l’Unità Laburista - Fermare Ankara - Numero 16 del 11 ottobre 2019

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Numero 16 del 11 ottobre 2019

Fermare Ankara


Sommario

I dieci giorni di ottobre mai esistiti che sconvolsero il mondo - pag. 3 Giovan Giuseppe MENNELLA Climate Change/Global Warming: un’ipotesi di lavoro laburista - pag. 11 di René BURRI Come ti taglio il deputato - pag. 17 di Aldo AVALLONE Rojava, l’”aguzzino di Ankara” uccide e ricatta. Va fermato - pag. 20 di Umberto DE GIOVANNANGELI

Gravidanze a rischio - pag. 24 di Antonella BUCCINI

Il Piano Casa di Fanfani - pag. 27 di Giovan Giuseppe MENNELLA

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Storia

I dieci giorni di ottobre mai esistiti che sconvolsero il mondo Giovan Giuseppe MENNELLA

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Proprio in questi giorni di ottobre, dal 4 al 15 ma del 1582, si realizzò un sogno e un progetto di un personaggio piuttosto misterioso, poco conosciuto anche dagli scienziati, di cui si sa poco dai documenti, tanto che qualcuno ipotizza che non sia mai esistito. Stiamo parlando di Luigi Lilio, un medico, scienziato e astronomo calabrese, nato a Cirò nel 1510, come scritto in uno dei pochi documenti giunti fino a noi che lo riguardano. Si formò culturalmente nella stessa Cirò nel convento dei padri francescani. Come molti provinciali dell’Italia meridionale, a ventidue anni si trasferì a Napoli per studiare, probabilmente medicina, ma anche del suo soggiorno napoletano non si sa moltissimo, salvo che, per mantenersi agli studi per via delle scarse finanze del padre, fu costretto anche a lavorare come segretario presso la famiglia nobiliare dei Carafa, feudatari di Cirò. Poi si trasferì a Roma, probabilmente per perfezionarsi negli studi, ma di questo periodo romano non conosciamo davvero nulla, per via dell’assoluta mancanza di documenti. Invece esiste un documento successivo che attesta che fu lettore, cioè professore, di medicina all’Università di Perugia, dove probabilmente visse fino all’ultimo. Ma perché stiamo parlando proprio del misterioso, forse fantomatico e magari leggendario, Luigi Lilio? Perché fu l’ispiratore della riforma del vecchio calendario civile, istituito da Giulio Cesare nel 46 a. C., e che fu promulgata dal Papa Gregorio XIII. Infatti, oltre all’attività di medico era anche studioso di astronomia. In effetti, era da secoli che si avvertiva l’esigenza della riforma del calendario civile perché non era più in accordo con il calendario astronomico, tanto che ai giorni di Lilio l’equinozio di primavera, fissato dal calendario civile al 21 marzo, astronomicamente cadeva ormai al giorno 11 dello stesso mese. Perfino Dante Alighieri, nel XXVII Canto del Paradiso, accenna al problema dicendo che ormai il mese di 4


gennaio rischia di non corrispondere più alla stagione che gli compete. Il calendario civile giuliano era troppo lungo, nel senso che ogni anno aveva circa 12 minuti in più rispetto alla durata dell’anno astronomico, già peraltro difficile da calcolare perché il moto di rotazione della Terra intorno al Sole, o quello apparente del Sole intorno alla Terra come si credeva prima di Copernico e Galileo, non è costante ma varia nel tempo. Ovviamente, dall’epoca di Giulio Cesare alla metà del cinquecento quando si svolge la nostra vicenda, il vantaggio accumulato dal calendario civile su quello astronomico, minuto dopo minuto per secoli anzi per millenni, era diventato davvero grande, nell’ordine appunto di circa dieci giorni. L’esigenza di far coincidere i due calendari era ormai impellente, per ragioni pratiche e anche ideologiche, anzi teologiche. Per ragioni pratiche perché dal calendario civile dipendevano molte attività dell’uomo, in quel periodo soprattutto i lavori agricoli, come la semina, il raccolto, la potatura, la vendemmia, che non potevano essere troppo sfalsati rispetto al clima delle stagioni. Per ragioni ideologiche e teologiche, perché la Chiesa, fin dal Concilio di Nicea del 325 d.C., aveva legato all’equinozio di Primavera la sua festa più importante, cioè la Sacra Pasqua di Resurrezione del Signore Gesù Cristo che, secondo la liturgia adottata nel Concilio, era stata fissata alla prima domenica successiva alla quattordicesima luna dopo l’equinozio di Primavera. Quindi, si metteva a rischio l’esatta datazione della Pasqua, come prevista dalla liturgia cristiana adottata dal Concilio, fissata saldamente al calendario astronomico. Il problema era grave soprattutto in quel periodo storico, perché si era verificata da poco la scissione della Riforma protestante e prima ancora quella Valdese e i protestanti delle varie confessioni accusarono la Chiesa di Roma di essere giunta ad un 5


tale grado di corruzione e di lassismo che ormai anche la data della Santa Pasqua di Resurrezione non era più certa. Quindi, era ormai avvertita, soprattutto negli ambienti della curia papale, l’esigenza imprescindibile di mettere fine alla discrepanza di date tra il calendario civile e quello astronomico su cui era stabilita molta parte del calendario religioso della Chiesa cattolica di Roma e dei paesi rimasti cattolici dopo la Riforma. Tanto avvertita che nel 1574 il Pontefice Gregorio XIII, il bolognese Ugo Boncompagni, istituì presso il Vaticano una Commissione di studio per la fissazione della data esatta della Pasqua mediante la riforma del calendario, applicabile innanzitutto nei paesi di confessione cattolica, in risposta alle critiche provenienti dal mondo protestante. E qui torna di attualità il nostro scienziato Luigi Lilio, perché della Commissione faceva anche parte, unico rappresentante laico tra gli altri componenti tutti ecclesiastici, Antonio Lilio che altri non era se non il fratello del nostro Luigi il quale evidentemente portò in Commissione la proposta che Luigi era andato elaborando nei suoi studi astronomici. C’era il fratello e non Luigi perché quest’ultimo evidentemente era morto prima dell’insediamento della Commissione nel 1574. Fra gli altri, nella Commissione, c’erano anche il Presidente Cristoforo Clavio, tedesco, professore del Collegio Romano, Giuseppe Scala matematico siciliano e Ignazio Duranti medico perugino. Di proposte ne furono esaminate moltissime, basate sui più svariati principi e ragionamenti, ma fu accettata dalla Commissione proprio la proposta di Luigi Lilio perché molto semplice, comprensibile da tutti, soprattutto dai contadini e dai preti, le due categorie che più avrebbero dovuto gestirne le conseguenze, gli uni nei lavori agricoli, gli altri nella liturgia. La soluzione era di eliminare innanzitutto dieci giorni dal calendario civile per sin6


cronizzarlo a quello astronomico e poi, per aggiustare nel tempo le ulteriori discrepanze causate dalla variabilità della rotazione della Terra intorno al Sole, eliminarne altri tre ogni quattrocento anni. Si basò anche sul libro di Copernico De rivolutionibus orbium coelestium libri sex. Il meccanismo per eliminare questi ulteriori tre giorni è interessante e cioè consiste nel non considerare bisestili gli anni secolari 1700, 1800 e 1900 e invece di considerare bisestili solo gli anni secolari 1600, 2000 e 2400. Così il nostro anno 2000, che abbiamo vissuto da non molto, ha avuto una doppia caratterizzazione speciale, quella di essere stato l’anno del passaggio da un millennio all’altro e l’unico anno secolare considerato bisestile dal 1600 al 2400. La riforma fu deliberata e promulgata con la bolla papale “Inter gravissimas” del 24 febbraio 1582 decidendo di eliminare i dieci giorni dal 4 ottobre al 15 ottobre di quello stesso anno. Sulla ragione per la quale furono colpiti proprio quei dieci giorni e non altri, ci sono due teorie. Dal 5 al 15 ottobre non c’erano festività religiose significative e si lasciava in vita il giorno 4 per poi tagliare gli altri dieci fino al 15. Secondo alcuni il giorno 4 si lasciava in vita per festeggiare San Francesco, secondo altri, più maliziosi, perché era il giorno di San Petronio, patrono di quella Bologna di cui era originario Gregorio XIII. E così il nuovo calendario passò alla storia come gregoriano, dal nome del Papa che lo aveva promulgato, anche se tutto il lavoro era stato fatto, prima di morire, dal nostro astronomo calabrese, sconosciuto, misterioso e, secondo alcuni, mitico perché mai esistito. Il nuovo calendario fu oggetto di critiche feroci nei paesi protestanti e di lodi sperticate nei paesi cattolici, tutte o quasi piuttosto fantasiose e strampalate. Una difesa sostenuta da serie argomentazioni scientifiche va citata, e fu quella del gesuita scienziato tedesco Christopher Clavius, Cristoforo Clavio, già Presidente della 7


Commissione, che lo difese a spada tratta su basi scientifiche e che anzi diede un contributo non secondario alla stessa confezione del calendario, in quanto fu lui a scartare l’ipotesi di adottare il cosiddetto anno siderale, considerato troppo complicato, e a far propendere per l’eliminazione di tre e non quattro giorni ulteriori ogni quattrocento anni, come sembrava preferire Lilio. Che Clavius fosse un serio scienziato è confermato dal fatto che fu in frequente corrispondenza con Galileo che gli comunicò alcune considerazioni sul moto dei pianeti. Le critiche strampalate furono che il Papa voleva sovvertire la natura cambiando la data della Pasqua, che i contadini con il nuovo calendario non sapevano più quando seminare o arare i campi e gli uccelli non sapevano più quando migrare. Ci furono anche lodi altrettanto campate in aria, come la leggenda che un albero di nocciolo a Gorizia era fiorito nel 1583 nello stesso giorno dell’anno prima, o che il sangue di San Gennaro si era sciolto esattamente il 19 settembre del 1583 come gli anni precedenti alla riforma. Luciano De Crescenzo ebbe l’idea del suo film “32 dicembre” del 1988 pensando, o forse immaginando, che Lilio aveva sbagliato i calcoli di un giorno perché distratto dall’amore per una sua donna di servizio. In realtà, non ci sono elementi per confermarlo, anche perché, come si è visto, esistono pochissimi documenti sulla vita di Lilio. Invece, risulta che fu proprio il Papa Gregorio a invaghirsi di una sua cameriera tanto che da lei ebbe un figlio. L’attore Marco Paolini, in suo spettacolo disse scherzosamente che l’agonia della povera Santa Teresa d’Avila era durata ben dieci giorni, perché era entrata in agonia nella notte tra il 4 e il 5 ottobre 1582 e quindi era morta il 15. In quei giorni mai esistiti si saranno verificati sicuramente problemi pratici, come debitori che trovarono la scusa per non pagare, nel caso che i debiti fossero in scadenza proprio dal 4 al 15 ottobre. Certo, se si tagliassero oggi dieci giorni ci sareb8


bero problemi ancora più grandi, a cominciare dalla gestione dei sistemi informatici. Col tempo, moltissimi paesi del mondo, a cominciare da quelli protestanti, adottarono il calendario gregoriano, vista la sua semplicità e razionalità. È interessante la vicenda della Russia, paese in cui il calendario giuliano è rimasto in vigore per tutta l’epoca degli zar, fino al governo bolscevico che, tra i primi atti promulgati, annoverò l’adozione del calendario gregoriano, pur tra molti ripensamenti e oscillazioni. La rivoluzione bolscevica è ancora definita d’ottobre perché la mitica presa del Palazzo d’inverno avvenne il 28 ottobre, ma del calendario giuliano allora ancora in vigore, che corrisponde in realtà al 7 novembre del calendario gregoriano ideato da Lilio. Durante tutto il periodo sovietico, e anche oltre, proprio il 7 novembre è la data in cui sono sempre avvenute le celebrazioni anniversarie della Rivoluzione d’ottobre, a cominciare dalla famosa sfilata militare sotto il Cremlino del 7 novembre 1941, organizzata da Stalin per sollevare il morale dei russi con i nazisti alle porte di Mosca. Oggi quasi tutti i Paesi del mondo adottano il calendario gregoriano, salvo l’Iran, l’Afganistan, l’Etiopia e il Nepal. Inoltre, l’India, la Corea del Nord, il Bangladesh, Israele, il Pakistan e il Myanmar lo utilizzano ma gli accostano anche calendari locali. Tutto questo, e molto di più, si può apprendere consultando i due libri che a Luigi Lilio ha dedicato un suo compaesano di Cirò, lo scienziato, chimico e divulgatore Francesco Vizza, Direttore dell’Istituto di Chimica dei Composti Organometallici del CNR di Firenze. Il primo libro lo scrisse qualche anno fa insieme a Egidio Mezzi e si intitola “Luigi Lilio, medico, astronomo, riformatore del calendario” e ha una impostazione rigorosamente scientifica, mentre più recente, del 2017, è il 9


fumetto, o graphic novel come si dice oggi, scritta insieme all’illustratore Giuseppe Capoano e a cura di Sieglinde Bovitz che si intitola “Il dominio del tempo” edizioni Becco Giallo 2017. Francesco Vizza ha dichiarato di aver scelto il fumetto per raggiungere l’obiettivo di far conoscere la figura di Giuseppe Lilio su più larga scala dopo che aveva già pubblicato in passato il saggio di contenuto scientifico più adatto agli addetti ai lavori. Un fumetto può divulgare la conoscenza scientifica molto meglio rispetto a un saggio. E così noi stiamo vivendo proprio gli stessi giorni d’inizio ottobre che 437 anni fa cambiarono il mondo, pur non essendo mai esistiti, per merito di un poco conosciuto scienziato calabrese che, anche se non aveva a disposizione le leggi dei modelli planetari e i metodi fisici e matematici ideati poco tempo dopo da Keplero, Galileo e Newton, riuscì con le sue intuizioni a elaborare un calendario così preciso da sfidare i secoli.

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Ambiente

Climate Change/Global Warming: un’ipotesi di lavoro laburista Renè BURRI

Nel 2014 l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) pubblicava l’Assessment Report 5; l’indagine, lavoro di analisi dati delle principali variabili ambientali e climatiche acquisite nel periodo di studio 2009 – 2014, rilevava una condizione di allarme conseguente ad un aumento preoccupante della temperatura 11


media del pianeta di oltre 1 grado centigrado. Il “Global Warming”, così è stato definito dalla comunità scientifica, è apparso subito essere un’inquietante minaccia per l’habitat del pianeta. Lo stato di allarme è determinato dall’aumento della temperatura che è la variabile destrutturante dell’equilibrio dell’ecosistema. L’aumento della temperatura è la prima tessera di un domino composto di migliaia di variabili che in cascata progressivamente stanno demolendo un equilibrio costruitosi in 800 mila anni. Si deve risalire a tale periodo geologico, Paleozoico-Cambriano, per ritrovare le quantità di gas serra presenti in atmosfera attualmente. L’aumento della temperatura è calcolato in valore medio acquisendo le singole temperature di oltre un milione di punti di rilevamento distribuiti sull’intero planisfero. Il rapporto di correlazione che vi è fra l’aumento di temperatura e le emissioni di gas serra sono evidenti sin dai primi sintomi di febbre planetaria riscontrati a partire dal 1880, proprio in concomitanza dell’inizio dell’era industriale. Ciò accade perché la radiazione luminosa del Sole dopo aver attraversato la stratosfera incomincia a riscaldare le aree della superficie terrestre, oceani compresi; il calore generato però, non ha più l’energia necessaria per risalire le fasce della troposfera a causa della fitta barriera di moli di anidride carbonica e metano, l’effetto si ripropone ciclicamente in forma ridondante, ciò determina un sistema di riscaldamento continuo non lineare e difficile da disinnescare. Per acquisire la consapevolezza di quanto sta accadendo è necessario comprendere che il complesso delle attività biologiche, cioè tutte le forme viventi, si svolge in una sottile striscia del globo terrestre definita “biosfera”, solo in questa zona è possibile una condizione di sopravvivenza delle specie animali e vegetali. La biosfera è una sottilissima fascia alta circa 14 chilometri (da -5km a +9km) che rispetto al raggio terrestre di oltre 6000 la rende similare ad una sottilissima buccia di mela, 12


ed è in questa tenue e labile pellicola di atmosfera che risiedono tutte le specie viventi ivi compresa la nostra. Questa basilare nozione ci rende consci di quanto il nostro ecosistema sia dipendente da questa labile realtà e ci rende maggiormente consapevoli che quando reclamiamo: “Save the Planet”, non stiamo cogliendo il senso del problema. Il pianeta non ha bisogno di essere salvato, tanto più da una specie parassitica come la nostra; ciò che ci preme è sostanzialmente la possibilità di caratterizzare la nostra sopravvivenza in una biosfera in grado di sostenere la specie umana nella migliore condizione possibile. In questi anni abbiamo assistito a una sistematica disinformazione rispetto al problema; sebbene i reports della IPCC ci aggiornassero periodicamente sugli aggravamenti degli scenari previsionali, si è preferito propinare la problematica dell’aumento della temperatura come un fenomeno climatico effetto di una bizzarra anomalia meteorologica. L’ipocrita interpretazione di un fenomeno sconquassante che non ha niente a che vedere con pantomimiche narratorie di meteorologi di turno, ci lascia basiti e ci pone sempre difronte all’antinomia fra incompetenza o correità editoriale, forse entrambe, considerato che è una questione che ci riguarda tutti indistintamente. Vi è motivo di presupporre che questa narrazione presentata come una stravaganza meteorologica, si collochi funzionalmente a una interpretazione in chiave ambientalistica, un problema ecologico, sociale, risanabile inducendo la popolazione a comportamenti più ecocompatibili. Sciaguratamente l’aumento della temperatura è originato esclusivamente da emissione di CO2 e metano e su questo vi è solo responsabilità di politiche industriali. La quota di emissione a uso “domestico” rappresenta circa il 9% del totale, il resto sono emissioni da centrali di energia elettrica (30%), da produzioni industriali compreso l’agricoltura, allevamenti e smalti13


mento rifiuti (30%), e dal sistema dei trasporti compreso marina e aeromobili (30%), solo l’1% sono emissioni derivanti da eruzioni di vulcani ed incendi boschivi. L’aumento della temperatura è unica responsabilità del modello di sistema di sviluppo produttivo, non riguarda costumi e modelli di società, ciò non esclude che un comportamento coerente ed ecocompatibile ci restituisca un’ambiente più salubre, ma purtroppo non incide ragionevolmente sulle emissioni dei gas serra. Il “global warming” è la variabile principale che determina a cascata come un effetto domino altre consequenziali negativi fenomeni sulla biosfera, che possiamo elencare in una scala di criticità (critical impact): scioglimento dei ghiacciai  riduzione acqua (50% in meno odierna disponibilità al 2050) contrazione delle risorse di acqua impatto su agricoltura ed allevamenti; aumento dei livelli mare  trasmigrazione popolazioni costiere verso l’interno (da 1 a 2 metri entro il 2100) Il caso “penisola Italica” è studiato come uno dei più significativi a livello internazionale; modificazioni climatiche e fenomeni meteo estremi  ciò non è funzione solo delle temperature dei continenti ma soprattutto delle temperature e dell’acidificazione degli Oceani. Questo è quanto sta accadendo, il quadro è ancora più allarmante se consideriamo che la persistenza in atmosfera dei gas serra permane per 20/30 anni. Senza alcuna variazione la temperatura aumenterà nei prossimi anni irreversibilmente sino a causare condizioni di estrema sopravvivenza, a meno di azzerare o ridurre considerevolmente i famigerati gas serra nel più breve tempo possibile. Il processo non riporterebbe in equilibrio l’ecosistema , ormai

destabilizzato, ma

renderebbe

l’impatto meno rapido per consentirci di individuare delle soluzioni di adattabilità 14


e limitare i conflitti nella popolazione e fra Paesi. Il quadro di sintesi ci indica che le emissioni sono per il 90% originate dalle politiche di produzione nazionali/industriali e che poco hanno a che fare con possibili azioni virtuose ambientaliste. L’anidride carbonica si genera tutte le volte che diamo origine a una qualsivoglia combustione, mentre il metano è un potente gas serra per natura (20 volte più persistente della CO2), inoltre la sua combustione genera anidride carbonica per circa tre volte il suo peso. Il metano rappresenta di fatto la principale minaccia alla biosfera. Questo ci porta a dedurre che non vi siano altre possibilità di generare energia sufficiente per uno sviluppo industriale e che, quindi, la condanna sia definitiva. Eppure tutto ciò ha un’eccezione: madre natura ci ha fornito la soluzione e si chiama: idrogeno. L’idrogeno è l’unica forma di combustione che non genera null’altro che vapore d’acqua, può produrre calore, combustibile ed energia elettrica in un'unica trasformazione. Ma questo è un capitolo di un’altra storia. ref. L’IPCC è una istituzione fondata nel 1988 dall’ONU e dal “World Meteorological Organization” per coordinare e centralizzare gli studi realizzati dalle Università ed enti di ricerca dei 196 Paesi di cui la stessa è costituita. Il ruolo della IPCC è anche di rendere oggettivi, attraverso una strategia partecipata ed aperta a tutti gli enti di ricerca, gli studi e le condizioni dell’habitat del pianeta. Questo consente a chiunque di acquisire dati certi e condivisi non condizionati da politiche o interessi particolari e nazionali. L’analisi e lo studio dei dati sono alla base delle politiche che i paesi sono invitati a intraprendere per adoperarsi per tutelare l’ecosistema del territorio e le conseguenze ricadute sulle attività produttive. Tutto ciò è ben descritto e relazionato nelle analisi dei reports pubblicati, ivi comprese le indicazioni 15


(policy e best practice). Per accedere a tutti i dati è sufficiente effettuare un download sul sito web della IPCC. (Renè Burri è Expert review in IPCC, ricercatore e direttore dell’International No Profit Research Laboratories Associates (ietclab.org) (CH) – r.burri@ietclab.org)

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Politica

Come ti taglio il deputato Aldo AVALLONE

Il taglio dei parlamentari, approvato a larghissima maggioranza nei giorni scorsi in quarta lettura dalla Camera, rappresenta un’assicurazione sulla vita per il governo in carica. Tanti senatori e deputati al primo mandato, che ragionevolmente ipotizzano di non essere rieletti in una futura tornata elettorale a Camere “ristrette”, faranno di tutto per portare a scadenza naturale la legislatura. Ricordiamo anche che per loro il diritto al vitalizio scatterà dopo quattro anni, sei mesi e un giorno di permanenza in Parlamento. Le prossime scadenze previste dall’iter legislativo sono le seguenti: entro tre mesi uno dei soggetti indicati dalla Costituzione (un quinto dei membri di una Camera, cinquecentomila elettori, cinque Consigli regionali) potrà 17


richiedere il referendum confermativo. Se questo dovesse succedere, si voterebbe a maggio-giugno 2020; poi, in caso di conferma del testo, scatterebbero i sessanta giorni concessi al governo per ridisegnare i collegi. Ma appare poco probabile una richiesta di referendum, in quanto il provvedimento riscuote largo gradimento da parte dell’opinione pubblica e nessuna forza politica in questo caso vorrà fare la parte di chi difende le poltrone. Si dirà che il taglio è pura propaganda e, in gran parte, è vero. Che i risparmi in termini economici saranno irrisori e anche questo è vero. Si può essere d’accordo o meno (personalmente non lo sono, preferisco una maggiore rappresentanza parlamentare piuttosto che una ridotta) ma questo conta poco. Anni di campagne mediatiche contro la cosiddetta casta hanno prodotto questo risultato di cui la maggiore responsabilità ricade proprio sulla politica che, troppo spesso, si è chiusa nei palazzi dimenticando, più o meno volutamente, il rapporto con i cittadini, e consentendo alla propaganda Cinque Stelle di avere buon gioco nel vincere la propria battaglia. Non sono mancati i mal di pancia nel votare la riforma; in quasi tutti i partiti, anche nel M5S, sono stati evidenti. Ma era nell’accordo di governo e, a mio avviso, è stato giusto da parte delle forze di maggioranza mantenere l’impegno sottoscritto con i 5 Stelle. Che lo si approvi o meno, il taglio è cosa fatta, ora occorre soprattutto compiere una riflessione su quanto accadrà in futuro per far sì che la riforma oltre che a tagliare il numero dei parlamentari non tagli anche la rappresentanza popolare. Serve una nuova legge elettorale. L’attuale “Rosatellum”, che elegge 232 deputati e 116 senatori attraverso i collegi uninominali, non garantirebbe la piena rappresentatività di tutte le forze politiche. La maggioranza che sostiene il governo, M5S, PD, LEU e Italia Viva, si è impegnata a presentare in Parlamento, entro il prossimo dicembre, un disegno di legge che si ponga l’obiettivo di “garantire più efficace18


mente il pluralismo politico e territoriale, la parità di genere e il rispetto della giurisprudenza della Corte”. È cosa buona e giusta. È molto probabile che il progetto di nuova legge elettorale vada in direzione proporzionale con una soglia di sbarramento da concordare. Non è nemmeno chiaro se sarà previsto o meno un premio di maggioranza. Un’ulteriore possibilità potrebbe essere rappresentata da un sistema maggioritario a doppio turno, immaginabile evidentemente soltanto se la collaborazione tra

PD e Movimento 5 Stelle, dovesse decollare per trasformarsi in

un’alleanza tale da poter contrastare la destra nei collegi uninominali. Molto difficile, al momento, prevederne gli sviluppi. Le prossime elezioni regionali faranno da banco di prova.

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Esteri

Rojava, l’”aguzzino di Ankara” uccide e ricatta. Va fermato Umberto DE GIOVANNANGELI

Un popolo indomito combatte contro l’”Aguzzino di Ankara”. Combatte per difendere la propria vita, la propria identità nazionale, la democrazia e la libertà che sono a fondamento della sua storia e del suo presente. Un presente che Recep Tayyp Erdogan vorrebbe oggi annientare con la forza, scatenando l’invasione militare nel Rojava. Carnefice e ricattatore di una Europa pavida e di una Comunità internazionale imbelle e dunque complice dell’Aguzzino di Ankara. Se l'Ue ci accuserà di "occupazione" della Siria e ostacolerà la nostra "operazione" militare, "apriremo le porte a 3,6 milioni di rifugiati e li manderemo da voi", minaccia il . parlando ai leader provinciali del suo Akp. A meno di 24 ore dall'inizio dell'operazione militare "Fonte di pace" nel nord-est della Siria, "109 terroristi sono stati uccisi" dai raid della Turchia, ha aggiunto il “Sultano”. Ma secondo i curdi, i raid aerei hanno già 20


provocato la morte di diversi civili nei villaggi frontalieri, dove si è scatenato il panico. “I nostri eroici commando – ha commentato la Difesa turca su Twitter – che stanno partecipando all’operazione continuano ad avanzare a est del fiume Eufrate nel nord della Siria”. Mentre continuano i raid aerei, in particolare sulla città di Ras al-Ain, i turchi sono riusciti a sfondare via terra le resistenze delle forze curdo-siriane nelle località di Bir Ashiq, Hawi, Kassas, nel distretto frontaliero di Tall Abyad. Fonti curde assicurano all’Ansa, che specifica l’impossibilità di verificare in maniera indipendente le informazioni, che miliziani affiliati all’Isis hanno attaccato le forze delle Ypg nella zona in cui la Turchia ha lanciato i raid. Le stesse fonti hanno detto ad al Arabiya di aver ucciso 5 soldati turchi negli scontri. Inoltre, specificano fonti delle Sdf, nella notte la Turchia ha bombardato una prigione in cui sono detenuti miliziani dell’Isis provenienti da “oltre 60 Paesi”. Il carcere colpito sarebbe quello di Chirkin nella zona di al-Qamishli. Per questo i curdi parlano del rischio di “una catastrofe che il mondo potrebbe non essere in grado di gestire in futuro”. La situazione è drammatica a Kobane, il più importante centro curdo nel Rojava, da questa mattina sotto il fuoco dell’artiglieria. Fonti locali riferiscono che la popolazione è terrorizzata, “teme un massacro da parte dei combattenti jihadisti” alleati della Turchia, e almeno mille persone si sono rifugiate in una grande base americana a Sud della città, sulla strada per Raqqa, vicino al cementificio della Lafarge, perché temono l’imminente ingresso delle truppe turche e arabe nella città. Altre centinaia di persone sono in fuga da Tall Abyad e Ras al-Ayn. Da Bruxelles, Ilham Ahmad, presidente del Consiglio Democratico siriano (Sdc), ha chiesto all’Unione europea di fermare l’aggressione turca che - dice - rischierebbe di risvegliare l’Isis e di riaprire un’era di violenze e genocidi. Da Roma, Ahmad Yousef, membro del consiglio esecutivo del Rojava (la Federazione della Siria del Nord) e docente dell’Università di Afrin, ha lanciato un appello: “Fermate gli attacchi. Quando la Turchia entrerà nel Rojava non potremo più controllare i campi e i detenuti dell’Isis andranno in tutto il mondo”, ha dichiarato nella conferenza stampa organizzata alla Camera dei deputati. “Se continuano gli attacchi la popolazione inizierà a fuggire dalla sua terra. Circa 2 milioni di persone fuggiranno. Sanno che se i miliziani jihadisti entreranno faranno massacri”, ha detto. E ha poi aggiunto: “Abbiamo catturato 12 mila esponenti di Daesh, abbiamo chiesto per loro un processo internazionale, ma nessun paese finora ha fatto nulla”. Fonti curde assicurano all’Ansa, che specifica l’impossibilità di verificare in maniera indipendente le informazioni, che miliziani affiliati all’Isis hanno attaccato le forze delle Ypg nella zona in cui la Turchia ha lanciato i raid. Le stesse fonti hanno detto ad al Arabiya di aver ucciso 5 soldati turchi negli scontri. Inoltre, specificano fonti delle Sdf, nella notte la Turchia ha bombardato una prigione in cui sono detenuti miliziani 21


dell’Isis provenienti da “oltre 60 Paesi”. Il carcere colpito sarebbe quello di Chirkin nella zona di al-Qamishli. Per questo i curdi parlano del rischio di “una catastrofe che il mondo potrebbe non essere in grado di gestire in futuro”. Alla pavidità della diplomazia degli Stati fa da contraltare la mobilitazione dal basso che si diffonde sui social ma anche nelle piazze. Scrive su La Stampa Michele Sasso “La Rete, le onlus e migliaia di persone in Italia mobilitano via Web per sostenere il popolo curdo «schiacciato dal dittatore Erdogan.E’ un’onda che cresce ora dopo ora: c’è chi attacca il presidente Usa Trump per la sua azzardata dichiarazione “i curdi non ci hanno aiutato nella seconda guerra mondiale», c’è chi chiede rispetto per le donne impegnate nella guerra contro l’Isis , le’YPJ—l’Unità di Protezione delle Donne—che rappresenta, un unicum in tutto il Medio-Oriente di diritti civili, impegno sul campo e nuovo modello di società paritaria. C’è chi si fa un selfie con il copricapo tipico del Kurdistan o mette la bandiera gialla e verde del Rojava, il Kurdistan Siriano. E tanti, tantissimo lanciano lo stesso accorato appello: «Boicotta la guerra!».Il primo a lanciare un appello è stato due giorni fa il fumettista Zero Calcare che con la sua graphic novel “Kobane Calling” ha fatto conoscere la resistenza di questo popolo senza uno Stato: «Non lasciamo che Kobane torni sotto il giogo dello Stato islamico. Anche la Rete Disarmo chiede uno stop ad armi italiane verso la Turchia dopo l’inizio dei bombardamenti, dato che Ankara è uno dei principali clienti dell’industria bellica italiana: nel 2018 autorizzati 360 milioni di euro di vendite.Dal virtuale al reale ci sono anche le manifestazioni. “No all'occupazione turca in Siria” si legge su un grande striscione, "contro ogni fascismo" e "viva la resistenza kurda" su altri cartelli: va in scena a Roma la protesta della comunità curda residente in Italia, che sceglie la centralissima piazza Barberini per urlare la propria indignazione contro la mossa del presidente turco Erdogan e contro il presidente Usa Trump, e anche per chiedere all'Italia di intervenire a favore della pace. Non tanti, appena qualche decina, ma sicuramente rumorosi i rappresentanti della comunità curda che sono scesi in piazza con megafoni e bandiere, molte delle quali hanno anche stampato il volto del rivoluzionario curdo Abdullah Ocalan. «Per cinque anni - afferma la giovane Beritan Dumaz - la resistenza curda contro l'Isis è stata fondamentale. E ora dopo tutti questi sacrifici ci sentiamo traditi». Oltre a Roma, i curdi hanno manifestato anche a Milano e nei prossimi giorni, da qui al 12 ottobre, sono in programma altri raduni, di cui dà notizia la Rete Kurdistan Italia, in diverse città: a Genova, Torino, Empoli, Pisa, Padova, Bari, Bologna, Firenze, Catania, Bolzano, Udine, Parma, Napoli e Cosenza. E' stata indetta per domani a Firenze, dalla sigla “Assemblea fiorentina per il Kurdistan”, una manifestazione contro l'offensiva turca ricordando anche Lorenzo Orsetti, il 33enne fiorentino ucciso il 18 marzo dall'Isis mentre militava come 22


volontario con le milizie curde”. E l’Italia che non si arrende all’Aguzzino di Ankara, che pretende dal Governo giallorosso molto più di una dichiarazione di condanna o parole al vento. Roma ritiri il nostro ambasciatore da Ankara fino a quando la Turchia proseguirà la sua mattanza, ponga fine alla vendita d’armi a un regime guerrafondaio e liberticida, congeli le relazioni economiche oltre che quelle diplomatiche. E alzi la voce in quella Nato dove sediamo al fianco dei carnefici turchi. Fatti, non parole. Lo dobbiamo a chi sta combattendo per la libertà.

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Donne

Gravidanze a rischio Antonella BUCCINI

Al celebre convegno di Verona si discuteva dell’aborto, con relativi gadget di feti in plastica. Più voci imputarono a quella pratica il calo demografico nel nostro paese. Ecco le politiche sulla famiglia approdarono a quell’acuto confronto. In verità se ne parla tanto. Se ne parla con quel linguaggio mistificante oggi sempre più pervasivo. Non si comunica né la verità né la menzogna ma quella via di mezzo che non esprime concetti o volontà ma produce molto rumore. Ovviamente chi ne fa le spese in termini diretti, sulla propria pelle, prima ancora che il nucleo famigliare, sono ancora le donne. Le prevalenti titolari della prosecuzione e della cura della specie, esaltate in tutta la narrazione sul tema, sono puntualmente ingannate nella pratica. E lo sono non solo per l’assoluta assenza di un sistema sociale 24


che possa garantire una forma di sostegno concreto alla natalità ma anche per la reiterata, impunita e connessa emarginazione patita. E’ di questi giorni l’ennesima notizia di una giovane donna, che nell’azienda dove lavora da 15 anni, viene “invitata” a dimettersi, il motivo: aspetta il suo secondo figlio. L’invito non ha mezzi termini: “ti conviene accettare l’offerta. Se rientri al lavoro ti faranno morire”. Lei non cede. Al termine della gravidanza ritorna al lavoro e iniziano le vessazioni, pesanti, fino alla denuncia al sindacato. Ecco, questa è la realtà vissuta da tante lavoratrici, per le quali non sono sembrate sufficienti le differenze salariali, gli ostacoli nei percorsi di carriera, il pregiudizio applicato in molteplici occasioni, sarebbe ancora troppo comodo! Del resto la donna appartiene al sesso debole e bisogna pur garantirne le premesse! A tale contesto si aggiungono le politiche sul lavoro. Il fantomatico contratto a tempo indeterminato, di fatto, non esiste più sostituito dal contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti che consente alle aziende di licenziare per motivi disciplinari o economici. Una sedicente riorganizzazione aziendale e via si tagliano un po’ di esuberi. In ogni caso l’imprenditore dovrà al massimo risarcire il lavoratore con un’indennità pari agli anni di anzianità nell’azienda, appunto “a tutele crescenti”. Nel nostro caso certo la gravidanza non può rappresentare mai un motivo legittimo di licenziamento e per questo scatta “il consiglio” e magari l’intimidazione a presentare “spontaneamente” le dimissioni inducendo la decisione con mezzi, come dire, convincenti. E poi ci si chiede perché il nostro è un paese di vecchi e per vec25


chi! Resta la sofferenza di questa ragazza e di tutte le donne come lei condannate ad una sorta di sopravvivenza quotidiana dove il desiderio di un figlio va a discapito di ogni ambizione o necessità come un segno meno nel curriculum. La politica si limita a declinare la questione femminile nella istituzione di qualche assessorato alle pari opportunità o peggio ministero a favore del politico di turno di mediocre potere che pure va accontentato. Intanto si festeggia il taglio dei parlamentari avendo a cuore di rispondere esclusivamente all’ottuso risentimento sociale che fa consenso e quindi garantisce poltrone, tutte quelle rimaste.

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Storia e Politica

Il Piano Casa di Fanfani Giovan Giuseppe MENNELLA

Il 24 febbraio del 1949 fu promulgata in Italia la legge numero 43 riguardante il “Piano settennale per case ai lavoratoriâ€?. Agli atti parlamentari del Senato della Repubblica è ancora rinvenibile un biglietto in cui in quel 1949 il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi scrisse al giovane Ministro democristiano del Lavoro e della Previdenza sociale Amintore Fanfani chiedendogli di illustragli e elencargli i programmi futuri e gli obiettivi raggiunti 27


dal suo Ministero. Il Ministro rispose a stretto giro, con una nota a mano, in cui erano elencati i provvedimenti già adottati, tra i quali, indubbiamente il più importante, doveva rivelarsi proprio quella legge del 24 febbraio 1949. Amintore Fanfani era nato vicino ad Arezzo nel 1908. Allora quella zona della Toscana era tutt’altro che ricca, con un’ agricoltura non particolarmente florida, zone collinari e montuose e anche una certa emigrazione. Dopo il liceo ad Arezzo, Fanfani si iscrisse all’università a Milano dove si laureò in Economia alla Cattolica e ben presto diventò un giovane docente di economia nello stesso ateneo. L’impostazione ideologica del professore, siamo ancora negli anni ’30 del secolo scorso, oscillò tra un’ economia che si ispirasse alla dottrina sociale della Chiesa e un interessamento al corporativismo fascista, allora in auge, che però, di fatto, rimase più che altro sulla carta anche durante lo stesso regime. In effetti, aveva visto il corporativismo come una terza via tra il capitalismo e il collettivismo comunista. Comunque, fin dal periodo fascista il suo interessamento si diresse al problema della povertà e nel 1942 scrisse un libretto di riflessioni intitolato “Idee sui poveri”, che lui identificava sostanzialmente con i lavoratori disoccupati o sottoccupati, da aiutare con adeguate misure programmatiche. In effetti, Fanfani sarebbe diventato uno tra i maggiori economisti cattolici del XX Secolo e sarebbe stato tra i principali fautori dell’economia mista, Stato e privati, che avrebbe dato ottima prova nell’Italia della ricostruzione e del progresso economico, nel periodo cruciale dal 1945 al 1975. Dopo la Liberazione fu eletto all’Assemblea Costituente nella Democrazia Cristiana, insieme ad alcuni altri componenti di una pattuglia di democristiani come Dossetti, Lazzati e La Pira, ispirantisi alla dottrina sociale della Chiesa e al cosiddetto Codice di Camaldoli, favorevole alla collaborazione solidaristica tra datori di lavo28


ro e lavoratori. Fu lui a contribuire a dirimere la questione della scrittura dell’articolo 1 della Costituzione, facendo riferimento, nell’articolo stesso, al lavoro in senso generale e non ai lavoratori, intesi come operai manuali in senso specifico, come avrebbero preferito i Partiti della Sinistra. Fu nominato ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale nel quarto governo De Gasperi, nel quale fu adottata una sorta di divisione del lavoro, nel senso che furono assegnati agli esponenti più orientati al moderatismo liberale, contrari all’intervento dello Stato nell’economia, i Ministeri economici, mentre agli esponenti politici più orientati al riformismo furono assegnati i Ministeri sociali, quello del Lavoro e quello dell’Agricoltura. Fanfani ebbe il Lavoro, che tenne dal 1947 al 1950, con il quarto e il quinto governo De Gasperi. E dall’impegno del giovane e dinamico Ministro del Lavoro nacque appunto il progetto che sarebbe diventato la legge sulle case ai lavoratori di quel 24 febbraio 1949, durante il quinto governo De Gasperi. Per la verità, l’idea di un piano generale per le case ai lavoratori si era fatta strada anche nel fascismo degli ultimi tempi, ma non aveva avuto seguito, come del resto moltissime idee e promesse del Ventennio (a tale proposito cfr l’interessante e ben documento libro “Mussolini ha fatto anche cose buone” di Francesco Filippi editore Bollati Boringhieri 2018, in cui si fa chiarezza sulle presunte cose buone del fascismo, che rimasero in realtà sulla carta e si rivelarono solo promesse e propaganda). Va notato che, nel dibattito parlamentare sulla legge, relatore di maggioranza fu un giovane Mariano Rumor e relatore di minoranza fu un’altra figura benemerita della lotta per il progresso dei lavoratori, cioè Giuseppe Di Vittorio, che peraltro mise in campo un’opposizione non troppo dura al progetto, perché ne capiva l’opportunità 29


di fondo. Comunque, i sindacati non si mostrarono particolarmente entusiasti del progetto, per timore che il contributo economico chiesto agli stessi lavoratori si rivelasse oneroso. Il Piano Casa, legge 46 del 24 febbraio 1949,fu probabilmente l’iniziativa più importante del riformismo italiano dopo la battaglia elettorale del 18 aprile 1948 che vide la Democrazia Cristiana conquistare la maggioranza assoluta. Abbastanza paradossale fu che lo ideò un cattolico, convinto che l’economia dovesse essere guidata dall’etica cristiana e in gioventù in qualche modo interessato ad alcuni aspetti del corporativismo. Il contesto socio-economico in cui prese forma il Piano era quello di un’Italia uscita devastata dalla guerra, i cui era scomparsa la flotta mercantile, le abitazioni e le infrastrutture erano distrutte, le linee ferroviarie interrotte, andato in fumo il 25% della ricchezza nazionale. L’idea vincente del progetto fu di promuovere il miglioramento in tre campi importanti: costruire case popolari, combattere la disoccupazione e far investire gli italiani utilizzando i loro risparmi. Fu una misura innovativa che mise in moto imprenditori pigri e lavoratori senza prospettive. L’ispirazione iniziale del Piano era venuta dal New Deal degli Stati Uniti e dal Welfare della Gran Bretagna, cioè coniugare le libertà individuali con i diritti sociali alla salute, al pieno impiego, ad abitazioni decenti e salubri per i meno abbienti. Fanfani portò in Italia nella cultura economica le idee di Beveridge e di Keynes e per questo non fu mai molto amato dagli economisti e dai grandi giornali liberali che lo tacciarono di portare nella società le ideologie totalitarie, mutuate a metà dal collettivismo comunista e a metà dal corporativismo fascista. Infatti, in quell’immediato dopoguerra, dopo venti anni di un regime che aveva messo mano 30


all’economia, erano vivi i timori di un rinnovarsi dello statalismo. Tuttavia, era anche evidente che occorrevano misure di programmazione per rialzare l’Italia. Gli imprenditori e gli operai avevano bisogno di lavorare e gli stessi architetti e ingegneri finirono per interessarsi professionalmente al progetto. Infatti, dopo un primo momento di perplessità, lo stesso Adriano Olivetti, presidente degli urbanisti italiani, si rese conto che il progetto era utile a migliorare sia l’aspetto delle città sia le condizioni economiche dei lavoratori. La partecipazione economica al Piano era a carico dello Stato, con investimenti programmati, ma anche a carico dei datori di lavoro, con una loro quota, e dei lavoratori, con trattenute di non grande entità sui salari. Partecipò allo sforzo economico anche l’Istituto Nazionale delle Assicurazioni, Ente fondato all’inizio del ‘900 da un altro ministro economista, e meridionalista, che aveva a cuore il miglioramento della struttura sociale e organizzativa della società italiana, Francesco Saverio Nitti. La legge previde un investimento di 80 miliardi di lire, l’apertura di 20.000 cantieri, lavoro per 60.000 edili e la costruzione di 335.000 alloggi. Il primo cantiere fu impiantato a Colleferro il 7 luglio di quel 1949. Il Piano previde, in base alla legge e ai decreti di attuazione, l’istituzione di due organi direttivi: un Comitato di attuazione, che sovrintese alla distribuzione dei fondi, alla distribuzione degli incarichi e che esercitava una vigilanza generale, guidato da Filiberto Guala, cattolico convinto, figura interessante per molti versi e di cui si dirà in seguito e un Ente di gestione che si occupò degli aspetti architettonici e urbanistici. La macchina si mise in moto il primo di aprile del 1949 e il primo cantiere fu avviato, come detto, a Colleferro. Nell’ottobre di quello stesso anno 1949 i cantieri erano ormai 649. Nel primo anno del Piano Casa vennero anche utilizzati 15 miliardi di lire finanzia31


ti dal Piano Marshall. Di questo impiego delle risorse da loro fornite, gli americani si dichiararono insoddisfatti, in quanto avrebbero preferito che quei soldi fossero impiegati non per finalità sociali ma per aumentare l’ancora scarso potere di acquisto degli italiani in modo che comprassero più merci statunitensi. Come si è detto, gli urbanisti finirono per considerare positivo il Piano perché ormai era maturato il concetto di “città pubblica”, con servizi e infrastrutture non lasciati alla sola iniziativa privata, ma con una organizzazione globale sociale e moderna. Questo nelle buone intenzioni, però poi, poiché le case costruite dal Piano non erano sufficienti per tutte le esigenze, si cominciò anche a costruire selvaggiamente, fuori dalle regole. Questa, però, è una storia diversa, perché il Piano aveva le sue regole, che furono rispettate, ma ovviamente non poteva soddisfare tutta la fame di case che c’era. Si calcola che abbia contribuito a soddisfare una quota del fabbisogno abitativo tra un quarto e un quinto del totale. Nel 1955 il Governo Segni approvò una legge che rifinanziava il Piano per altri sette anni. Intanto, dopo la morte di De Gasperi, grazie al successo del suo Piano, Fanfani era diventata una personalità di primo livello nella Democrazia Cristiana, tanto da essere incaricato una prima volta nel 1954 di formare il governo, anche se non vi riuscì. Il Piano durò fino al 1963 e si concluse quando il Paese era ormai radicalmente rinnovato rispetto all’immediato dopoguerra quando aveva avuto inizio. Fu archiviato definitivamente dal primo governo di Centrosinistra, a cui il Partito Socialista dava solo l’appoggio esterno, guidato proprio dallo stesso Fanfani. Ecco alcuni numeri rilevanti del Piano: riguardò 5.036 Comuni, furono occupati 40.000 lavoratori, furono lavorate 102 milioni di giornate lavorative e costruito il 10% di tutte le case realizzate in quel periodo, con punte del 18% al Sud; in totale, un milione e novecentomila vani, 335.000 alloggi, 336 miliardi di lire spesi. Oltre 32


ai due Enti di gestione di cui si è detto prima, nella maggior parte delle aree edificate fu operativo anche un Ente di gestione dei Servizi Sociali, l’INA Casa, con il compito di gestire socialmente le case e promuovere inchieste sulla situazione dei luoghi. Una notazione personale: in due di questi vani, dal 1954 al 1959, è vissuto, ed è stato molto felice, da bambino anche chi scrive. E, in retrospettiva, può dire che notò la differenza tra la sua casa INA Casa del piccolo paese agricolo del Sud dove visse con i genitori e le abitazioni, rispettivamente in campagna e al mare, dove andava a passare le vacanze dalle nonne materna e paterna . Case piene di affettività e amore, ma sconnesse, umide, con i servizi igienici scomodi o inesistenti. In mezzo a quelle due diverse situazioni passò evidentemente la frattura nella società italiana che andava verificandosi in quegli anni tra il mondo di ieri e il mondo nuovo, la mutazione antropologica che ci portò dalla povertà al benessere, dalla fame alla sazietà, con tutto quello che di positivo e negativo ad essa legato. Tutto questo, e non solo, fu il Piano Casa di Fanfani, il primo inizio del boom economico, uno e non il meno importante volano per il cambiamento. Un ultimo accenno alla vicenda del Presidente del Piano, Filiberto Guala, cattolico convinto, quasi integralista, ma uomo di grande capacità manageriale e di grande onestà. Dopo aver gestito il Piano fino al 1954, fu nominato primo Presidente della neonata RAI Radiotelevisione italiana, che guidò dal 1954 al 1956. In quella veste, oltre a dimostrare le solite doti di competenza, si segnalò per la rigidità dei comportamenti morali che pretendeva nelle trasmissioni, fino a elaborare un manuale linguistico, in base al quale non doveva comparire alcuna parola a doppio senso, per esempio membro, né dovevano apparire in video donne non vestite in modo castigato. Tanto che una volta i suoi collaboratori presentarono in scena, per burla, ballerine con i mutandoni come nell’800. 33


Conclusa la sua onorata carriera manageriale, Guala si fece frate, come l’altro esponente della sinistra della Democrazia Cristiana Giuseppe Dossetti.

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Con il Rojava Contro l’invasione Per la libertà

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