Sherpa, né gli sherpa scalatori né le guide avevano sistemato le corde fisse prima dell'arrivo degli scalatori sul “Balcone” (The Balcony), a 8.350 m. L'imprevisto costrinse dunque gli uomini ad interrompere l'ascesa per quasi un'ora nell'attesa che fossero piazzate le corde fisse necessarie per il superamento del “Balcone”. Inoltre, una volta raggiunto l'Hillary Step, a 8.760 m, gli scalatori si accorsero che non vi erano corde fisse nemmeno lì e questo comportò un ulteriore ritardo di un'ora sulla tabella di marcia e, a causa del fatto che ben 33 scalatori stavano tentando di raggiungere la cima quel giorno e che, per motivi di sicurezza, sia Hall che Fischer avevano chiesto ai membri delle 5
proprie spedizioni di non allontanarsi più di 150 m gli uni dagli altri, ci fu un grande imbottigliamento sull'unica corda fissa dell'Hillary Step. Alcuni dei membri dell’Adventure Consultans, che erano fra gli ultimi della lunga coda, insieme a Hall, ritornarono al Campo 4 per la stanchezza e per il timore di terminare l'ossigeno a causa dei ritardi nell'ascesa. La guida Anatolij Bukreev, della spedizione Mountain Madness, raggiunse per primo la cima a 8.848 m alle 13.07, scalando senza ossigeno. Molti degli scalatori, tuttavia, non avevano ancora raggiunto la cima per le 14.00, l'ora dopo la quale sarebbe stato difficile ritornare al Campo 4 in tempo per la notte. Bukreev iniziò la sua discesa verso il Campo 4 verso le 14.30, dopo aver trascorso all'incirca un'ora e mezza sulla cima aiutando gli altri scalatori a terminare la loro ascesa. A quell'ora erano arrivati in cima Hall, Krakauer, Harris, Beidleman, Namba oltre a tutti i clienti della Mountain Madness. Sempre verso quest'ora Krakauer, sulla via del ritorno, notò che il tempo si stava scurendo. Alle 15.00 cominciò a nevicare e la luce iniziò a diminuire. Il sirdar di Hall, Ang Dorje Sherpa, assieme ad altri sherpa scalatori, attese sulla cima l'arrivo degli ultimi clienti fino alle 15.00, quando cominciarono la loro discesa. Sulla via del ritorno Ang Dorje incontrò Doug Hansen sopra l'Hillary Step e gli disse di scendere. Hansen però rifiutò e continuò a camminare verso la cima. Quando arrivò Hall, gli sherpa si offrirono di accompagnare Hansen sulla cima, ma lui ordinò di scendere ad assistere gli altri clienti e di sistemare bombole di ossigeno di scorta lungo la via del ritorno. Hall rimase ad assistere Hansen, che aveva terminato il suo ossigeno supplementare. Scott Fischer raggiunse la cima verso le 15:45. Era esausto e cominciò a sentirsi male, probabilmente a causa di un edema polmonare o cerebrale. Gli altri, tra cui Doug Hansen e Makalu Gau, raggiunsero la cima ancora più tardi. Bukreev ricorda di aver raggiunto il Campo 4 alle 17.00, e le ragioni per le quali cominciò la discesa prima dei suoi clienti sono discusse. Egli sostenne che era sceso prima, in accordo con Fischer, per essere pronto ad aiutare i clienti negli ultimi tratti della discesa e per fare scorta di tè caldo e ossigeno da riportare su a chi ne avesse avuto bisogno. Krakauer, nel suo libro, sostenne invece che la discesa anticipata di Bukreev fu dovuta al fatto che egli, essendo salito senza bombole di ossigeno, non poteva trattenersi troppo a lungo a quote elevate e fu quindi costretto a scendere presto. La scelta di salire, da guida, senza ossigeno, fu criticata da Krakauer, che la ritenne poco responsabile. Altri invece ribattono sostenendo che l'utilizzo dell'ossigeno supplementare dà un falso senso di sicurezza e che quindi è stato più responsabile, per Bukreev, non utilizzarlo piuttosto che il contrario. Col passare delle ore, il tempo, che stava sempre di più peggiorando, cominciò a causare problemi per la discesa diminuendo la visibilità, seppellendo nella neve le corde fisse e le tracce dell'ascesa e rendendo più difficile quindi ritrovare la strada fino al Campo 4. Fischer rimase bloccato dalla tempesta sul "Balcone” assieme a Makalu Gau e a Lopsang Jangbu Sherpa. Avendo constatato la sua impossibilità di proseguire, ordinò a Lopsang Jangbu, che voleva rimanere con lui, di andare avanti da solo per poter aiutare i clienti in discesa. Intorno alle 17 e qualche minuto, Hall chiamò aiuto via radio comunicando che Hansen era vivo ma aveva perso conoscenza. Alle 17.30 Andy Harris, guida della spedizione Adventure Consultants, che aveva già raggiunto la Cima sud, fece marcia indietro in direzione di Hansen e Hall portando con sé delle bombole di ossigeno. Krakauer riferisce che, alle 18.30, il tempo 6
era peggiorato tanto da diventare una vera e propria tempesta. Molti scalatori di entrambe le spedizioni commerciali risultavano ancora dispersi. La guida Neal Beidleman, in testa a Klev Schoening, Charlotte Fox, Tim Madsen, Sandy Hill Pittman e Lene Gammelgaard della spedizione Mountain Madness e la guida Mike Groom, Beck Weathers e Yasuko Namba della spedizione Adventures Consultant, scesi dalla Cresta Sud, si trovarono al buio e in piena bufera, alla base del ghiacciaio, a circa 400 metri dal Campo 4 senza poterlo vedere e si smarrirono. Vagarono nella tempesta fino a mezzanotte. Quando non riuscirono più a camminare si accucciarono per riposarsi e per proteggersi dal vento, 20 metri sotto alla parete del Kangshung (Parete est dell'Himalaya), attendendo che il tempo migliorasse. Poco dopo mezzanotte, il cielo si aprì abbastanza per permettere loro di vedere il Campo 4 circa 200 m più in basso, ma non lo notarono. Comunque Beidleman, Groom, Schoening e Gammelgaard si misero in cammino mentre Madsen e Fox rimasero con il resto del gruppo per gridare e dirigere i soccorritori. Schoening e Gammelgard guidavano il gruppo, finché Gammelgard vide una luce; era la lampada frontale di Anatolij Bukreev che, preoccupato per il mancato arrivo dei clienti, aspettava impaziente. Bukreev diede soccorso ai sopravvissuti, tolse i ramponi ai nuovi arrivati, li sistemò in tenda al caldo nei sacchi piumino, fornì loro delle bombole piene di ossigeno e disse a Penba di dar loro del tè caldo. Cercò anche di farsi dire da Schoening e da Gammelgaard la direzione per raggiungere i clienti in condizioni critiche che erano rimasti indietro, poi fece il giro delle tende chiedendo aiuto a tutti, sia colleghi, sia clienti, ma nessuno gli rispose; gli sherpa dormivano al calduccio e non se la sentivano di rischiare la vita al gelo nella bufera e i clienti erano troppo esausti e provati dalla discesa per poter aiutare i dispersi. Perciò Bukreev uscì da solo, all'una di notte, nella tormenta, e si diresse nella direzione che Lene e Klev gli avevano indicato. Camminò per circa 15 minuti, ma non vide nessuno e tornò indietro. Verso le due ritornò ancora alla tenda degli sherpa ma di nuovo non trovò nessuno disposto ad andare con lui a soccorrere i dispersi. Allora, sempre da solo, tornò alla ricerca dei dispersi e questa volta vide la lampada di Tim Madsen e trovò il gruppo. Soccorse i presenti, mise la maschera di ossigeno a Sandy, distribuì il tè. Poi chiese chi se la sentiva di tornare con lui e si offrì Charlotte. Assieme attraversarono il Colle Sud in quarantacinque minuti e finalmente alle tre di mattina arrivarono al Campo 4. Bukreev fece di nuovo il giro delle tende in cerca di qualcuno che lo aiutasse ma nessuno si offrì di aiutarlo; tolse la bombola di ossigeno a un altro sherpa e ritornò da Sandy, Tim e Yasuko. Yasuko Namba era inamovibile, perciò Bukreev riportò al campo 4 i due che stavano in piedi e a malapena camminavano. Di Weather nessuna traccia. Alle quattro arrivarono al Campo 4. Dopo essere sceso dalla cima dell'Everest e aver passato tutta la nottata in piedi a cercare i dispersi, Bukreev, alle cinque del mattino, si mise finalmente a dormire. 7
“DIFFERENT, NOT LESS” di Francesca Oriti
Per il mese della sensibilizzazione sull’autismo abbiamo intervistato Anita, educatrice e attivista. Anita è stata già ospite di seguitissimi podcast, tra i quali Palinsesto Femminista, e siamo molto onorati di aver avuto l’opportunità di poterla intervistare. Hannah Gadsby, famosa comica australiana, rivelando la sua appartenenza allo spettro autistico, nello spettacolo Douglas ha affermato “Diversity is strength, Difference is a teacher” (“La diversità è una forza, la differenza insegna”). Qual è la tua personale definizione di diversità? La diversità è l’unica caratteristica comune a tutti gli esseri umani. La più grande differenza tra persone neurotipiche e autistiche sta nell’intensità con cui vediamo il mondo. La percezione di tutto ciò che è sensoriale è amplificato in molte persone dello spettro, sia in eccesso che in difetto, infatti entrambi si presentano agli estremi con l’ipersensorialità e l’iposensorialità. È diverso anche l’oggetto dell’interesse, infatti spesso le persone autistiche tendono a concentrarsi sulle cose molto piccole e semplici da cui traggono un enorme benessere. Io personalmente provo un’immensa gioia quando osservo le bolle di sapone o i rumori della natura in un prato, quindi riesco a trovare del bello e del buono anche senza l’interazione continua di cui invece spesso le persone neurotipiche hanno bisogno per stare bene. Tuttavia è un falso mito che le persone autistiche non abbiano bisogno di relazioni interpersonali, anzi per me è vero il contrario. Tu sei molto impegnata anche nel campo del femminismo intersezionale. Qual è il legame tra questo e l’attivismo per l’autismo? Mi sono avvicinata all’attivismo per l’autismo in ambiti sempre medicalizzati, che fosse in compagnia di terapisti, genitori o insegnanti mi trovavo in ambienti che guardavano l’autismo come una malattia, concezione che è stata superata dalla comunità autistica. Lo sguardo sul mondo neurodiverso è ormai diventato attenzione verso una delle tante minoranze ed è questa visione che avvicina l’attivismo per la neurodiversità a quello del femminismo, con cui condivide la ricerca di diritti per quelle persone che non ne godono. Per me l’avvicinamento al femminismo è stato fondamentale perché da tempo volevo parlare dell’autismo al di fuori del 8
campo medicalizzato e lavorare con persone che si occupassero di diversità e non di disturbi. Quando si guarda una persona non con l’ottica di aggiustare qualcosa, ma di comprendere, cambia la prospettiva. Ciò non significa che le persone autistiche non abbiano bisogno di ausili e supporti, tutt’altro, ma supportare è molto diverso da aggiustare. Dunque è proprio per l’accesso a questi supporti e ausili che serve la diagnosi. Secondo te quanta importanza ha la diagnosi, anche in età avanzata? La diagnosi è sempre vitale, ovviamente prima arriva e meglio è, ma fa la differenza nella vita di una persona di qualsiasi età perché dà risposte a una serie di situazioni e di caratteristiche che avevano generato domande irrisolte durante la crescita. Se vivessimo in una società che accetta e celebra ogni persona per la propria individualità, non ci sarebbe neanche bisogno di una diagnosi perché tutto ciò che questa fa è spiegare e validare delle caratteristiche e dare accesso a degli strumenti di supporto. Purtroppo però è necessaria una parola, un’etichetta, perché è l’unica cosa che permette di capire che non si è sbagliati, ma diversi. Lo scopo di una diagnosi anche più avanti in età è quello di permettere alla persona che la riceve di smettere di giudicarsi e di iniziare a comprendersi e a validare la propria esperienza e i propri bisogni. Inoltre la diagnosi è la chiave agli strumenti di supporto che talvolta sono necessari anche quando a un’analisi superficiale non si direbbe ed è il primo passo verso la comunità autistica, che è fondamentale perché le persone autistiche non si sentano sole e isolate. Con la diagnosi si ha la libertà di essere, perché spesso le persone che non la hanno vengono viste come dei neurotipici sbagliati e costrette per tutta la vita a entrare in una scatola che non li comprende. Quindi anche se le persone autistiche adulte sono andate avanti arrangiandosi, non significa che questa sia l’unica soluzione o la migliore. Qual è l’errore peggiore che possono fare le persone neurotipiche quando si relazionano a una persona autistica? Secondo me spesso le persone si concentrano solo su ciò che è problematico, fuori dalla norma, medicalizzato e quindi errato, perdendosi la bellezza di una condivisione con una persona che vede il mondo in modo diverso. Questo non vale solo per le persone autistiche verbali come me, che ho la fortuna di avere un linguaggio con cui comunicare, ma anche per i non verbali, bambini ed adulti. Anche dove c’è un estremo bisogno di supporto, c’è un’estrema capacità di godersi il mondo. Non bisogna dimenticarsi che c’è una persona oltre i comportamenti e non bisogna assumere che quello che viene comunicato abbia il significato che una persona neurotipica può attribuirgli, altrimenti si rischia di perdersi uno scambio positivo in un mare di difficoltà. Non è possibile negare che ci siano concrete difficoltà, ma concentrarsi su quelle trascina in una spirale verso il basso che non fa bene né alla persona autistica né alle persone che gli stanno intorno. Siccome molte persone neurotipiche provano timore di fronte allo stimming2, forse sarebbe meglio chiarire cos’è. Lo stimming è un linguaggio e uno strumento di autoregolazione. Tutti abbiamo dei comportamenti stereotipati, anche i neurotipici quando sono intenti a concentrarsi spesso si attorcigliano i capelli. Le cause dello stimming sono da rintracciare nell’intensità della visione del mondo che hanno le persone autistiche e nella mancanza di un altro strumento comunicativo. O è l’unico mezzo di comunicazione o è l’unico efficace, ma ad ogni modo è quello che produce nell’immediato un’autoregolazione o un’esternazione di sentimenti, spesso e volentieri anche di gioia. Non deve fare paura, ci sono modalità comunicative normalizzate dalla società, come l’abbraccio, ma cos’è che rende un sfarfallare meno normale di un abbraccio? Il fatto che non siamo abituati a vederlo, quindi bisogna farci l’occhio. Lo 9
stimming diventa difficile da gestire quando ad esempio un bambino si fa del male per contenere uno stato di frustrazione, ma una persona che per strada fa uno sfarfallio dalla gioia non fa del male né a sé né agli altri. Inoltre bisogna imparare a godere anche di questa comunicazione di felicità, se vediamo persone sorridere o abbracciarsi per strada siamo riempiti da un’emozione positiva, lo stesso dovrebbe valere per lo stimming. Io mi sono dovuta riappropriare di questo strumento perché non era socialmente accettabile, ma quando l’ho fatto è diventato un mezzo straordinariamente naturale. Inoltre le persone che mi stanno vicine, vedendo questi comportamenti, si sentono più libere di fare ciò che li fa stare meglio, infatti lavorare per la libertà di un gruppo significa lavorare per tutti: la libertà crea libertà. Come hai vissuto gli anni precedenti alla diagnosi? Da piccolina leggevo libri di psicologia perché avevo capito che il mio modo di approcciare le altre persone non funzionava, ma essendo molto intelligente gli altri mi giudicavano menefreghista e cattiva. Ancora una volta questo è un esempio di una comunicazione fraintesa perché si assume sempre il significato più ovvio per un neurotipico. I miei comportamenti non solo non venivano capiti, ma venivano visti come delle cattiverie fatte di proposito, pertanto ho iniziato a guardare a ripetizione continua serie tv che mi permettevano di capire le interazioni neurotipiche e ridurre così il bullismo, ma mi sono trasformata in una persona che non ero più io. Tutti indossano una maschera, ma fingere costantemente, senza nessun supporto da persone vicine e senza che nessuno comprendesse perché agivo in un certo modo e chi fossi veramente è stato estenuante. L’assenza di diagnosi si conferma quindi come totale solitudine, che sono riuscita a superare solo grazie a una persona vicina che mi ha strappata alla rassegnazione di “essere nata storta” e mi ha regalato una spiegazione per il funzionamento diverso del mio cervello. Non sono fuori posto e non sono l’unica, infatti quando mi sono ritrovata con altre persone autistiche sono rimasta molto stupita scoprendo che altre persone pensassero sulla mia stessa lunghezza d’onda. L’interesse per la psicologia è continuato? Il mio interesse principale è l’uomo, per questo continuo a coltivare la passione per la psicologia e oggi sono un’educatrice. Non è affatto vero che le persone autistiche non provano interesse per il mondo che le circonda o che non sono capaci di empatia. O c’è una totale difficoltà di mettersi nelle scarpe degli altri o c’è un’intensissima percezione delle emozioni dell’altro che spesso sconvolge. Io al momento attuale lavoro con dei bambini e ancora mi sfuggono le loro dinamiche di gioco, ma ciò non significa che io non voglia capirli o supportarli in tutti i modi possibili. Spesso nelle persone autistiche l’interesse per chi li circonda ci sarebbe, ma giocare con le modalità degli altri, usare un linguaggio alieno e fingere interesse per cose che si trovano noiose costituisce un ostacolo. Un mondo che ti rifiuta non ti invita ad interagire. Una delle cose più sconvolgenti è sentire una mamma che dice di non vaccinare il figlio per evitare che diventi autistico, ammettendo neanche troppo implicitamente di preferire un figlio morto piuttosto che nello spettro. Cosa significa essere parte della comunità autistica e trovarsi a contatto con le persone autistiche non verbali? Io ho avuto molto a che fare con persone non verbali e ogni volta mi chiedo cosa ci sia di simile e cosa di diverso e se io abbia il diritto di vedermi nella stessa categoria. Non perché qualcuno faccia più o meno fatica, ma perché queste fatiche sono apparentemente diverse. Tuttavia io con le persone autistiche non verbali mi sento a casa, quindi ho la sensazione che ci sia la stessa radice di base che produce esperienze diverse. Infatti spero proprio di poter 10
lavorare con bambini autistici perché li capisco, è quasi rilassante starci intorno anche nei momenti di difficoltà per poterli aiutare, un esempio di cosa difficile per una persona neurotipica che diventa semplice per me. E questo significa fare parte della comunità autistica, sapere che c’è uno spazio di esperienza condivisa. Per me è bellissimo vedere che anche in Italia si sta muovendo qualcosa, dopo essere stata per anni da sola con altre due colleghe, tutte con backgrounds ed età diverse, a portare avanti il messaggio come delle pioniere. Le esperienze di vita sono tante e molte voci diverse arricchiscono il discorso e aiutano a creare un approccio che sia il più inclusivo possibile. È bello da vedere, è bello da sentire, più siamo in grado di creare un dialogo più ci sarà speranza che le prossime generazioni non soffrano quanto abbiamo sofferto noi. L’aspettativa di vita per una persona autistica è in media di 36 anni, come dice uno studio statunitense del 20173; ovviamente il dato è riconducibile a comorbidità, come l’epilessia, ma anche alla salute mentale, perché vivere in un contesto che non ti comprende e non ti vuole ha pesanti conseguenze che ostacolano qualsiasi forma di dialogo. Quando sei troppo impegnato a sopravvivere non hai energie di scorta. Ora sempre più persone rispondono all’appello morale a essere ciò di cui avremmo avuto bisogno da piccoli e quindi iniziamo a costruire una strada in modo che chi venga dopo accetti la propria esistenza, costruisca ponti tra due realtà diverse e porti avanti il messaggio che non c’è nessuno da soffocare o da cambiare, ma che bisogna che tutti si incontrino a metà strada. Ti chiedo infine se hai libri o serie tv da consigliarci per approfondire il tema dell’autismo. Posso consigliarvi “Neurotribù”, che è molto tecnico, ma dà anche un po’ di contesto storico sulla ricerca, o “In altre parole. Dizionario minimo di diversità”, di Fabrizio Acanfora. Poi per lo più ci sono pubblicazioni in inglese, come “Stim”, di Lizzie Huxley-Jones. Per quanto riguarda le serie, posso citare “Bones” che, pur non dicendolo, ha fatto un perfetto ritratto di una donna autistica, realistica anche se un po’ stereotipata, senza rendere troppo pesante l’argomento. Io e la mia compagna abbiamo guardato insieme “Atypical” e abbiamo riso molto riconoscendo i miei comportamenti. L’unica difficoltà di “Atypical” è rappresentare, ancora una volta, un personaggio maschile, come avviene in quasi tutte le serie riguardanti le persone autistiche. Il film “Music” ha al centro una figura femminile, ma è moralmente disastroso, infatti la comunità autistica ha chiesto di inserire delle avvertenze prima delle scene di contenimento, dato l’elevato pericolo che rappresentano, e questa richiesta non è stata accettata, quindi ancora una volta si sfrutta l’esperienza di qualcun altro come fonte di spettacolo. Quando un lavoro simile non viene fatto insieme alla comunità interessata la possibilità di fare errori è enorme. “Qualcosa su di noi senza di noi”, questo è il centro focale delle critiche che sono state mosse e delle critiche di qualsiasi minoranza nei secoli. C’è l’ostacolo della medicalizzazione, ma pian piano cerchiamo strade nuove. Ti ringrazio per le tue parole, alla prossima! Contatti dell’intervistata per ulteriori domande: Instagram: @anita.autistic; email: asperger.anita@gmail.com 1 Titolo di un libro di Temple Grandin, professoressa associata della Colorado State University, una delle più importanti attiviste autistiche. 2 Interessi e comportamenti ripetitivi e stereotipati. 3 https://edition.cnn.com/2017/03/21/health/autism-injury-deaths-study/index.html
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MEGA UTILE di Gemma Berti, Allegra Niccoli, Elena Casati, Giulia Bolognese e Maria Vittoria D’Annunzio Vi state chiedendo a cosa serva ciò che studiate e ancora non siete riusciti a darvi una risposta? Non sapete quale università scegliere? Non vi preoccupate! Siamo cinque ragazze pronte ad aiutarvi! Ogni mese intervistiamo degli studenti universitari, che, con le loro risposte, potranno aiutarvi a porre fine ai vostri interrogativi. Per questo mese abbiamo intervistato Libero Enrico Gori, un ragazzo di 21 anni che ha frequentato il Liceo Classico Dante. “Ciao Libero, che cosa fai adesso nella vita?” “Ciao, attualmente frequento la facoltà di Ingegneria Meccanica a Firenze, dove ricopro la carica di Rappresentante d’Ingegneria, che consiste nell’aiutare le matricole universitarie ad ambientarsi e, precedentemente, ho realizzato un podcast. In tempo di lockdown, ho voluto creare un luogo di ritrovo per gli studenti di diverse facoltà, a cui facevo interviste con lo scopo di parlare di attualità e di superare gli stereotipi relativi ad ogni campo di studio.” “Hai avuto difficoltà a scegliere l’Università? Perché l’hai scelta?” “Tutto sommato direi di no, perché è stato tutto abbastanza veloce! Prima di iniziare il Liceo, non avevo le idee chiare su cosa avrei voluto fare nella vita: infatti, pur avendo fatto un Liceo Classico, adesso mi trovo in una Facoltà scientifica! Inizialmente, addirittura, avevo intenzione di fare Architettura, vista la mia passione per la Storia dell’Arte, ma mi sono ricreduto in seguito a dei colloqui fatti con professionisti di Ingegneria. Non è stata una scelta su cui ho riflettuto per anni però, adesso, sono molto contento di ciò che studio.”
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“Come ti sei trovato al Liceo?” “Sono stati 5 anni divertentissimi! Non sono mai stato uno studente modello, ma ho cercato di godermi l’ambiente scolastico e tutta l’esperienza al massimo: non solo le lezioni stesse, anche le gite, i progetti extra-scolastici, i corsi extra-curriculari, i tornei di calcetto…” “Cosa ti ha lasciato il Liceo?” “Se potessi tornare indietro, rifarei il Dante esattamente come l’ho fatto, rivivrei le stesse gioie e gli stessi dolori. Una cosa che sicuramente mi ha lasciato è un metodo di studio organico che mi permette di vivere l’Università meglio rispetto ai miei compagni che, invece, non sono abituati a studiare con continuità. Anche i miei professori universitari sostengono che gli studenti che hanno frequentato il Liceo Classico abbiano una maggiore facilità di memorizzazione rispetto agli altri. Dal punto di vista delle amicizie invece, le ho mantenute tutte e sono rimasto, in generale, molto legato e affezionato al Dante, tanto che continuo ancora a frequentare Piazza della Vittoria e il bar da Frank!” “Che consiglio daresti ai ragazzi che devono scegliere quest’anno l’Università?” “Sicuramente, consiglio, prima di scegliere l’Università, di confrontarsi con professionisti o studenti universitari che hanno esperienza: io, ad esempio, sono disponibile per qualsiasi richiesta! Inoltre, suggerisco di non affidarsi troppo alle materie in cui si è più bravi alle scuole superiori: non sono mai stato una “cima” in Matematica ma, adesso, trovandomi in un altro ambiente, non ho alcun tipo di difficoltà nell’affrontarla. L’importante, secondo me, è seguire le proprie passioni. L’Università è un’occasione per ricominciare da zero!”
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LA TECNICA DI CARLA ACCARDI di Silvia Monno, Erica Settesoldi, Caterina Megli, Fabiola Mannucci, Gregorio Bitossi e Viola Fanfani Carla Accardi, come abbiamo già visto nella sezione “Donne nella Storia” del numero di Marzo de I’Giornalino, è stata un'artista italiana, una delle più influenti ed originali del dopoguerra. Nel 1947 insieme ad altri artisti, quali Dorazio e Sanfilippo, fondò il gruppo di ispirazione marxista e formalista "Forma 1". Nelle opere di Carla Accardi evince una particolare ricerca per l'automatismo segnico, che consiste nel riprodurre segni liberi su grandi tele, ponendo attenzione al significato e alle emozioni che i vari colori, accostati tra loro, suscitano nello spettatore. Accardi dimostra un'estrema abilità nel riuscire ad abbandonare i tradizionali temi del realismo e figurativismo, dedicandosi quasi completamente all'arte astratta, al tempo ritenuta "troppo difficile da comprendere". Ispirandosi ai quadri più celebri dell'artista, abbiamo provato a proporre la nostra idea di astrattismo, producendo dei quadri, realizzati su tele di grandezza 50x70 cm, realizzati con la tecnica dell'acrilico. Per prima cosa sono stati realizzati degli schizzi, ed ognuno di noi ha scelto il segno da lui preferito. La parte del disegno prescelta è stata poi ricalcata, per conferirle un'immagine più definita e gradevole alla vista. Successivamente sono state realizzate con la tecnica della matita, sul cartoncino bristol bianco, varie prove colore; la più adatta è stata infine riportata in scala sulla tela. 14
S!ria di parole di Sarrie Patozi e Marta Suppa La lingua italiana possiede un numero enorme di vocaboli di cui quotidianamente facciamo esperienza. Che sia per scrivere, che sia per parlare l’uomo deve necessariamente usufruirne. Eppure, non sempre siamo a conoscenza dell’origine e dell’etimologia dei termini che gradualmente sono entrati a far parte del nostro lessico. In questo articolo andremo ad analizzare alcuni dei saluti italiani, così comuni ma al tempo stesso poco conosciuti: ciao, ehi, salve e buongiorno. Ciao: è un termine veneziano entrato nella lingua italiana solo nel corso del Novecento. Deriva da s'ciao, dal tardo latino sclavus, traducibile come "(sono suo/vostro) schiavo". Si trattava di un saluto reverenziale, attestato anche nelle commedie di Carlo Goldoni. Ne La Locandiera, ad esempio, si può leggere del Cavaliere di Ripafratta che si congeda dalla scena con “amici, vi sono schiavo”.In seguito, a partire dall'Ottocento s’ciao si diffuse come saluto informale in Lombardia: qui subì quella mutazione fonetica che lo portò ad assumere la forma che oggi conosciamo, ciao. Sarà poi questa forma a diffondersi per tutta la penisola. Cominciò poi a penetrare anche nella lingua italiana, tanto che nel Dizionario della lingua italiana Tommaseo scriveva che persino i Fiorentini incominciassero ad utilizzare tale formula.Se si fa attenzione si può addirittura notare che il ciao coesiste con altre forme marcate diastraticamente: ciau, cià, cià-ciao. Ehi: è un’esclamazione ripresa direttamente dall’inglese “hey”. Talvolta scritto in modo erroneo senza “h” (“ei”), che invece non si può omettere. Originariamente era usata per attirare l’attenzione di qualcuno in tono di confidenziale saluto ma anche in modo poco educato, ora è diventato un saluto comune tra i giovani. Lo si usa sovente anche per rispondere al saluto di una persona familiare e con la quale, ad ogni modo, si ha un rapporto stretto. Può essere rafforzato in ehilà. Buongiorno: è un saluto composto da “buon” e “giorno”. I termini hanno un'etimologia latina: “giorno” deriva dal tardo latino diŭrnum, dall’aggettivo diurnus, derivato di dies. “Buono” deriva dal latino “bonus”. Questa è una formula di saluto più formale di ciao. Può essere utilizzata all’inizio di un’interazione comunicativa, e talvolta si riscontra nelle formule miste come “ciao, buongiorno”. Questo termine si usa come saluto augurale al mattino o prima che sopraggiunga la sera: infatti, il momento della giornata in cui si passa da buongiorno a buonasera varia in senso diatopico. In Toscana, per esempio, ci si saluta con buonasera già dal primo pomeriggio, in Sardegna la buonasera si dà dopo aver consumato il pranzo, indipendentemente dall’ora. Un termine affine a quello sopra descritto è buondì che dovrebbe però essere rivolto a interlocutori coi quali si ha almeno un minimo di confidenza. Salve: deriva dal verbo latino salvere che vuol dire “essere in salute”. Traducendo letteralmente questo saluto dal latino, potremmo usare una formula come “salute a te”. Era spesso associata a vale, “addio” nella formula di commiato vale atque salve, “addio e stai bene”, mentre già nell'italiano rinascimentale si documentano casi che testimoniano la divisione delle due formule. Nel tempo la formula si è cristallizzata e il suo significato, quello di saluto, non contiene in sé alcuna formula di buon augurio, perdendo di fatto il legame etimologico. Lo si usa in qualsiasi momento del giorno, in apertura o in chiusura di conversazione. 15
“NON È MAI STATO COSÌ FACILE STUDIARE IN UNA TOP UNIVERSITY” di Giulia Agresti e Margherita Arena Edusogno è una startup che aiuta gli studenti nell’orientamento e nel processo per entrare nelle più prestigiose università al mondo grazie a studenti ed ex studenti provenienti dalle migliori top universities. Il fondatore è Domenico, con cui abbiamo avuto il piacere di parlare, il quale è stato inserito da Forbes nella lista dei 100 under 30 più influenti d'Italia nel 2020; attualmente sta svolgendo un dottorato di ricerca all’Università di Oxford. Il suo percorso di studi è iniziato al Politecnico di Bari per poi trascorrere quasi un anno negli Stati Uniti frequentando il Massachusetts Institute of Technology e Harvard University, inoltre ha ottenuto un Master of Research all’Università di Cambridge e un Master of Science all’ETH Zürich. Come è nata l’idea di Edusogno? In realtà devo dire che è nata abbastanza a caso: nel 2019 mentre studiavo a Cambridge avevo la sensazione che mancassero informazioni soprattutto in Italia riguardo a queste tematiche, cioè come si faccia a studiare all’estero e a studiare in un’università prestigiosa. Me ne sono accorto proprio dalla mia esperienza personale: ogni volta che venivo in Italia passavo più tempo a spiegare ad amici e conoscenti come funzionasse l’università all’esterno di quanto ne passassi ad andare in giro spensierato. Ho pensato dunque di mettere su una startup che si occupasse di divulgare informazioni così da dare una strada ai ragazzi che magari non sanno bene quale direzione prendere. Sempre nel 2019 abbiamo creato questa piattaforma sui social e c’è stata una forte risposta da parte del pubblico. Il progetto è cresciuto, così abbiamo anche iniziato a prendere un po’ di ragazzi nel nostro team: ora siamo sei membri fissi e una ventina di tutor che ci aiutano con le lezioni, con il supporto degli studenti. Nel futuro continueremo a crescere, o almeno spero. 16
Hai studiato a Cambridge. Hai sempre voluto frequentare una Top University? No, da piccolo non sapevo neanche fosse possibile andare a studiare all’estero, è una cosa che ho scoperto dopo. Infatti dopo aver frequentato un normalissimo liceo scientifico statale ho studiato alla triennale di Bari, la mia città d’origine, e all’epoca appunto non ero nemmeno a conoscenza delle opzioni delle università estere. Quindi no, sicuramente non è un sogno che mi porto dietro da sempre. Università di Cambridge Hai mai avuto dei ripensamenti? Io sono una persona che si scoccia abbastanza presto delle cose in generale, quindi se sto più di un tot di anni o mesi nello stesso posto mi stanco. Dopo aver passato gran parte della mia vita a Bari non ce la facevo più, nonostante la città mi piaccia tantissimo e tutti i miei amici siano a Bari. Sono sempre contentissimo di tornarci, però credo che dopo essermene andato ho imparato anche ad apprezzare le cose che avevo prima e a cui non facevo caso. Quando vivi sempre nello stesso posto vedi solo le cose negative, mentre in Inghilterra ad esempio mi è mancato moltissimo il risotto con patate e cozze. Alcuni degli studenti del nostro liceo sono interessati a fare la domanda di ammissione a una Top University. Secondo te qual è la prima cosa da aver presente prima di intraprendere questo percorso? Secondo me la prima cosa da tenere presente sono le date: per quanto uno possa essere bravo non può fare la domanda di ammissione se non rispetta la scadenza, ovvero entro quando va inviata la candidatura. Dopo aver capito la data da tenere in considerazione devi iniziare a lavorare con la prospettiva di capire quanto tempo ti serve per preparare il test di ingresso, il personal statement, i documenti e quanto altro. Serve una buona pianificazione (che se vogliamo è anche l’aspetto più facile), per cui è necessario avere la testa sulle spalle. Dopodiché c’è la costruzione di un curriculum in cui inserire le proprie competenze. Andare a studiare al MIT non è la stessa cosa di andare al Politecnico di Milano: c’è una richiesta molto più alta e ci sono molti più concorrenti, perciò entrare è molto più difficile. Nelle top universities inoltre oltre al voto contano anche le esperienze extracurricolari che uno ha fatto. Qual è secondo te la maggiore differenza tra un’università italiana e una estera? Questa è una bella domanda. Innanzitutto i soldi. Questa sicuramente è una differenza enorme: si parla di endownment, cioè di patrimonio dell’università, ad esempio Stanford ha un endowment di 15 miliardi di dollari. Ovviamente questo patrimonio dà un margine di manovra estremamente ampio: se uno studente del MIT deve comprare una high speed camera (una telecamera per fare riprese ad alta frequenza che costa 60-80 mila dollari) per svolgere un esperimento lo può fare senza troppi problemi. Ricordo che quando studiavo al MIT vidi due signori entrare con un trolley - erano vestiti con giacca e cravatta e sembravano usciti fuori da 17
Man in Black - aprire un trolley con dentro un apparecchio che costa intorno ai 100 mila dollari: un’università che ha un budget molta alto schiocca le dita e compra quello che vuole. Nelle università italiane per fare una cosa del genere devi andare a pregare il rettore, il quale dice di no perché quei soldi magari servono per riparare il parcheggio. Quindi sicuramente è come prima cosa una questione di soldi. Poi c’è un discorso di attrazione del capitale umano, ovvero il MIT ha la fila dei giovani più brillanti della terra che vogliono laurearsi lì perché sanno che troveranno l’environment giusto: tutte le persone che stanno lì sono di altissimo livello, tanto che i ragazzi sono estremamente stimolati. Ripeto, io ho fatto la triennale a Bari, università in cui mi sono trovato benissimo, ma il tipo di tessuto sociale è completamente diverso. Secondo te la Brexit influenzerà o ha influenzato le domande di ammissione o comunque la capacità per uno studente europeo di entrare? Sicuramente c’è stato un impatto fortissimo che non so fino a quando durerà. Forse in futuro le università riusciranno ad abbassare i prezzi, ma dubito che torneranno ai livelli europei di prima. L’Inghilterra continua ad essere la meta di studenti da tutto il mondo e prima noi Europei eravamo gli unici a pagare tasse più basse. Infatti il rate europeo era uguale a quello inglese, diverso invece dal rate overseas, che aumenta del 200-225%. Tutti i paesi fuori dall’UE già pagavano il rate overseas, quindi non credo ci sarà un grande calo di domande di ammissione. Non so come la situazione si svilupperà in futuro: potrebbero esserci comunque degli aggiornamenti e magari il prezzo non rimarrà così alto ad oltranza. Secondo te è conveniente frequentare una top university all’estero se una persona ha intenzione di lavorare in Italia? A mio avviso è un’esperienza di arricchimento culturale che prescinde da tutto, per esempio Mario Draghi ha fatto il PHD al MIT e adesso lavorerà in Italia. È chiaro che per un ragazzo che vuole andare a lavorare all’estero, o negli Stati Uniti, diventa un po’ un must perseguire un titolo di studi in altri paesi. Anche a me per esempio piacerebbe tornare in un futuro in Italia, sono un fan del lifestyle italiano, ma non ti toglie nulla studiare in un altro paese, anzi amplia i tuoi orizzonti. Io se fossi americano andrei sicuramente a studiare o a fare un master in Europa. Secondo me è una cosa che prescinde anche dalla qualità dell’università - ovviamente è meglio se si tratta di una top university - ma è un’esperienza incredibile. Uno dei punti più complicati, almeno per gli Italiani, per entrare nelle top university è la lingua. Quali sono i tuoi consigli per arrivare ad un livello alto di Inglese? La cosa importante da sapere è che per andare a studiare all’estero non si deve avere un livello chissà quanto alto di Inglese: serve il C1. Io faccio sempre questo esempio: è un po’ come quando prendi la patente B: la patente la prendi, Università di Oxford 18
prendi la patente B: la patente la prendi, ma sei scarsissimo a guidare, stai tutto sulla destra, becchi tutti gli specchietti e ti servono cinquanta manovre per parcheggiare. Ecco quello è il C1, fai ancora errori di grammatica e non ti vengono le parole, però riesci a sopravvivere. Quindi prendere il C1 non è così difficile: ovviamente bisogna applicarsi e studiare per l’esame, però è fattibilissimo a mio avviso. Tutti i ragazzi del liceo potrebbero prendere il C1 se a scuola si facesse più conversazione, però nella scuola italiana si fa “solo” letteratura e questo non aiuta. La preparazione di uno studente liceale italiano è adeguata per poi continuare gli studi in una top university? Secondo me sì, anzi i ragazzi italiani sono molto introspettivi, studiano molte materie classiche, come lingue classiche o filosofia, che comunque ci aiutano molto, materie che negli Stati Uniti sono inimmaginabili (forse un alunno può decidere di fare storia un anno, a piacere, e studia il Boston Tea Party e poco altro, ma non sanno niente di storia e filosofia è un elective). Sicuramente a livello di background umanistico noi siamo molto più preparati della media. A livello di hard skills, come matematica, invece no, e siamo particolarmente scarsi in computer science. Quindi per i ragazzi che vogliono fare STEM, come me (io sono un ingegnere aerospaziale, sto facendo un dottorato di ricerca in questo campo) è un po’ più complicato. Alla fine però sono tutte cose che si possono recuperare e studiare da soli: diciamo che la scuola è un po’ una scusa, ora con internet scrivendo “come programmare in Python” si trovano già molti corsi. Quali sono i requisiti fondamentali per riuscire ad entrare in una top university?Dipende da cosa si vuole studiare e cosa interessa. Per esempio se si vuole fare international relations forse è importante fare volontariato, se invece vuoi fare aerospace engineering è più importante fare le Olimpiadi di Matematica. In linea di massima un buon insieme di skills tecniche, ovvero essere bravi nelle materie che poi ti serviranno nel campo di studi, e di attività extracurricolari, che possono essere sport, volontariato, attivismo politico, associazionismo, la partecipazione a summer schools e qualsiasi cosa che arricchisce il curriculum. È chiaro che all’interno di ciascuna di queste cose che ho detto ci sono vari livelli: tra un ragazzo che fa volontariato nella parrocchia dietro casa, con tutto il rispetto, e uno che diventa, dico una cosa a caso, responsabile under 18 del WWF, è ovvio che l’ultimo abbia più rilievo. Ci sono aspetti negativi nello studiare all’estero? Sì, in generale vivere all’estero non è che sia una passeggiata di salute, nel senso che stai uscendo dalla tua zona comfort: 9 su 10 ti trovi in un posto in cui fa freddo, si mangia male e alla gente non importa delle persone che la circondano. Ci sono tantissime cose che sono difficili da superare, però ho anche questa sensazione: se sono troppo tranquillo o rilassato vuol dire che sto sbagliando qualcosa; se sei troppo nella tua zona comfort, nel tepore del letto di casa tua, vuol dire che non stai crescendo. Per crescere bisogna comunque trovarsi in una situazione in cui ci sia un po' di pepe, senza sapere con certezza che cosa succederà, così da sperimentare qualcosa di nuovo e poter dire proprio: “sto crescendo”. Grazie mille! Alla prossima! 19
L’ELICOTTERO INGENUITY HA COMPLETATO CON SUCCESSO IL SECONDO VOLO SU MARTE di Margherita Arena Il 22 Aprile 2021 o il 18esimo sol (giorno marziano) l’elicottero Ingenuity ha completato con successo il suo secondo volo. Ingenuity è il primo aeromobile motorizzato che l’umanità abbia mai mandato su un altro pianeta per cercare di riuscire nel volo controllato. Se il programma di sperimentazione di volo avrà successo i dati raccolti (come la visione dall’alto) saranno molto utili per le future esplorazioni di Marte. L’elicottero è arrivato sul pianeta attaccato al corpo del rover Perseverance, però si
tratta di un esperimento tecnologico separato dalla missione della NASA Mars 2020. Prima di passare ai dettagli tecnici, una curiosità molto interessante è il fatto che, sotto ai pannelli solari, è stato inserito anche un frammento dell’ala del Flyer I, ovvero l’aeroplano con cui i fratelli Wright hanno affrontato il loro primo volo sulla Terra. L’elicottero è stato costruito dagli scienziati del JPL (Jet Propulsion Laboratory) ovvero un centro di ricerca e sviluppo a finanziamento federale e centro della NASA, ma gestito dal California Institute of Technology.
Foto da: NASA/JPL-Caltech/ASU/MSSS 20
Foto da: NASA/JPL-Caltech
rispetto al primo (39.1s), ma non solo, è stato aumentato anche il massimo di altitudine e sono stati aggiunti dei movimenti laterali. Infatti Ingenuity ha raggiunto i 5 metri di altezza e eseguito una piccola inclinazione di 5 gradi, che può sembrare semplice, ma come dice il pilota di Ingenuity al JPL, Håvard Grip: “Ci sono ancora molte cose sconosciute riguardanti il come far volare un elicottero su Marte. Ma noi siamo qui proprio per questo: per rendere queste cose sconosciute, conosciute”.
Ingenuity si sta scontrando con numerose Note: difficoltà: prima di tutto la temperatura, Il 25 Aprile 2021 è stato compiuto con infatti le notti sul Pianeta Rosso sono molto successo il terzo volo, arrivando a percorre fredde, circa -90 gradi Celsius. Un’altro una distanza parallela al suolo di 50 metri e scoglio da superare è stato quello della ritorno al punto di partenza. atmosfera, molto rarefatta, infatti ha circa Il 29 Aprile 2021 avrebbe dovuto avere l’1% della densità di quella terrestre; per luogo il quarto volo, molto più ambizioso questo l’elicottero è stato progettato per rispetto ai precedenti, ma Ingenuity non è essere molto leggero, e con eliche molto più decollato, però la Nasa informa che ampie e veloci rispetto agli elicotteri che riproveranno al più presto. siamo abituati a vedere. Comunque c’è da dire che la gravità di Marte aiuta dato che è circa 1/3 di quella del nostro pianeta. Il programma è composto da 5 test di volo prima di 30 giorni marziani (31 terrestri). Sono stati appunto già compiuti con successo due voli, il primo si è tenuto il 19 Aprile ed il secondo il 22 Aprile appunto. Quest’ultimo volo è durato 51.9 Foto da: NASA/JPL-Caltech secondi, di più 21
L’ANGOLO DELLO SPORT
La Superlega di Niccolò Bettini, Filippo Bellocchi e Filippo Del Corona
COS'E'? La Superlega è una competizione per club alternativa alla Champions League che riunisce le migliori squadre europee in una sorta di campionato di super élite. Questo è un progetto al quale da diverso tempo stavano lavorando alcuni dei più influenti presidenti del calcio continentale, guidati da Florentino Perez, presidente del Real Madrid. I club fondatori sono 12: tre italiani partecipanti (Juventus, Inter e Milan), insieme a Manchester United, Manchester City, Liverpool, Chelsea, Tottenham, Arsenal, Real e Atletico Madrid, Barcellona e tre da definire. La particolarità della Superlega, oltre a quella di essere una competizione per super club europei, è che vengono divisi tra le squadre ben 10 miliardi di euro (circa 490 milioni di euro a testa). COME FUNZIONA? La Superlega prevede 15 squadre partecipanti "standard" e 5 scelte stagione per stagione secondo parametri ancora da definire. Queste 20 squadre verranno divise in due gironi da dieci in cui i team si affronteranno ed i primi tre vincitori verranno selezionati per andare subito alla fase ad eliminazione diretta, mentre i quarti e quinti team si affronteranno per spareggio in dei playoff; le squadre che si sfidano ai quarti di finale saranno selezionate dalla classifica dei due gironi, invece le seconde fronteggeranno le terze. Così facendo, la Superlega assicura alle squadre in gioco un totale di 16 partite garantite e 23 se si va in finale: per fare un paragone, la Champions League garantisce 6 partite di base e 13 in finale, e tutte queste verranno disputate infrasettimanalmente ad eccezione della finale.
Foto da: https://www.informazioneconsapevole.com/2021/04/superlega-lasse-franco-tedesco-ha.html?m=1 22
COME SI SONO ESPRESSI I GRANDI DEL CALCIO? Lo scandalo della Superlega ha acceso gli animi di tutti i tifosi amanti di questo sport che, in questo modo, rischia di cambiare e di diventare uno strumento, una “grande multinazionale genera soldi”. Ma al fianco dei tifosi si sono schierati club, allenatori, dirigenti e perfino gli stessi giocatori, partecipanti e non, alla superlega. Vediamo il loro pensiero insieme. Uno dei primi ad esprimersi a riguardo è stato Gary Neville, leggenda del Manchester United che, durante un'intervista prima che la superlega venisse ufficializzata, ha detto: «Superlega? Sono disgustato, in particolare dal mio United e dal Liverpool. Voglio dire, il Liverpool è il club del “You'll never walk alone". Quello che stiamo vedendo è semplicemente avarizia, nient'altro. Se annunciano davvero questa cosa punite quei club, togliete punti, toglietegli i titoli che hanno vinto. Date la Premier league al Fulham o al Burnley. Fate retrocedere lo United, che ha tradito i suoi tifosi». A seguito dell'annuncio finale della superlega anche Aleksander Čeferin, presidente UEFA, ha espresso il suo pensiero, non molto sulla superlega in sé ma riferendosi ad Andrea Agnelli, presidente della Juventus, considerato uno dei padri di questo progetto: «Andrea Agnelli è la delusione più grande di tutte. Non ho mai visto una persona così falsa, e nel modo in cui lo ha fatto. Non sapevamo di avere un serpente velenoso così vicino a noi. Adesso lo sappiamo». Vediamo le parole di un altro giocatore, stavolta partecipante alla superlega, il centrocampista del Real Madrid, Toni Kroos: «Noi calciatori siamo burattini della FIFA e della UEFA. Superlega? Fosse per noi non parteciperemmo. Anzi, sarebbe un buon momento per smettere di giocare». Infine ci spostiamo in Italia, stavolta con un allenatore, che tempo fa ha effettuato un vero e proprio miracolo col Leicester che, guidato dal mister Claudio Ranieri, dal fondo della classifica inglese è riuscito a riemergere vincendo il titolo: «Leggendo della Superlega la prima cosa che mi è venuta in mente è stata l'impresa del mio Leicester. Il bello del calcio è questo, dove il più piccolo può ambire, può competere con i grandi del calcio mondiale. E questo è lo spirito dello sport, l'essenza del calcio. La Superlega è sbagliata. Forse la stanno facendo proprio per coprire tutti i debiti che hanno? Non è giusto, non è calcio. Io mi auguro solo che FIFA e UEFA abbiano gli strumenti idonei per lottare contro questo grosso gigante, e che abbiano soprattutto la volontà di farlo». COM'È ANDATA A FINIRE? A causa di tutti gli schieramenti contrari al progetto e la passione che le persone provano per questo sport la Superlega inizia a sgretolarsi. Prima i club inglesi si dichiarano non partecipanti e club come l'Arsenal si sono scusati coi tifosi, poi succede lo stesso con Inter e Milan. Nel giro di 48 ore la Superlega è passata da essere la rivoluzione che avrebbe dovuto stravolgere il calcio europeo a un progetto naufragato ancora prima di cominciare. Molti sostengono che ancora non sia del tutto crollata, ma, come dice Florentino Perez, la superlega è momentaneamente sospesa. 23
GIRAMONDO 2.0
LISBONA di Giorgia Berrettini
Lisbona non è una città moderna e neppure antica; se cerchi e sai dove andare trovi siti archeologici fenici, greci e romani, ma non è certo questo che la caratterizza. Lisbona è una città vecchia, un saliscendi verso l’Oceano, con tanti luoghi mozzafiato; sulle strade e sui vicoli dei suoi quartieri principali si affacciano case tutte segnate dal tempo. La Baixa è il quartiere più commerciale dove si può passeggiare e fare acquisti nei tanti negozi. Il suo cuore è la Cattedrale, la Sé de Lisboa in portoghese, simile ad una fortezza, sorge dove prima vi era una Moschea. La città infatti fu dominata per molti secoli dai Mori provenienti dal Nord Africa. Solo dopo il 1200 i Crociati la liberarono e nei secoli successivi Lisbona dovette la sua fortuna al porto naturale che fu punto di arrivo e di partenza delle grandi spedizioni lungo la via delle Indie. Praça do Comércio, sulla riva del Rio Tejo, è uno dei luoghi più frequentati della città dove si sono svolti gli eventi politici più importanti per il Portogallo. Prendendo il Tram 28 - un tram d’epoca che segue un percorso straordinario che tocca i luoghi di maggiore interesse - tra salite e discese si arriva al quartiere Alfama, il più antico della città; qui è ancora possibile trovare piccoli locali dove ascoltare il Fado, una musica malinconica suonata con la chitarra portoghese che accompagna struggenti canzoni. Quando arriva la sera i suoi vicoli si illuminano con tante lanterne che creano un'atmosfera davvero unica. Ancora salendo si arriva al Bairro Alto il quartiere residenziale con strade decorate da graffiti, molto tranquille durante il giorno, animate alla sera. Per vedere la città dall’alto si deve salire al Castello di San Giorgio, il monumento più conosciuto di Lisbona. È una fortezza militare circondata da un grande parco dove sono state piantate piante di ogni specie della foresta portoghese. Da Praça do Comercio con il Tram 15 si raggiunge Belem, il quartiere nel quale sorgono il Monastero dos Jeronimos e la Torre di Belem, i bellissimi monumenti in stile manuelino, il gotico portoghese. La parte più suggestiva del Monastero, dove è sepolto Vasco Da Gama, è il Chiostro; le sue ricche decorazioni ne fanno un luogo unico al mondo riconosciuto dall’Unesco come Patrimonio dell’Umanità. Poco distante si trova la Torre di Belem, eretta nel 1515, simbolo del periodo delle scoperte, ricorda proprio un enorme pezzo degli scacchi. Camminando lungo le vie di Lisbona vi imbatterete negli Azulejus, le piastrelle di ceramica dal caratteristico colore blu dipinte a mano con una tecnica introdotta dagli arabi che i portoghesi hanno tramandato nei secoli. Non lasciate Lisbona senza passare alla Pastéis de Belèm dove potrete gustare il buonissimo Pastèl de Nata il tipico dolce portoghese dal ripieno di crema.
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ESPLORANDO L’ITALIA
CASTELROTTO di Sofia Vadalà Castelrotto, originariamente in latino Castelruptum, è un paesino in provincia di Bolzano che conta circa 6868 abitanti e la particolarità del suo territorio è quella di essere all’interno del parco naturale dello Sciliar. Nuovo paesino implica una nuova cultura, infatti gli abitanti di Castelrotto sono soliti rappresentare ogni inverno un “matrimonio contadino” (Bauernhochzeit) : usanza ripresa dal passato proprio perché allora le nozze si svolgevano d’inverno quando i contadini non erano impegnati nel lavoro; durante questa festa le donne si dividono in nubili, e portano un cappello luccicante e adornato con foglie dorate, e quelle che semplicemente indossano un copricapo di lana. In questa usanza vengono coinvolte delle coppie, le quali dovranno sedersi su delle slitte trainate dai cavalli. Per quanto riguarda i luoghi da visitare possiamo cominciare dalla Chiesa parrocchiale di Castelrotto: un edificio molto antico risalente addirittura ai primi secoli del Medioevo in stile neoclassico. Un altro luogo d’interesse è il Campanile costruito in stile Barocco: conta 88 metri di altezza ed è il simbolo del paese. Una domanda che però può s o r g e r e spontanea è: perché andare in vacanza a Castelrotto? È una località perfetta per
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Resoconti di Margherita Arena e Marianna Carniani
Incontro 8/04/2021 Giovedì 8 Aprile abbiamo avuto il piacere di parlare con Fiorenzo Forcuiti dell’A.T.A.B.S. (Associazione Toscana Amatori Bonsai e Suiseki). La parola bonsai è giapponese (盆栽) e significa “pianta coltivata in un vaso piatto”. Il bonsai è un esercizio spirituale e la pianta è il simbolo vivente dell’anima della persona che lo ha curato, unendo uomo, natura e Dio. Non abbiamo una datazione precisa, ma probabilmente nacque in Cina con il nome di Pun-sai o Penjing. Il Suiseki, dal giapponese すいせき o ⽔⽯ "pietra lavorata dall’acqua”, è l’arte di disporre pietre trovate in natura e aventi un aspetto gradevole in modo da favorire la meditazione. Uno dei concetti fondamentali è quello della natura come shinzen, ovvero il tutto che si manifesta nel mondo. Quindi la natura è “ciò che è così da se stessa” e per questo non si deve vedere la mano dell’uomo: i bonsai non sono averi privati, anzi, l’autore si augura che possano vivere molto di più rispetto a lui stesso e quindi che vengano trattati bene dai loro futuri “proprietari”. Nella seconda parte abbiamo parlarto con Chiara Grasso e Christian Lenzi, fondatori dell’Associazione ETICOSCIENZA. Ci hanno spiegato come debbano essere trattati gli animali selvatici, e i molti problemi legati agli allevamenti, al contrabbando e al turismo. Molto spesso infatti per incrementare quest’ultimo vengono pubblicizzati dei santuari, creati solo per i turisti. 26
Incontro 15/04/2021 All’interno di questa puntata abbiamo ospitato la professoressa Valeria Saura, responsabile dell’ufficio scuola dell’Accademia della Crusca che ci ha parlato della storia di alcune parole per meglio comprenderne il significato. All’interno del mondo delle parole, la professoressa ci ha spiegato come la nostra lingua sia caratterizzata da un nucleo antico che risale al ‘300 e da novità novecentesche legate alla modernità, a l'intensificarsi dei rapporti interlinguistici, alle scoperte tecnologiche e all’informatica. Il nocciolo del nostro apparato lessicale è la parte più antica della nostra lingua e alla fine del ‘300 il vocabolario italiano era già praticamente completo. È quindi molto importante riflettere sulla storia delle parole e sulla necessità di adattarle in modo appropriato alle differenti situazioni. In ogni parola è scritta una storia e dietro ad ogni parola c’è un mondo, quindi, per prima cosa, è giusto riflettere sull’etimologia delle parole, ricostruendo le modalità con cui queste parole sono entrate a far parte della nostra lingua e riflettendo sui cambiamenti che nel corso dei secoli hanno subito per arrivare fino a noi, perché la lingua è qualcosa in movimento. La professoressa ci ha poi spiegato come oltre all’etimologia delle parole, sia utile scoprire i geosinonimi ossia le parole che sono identiche nel significato ma diverse nella grafia a seconda delle regioni in cui si usano. Riguardo alle parole è inoltre interessante scoprire se e quanto frequentemente vengono utilizzate all’estero. Abbiamo infine chiesto come e da chi venga deciso se aggiungere o meno una parola al dizionario; curiosamente, al contrario di quanto di solito si crede, non c’è nessuno che decide e la parola viene inserita quando inizia ad essere utilizzata, in particolar modo nei giornali. I vocabolari quindi registrano i neologismi quando questi entrano a far parte della vita quotidiana. Nella seconda parte del nostro incontro abbiamo ospitato la professoressa Silvia Mascalchi, direttrice dei servizi educativi della Galleria degli Uffizi, che ci ha parlato del tema dell’educazione al patrimonio, e della sua importanza per la cittadinanza attiva e consapevole. Nella nostra città abbiamo uno dei patrimoni artistici più ricchi al mondo ma non esiste una proporzionata educazione al medesimo, ossia una consapevolezza adeguata del patrimonio artistico. Il patrimonio artistico non è solo la pittura, la scultura, l’architettura, ma sono anche le tradizioni, le cerimonie, la musica, la letteratura, l’artigianato. Le attività legate all’educazione al patrimonio artistico partono con la conoscenza di certi luoghi e si distinguono in due filoni: le attività per famiglie, adatte anche a bambini molto piccoli, e le attività con le scuole. La professoressa ci ha poi parlato di come sono cambiate, in questo ultimo anno, le attività proposte dalla Galleria degli Uffizi a causa della pandemia, e ci ha spiegato come abbiano iniziato prima ad utilizzare il canale Facebook, e successivamente a proporre molti progetti in DAD che hanno coinvolto non solo studenti di tutta Italia ma anche stranieri. Al termine del nostro incontro, la prof.ssa Mascalchi ci ha invitato, appena sarà di nuovo possibile, a riappropriarci finalmente dei musei della nostra città, ad organizzare visite e passeggiate per poter nuovamente ammirare da vicino il nostro splendido patrimonio artistico.
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