La casa Russia, ovvero rivoluzione dell’abitare Federica Deo
Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Napoli Federico II
Con la Rivoluzione d’Ottobre ha avuto inizio, in Russia, un secolo di continue trasformazioni e ricerche sui temi dell’abitare. Ricerche le cui direzioni erano talvolta guidate e talaltra vincolate alla linea politica. Se infatti con le avanguardie, negli anni Venti e Trenta, si sperimentarono diverse forme di vita collettiva legate ai nuovi condensatori sociali – dalla kommunalka alla Casa del Popolo, dalla žilkombinat’ ai club operai –, sincera risposta dell’intelligencija architettonica al disegno leniniano, queste sperimentazioni furono poi parzialmente rinnegate nel periodo del terrore staliniano, quando si andò delineando l’architettura del Realismo socialista. Nella seconda metà del Novecento si continuarono a sperimentare nuove e ulteriori variazioni sul tema dell’abitazione collettiva, ricordate oggi proprio con i nomi di alcuni leader dell’Unione delle Repubbliche Socialiste e Sovietiche. Ne sono esempio la kruščovka e i grandi edifici Brežneviani, entrambi estremamente lontani dalle odierne direzioni di ricerca. Attraverso questo contributo ci proponiamo di rintracciare e analizzare la rappresentazione e la restituzione dello spazio nell’arte russo-sovietica dell’ultimo secolo, confrontandole con le direttive di cui precedentemente. La storia dell’arte e del cinema rendono possibile l’osservazione e l’identificazione di alcune questioni caratterizzanti l’evoluzione del discorso sull’abitare guardato dall’occhio estraneo ma critico del non addetto ai lavori. Queste fonti possono essere interrogate con duplice atteggiamento: da un lato di indagine documentaria, dall’altro attraverso la lettura socio-culturale a più ampio spettro, che ci fa riflettere sulle domande che animano la ricerca e sul contesto intellettuale di chi, architetto, designer o artista, risponde a tali questioni. Subito dopo la Rivoluzione, negli anni Venti la filmografia sperimentale e avanguardistica esibiva la nuova vita collettiva e partecipata dei bolscevichi, trasformata proprio attraverso le nuove macchine per abitare: quei collettori sociali progettati dai costruttivisti – club operai, case comuni, palazzi del lavoro – proprio mentre, nel pieno del primo piano quinquennale, il paese era in corsa per l’industrializzazione e l’elettrificazione. Osservata attraverso il filtro del dispositivo di Dziga Vertov (1896-1954), tra i maggiori protagonisti del cinema d’avanguardia, lo spazio dell’esistenza assume il ritmo frenetico dell’industria, e i luoghi appaiono organizzati intorno a queste nuove macchine (per abitare): è evidente quella volontà di internazionalizzazione, il tentativo dell’URSS di avvicinarsi all’Occidente e partecipare alle questioni poste in Europa dal Movimento Moderno. Contemporaneamente, infatti, Moisej Ginzburg (1892-1946) scriveva sulla necessità di proporzionare e misurare gli spazi dell’abitazione “in rapporto all’uomo”, subito dopo aver affermato che, nel cercare di rispondere al problema dello spazio, bisogna tener conto di «estensione, altezza, forma dei volumi dello spazio di ingombro, l’illuminazione, le dimensioni e il carattere dell’illuminazione, il colore e il trattamento di tutte le superfici che delimitano lo spazio»1. E non è un caso che il ponte che legava ormai da un decennio il paese dei soviet con la Germania portò un bauhauser, Hinnerk Scheper (1897-1957), a collaborare al progetto del colore degli interni dell’edificio-icona costruttivista: il Narkonfin. Nello stesso anno, 1927, Nikolaj Ladovskij (1881-1941) tentò di conferire al suo laboratorio psico-analitico al Vchutein, atto a studiare le leggi percettive che regolano il rapporto tra uomo e spazio, una maggiore validità scientifica elaborando strumenti e dispositivi per la codifica di queste leggi2.
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