l'Unità Laburista - Funiculì Funiculà - Numero 18 del 23 ottobre 2019

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Numero 18 del 23 ottobre 2019

Funiculì funiculà


Sommario

Palestina-Rojava: due cause per cui battersi, una da non dimenticare - pag. 3 Umberto DE GIOVANNANGELI

Cronache di un lunedì - pag. 10 di Antonella GOLINELLI

Cinecittà e il cinema durante il fascismo - pag. 14 di Giovan Giuseppe MENNELLA

Che cosa fanno le Banche e la politica per il Mezzogiorno - pag. 24 di Raffaele FLAMINIO Funiculì funiculà - pag. 30 di Antonella BUCCINI Una modesta proposta per migliorare il bilancio INPS - pag. 34 di Aldo AVALLONE

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Esteri

Palestina-Rojava: due cause per cui battersi, una da non dimenticare Umberto DE GIOVANNANGELI

La kefiah non è più di moda. L’innamoramento per la causa palestinese sfiorisce. Oggi, ai feddayn si preferiscono le splendide combattenti curde che hanno combattuto contro i nazi-jihadisti dell’Isis e oggi si oppongono alle armate turche. Per anni non c’era manifestazione internazionalista che non avesse la resistenza palestinese come stella polare: negli slogan, negli interventi, nelle partecipazioni alle feste dell’Unità, finanche nel look. I palestinesi continuano a sognare, e a battersi, per uno Stato che non hanno e, forse, non avranno mai. In Cisgiordania il “muro dell’apartheid” (la barriera di sicurezza per Israele), spezza territori e la quotidiani3


tà di centinaia di migliaia di palestinesi. Da oltre 11 anni, Gaza è una prigione a cielo aperto, assediata da Tsahal, l’esercito dello Stato ebraico, e isolata dal mondo. La sofferenza è la cifra dell’esistenza di milioni di palestinesi, ma non attrae più, non sfonda nell’immaginario collettivo, non conquista più le prime pagine dei giornali o un titolo nei Tg. Eppure, se gli ingredienti che alimentano una “passione” sono l’identificarsi con la “vittima” di una ingiustizia, se ad attrarre è l’epica del combattente, i palestinesi dovrebbero ancora “tirare”. Ma così non è. Eppure, in Italia, in Europa si è ancora alla ricerca di una causa in cui spendersi, per cui emozionarsi. Causa scaccia causa. E oggi la causa che attrae, che conquista copertine, che fa schierare influencer e costruttori di appelli, è la causa curda. E il Nemico di turno, il Carnefice di “un popolo eroico”, non è più un primo ministro d’Israele ma il “Sultano di Ankara”, il presidente della Turchia Recep Tayyp Erdogan. Sia chiaro: in discussione non è il sostegno ai curdi siriani che difendono il Rojava, che non è solo un territorio ma una esperienza di democrazia dal basso che supera le barriere religiose e diviene un modello che certo non può essere digerito da generali, raìs, teocrati, principi, sultani e ayatollah che continuano a imperversare in Medio Oriente. L’innamoramento mediatico, e non solo, ha poco a che fare, salvo rare eccezioni, con una conoscenza della storia, complicata anziché no, dei Curdi, un popolo disperso e tutt’altro che unito. Un esempio? Nei giorni in cui i curdi siriani si opponevano all’invasione turca, i curdi del Kurdistan iracheno non sono entrati in azione per supportare le “sorelle e i fratelli” siriani. Certo, anche tra i palestinesi ci sono divisioni, al-Fatah e Hamas tutto cercano meno che una unità d’azione. Tuttavia, i palestinesi di Gaza e quelli della Cisgiordania, si sentono, si vivono come un unico “popolo”, e l’autodeterminazione nazionale resta un obiettivo, un sogno forse, unificante. Ma qui entrerebbero discorsi che chiamano in causa la geopolitica, la storia, la caratura delle leadership e, per quanto riguarda i palestinesi, 4


anche l’atteggiamento verso Israele. Così come, guardando alla vicenda dei curdi siriani, non scalfisce l’innamoramento, e anche il marketing mediatico, trasversale, il fatto che a sostenerli c’è Israele, mentre gli arabi fanno il “tifo” per Erdogan. L’innamoramento più che a una vicinanza politica, appare dettato da un immaginario “sentimentale” che fa sentire qui da noi, noi Italia, noi Europa, più vicine, più “nostre”, le combattenti dell’Ypg. Più vicine perché, è una delle possibili chiavi di lettura, nel modo di essere, nelle narrazioni che vanno per la maggiore, le curde combattenti sembrano più vicine ai cliché “occidentali” e non toccano le corde della paura, o comunque della distanza, che in Europa continuano a essere sollecitate quando i combattenti, e le combattenti, sono “islamici” o anche solo “arabi”. E questo vale anche al femminile. Nella resistenza palestinese le donne non sono mai mancate. Nella prima Intifada, la “rivolta delle pietre” che, alla fine del ’97, riportò la causa palestinese al centro dell’attenzione mondiale e in cima all’agenda internazionale, le donne erano in prima fila nel contrastare l’esercito israeliano. E donne, spesso poco più che adolescenti, sono state anche protagoniste, tragiche, della seconda Intifada, l’”Intifada dei kamikaze”. A ben vedere, le stesse ragioni per le quali le combattenti curde, e la loro causa, sono oggi diventati i simboli di una lotta che avvertiamo nostra, sono le stesse ma declinate all’opposto, per le quali nel mondo arabo e musulmano, pure oggi in fermento per la rivolta sociale, e generazionale, che scuote l’Iraq e il Libano, come fu, neanche troppo tempo fa, per l’Egitto e la Tunisia, la Turchia di Erdogan non viene percepita, tanto meno avversata, come potenza che sta cancellando con la forza le istanze di liberazione del popolo curdo. In quel mondo, i curdi non sfondano. E non tanto per ragioni etniche o religiose (la maggioranza dei curdi è musulmana), ma perché il Rojava è lontano, come modello, dal loro immaginario, che certo è ancora condizionato dall’appartenenza a società fortemente patriarcali. Per queste società, le donne fan5


no ancora paura. Annota in proposito la grande scrittrice egiziana, paladina dei diritti delle donne nel mondo arabo, Nawal el Saadawi: “Fin dall’inizio della storia dell’umanità, i governanti. Ma anche i fondamentalisti e gli stessi Dei maschili, erano contro le donne. Perché erano contro Eva, la nostra progenitrice. Perché lei ha mangiato dall’albero della conoscenza, e quindi è diventata una peccatrice. Da lì, sono cominciate due cose: è iniziata l’oppressione delle donne, e contemporaneamente la conoscenza veniva proibita. L’oppressione, la schiavitù sono iniziate con Eva e proseguite con Iside, la divinità femminile della conoscenza. Tutto questo accade perché gli uomini – non solo quelli che esercitano la loro protervia maschilista in nome di Allah – hanno paura delle donne, e hanno paura perché le donne sono più intelligenti degli uomini. Eva era più intelligente di Adamo...Per questo si ha paura delle donne in società che sono, al tempo stesso, patriarcali e teocratiche”. Decine di migliaia di donne hanno fatto sentire la propria voce nelle proteste in Tunisia, Egitto, Bahrein, Yemen. Tra esse, una giovane attivista yemenita, insignita nel 2011 del premio Nobel per la pace: Tawakkul Karman. “La rivoluzione - rimarcò Karman agli albori delle proteste di Sana’a- aspira a rovesciare i regimi, ma è riuscita anche a ribaltare quelle tradizioni arcaiche che per troppo tempo ci hanno imposto che le donne stessero in casa, fuori dalla vita pubblica”. Ma quelle tradizioni, e i regimi che se ne fanno scudo per legittimazione interne, resistono e supportano politiche e alleanze. Causa scaccia causa. Ma è un errore. Non è questione di rigettare, almeno a sinistra, una inaccettabile gerarchia della solidarietà, o sostituire ai “miti” del passato quelli del presente. E’ sbagliato, perché, per restare alla causa dimenticata, le donne palestinesi sono molto più in sintonia con le combattenti curde di quanto la narrazione dominante sottovaluta o disconosce. A rimarcarlo è Hanan Ashrawi, figura di primo piano della leadership palestinese, oggi membro dell’esecutivo dell’Olp, da sempre paladina dei diritti delle donne nei Territori. 6


Alla nostra domanda su cosa significhi essere donna in Palestina, Ashrawi, che è stata la prima donna portavoce della Lega Araba, risponde così: “Significa essere parte di un movimento di liberazione nazionale e al tempo stesso battersi per il superamento dei caratteri più opprimenti di una società patriarcale. Ecco, se dovessi operare una sintesi, direi che le donne palestinesi lottano per una doppia liberazione. E fanno questo dovendosi occupare di mandare avanti famiglie con tanti bambini e spesso da sole perché il marito o il figlio più grande sono in un carcere israeliano”. Incalziamo Ashrawi chiedendole quale ruolo ebbero le donne e quale contributo specifico, magari poco sottolineato, hanno portato nella “rivolta delle pietre”. “Le donne – risponde la dirigente palestinese furono protagoniste di quella rivolta, partecipando alle manifestazioni, con una determinazione che spiazzò gli stessi uomini. Lei mi chiede di un contributo poco sottolineato sia nelle cronache di quegli anni sia negli annali di storia. Le rispondo così: una grande concretezza. E la volontà di costruire qualcosa che restasse nel tempo. Forse perché la donna crea il futuro dando la vita ai figli, fatto sta che in quegli anni ricordò che le donne si preoccupavano che i propri bambini non fossero solo al sicuro ma che ricevessero una istruzione. Molte erano le maestre, le donne che insegnavano nelle scuole o all’università, e io sono tra queste. Una delle misure che l’esercito israeliano prendeva per prima dopo aver occupato una città, era di chiudere le scuole e le università. E non perché fossero covi di terroristi, ma perché l’istruzione, la cultura sono parte fondamentale di una identità nazionale che s’intendeva cancellare. Ricordo che facevamo lezione nelle case private, nei garage, ovunque fosse possibile. Ecco, questa sensibilità a far crescere un germoglio di speranza anche nel deserto di una occupazione, è qualcosa che le donne hanno portato nel movimento di resistenza”. Per poi ricordare che “Nel corso degli anni sempre più donne sono state arrestate dall’esercito israeliano e nelle carceri hanno conosciuto situazioni di promiscuità, 7


le ragazze in particolare, è una pressione fisica e psicologica che spesso ha sconfinato nella tortura. Vi sono in proposito rapporti documentati delle più importanti organizzazioni umanitarie internazionali. Dover convivere ogni giorno con la violenza è qualcosa che segna per tutta la vita e rischia di permeare ogni ambito delle relazioni umane. Eppure, nella società palestinese le donne hanno conquistato spazi che nessuno ha regalato loro. E questo è un investimento per il futuro, quando vivremo da donne libere nello Stato di Palestina”. Riflessioni importanti, che danno conto di una lotta di liberazione nazionale (e di genere) che rischia di essere archiviata nella memoria collettiva anche di quanti continuano a credere nel diritto all’autodeterminazione di popoli soggiogati da Stati oppressori. Resta la fascinazione per un modello. Una fascinazione che più che a Yasser Arafat rimanda al “Che” e alla sua idea di rivoluzione globale. Rimarcava su eastwest.eu Tommaso Canetta: “Il sogno di una repubblica democratica parlamentare fondata sul pluralismo, sul decentramento del potere, sul rispetto dell’ambiente, sulla parità tra uomini e donne, sull’applicazione dei valori più alti del socialismo ha reso l’esperimento del Rojava – il Kurdistan siriano, liberato dall’occupazione dell’Isis grazie a una serie di scontri e battaglie, di cui Kobane è solo la più famosa – una fonte di seduzione per l’opinione pubblica occidentale. Sono così nate brigate internazionali di combattenti stranieri, spesso giovani, che andavano in Siria per affiancare le milizie dell’YPG nella loro guerra di liberazione. È nata così la leggenda delle guerrigliere curde dell’YPJ, temute sopra ogni cosa dagli uomini dell’Isis in quanto donne, che hanno dimostrato come anche in una società musulmana fossero possibili progresso e uguaglianza. Sono nate – o sono state rafforzate - le milizie delle altre minoranze etniche dei territori occupati e devastati dall’Isis, ad esempio quella degli Yazidi. Questa minoranza, che viveva al confine tra Siria e Iraq, è stata massacrata senza pietà dagli uomini del Califfato nel 2014. Abbandona8


ti dai Peshmerga curdo-iracheni (legati al PDK), che avrebbero dovuto proteggerli e che invece si sono ritirati davanti all’avanzata inarrestabile dell’Isis, gli Yazidi sono stati aiutati dal PKK e dall’YPG, che hanno aperto dei corridoi sicuri per portare quanta più gente possibile nel Rojava siriano. A quel punto, sia uomini sia donne, si sono arruolati nelle loro milizie, YBŞ e (quella solo femminile) YJÊ..”.Col i combattenti del Rojava senza se e senza ma. Su questo, non c’è discussione. C’è solo un impegno da moltiplicare sia nelle mobilitazioni di piazza che a livello diplomatico, chiedendo al Governo italiano di richiamare il nostro ambasciatore ad Ankara e di sospendere tutti gli accordi commerciali, non solo quelli relative alla vendita di armi, con un Paese, la Turchia, retto da un presidenteautocrate che mira alla pulizia etnica nel nord della Siria. Resta la “scomparsa” palestinese. Una causa divenuta demodé. Il tempo di “Palestina libera, Palestina rossa” scandito nei cortei è passato. E’ una constatazione, non un rimpianto. Ma la politica serve, o dovrebbe servire, a costruire consapevolezza, e non fascinazione di un attimo fuggente. O di una causa che va compresa, anche problematizzata se è il caso, perché resista all’effimero del marketing mediatico.

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Politica

Cronache di un lunedì Antonella GOLINELLI

È finito questo week end di passione politica. Sostanzialmente di destra. In piazza S. Giovanni e alla Leopolda sono andate in scena due destre molto simili.

Simili nei termini, simili nei comportamenti, simili nelle espressioni, simili nel popolo cui fanno riferimento. È impressionante.

Ma se la destra in piazza svolge il suo ruolo storico, almeno quello più recente, di 10


difesa degli evasori, di chi il sistema lo sfrutta sino all'ultima stilla senza contribuire alla costituzione dei fondi per sostenere il sistema meno scontata è la posizione dell'altra destra, quella dei vivaisti.

Ascoltare il ribitumato affermare che 8 anni di galera per chi evade più di 50,000 € l'anno (che sono più del reddito annuo di quattro persone) è una vergogna inconcepibile se da un lato non mi stupisce dall'altro un po' schifo mi fa.

Continuo a chiedermi perchè sia cosi importante evadere sistematicamente un sistema di tassazione che è si molto alto, ma proprio per un'evasione tanto imponente. Non mi spiego se chi evade per comprarsi il Porche si senta meno maschio se si limita ad un ordinario Mercedes. Va a capire.

L'altra faccia di questa destra, quella della Leopolda, è sconcertante.

Si va dall'albero finto sul palco, simbolo evidente della svolta green, al partito democratico delle banche e delle tasse, come non ne fossero direttamente protagonisti, al partito democratico (di nuovo) sede di bande armate, come se loro (i vivaisti) non lo fossero stati, al lancio di opa più o meno ostili a Forza Italia e PD. Che disinvoltura.

Certo fa ridere che chi nel PD si è comportato da padrone assoluto rivendichi una tale purezza e vittimismo. 11


Mi risulta difficile anche solo ascoltare ragionamenti su bande armate, litigi e rancori vari da chi si lanciò all'attacco della segreteria al grido di truppe cammellate, di scagnozzi e altre simili delicatezze.

Mi risulta difficile pensare che il capo del partito che ha esercitato il potere assoluto con arroganza incompetente, piazzando figurine sue ovunque e sempre, lamenti qualsiasi cosa compreso il fuoco amico. Amico di chi? Anni di dileggi, derisioni, insulti che non voglio nemmeno ricordare e si risentono se si ride un attimo di un simbolo che evoca strumenti di igiene femminile. #madai

Ma come? Allora non siete tanto spiritosi. Ma nemmeno un po' vedo. Truppe vere e finte schierate sui social ad esprimere riprovazione, disappunto, delusione, nei confronti di chi, legittimamente, ha riso. E se si insiste a ridere ti danno del caso psichiatrico o del distruttore della sinistra. #mognint

Permalosi come dei tacchini.

I distruttori e casi psichiatrici saremmo noi. L'ex segretario del PD lancia opa su altri partiti, dopo averne finalmente fondato uno suo, e i demolitori della sinistra saremmo noi. Quelli che lui e i suoi accoliti hanno eliminato scientificamente dalla scena col lanciafiamme. A proposito di bande armate. #mognint

Certo non vogliono essere giudicati, esigono di non esserlo. Pretendono persino il silenzio. Ma certo! Volete anche un polmone? SarĂ poi ora che la capiate. Anche 12


noi abbiamo opinioni, giudichiamo ed esprimiamo.

Dico in prima persona cosi non coinvolgo nessuno: vi guardo e vi giudico. Ed esprimo il mio giudizio. Non vi porterò riguardo perchè lo pretendete. Vi siete esibiti per anni in posizioni di destra e in battute da oratorio a danno di tutti gli altri. Avete buttato fuori tutto un mondo, qui a Sherwood c'è un fitto che non ci si sta, e vi lamentate per due battute? Ăˆ ora #adesso

Una nota speciale per Mery Ellen Woods e il suo partito delle banche. Lei. Che fegato! E per la Bellanova che fa il ministro col sostegno delle bande armate. Ma vergognarsi mai eh? #mognit

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Cultura e Storia

Cinecittà e il cinema durante il fascismo Giovan Giuseppe MENNELLA

Per parlare del cinema italiano durante il fascismo non si può prescindere da tre personaggi che furono importanti per l’evoluzione dell’arte cinematografica italiana in quel periodo. Di questi, ben due furono parenti del Duce. Stiamo parlando di Galeazzo Ciano, Vittorio Mussolini e Luigi Freddi. Galeazzo Ciano si laureò in legge, intraprese la carriera diplomatica e la svolta della sua vita avvenne il 24 aprile del 1930 quando sposò Edda, la figlia primogenita 14


del Duce. Ben presto fu cooptato in incarichi importanti di governo e quello che ci interessa in questa storia fu proprio il primo, cioè capo ufficio stampa di Mussolini e Sottosegretario alla stampa, cultura e propaganda dall’agosto del 1933. Vittorio Mussolini, primo figlio maschio del Duce, fin dall’inizio della sua vita fu appassionato di cinema, tanto che a soli sedici anni sceneggiò, diresse e interpretò nel giardino di Villa Torlonia la pellicola “Lo sceriffo Tremendone”, con l’aiuto del fratello Bruno e di compagni di liceo, fra cui doveva rivelarsi Ruggero Zangrandi, autore nel dopoguerra dell’importante libro di memorie “Il lungo viaggio attraverso il Fascismo”, prezioso documento sull’evoluzione in senso democratico di un giovane che aveva frequentato assai presto la famiglia Mussolini. Avrebbe poi diretto la rivista “Cinema”, cui collaborarono e si formarono molti futuri grandi registi del dopoguerra a cominciare da Luchino Visconti. Più tardi, si recò anche a Hollywood per prendere accordi commerciali con l’industria cinematografica americana, non venendo neanche ricevuto per ragioni politiche dai dirigenti degli studi californiani. Luigi Freddi partecipò già da giovanissimo al Futurismo con articoli culturali, fu legionario fiumano, giornalista e intellettuale, redattore del “Popolo d’Italia” e squadrista. Nel 1920 fu tra i fondatori dell’Avanguardia studentesca tra i Fasci di combattimento e direttore della rivista “Giovinezza”. Nel 1923-24 fu capo ufficio stampa del Partito Nazionale Fascista, nel 1927 vicesegretario dei Fasci italiani all’estero e vicedirettore della Mostra della Rivoluzione fascista. Nel 1933 seguì come inviato del “Popolo d’Italia” la trasvolata atlantica di Italo Balbo e degli atlantici in Nord America. Poi, invece di tornare in Italia, si fermò due mesi a Hollywood per studiare a fondo i meccanismi produttivi e artistici dell’industria cinematografica americana, conoscendo anche il grande regista David Ward Griffith. 15


Al ritorno in Italia presentò a Galeazzo Ciano, intanto diventato come si è visto Sottosegretario alla Stampa e Propaganda, una corposa relazione su come pensava si dovesse riorganizzare il cinema italiano, a cominciare dall’istituzione di una Scuola nazionale di cinematografia. Ciano la trasmise immediatamente a Mussolini ed entrambi restarono in attesa delle decisioni del Duce che in un primo momento tardarono a venire. Ma qui conviene fare un passo indietro per raccontare qual era la situazione generale del cinema italiano durante il fascismo. La vicenda si può dividere in tre fasi. Una prima, lungo quasi tutti gli anni venti, in cui le pellicole avevano raccontato soprattutto un’Italia rurale, quella delle campagne del Centronord, degli abitanti dei piccoli borghi da strapaese, delle battaglie del regime per l’incremento della produzione agricola, andando ben presto in crisi di fronte all’offensiva del cinema di intrattenimento hollywoodiano, tanto che nel 1931 Mussolini fece varare una legge che impediva l’importazione di pellicole dall’estero. Una seconda, in cui si diede importanza alla scenografia, con film rivolti ad un ceto piccolo-borghese, che imitavano le commedie brillanti americane, ma senza le situazioni più scabrose come tradimenti, divorzi, adulteri, con vicende che si svolgevano preferibilmente all’estero, in paesi improbabili, in genere in Ungheria. Infine una terza, verso la seconda metà degli anni trenta, dove prevalse l’eroismo patriottico e avventuroso di eroi senza macchia e senza paura, come Luciano Serra interpretato da Amedeo Nazzari. Finalmente, Mussolini, che aveva letto e apprezzato la relazione di Luigi Freddi, affidò incarico a Ciano e allo stesso Freddi di riorganizzare tutto il cinema italiano, da un punto di vista artistico e produttivo, senza tralasciare anche le esigenze della propaganda. L’anno successivo, il 1934, Freddi fu nominato capo della Direzione generale della 16


cinematografia, nell’ambito del Ministero della Cultura popolare (il famigerato MINCULPOP) che era affidato a Ciano, diventando di fatto il personaggio più importante del cinema italiano fino alla fine del regime. L’anno successivo Freddi fondò il Centro Sperimentale di Cinematografia, affidandone la direzione a Luigi Chiarini, eminente studioso di teatro e di cinema, organico al fascismo ma sufficientemente indipendente nelle scelte. Chiarini si circondò di

collaboratori

di

grande

livello,

come

Umberto

Barbaro,

seguace

dell’immaginismo, una sorta di corrente “di sinistra” del Futurismo, diffusa anche in Unione Sovietica con Majakowsky, fondatore con Chiarini della rivista di cinematografia “Bianco e Nero”. Altri studenti e poi collaboratori della Scuola furono Michelangelo Antonioni, Marino Mida Puccini, che fu tra gli sceneggiatori di “Paisà”, un giovanissimo Pietro Ingrao e tanti altri. L’opera degli insegnanti e degli allievi del Centro Sperimentale fu di grande levatura culturale e di grande apertura mentale, pur con le cautele imposte dalla dittatura, tanto che, a cominciare da Barbaro, realizzarono caute aperture culturali in qualche modo non rispettose dell’ordine costituito. Interessante a questo riguardo la testimonianza di Massimo Mida Puccini che raccontò di aver guardato di nascosto, insieme ad altri insegnanti e allievi, il film di Eisenstein “La corazzata Potemkin”. Altre iniziative culturali che favorirono una certa fronda intellettuale contro il Regime nell’ambito dell’arte cinematografica furono la Rivista “Cinema”, diretta come detto da Vittorio Mussolini, la rivista culturale di Giuseppe Bottai “Primato” che accolse anche scritti di non fascisti e i Gruppi Universitari Fascisti (GUF). Questi ambiti realizzarono una certa apertura verso una generazione di giovani che contestavano l’opacità morale e l’imborghesimento del Regime. 17


Gli obiettivi di queste iniziative intellettuali e didattiche nell’ambito della cinematografia erano l’affermazione del cinema come arte principale della modernità, la scopetta delle culture nuove ed eterodosse che si celavano dietro le varie cinematografie straniere e anche una certa contestazione intellettuale del provincialismo culturale del fascismo. Si realizzarono così i primi impulsi verso il neorealismo e verso la modifica dall’interno del fascismo, per una linea dell’arte cinematografica più realista, più vicina alle esigenze dell’uomo comune. In effetti, vi fecero le prove alcuni tra i più grandi registi del dopoguerra italiano, come Lizzani, Antonioni, Puccini, Comencini e altri, non esclusi tra gli sceneggiatori, magari occulti, anche grandi scrittori come Alberto Moravia. Molti di questi personaggi innovativi erano segretamente simpatizzanti al Partito Comunista, mentre nel mondo del cinema dell’ultimo fascismo erano assenti gli intellettuali cattolici. Anche se Pio XII, in due encicliche, affermò l’importanza dell’arte cinematografica, auspicando una maggiore presenza dei cattolici, anche per tutelare la moralità delle pellicole. La storia sarebbe cambiata nel dopoguerra, con l’avvento di molti artisti di ispirazione cattolica, la casa cinematografica LUX molto vicina al Vaticano e la censura moralistica cattolica. Alcuni altri personaggi furono abbastanza compromessi con il Regime, come Rossellini che aveva diretto una trilogia cosiddetta fascista, tra cui “L'uomo della croce”, o Aldo Fabrizi, che non si era certo distinto per antifascismo o indipendenza di giudizio. Ma si riscattarono con “Roma città aperta” in cui Fabrizi interpretò il ruolo del sacerdote fucilato dai nazisti, ispirato alla figura storica di Don Morosini, cosa che, oltre a farlo passare negli annali dell’arte cinematografica, costituì un validissimo passaporto di prestigio nella nuova Italia democristiana del dopoguerra. Proprio dal fervore innovativo favorito dal Centro e dalla rivista “Cinema” prese 18


l’impulso il superamento del cinema piccolo-borghese dei “telefoni bianchi” con la realizzazione di alcuni film che rappresentarono un ponte di passaggio verso il neorealismo, cioè “I bambini ci guardano” di De Sica, “Quattro passi tra le nuvole” di Alessandro Blasetti e, soprattutto, “Ossessione” di Luchino Visconti ma con molti altri intellettuali che collaborarono alla sceneggiatura. Il caso di “Ossessione” fu emblematico. Era tratto da “Il postino suona sempre due volte” dramma statunitense incentrato su una storia di adulterio e di delitto passionale. Pietro Ingrao, uno dei collaboratori alla sceneggiatura, tra cui vi erano pure Mario Alicata, Gianni Puccini, Carlo Lizzani, Giuseppe De Santis e anche occultamente Alberto Moravia, disse che “Ossessione” era stato il primo film antifascista. Il film naturalmente, oltre a essere girato in sordina e quasi clandestinamente, uscì solo dopo la caduta del Fascismo, ma anche prima dell’omonimo film americano, grazie a Visconti che ne aveva salvata fortunosamente una copia durante la Resistenza. Intanto, Luigi Freddi, come Direttore Generale del Cinema, si accinse a mettere a segno il colpo più importante del periodo, vale a dire la costruzione di Cinecittà. Nel 1935 un vasto incendio distrusse gli studi cinematografici della Società Cines, situati vicino alla Basilica di S. Giovanni in Laterano. Nello stesso anno, con i proventi pagati dalle assicurazioni, su impulso di Freddi, l’imprenditore Carlo Roncoroni costituì la Società SAISC, con il compito di realizzare una vera e propria cittadella autonoma del cinema. Su 600.000 metri quadrati acquistati lungo la via Tuscolana, al Quadraro, furono costruiti i nuovi studi, un complesso di 73 edifici, di cui 21 teatri di posa, con uffici e magazzini. Cinecittà fu inaugurata in pompa magna da Mussolini e dallo stesso Freddi il 28 aprile del 1937. 19


Non mancarono polemiche perché si disse che l’incendio agli stabilimenti Cines era stato appiccato dolosamente per ottenere i premi delle assicurazioni. Lo stesso regista Alessandro Blasetti confermò che Cinecittà era stata costruita con i soldi ottenuti con l’incendio della Cines. Comunque Cinecittà costituì un’eccellenza in campo cinematografico, anche per le sue maestranze qualificate. Dopo alterne vicende, anche drammatiche, sopravvisse alla guerra costituendo il cardine del cinema italiano anche nel periodo successivo, tanto che negli anni ’50 e ’60 vi furono girati molti film di produzione americana, tanto che si parlò di Rome e Cinecittà come la Hollywood sul Tevere. Può essere interessante un ultimo accenno al fenomeno dello spionaggio fascista all’interno del mondo del cinema, messo in atto proprio perché trapelavano nelle alte sfere le opinioni e le azioni non ortodosse di molti esponenti di quell’arte. L’OVRA, la polizia segreta fascista, utilizzò come informatori proprio alcuni protagonisti di quel mondo, produttori, attori, sceneggiatori. Sergio Leone ha ricordato che il padre, regista a Cinecittà con il nome d’arte di Roberto Roberti, fu emarginato perché il produttore di uno dei suoi film era una spia fascista e lo aveva segnalato come potenziale oppositore. Mario Camerini raccontò che non avrebbe potuto dirigere un film se non avesse esibito sulla giacca il distintivo fascista e allora lo indossò ma poi nascondendolo con il soprabito. Dall’apertura dei fascicoli dell’OVRA nel dopoguerra risultò che l’importante produttore Francesco Salvi era stato un informatore, che l’attore Manlio Calindri, fratello di Ernesto, aveva avuto l’incarico di spiare i fratelli De Filippo e, anzi, aveva cercato di provocare comportamenti antifascisti in Eduardo che però non aveva ab20


boccato. Divertente il fatto che anche il litigio definitivo tra Peppino e Eduardo avvenne nel nome di Mussolini, perché Peppino, durante alcune prove al Teatro Diana a Napoli, salì sulla sedia e prese in giro il fratello gridandogli che era come il Duce. Si può affermare quindi che molta parte dell’arte e della professionalità del grande cinema italiano del dopoguerra aveva avuto la sue radici nello stimolante retroterra culturale germogliato anche per merito di quelli che avevano operato durante il fascismo, a cominciare da Luigi Freddi, il vero ispiratore del Centro Sperimentale di Cinematografia e fondatore di Cinecittà.

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Economia e Finanza

Che cosa fanno le Banche e la politica per il Mezzogiorno Raffaele FLAMINIO

Il 16 e 17 ottobre si è svolto a Bari il meeting dal titolo “ RUOLO DEL SISTEMA FINANZIARIO NEL MEZZOGIORNO” organizzato dalla Fisac CGIL con la partecipazione di Maurizio Landini, segretario generale della CGIL che ha concluso i lavori. All’ assise hanno partecipato i segretari regionali della confederazione di corso Italia e i segretari regionali di categoria dei bancari, assicurativi, esattoriali. Il segretario generale del sindacato del credito e assicurazioni, Giuliano Calcagni, ha dibattuto con i rappresentanti dei maggiori gruppi bancari e assicurativi del paese, Intesa San Paolo, Unicredit, Gruppo assicurativo Generali, gruppo Unipol. Erano pre22


viste le presenze del presidente della giunta regionale della Puglia, Michele Emiliano, padrone di casa, e del sottosegretario al M.E.F. Paolo Baretta, che sono poi risultati assenti per impegni sopraggiunti. Decine di delegati di base intervenuti all’incontro hanno affollato la platea. La relazione di apertura illustrata da Susy Esposito, della segreteria nazionale della Fisac Cgil, ha tracciato con estrema chiarezza le desolanti condizioni in cui versa il Sud del Paese. Il deterioramento del tessuto economico territoriale sta riducendo pericolosamente i diritti dei cittadini e dei giovani che abitano e faticosamente vivono nel Mezzogiorno. I cittadini del mezzogiorno nascono con un cromosoma in meno. Quello del diritto. La ribalta mediatica il Sud se la guadagna solo per gli sbarchi di disgraziati, anch’essi meridionali del mondo, per le chiusure dei siti aziendali o cronache di presunta mala sanità. Qualcuno si è spinto ad affermare che l’attuale è il governo più meridionale che sia mai esistito. Qualcuno sa bene che rimestare l’acqua nel mortaio non giova al Paese intero. Tra le due aree del Paese, Nord e Sud, esiste una forte connessione e interdipendenza giocata sullo sviluppo e sull’equità. La boutade dell’autonomia differenziata regionale regala ancora una volta una perla di saggezza politica che riassume quale sia il pensiero imperante e la resistenza di un parte del Paese al cambiamento e all’unificazione. Uno dei temi discussi è stato quello della migrazione del Sud Italia verso il Nord Italia e Nord Europa. I numeri di questi ultimi quindici anni sono da catastrofe demografica, oltre un milione cinquecentomila, tra laureati e diplomati, ha lasciato il Mezzogiorno. La scarsezza dei mezzi di sussistenza sta fiaccando irrimediabilmente il Sud. 23


La mancanza di un indirizzo politico nazionale a favore dello sviluppo generale del Paese, tenendo conto anche delle aree depresse del Nord, non giova alla comunità nazionale, che ha bisogno di un impegno complessivo che abbia ben presente le peculiarità e le caratteristiche territoriali di ciascuno. Occorrono politiche di integrazione fiscale, industriali e lavorative che valorizzino tutte quelle peculiarità e vocazioni territoriali che fanno dell’Italia la nazione che si caratterizza per la piccola e media impresa e del lavoro subordinato. Questo è un elemento socio economico e d’indirizzo che anche il sistema del credito e delle assicurazioni deve tenere ben presente nelle scelte industriali. I dati statistici esposti dall’Ires Cgil, dimostrano come la contrazione del credito nel Sud abbia ridotto enormemente la capacità produttiva delle imprese meridionali, che spinte a riorganizzarsi dalle multinazionali presenti hanno convertito le produzioni in una unica direzione, proposta dai colossi mondiali, per poi vedersi a fronte proporre le delocalizzazioni, disfacendo professionalità e progettualità di intere comunità umane. Il rapporto impieghi - Pil è completamente sbilanciato a favore del Nord. Pur in questo nefasto quadro, la ricerca chiarisce che la propensione al risparmio delle aree meridionali è superiore al resto del Paese. Il risparmio generato al Sud e non remunerato, viene trasferito al Nord dove trova impiego a costi più sostenibili che sono accompagnati da politiche di sviluppo, se pur ancora deboli ma meglio assistite dallo sviluppo infrastrutturale. In questo contesto, il sistema finanziario deve necessariamente preoccuparsi della qualità del credito e del sistema tariffario proponendo una leva finanziaria efficace allo sviluppo del Sud. L’Ires dimostra con i numeri che nel Mezzogiorno il rapporto tra impieghi e depositi è il più basso del Paese. Per ogni euro di raccolta il sistema eroga, al Sud, solo 76 centesimi euro di credito rispetto ad una media naziona24


le di 95 centesimi. La restante quota d’investimento, riveniente dalla raccolta diretta meridionale, è veicolata in acquisto di quote di strumenti azionari e obbligazionari destinato alle imprese quotate negli indici di borsa FTSE-MIB residenti al Nord. Appare evidente che senza uno strumento legislativo che riconosca anche l’origine territoriale della raccolta e il suo impiego nei territori di germinazione non si potrà ottenere una risposta improntata allo sviluppo meridionale. La delocalizzazione dei centri direzionali e dei poli ad alto contenuto tecnologico delle imprese finanziarie, depaupera il lavoro professionale a favore di quello povero e poco professionalizzato. L’allargamento di questo dualismo territoriale necessità di un intervento pubblico, di tipo keynesiano, che riduca le differenze e gli squilibri. La riconversione ambientale, auspicata, è un tema che investe tutte le aree del Paese ma in particolare il Sud che può fungere da piattaforma logistica in tutta l’area del mediterraneo in coerenza e non in concorrenza con il Nord. Gli interventi dei segretari regionali confederali CGIL, impegnati in una tavola rotonda, hanno posto l’accento anche sulle differenze regionali all’interno dello stesso Mezzogiorno. Il Sud non è tutto uguale. Ogni regione propone diversità. Punti di forza e di debolezza che devono essere contemplati nei piani di sviluppo territoriale e nazionale, fornendo indicazioni specifiche di sviluppo interconnesso alle necessità di quest’area del Paese. Particolare rilievo è stato dato alla necessità di saper utilizzare al meglio i fondi europei di sviluppo. Il corretto utilizzo avviene migliorando e attrezzando efficacemente la burocrazia degli enti locali che oggi è ridotta ad una generazione di funzionari e dirigenti in soprannumero che hanno 25


l’intento di resistere e sopravvivere al cambiamento cannibalizzando le generazioni successive in grado di esprimere un potenziale positivo ed al servizio delle comunità di riferimento. Gli interventi dei responsabili dei grandi gruppi bancari e assicurativi, sono stati all’insegna di una monotona declinazione dei meriti che si attribuiscono, senza mai entrare nel vivo delle questioni e senza mai mostrare interesse, se non di facciata, ai reali problemi che il settore scarica sul Paese e sul meridione in particolare. Giuliano Calcagni, nella sua veste di segretario generale della Fisac- Cgil, non ha mancato di sottolineare che i lavoratori del comparto hanno già abbondantemente sofferto per assicurare alle banche e alle assicurazioni la sopravvivenza, sopportando piani industriali che hanno fatto versare ai lavoratori lacrime e sangue. Nei momenti peggiori delle crisi bancarie, hanno subito ogni sorta di umiliazione e delegittimazione da parte dei clienti e dell’opinione pubblica ignara delle pessime condizioni di lavoro in cui versano gli addetti. Cinquantamila addetti del settore sono stati accompagnati agli esodi senza lasciare neanche un lavoratore senza sostegno al reddito. Questo è stato possibile solo attraverso la costruzione di accordi voluti e pretesi fortemente dalle organizzazioni sindacali. Le banche, ora, facciano la loro parte per le assunzioni, la formazione, la salute e la sicurezza, senz’altro tergiversare e fare melina per il rinnovo del CCNL del settore. Il segretario della Fisac Cgil ha dichiarato la disponibilità a utilizzare le enormi risorse finanziarie dei lavoratori, detenuti nei fondi pensione, a patto che queste siano impiegate a supporto delle necessarie infrastrutture del Sud e del Paese e siano adeguatamente remunerate con garanzie fiduciarie e vincolanti dallo Stato a favore 26


dei legittimi proprietari, i lavoratori. Anche le polizze sanitarie devono essere indirizzate a sottoscrivere convenzioni con il SSN universale riducendo l’impatto sociale negativo. Maurizio Landini, Segretario Generale del CGIl, ha chiuso il convegno. Landini, nel suo intervento ha mostrato piglio e lucidità politica. Sorretto dalla profonda conoscenza delle difficoltà del Paese e dei suoi cittadini, ha richiamato con forza lo spirito costituzionale per spiegare le ragioni delle proposte della CGIL a beneficio dell’ unità e solidarietà del Paese. Il filo conduttore è il lavoro. Il lavoro come diritto e non privilegio. Il lavoro come incarnazione fisica della Costituzione. Non c’è speranza se chi lavora non vive. Non c’è speranza se il lavoro non dona dignità. Il lavoro, qualunque esso sia, se non è accompagnato dai diritti, non genera libertà. La lunga congiuntura che attraversa il Paese ha costretto a passi indietro nel campo dei diritti, sono nati nuovi lavori all’insegna della sopravvivenza. L’accordo sulla rappresentanza sottoscritto con Confindustria deve essere esteso nelle altre categorie, affinché si pervenga all’eliminazione dei contratti pirata che fanno leva solo sulla riduzione dei salari e dei diritti, la certificazione dell’ effettiva rappresentatività sindacale deve dare validità erga omnes ai contratti collettivi di categoria. Landini ha espresso soddisfazione per l’approccio del nuovo governo nei confronti dei sindacati e lo sforzo che si sta compiendo nell’appostare risorse per undici miliardi a favore di misure indirizzate allo sviluppo del Sud. Ha specificato, altresì, che la soddisfazione sarà misurata solo con la realizzazione delle misure promesse 27


e che, per adesso è limitata alla disponibilità al dialogo. La riduzione del cuneo fiscale sul lavoro è un’altra misura che apporterebbe ossigeno a quelle fasce di lavoratori maggiormente penalizzati da salari minimi. Queste misure costituiscono un primo passo verso il cambiamento necessario per invertire la rotta delle politiche sul lavoro. Il compito del sindacato e dalla Cgil sarà quello d’incalzare il governo e il Parlamento. Dare risposte al lavoro e trarre risorse dall’evasione fiscale per indirizzarle verso gli investimenti produttivi sarà la sfida che la Cgil è pronta a sostenere fino alla mobilitazione generale di tutte le categorie lavorative. Rispetto al “capitolo banche”, Landini ha affermato che devono “inventarsi” un sistema d’investimento del risparmio giacente sui conti correnti dei clienti del Sud (circa 74 miliardi) per impegnarli sui territori da cui traggono risorse e profitti. E’ necessario che l’impegno del pubblico e del privato si trasformino in una proposta concreta per il rilancio complessivo del Paese e delle aree più arretrate e sofferenti. Nel suo intervento conclusivo, Landini, ha affrontato anche il tema delle mafie infiltrate nel tessuto connettivo ed economico della Nazione. La riscrittura del codice degli appalti rappresenterebbe un elemento di novità positiva rispetto al passato. Una cabina di regia tra l’Autorità anticorruzione, le associazioni datoriali e i sindacati farebbe da argine alla dilagante infiltrazione malavitosa: la patente a punti per le imprese rappresenterebbe la possibilità di escludere le imprese meno “virtuose”. La Cgil nella sua interezza si sta proponendo come interlocutore affidabile e propositivo, capace di elaborare proposte concrete e utili misurabili con i numeri, nel rispetto della sua autonomia dalla politica. 28


Speriamo che i tatticismi della politica non pregiudichino questo difficile cammino appena intrapreso. Le tante crisi industriali e l’ingiustizia sociale ed economica che vedono coinvolti tanti cittadini meritano che si dia risposta a queste imprescindibili esigenze.

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Mobilità

Funiculì funiculà Antonella BUCCINI

Stazione circumvesuviana: treni antidiluviani, sporchi, pochi e maleodoranti, affollatissimi, sono diretti ai paesi vesuviani e tra questi Sorrento e Pompei. E’ improbabile il rispetto degli orari o delle fermate. Si procede con una certa improvvisazione come in una jam session di jazz, secondo l’estro e il ritmo del momento. I viaggiatori si avventurano con la consapevolezza di chi affronta un nemico sperimentato ma costantemente imprevedibile, investendo nella protezione della buona sorte, il biglietto di viaggio è un po’ come un gratta e vinci! In tutta la stazione le indicazioni più elementari sono considerate evidentemente 30


superflue per cui ogni servizio è garantito dall’unico sportello adibito alla vendita dei biglietti. In effetti, il tabellone installato ha molto a che vedere con quello della tombola natalizia. Numeri e orari sembrano casuali e incomprensibili poiché non sono segnalati i costanti ritardi dei treni. Solo quelli che hanno maturato una consolidata esperienza possono intuire le possibili partenze e i presumibili arrivi. Un disorientamento disperato, invece, pervade i volti dei neofiti. Ma questo singolare percorso a ostacoli è poca roba in confronto a quanto leggo sul giornale mentre aspetto un caffè che, mi sono detta, mi aiuterà ad affrontare l’imponderabile. Solo qualche giorno fa e per la terza volta in quattro mesi, un guasto a un treno, il fumo che entra nei vagoni, la paura di un possibile incendio. I passeggeri, anche anziani, sono scesi e hanno camminato sui binari, tra pietre, rotaie, traversine, per raggiungere la stazione. Scene di panico, esasperazione, qualche malore. La società di gestione minimizza con una ragguardevole faccia tosta, affermando, tra l’altro, che i viaggiatori sono scesi in sicurezza. In realtà, nei filmati pubblicati in rete si vedono i malcapitati che camminano sulle rotaie a poca distanza dai treni che, pur se a velocità moderata, arrivano dalla direzione opposta. La Procura ha aperto un fascicolo. Cerco di eludere l’incertezza su quale sarà il mio destino semmai dovessi riuscire a imbroccare il treno giusto. Intanto un numero considerevole di turisti, una ventina, forse, entra dall’ingresso principale. Eccoli lì, penso e mo’ che faranno? Non sono in grado di fornire informazioni ma di metterli in guardia sì. Sono anticipata da un uomo: una cinquantina d’anni, stempiato, un po’ di pancia che insiste sui bottoni tirati della camicia, sandali, fischietto legato al collo, in una mano alcuni accendini di plastica; con risolutezza si avvicina a un gruppetto di stranieri già frastornati. “I am Gaetano. Do you speak english?” “No” sussurra una signora con capellino e bermuda. “ Vous etes francais, espanol?” incalza il tizio. 31


“Espanol, espanol” ripete la signora come per accontentare l’uomo. “Bien” risponde lui “Pompei? Sorrento?” “Pompei” lei di rimando, un po’ sospettosa. “ Puerta derecho, pistas dos, a izquierda”, “gracias… gracias”. A quel punto lui sorride, porge la mano e sussurra: “caffè?”, la spagnola non esita e gli regala una moneta. Resto incantata a osservare la scena che si ripete, stavolta con una coppia di francesi. La destinazione è Sorrento, binaire deux, porte droit, merci merci e poi la moneta per il caffè. Non è inusuale nella mia città. La chiamano, con buona pace delle politiche sociali, l’arte di arrangiarsi. Resta indimenticabile Totò in “Miseria e Nobiltà” che per mestiere scriveva le lettere per i molti italiani analfabeti. Ancora negli anni ’70, all’ingresso del municipio, sostavano figuri che sembravano loschi, ma in realtà aiutavano i più inesperti a compilare i moduli per la richiesta dei certificati. I turisti che si sono imbattuti nell’interprete improvvisato invece di acquistare un gadget qualsiasi, che so pulcinella in creta o il cornetto in plastica, regaleranno ai loro amici increduli il ricordo della creatività napoletana, confermando tutti i luoghi comuni che ci perseguitano. Così, mentre aspetto in fila nella speranza di un po’ di attenzione, mi sono chiesta: vuoi vedere che niente è casuale? Che c’è una strategia precisa? Magari un lungimirante assessore al turismo intende valorizzare la genialità napoletana, patrimonio locale come il Vesuvio e la pizza. L’avventura dei passeggeri sulle rotaie è la scena di un film in lavorazione, tipo quelli catastrofisti degli anni ‘70 e Gaetano non è un povero cristo ma, piuttosto, un infiltrato, un attore o un regista incaricato dalla Regione, dal Comune, dall’EAV, la società che gestisce la circumvesuviana, in missione segreta! Deve sceneggiare l’arte di arrangiarsi o dirigere le comparse sul treno in fiamme e deve farlo in maniera convincente altrimenti chi potrebbe mai credere che nel nuovo millennio una stazione che ser32


ve migliaia di pendolari e turisti versi in tale condizione? E’ tutta una drammatica farsa. Aspetterei volentieri il momento in cui Gaetano si rivelerà, il sipario sarà chiuso e tutto funzionerà a meraviglia ma è miracolosamente arrivato il mio turno, non posso correre il rischio di perdere l’occasione avendo l’accortezza però di invocare la provvidenza!

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Politica

Una modesta proposta per migliorare il bilancio INPS Aldo AVALLONE

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Seguendo il prezioso e illustre esempio di Jonathan Swift, che nel 1729 scrisse una modesta proposta “per impedire che i bambini della povera gente siano di peso per i loro genitori o per il Paese, e per renderli utili alla comunità (se non conoscete il libello, consiglio vivamente di leggerlo) proverò anch’io a illustrare la mia modesta proposta, adeguatamente motivata, per migliorare i conti dell’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, altrimenti definito INPS. L’INPS è il principale ente previdenziale del sistema pensionistico pubblico italiano, presso cui debbono essere obbligatoriamente iscritti tutti i lavoratori dipendenti pubblici o privati e la maggior parte dei lavoratori autonomi che non abbiano una propria cassa previdenziale. Il sistema prevede che il pagamento degli assegni pensionistici avvenga attraverso l’utilizzo dei contributi versati dai lavoratori. Ebbene, il continuo innalzamento dell’età di vita degli aventi diritto in combinato disposto con le difficoltà del mercato del lavoro che vede sempre meno occupati, soprattutto a tempo indeterminato, produce un deficit costante nei bilanci dell’ente che sono da anni in rosso. Complessivamente la spesa per le pensioni nel 2018 è stata pari a 265,5 miliardi con un aumento dell’1,9% (+5 miliardi) rispetto ai 260,5 miliardi del 2017. Per tenere in equilibrio i conti, l’INPS dovrà lavorare in deficit per 9,6 miliardi nel 2019 e per oltre 10 nel 2020. La famigerata “quota 100”, approvata dal primo governo Conte, ha aperto dall’agosto di quest’anno una finestra di uscita dal lavoro per oltre seimila dipendenti pubblici con ulteriori onerosi aggravi per la spesa previdenziale. In passato lo Stato ha tentato più volte di porre argine a questo trend negativo: le 35


riforme Dini nel 1995 e Fornero nel 2011, però, come si è visto, non sono riuscite a risolvere definitivamente la questione. Come affrontare il problema e riportare in pareggio il bilancio dell’INPS? La mia modesta proposta nasce da una dichiarazione illuminata di un leader politico sempre all’avanguardia, Beppe Grillo il quale sul suo blog, il 17 ottobre scorso, ha titolato un suo post “Se togliessimo il diritto di voto agli anziani?”. Dopo di che ha motivato questa sua affermazione con una citazione di Douglas J. Stewart: “Ci sono semplicemente troppi elettori anziani e il loro numero sta crescendo. Il voto non dovrebbe essere un privilegio perpetuo, ma una partecipazione al continuo destino della comunità politica, sia nei suoi benefici che nei suoi rischi”. Proposta assolutamente condivisibile in quanto priverebbe gli anziani pensionati dell’unica arma in loro possesso per la difesa dei propri interessi: il voto. Nel suo post, Grillo continua sostenendo che “il principio fondamentale alla base della proposta di privare il diritto agli anziani, come affermato dal filosofo Philippe Van Parijs, è che le persone dovrebbero avere il potere di influenzare le decisioni in proporzione alla misura in cui sono suscettibili di sostenere le conseguenze di tali decisioni”. Appare evidente che se partecipassero alle elezioni solo i giovani, sarebbero premiati i partiti che nei loro programmi ne difendessero gli interessi e, di conseguenza, potrebbero essere ridimensionate significativamente le pensioni degli anziani non più utili alla collettività perché non più produttivi. È ovvio che di questi tagli agli assegni previdenziali ne beneficerebbe in modo cospicuo il bilancio dell’INPS. Benché autorevole e utile alla causa, la proposta di Grillo, però, lascia aperta una 36


questioni non secondaria: la spesa per l’assistenza sanitaria agli anziani rimarrebbe invariata se non, addirittura, in crescita atteso che le minori risorse a disposizione non permetterebbero loro un’adeguata alimentazione e prevenzione dalle malattie. Il sovraccarico di oneri per il Sistema sanitario nazionale diverrebbe in breve insostenibile con danni consequenziali a tutta la comunità. Ecco, allora, la mia modesta proposta per risolvere, in modo definitivo, il problema del deficit del bilancio dell’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale: le donne e gli uomini giunti all’età nella quale, con l’attuale sistema, cominciano a godere della pensione a spese di coloro che ancora lavorano, saranno accompagnati serenamente, attraverso un lieto e piacevole percorso, alla meta che, prima o poi, toccherà a ognuno di noi raggiungere. Del resto, arrivati alla vecchiaia, cosa contano uno, cinque o anche dieci anni di vita grama in più? Una dolce morte risparmierà loro anni di sofferenze e patimenti, dolori e privazioni, entrate e uscite dagli ambulatori e dagli ospedali. Non sembra una gradevole prospettiva? Il risparmio per l’INPS sarebbe certamente notevole e le ingenti risorse che tornerebbero a disposizione della comunità potrebbero essere più utilmente utilizzate per migliorare le condizioni di vita del Paese come, ad esempio, mettere in sicurezza le scuole, bonificare i territori inquinati, diminuire l’IVA e, addirittura, azzerare il divario centenario tra il Nord e Sud del Paese. Finalmente! C’è qualcuno che parla di discriminazione nei confronti degli anziani. Niente di più sbagliato. Per rispondere a questa obiezione prenderò in prestito le parole dall’esimio Beppe Grillo che riporto, rigorosamente virgolettate. Seppure riferite all’esclusione del diritto di voto possono tranquillamente essere estese, per trasposizione, alla mia modesta proposta: “La prima opposizione sarebbe quella della di37


scriminazione, fondata sull’età. Ma è falso, affinché vi sia discriminazione vi deve essere un trattamento diverso tra due o più gruppi/identità basato su alcune caratteristiche arbitrarie. In questo caso, le politiche differenziate per età non dividono la popolazione in due o più gruppi, poiché tutti, alla fine, diventiamo anziani. Quindi non c’è ingiustizia”. E ancora: “Gli anziani non sono un gruppo che può essere discriminato, come per sesso, etnie, o scelte sessuali, tutti diventiamo ugualmente anziani. Pertanto, una regola che tratta gli anziani in modo diverso dal resto della popolazione, influenzerà tutti allo stesso modo. Con un preavviso sull’attuazione di 5 anni, ad esempio, anche gli anziani di oggi non si sentirebbero messi in castigo”. Logico, coerente e razionale. Definitivo.

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