Numero 21 del 13 novembre 2019
Fahrenheit 451
Sommario
Israele, quando il compromesso è segno di intelligenza politica - pag. 3 di Umberto DE GIOVANNANGELI I libri che fanno paura e il fuoco della cultura pag. 10 di Aldo AVALLONE
Religioni e psicanalisi - pag. 14 di Giovan Giuseppe MENNELLA
Rosa shocking - pag. 20 di Raffaele FLAMINIO
Io, tu e le tasse - pag. 24 di Antonella GOLINELLI
Fernanda Wittgens, la Walkiria che salvò il Cenacolo di Leonardo - pag. 28 di Giovan Giuseppe MENNELLA
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Esteri
Israele, quando il compromesso è segno di intelligenza politica Umberto DE GIOVANNANGELI
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“Nel mio mondo, la parola compromesso è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono compromessi, Il contrario di compromesso non è integrità e nemmeno idealismo e nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte”. Così Amos Oz, il grande scrittore israeliano recentemente scomparso, in un libro-pamphlet – “Contro il fanatismo” (Feltrinelli), la cui lettura farebbe molto bene, intellettualmente e politicamente parlando, ai tanti “puristi”, anche di casa nostra, che invece affibbiano alla parola “compromesso” una declinazione tutta in negativo. Compromesso come capitolazione, come resa, come tradimento. Si scrive compromesso, si legge cedimento. Questa estremizzazione ideologica, i “puristi” la esercitano con particolare impegno e determinazione quando devono affrontare quelle che, nella loro accezione, vengono classificate come “rivoluzioni tradite”. E’ il caso della “rivoluzione palestinese”. I nemici del compromesso, quando non impegnati a elencare tutti i misfatti, veri o presunti, perpetrati da Israele, vestono i panni, a loro molto stretti, di professori impartendo lezioni di politica ai leader che quella “rivoluzione” avrebbero tradito. A ben vedere, era stato così anche per Yasser Arafat: icona portata in giro nelle manifestazioni di mezzo mondo come una madonna pellegrina con la kefiah, quando impersonava il capo guerrigliero duro e puro, salvo poi diventare un mezzo traditore nel momento in cui cercò di comportarsi da leader politico e capo di uno stato in formazione, stringendo la mano al “nemico” israeliano, Yitzhak Rabin, e siglando gli Accordi di OsloWashington. Il fatto è che la politica è l’arte del compromesso, un esercizio difficile, tutt’altro che sicuro nei suoi esiti, ma è un passaggio obbligato per chi non vive di rendita sull’emarginazione, sull’esclusione. Per chi sa che è meglio sporcarsi le mani per ottenere dei risultati parziali, ma concreti, piuttosto che campare sulla testimonianza di una purezza senza costrutto. E’ il caso degli arabi israeliani. La sofferta decisione assunta dalla grande maggioranza dei parlamentari della Joint List 4
(10 su 13) di sostenere la candidatura di Benny Gantz, il leader di Kahol Lavan (Blu e Bianco), come premier, nelle consultazioni avviate dal capo dello Stato israeliano, Reuven Rivlin, è stata bollata come “cedimento” dai “puristi” di casa nostra, subito alla ricerca di un dissenziente che confortasse il loro punto di vista. Come si può sostenere un ex capo di stato maggiore dell’Idf (le Forze di difesa israeliane) che ha guidato operazioni di guerra a Gaza? Gantz è un Netanyahu ripulito, senza fardelli giudiziari sulle spalle, ma proprio per questo, è il chiaro non detto, può risultare ancor più pericoloso di “Bibi”. La conclusione è lapidaria: aprire a Gantz è un cedimento. Di più, è un tradimento. E sul banco degli imputati, i “puristi” fanno sedere anche il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas (Abu Mazen), colpevole, a loro dire, di aver fatto pressioni sui leader della Joint List perché aprissero un credito a Gantz. Su quel banco finisce pure, e in prima fila, il presidente della Joint List, Ayman Odeh, colui che più si è speso per far valere le ragioni della comunità araba israeliana (oltre il 20% della popolazione d’Israele) nelle trattative avviate, alla luce del sole, con il premier incaricato. “Per tanto, troppo tempo, la discriminazione verso gli arabi israeliani è stata trasversale ai partiti israeliani. Variavano i toni, ma non la sostanza: la nostra era un’esclusione pregiudiziale. Ora non è più così. Nessuno ci ha regalato niente. Abbiamo combattuto perché le problematiche che riguardano una comunità che rappresenta oltre il venti per cento della popolazione d’Israele entrassero nell’agenda politica di chi ha l’ambizione di governare... Noi vogliamo vivere in un luogo pacifico basato sulla fine dell’occupazione, sulla creazione di uno stato palestinese accanto allo Stato di Israele, sulla vera uguaglianza, a livello civile e nazionale, sulla giustizia sociale e sicuramente sulla democrazia per tutti. Un’aspirazione che non potrà mai essere realizzata se al governo ci saranno ancora Netanyahu e le destre razziste”, dice a l’Unità laburista Odeh. Considerazioni illu5
minanti di una concezione della politica attenta, ma non succube, dei rapporti di forza, che sa distinguere tra una destra razzista e un centro che può essere positivamente condizionato. E’ la politica come compromesso. Ma nulla importa, ai “puristi”, che, il presidente di Joint List chiarisca: “All’ordine del giorno non è la nostra partecipazione al governo, ma porre al centro della discussione i temi che stanno più a cuore alla nostra comunità, quelli che riguardano la sicurezza, il lavoro, gli investimenti in infrastrutture e abitazioni, la giustizia sociale, l’istruzione. Su questo l’unità esiste al nostro interno, ed è un bene che va preservato. D’altro canto, la nostra decisione di raccomandare Gantz come prossimo primo ministro senza unirsi al suo possibile governo di coalizione di unità nazionale è un chiaro messaggio che l’unico il futuro di questo paese è un futuro condiviso e non esiste un futuro condiviso senza la piena ed equa partecipazione dei cittadini arabi israeliani...”. Una partecipazione che porta con sé anche la volontà di trovare luoghi in cui sperimentare una positiva, e reciproca, “contaminazione” tra storie, sensibilità, linguaggi, identità che in una oggettiva convergenza di estremi che si toccano, i puristi della “rivoluzione tradita” e la destra fondamentalista israeliana vorrebbero cancellare. Cancellare esperienze di straordinaria significanza, come quella che vede impegnati nel Centro Medico di Hadassah di Gerusalemme - all’avanguardia nel mondo - medici ebrei e arabi israeliani. Scrive Ellen Hershki su Times of Israel: “La coesistenza pacifica è sia pratica che morale. ‘Israele vive molte tensioni e quando presenti una équipe medica composta da persone di ogni ceto sociale, questo calma le cose’, osserva il dottor Hadar Merhav, ebreo nato a Gerusalemme, direttore dell’unità trapianti presso il campus ospedaliero Hadassah di Ein Kerem. Il dottor Merhav lavora abitualmente con il dottor Abed Khalaileh, arabo di Gerusalemme, direttore dell’unità trapianti di rene. L’anno scorso NBC News ha riferito di un trapianto di fegato che i medici hanno eseguito insieme, con il coinvolgimen6
to di un donatore ebreo e un ricevente arabo.... In Israele vi sono molti altri esempi di amicizia, collaborazione, partenariati commerciali, coalizioni civiche e programmi di comunità arabo-ebraici. Attraverso la serie podcast The Branch, il sito web di Hadassah riporta regolarmente storie e iniziative che riflettono l’obiettivo di una società plurale e condivisa. Come i kibbutz hanno fatto fiorire il deserto, così queste oasi di pace combattono il deserto dell’incomprensione... Questo centro medico ‘è come l’arca di Noè perché qui si vedono arabi, ebrei e cristiani – afferma il dottor Khalaileh – Abbiamo persone che vengono dai territori palestinesi, persone che sanno cos’è Hadassah: sanno che riceveranno cure mediche senza frontiere’. Vi sono anche pazienti che vengono dal vasto mondo arabo, da Giordania ed Egitto ma anche da Siria e Arabia Saudita (paesi che non intrattengono rapporti diplomatici con Israele ndr)....Nessuno – conclude l’autrice - può dire quando vi sarà finalmente la pace tra Israele e tutti i suoi vicini o quando la nozione di pace in Medio Oriente cesserà di essere vista come un ossimoro. Ma è certo che possiamo già farci un’idea di come apparirà quel giorno, quando arriverà: sarà come i brulicanti corridoi, giardini e spazi condivisi del Centro Medico Hadassah”. Ma forse per i “puristi” anche questo è un “cedimento”. E cos’altro è se non un cedimento al nemico, magari perché costretti e umiliati a farlo, la corsa affollata di studenti palestinesi all’iscrizione all’Università ebraica di Gerusalemme...Tutto ciò che rimischia le carte, che mette in crisi vecchi paradigmi, viene narrato in termini respingenti. Maestri e predicatori abbondano da noi, e in Europa. Quelli de “l’avevo detto”, i cantori dei fallimenti di “politici dediti al compromesso e alla svendita” dei principi che dovrebbero invece ispirarli. I traditori della causa. Per costoro, il tentativo di contare, di incidere sulla quotidianità di quanti intendi rappresentare, è non solo un esercizio destinato al fallimento, ma significa trasformarsi nella “quinta colonna” del nemico. “Quinta colonna”: è l’immagine dispregiativa con cui il leader della 7
destra nazionalista israeliana, Avidor Lieberman, ha bollato i parlamentari arabi israeliani impegnati nelle trattative con Gantz. A Lieberman, Odeh ha risposto così: “Quinta colonna di chi? Dei palestinesi, che la destra oltranzista vorrebbe spazzare via dalla West Bank, come se milioni di persone potessero essere cancellate con un tratto di penna o deportate in massa verso dove peraltro… Una pace giusta e duratura con i palestinesi, fondata sulla soluzione a due Stati, non è una concessione che Israele fa sulla base di un astratto principio di giustizia e legalità internazionale, tanto meno un cedimento ai “terroristi”. Riconoscere il diritto del popolo palestinese a vivere in uno Stato indipendente a fianco dello Stato d’Israele, è un investimento sul futuro che Israele fa per se stesso. Non esistono scorciatoie militari per dare soluzione al conflitto israelo-palestinese, l’unica via praticabile è quella del dialogo, del negoziato, del compromesso...”. Compromesso: di nuovo la parola impronunciabile. A costoro, vale il suggerimento di Oz. Una lezione di vita, e anche “professionale” : “Che cosa potete fare? Che cosa possono fare gli opinionisti? Che cosa può fare il mondo esterno, a parte scuotere il capo e aggiungere ‘terribile’! Ebbene, due, forse tre cose. In primo luogo, i vostri esperti in tutta Europa hanno la deprecabile abitudine di puntare il dito come una arcigna istitutrice vittoriana in una direzione o nell’altra: ‘Non vi vergognate?’. Troppo spesso trovo sui giornali dei paesi europei cose tremende, vuoi a proposito di Israele vuoi a proposito degli arabi e dell’islam. Cose corrive, meschine, supponenti. Intendo dire, non sono più europeo in nessun senso, eccetto per il dolore dei miei genitori e antenati, che mi hanno trasmesso nel codice genetico questo amore non corrisposto per l’Europa. Ma non sono più europeo. Se però lo fossi, starei bene attento a non puntare il dito contro nulla e nessuno. Invece di far questo apostrofando ingiuriosamente Israele o i palestinesi, per favore fate tutto quello che potete per aiutare entrambe le parti...”.Aiutarle a riconoscere le ragioni dell’altro, a incontrarsi a metà 8
strada, a mettere in circolo esperienze comuni, a valorizzarle. Aiutarle a infrangere muri di separazione, che non sono solo fisici, ma culturali, identitari. Aiutarle a raggiungere un compromesso.
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Cultura e Politica
I libri che fanno paura e il fuoco della cultura Aldo AVALLONE
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Nel buio della notte, in un luogo sconosciuto, un rogo illumina una piazza sulla quale si affacciano palazzi scuri. Uomini in divisa nera alimentano il fuoco bruciando quintali di libri mentre pochi attoniti spettatori assistono in silenzio alla scena. In “Fahrenheit 451”, romanzo scritto nel 1953, Ray Bradbury descrive una società nella quale possedere o leggere libri è un reato e un apposito corpo dei vigili del fuoco è impegnato a distruggere ogni forma di volume. Nella trasposizione filmica di Francois Truffaut, le immagini delle pire dei libri che bruciano riportano alla mente una delle pagine più nere della storia umana: un branco di esaltati, studenti, professori, gente comune che, nel maggio del 1933 a Berlino, partecipò come in un pogrom al rogo dei libri, dando alle fiamme anche opere di inestimabile valore. Ne “Il nome della rosa” di Umberto Eco, il protagonista Guglielmo da Baskerville si ritrova a indagare su una serie di omicidi avvenuti in un monastero piemontese in pieno medioevo. Una lunga sequela di morti che hanno un unico movente: non permettere la scoperta e la diffusione dell’ultima copia rimasta del manoscritto della “Poetica” di Aristotele, considerato pericolosissimo perché trattava del riso e della commedia. Esempi letterari che, però, riproducono una realtà forse anche peggiore. L’indice dei libri proibiti dalla chiesa cattolica, istituito nel 1559 da papa Paolo IV, fu abolito soltanto nel 1966 e la storia ci insegna che qualsiasi regime totalitario ha cercato di controllare con la violenza e il sopruso ogni forma di libera espressione del pensiero. Due vicende, avvenute in quest’ultima settimana, illustrano in maniera preoccupante l’abisso culturale in cui sta precipitando il Paese. Nel quartiere Centocelle, periferia est di Roma, un incendio doloso ha distrutto, per la seconda volta in pochi mesi, la libreria “La pecora elettrica” il cui nome è ispirato a un romanzo di fantascienza di Philip Dick dal titolo “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?”. Il primo rogo risale al 25 aprile scorso e la data non è da considerarsi casuale. Il loca11
le è considerato di sinistra e nel quartiere svolgeva un ruolo importante di diffusione culturale e di presidio antifascista. Dopo il primo incendio e i conseguenti lavori di ricostruzione, la libreria avrebbe dovuto riaprire proprio il giorno successivo al nuovo attentato che ne ha impedito la riapertura. Il secondo episodio, altrettanto allarmante, è la notizia della assegnazione della scorta alla senatrice a vita Liliana Segre a causa delle numerose minacce di morte rivolte nei suoi confronti da gruppi neofascisti. Lei stessa ha dichiarato di ricevere ogni giorno, attraverso i social, duecento messaggi incitanti all’odio razziale e Forza Nuova ha esposto uno striscione offensivo fuori da un teatro di Milano, dove stava partecipando a un incontro con gli studenti. Deportata ad Auschwitz e sopravvissuta agli orrori del campo di sterminio nazista, la ottantanovenne signora deve sopportare i continui insulti e le intimidazioni dei fascisti di oggi. Segno dell’abisso in cui è precipitato il nostro Paese, infamia smisurata di cui è responsabile chi ha instaurato il clima d’odio che da qualche tempo sta avvelenando la nazione. Per fortuna le risposte a questi atti violenti non si sono fatte attendere. A Centocelle, oltre tremila abitanti del quartiere sono scesi in piazza per manifestare il loro sostegno ai proprietari della libreria bruciata, il ministro dell’Interno Lamorgese ha assicurato che il prossimo 15 novembre sarà convocata una riunione del “Comitato per l’ordine e la sicurezza su Centocelle” e messaggi di solidarietà sono giunti sia dal presidente della Giunta regionale del Lazio, Zingaretti, che dal sindaco di Roma, Raggi. Anche alla senatrice Segre non sono mancati gli attestati pubblici di solidarietà e la protezione da parte delle forze dell’ordine rappresenta un importante deterrente per prevenire eventuali atti violenti nei suoi confronti. Lo Stato afferma la propria presenza e la volontà ineludibile di difendere la libertà contro ogni forma di violenza 12
fascista. In “Fahrenheit 451” è rappresentata una scena patetica e tremenda: un’anziana donna per non abbandonare i propri amatissimi libri si dà fuoco e si lascia bruciare insieme a loro, atto simbolico di grande forza che manifesta la necessità di difendere la cultura anche fino al gesto estremo. In questo particolare momento storico nulla di più fondamentale. Le destre prosperano sull’ignoranza e sulla disinformazione, le fake news sono diventante strumento di propaganda quasi incontrastabile. Uno studio dell’Università napoletana “Suor Orsola Benincasa” del luglio 2018 rivela che l’ottantadue per cento degli italiani non sa riconoscere sul web una notizia vera da una falsa. Si tratta di un dato impressionante. La ricerca risale a oltre un anno fa, ma in quest’arco di tempo la situazione non è affatto migliorata. Occorre un lavoro a lungo termine che coinvolga la scuola pubblica, le istituzioni, i media. Serve l’impegno in prima persona di ogni cittadino di buona volontà. Non sarà facile ma solo investendo sull’istruzione e sulla crescita intellettuale delle giovani generazioni sarà possibile risalire la china e sconfiggere definitivamente ogni forma di fascismo e oscurantismo.
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Cultura e Religione
Religioni e psicanalisi Giovan Giuseppe MENNELLA
Le religioni, specialmente quelle monoteiste, non sono state mai favorevoli alla psicanalisi. Specialmente la religione cristiana, massimamente nella sua espressione cattolica romana, perché la psicanalisi era considerata avversaria del sacramento della confessione, perché tendente al pansessualismo cioè a spiegare quasi tutti i moti psicologici con gli impulsi sessuali e perché diminuiva l’importanza del libero arbitrio nell’uomo. Però, da parte del cattolicesimo la condanna fu sempre velata, quasi mai esplicita. Nessuna pubblicazione di Sigmund Freud fu mai posta all’indice dei libri proibiti. Lo stesso Padre Agostino Gemelli, vero dominatore della cultura cattolica nei primi decenni del ‘900, fu favorevole o contrario alla psicanalisi secondo i personaggi 14
che la esercitavano. In genere fu contrario agli psicanalisti più orientati a sinistra, specialmente quelli vicini all’ideologia comunista che fu sempre considerata dalla cultura conservatrice come strettamente legata alla psicanalisi. Padre Gemelli soleva dire che non era conveniente per la Chiesa cattolica creare, con l’avversione esplicita alla psicanalisi, un nuovo caso Galileo Galilei. Comunque, vigeva in ambito canonico il divieto per i preti di esercitare la psicanalisi. Da questo punto di vista, fu interessante il caso di padre Gregoire Lemercier, sacerdote benedettino belga che, dopo alcune esperienze religiose in Europa, fondò il Monastero di Santa Maria della Resurrezione a Cuernavaca, in Messico, dove, insieme ad altri preti e anche a una donna, esercitò per un periodo di tempo la psicanalisi. La figura di Lemercier fu sempre molto originale e controversa, tanto che poi nel 1967 abbandonò la tonaca. In Italia le sue idee furono fatte conoscere da Don Giovanni Franzoni, altro religioso eterodosso, progressista e inviso al Vaticano. Un ordine delle alte gerarchie della Chiesa fece cessare l’esperienza di psicanalisi del convento messicano ma la presenza tra i terapeuti di una donna lo fece diventare molto famoso e provocò speculazioni e pettegolezzi pruriginosi su presunti aspetti sessuali della faccenda. Di problemi in cui fede religiosa e aspetti della psiche umana fossero particolarmente connessi, si occuparono spesso intellettuali e filosofi. Sigmund Freud, il padre della psicanalisi, trattò in due riprese del Monoteismo, anche del Cristianesimo, partendo da riflessioni psicanalitiche sulla figura del Mosè biblico. Nel libro “L’uomo Mosè e la religione monoteistica”, tre brani scritti tra il 1934 e il 1938 ma riuniti in un unico libro pubblicato ad Amsterdam nel 1939, Freud trattò le origini del monoteismo esprimendo alcune idee sulle vere origini di Mosè e sul suo rapporto con il popolo ebraico. Sostenne che Mosè non fosse ebreo ma in real15
tà egiziano di antica nobiltà che trasmise al popolo ebraico la religione monoteista del Faraone Amenofi IV, che cambiò il nome in Akhenaton. Ma gli ebrei lo assassinarono abbandonando la religione che aveva trasmesso loro e dimenticarono collettivamente il misfatto. Freud spiegò che, diverso tempo dopo l’uccisione di Mosè, i ribelli si rammaricarono della loro stessa azione formando così il concetto di Messia, come speranza per il ritorno di Mosè come “Salvatore” degli Israeliti. Ritenne che il senso di colpa per quell’omicidio fosse ereditato attraverso le successive generazioni. Fu poi questo senso di colpa che spinse gli ebrei alla creazione della religione monoteista, perché potesse farli sentire meglio, diminuendo il senso di colpa per quello che avevano commesso. Ne sarebbe risultato il dualismo di fondo della religione ebraica, caratterizzata dall’eterno ritorno del trauma dell’omicidio originario: un gesto dimenticato ma ineliminabile nel senso di colpa dei discendenti. L’avvento del cristianesimo sarebbe coinciso, secondo Freud, con il tentativo di Paolo di rielaborare quel rimorso all’interno di una nuova religione, anch’essa monoteista, espiando il peccato originale attraverso la morte del Cristo sulla croce. Ripropose l’omicidio di Cristo come omicidio del padre. Una sorta di capro espiatorio, se vogliamo mutuare l’espressione dal pensiero di Renè Girard (La violenza e il sacro). Non è inutile ricordare che lo stesso padre di Freud gli regalò una Bibbia, quando lui aveva trentacinque anni, per riportarlo sulla strada precedentemente abbandonata dell’ebraismo. Freud era nato in un’Europa in cui sembrava che gli ebrei fossero emancipati dalla religione e non ci fosse più l’antisemitismo. Come mai l’umanità risponde a dei bisogni profondi con la Religione? Per misurarsi con la figura del padre, come fece Freud e come avevano fatto gli ebrei antichi con Mosè. Anche la religione biblica rientra in un significato individuale del 16
rapporto col padre. In effetti, riflettendo sulla posizione di Freud in questo scritto, potrebbe venire spontaneo di tracciare un parallelo tra Mosè che aveva introdotto il monoteismo tra gli ebrei e lo stesso Freud che aveva introdotto la psicanalisi tra i suoi seguaci. Peccato che Freud non vedesse giusto sui presupposti storici della sua analisi. Akhenaton, il nome che assunse come riformatore il Faraone Amenofi IV, non introdusse il monoteismo, ma una monolatria, cioè non un solo e unico Dio, ma un Dio preferito tra tanti altri dei. Non ci fu un monoteismo egizio, ma anche la morte di Mosè non fu un assassinio. In realtà, Freud non cercò una verità storica, ma piuttosto quello che rimaneva nell’inconscio dell’ebreo di antichi accadimenti che affondavano nella leggenda o negli albori della storia. In uno scritto molto più antico, Il Mosè di Michelangelo, uscito anonimo nel 1914 nella rivista Imago, Freud analizzò la famosa statua dal punto di vista psicanalitico: partì dalla torsione della testa e dal nodo della barba nella mano sinistra, dettagli potenzialmente illuminanti come dimostrato nella pratica psicanalitica, per dedurre che il profeta non compiva un gesto di ira per l’idolatria degli ebrei, ma era colto nell’atto della rinuncia alla rabbia. Il patriarca, già pronto a scattare, si controllava e restando seduto, rinunciava all’azione violenta. Non distrugge le tavole, ma le trattiene e le salva in extremis. Freud non si limitò allo scritto ma realizzò dei disegni in cui ipotizzò anche quelle che potevano essere state le precedenti posture, dettate dall’ira, da cui Mosè si era trattenuto. La cosa stupefacente è che da studi recenti, eseguiti in occasione del restauro della statua, è risultato che lo stesso Michelangelo aveva cambiato la postura e l’espressione del patriarca, secondo alcuni per fargli distogliere lo sguardo dall’altare in segno di disapprovazione per la Chiesa non riformata, secondo altri, più plausibilmente, perché vi fu costretto dall’emergere di un grosso difetto nel 17
marmo. Freud aveva immaginato nella sua interpretazione, dandole risvolti psicanalitici, la modifica e la torsione che, come scoperto solo di recente, Michelangelo aveva dato veramente all’opera. Il saggio fu scritto nello stesso periodo del dissidio con Gustav Jung e si può immaginare l’identificazione dell’autore con quel Mosè deluso, scandalizzato dall’infedeltà dei suoi seguaci. Il popolo della psicanalisi, ingrato come il popolo ebraico, stava deviando dalla retta via, rinunciando alla giusta dottrina per rivolgersi ad altri miti. Ma il fondatore, responsabilmente, non si lasciava trascinare dall’ira ma pensava a come salvare la sua dottrina. Molti altri scrittori, filosofi, artisti, spesso ebrei, si sono occupati della figura di Mosè e degli aspetti della sua vicenda nelle questioni che afferiscono all’inconscio umano e alle religioni. Thomas Mann, nello scritto “La Legge”, trattando del rapporto di Mosè con il popolo ebraico e con le prescrizioni religiose, sembrò accusare in modo obliquo Hitler di voler essere un nuovo patologico Mosè che introduceva nuove perverse tavole della legge. Arnold Schonberg, nell’opera “Moses und Aron”, interpretò la vicenda di Mosè come la tragedia di un uomo in contraddizione tra sé e l’adorazione del vitello d’oro. La pittrice Frida Khalo lesse i testi di Freud su Mosè e in un dipinto del 1945 rappresentò il Patriarca in una grande allegoria della vita, come la nascita dell’eroe. La pittrice messicana era anche amica di un altro grande ebreo, quel Lev Trotzky il cui vero nome era Bronstein. Va ricordato quanto disse il rabbino di Kiev a proposito della grande presenza di ebrei tra i bolscevichi, cioè che i Trotzky scatenavano le rivoluzioni ma i Bronstein ne pagavano le amare conseguenze. Infine, un altro artista ebreo, Marc Chagall, il cui vero nome era Moshe, nel 1950 raffigurò Mosè nell’atto di ricevere le tavole della legge e disse che lo aveva dipin18
to come in un sogno. In conclusione, si potrebbe dire che la religione e la psicanalisi, molto raramente in sintonia tra loro, oggi sono paradossalmente accomunate nella stagnazione e nella decadenza che stanno vivendo entrambe nelle menti e nei cuori dell’umanità. Ciò è dovuto al fatto che si sono instaurate ed evolute, soprattutto la religione, in epoche e società fortemente gerarchizzate, caratterizzate da grandi divieti e tabù, con alcuni gruppi sociali che dominavano su altri: i maschi sulle femmine, i padri sui figli, i nobili sulle plebi, i padroni sui servi. Società in cui i problemi e i malesseri da lenire rappresentavano il desiderio inconscio e rimosso di valicare i limiti, trasgredire i divieti, con conseguenti sensi di colpa e blocchi psicologici, massimamente nelle donne, nei giovani, nei sottoposti. In quella società, religione e psicanalisi erano utili e centrali. Oggi invece, almeno nella maggior parte del mondo, salvo regioni marginali, è cambiato tutto, è accaduta una rivoluzione copernicana. Tutto, dall’industria dei consumi, alla pubblicità, ai mezzi di comunicazione di massa, alla società dello spettacolo e del divertimento invita, quasi obbliga, gli individui a superare le barriere, a trasgredire, a valicare i limiti, nel lavoro come nel divertimento. Perciò i malesseri insorgono semmai dal timore di non fare abbastanza, di non trasgredire abbastanza. E qui religione e psicanalisi possono aiutare poco, e sono loro stesse in crisi. Per sdrammatizzare, potremmo dire, con Woody Allen, che Dio è morto, Marx pure e neanche io mi sento troppo bene.
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Donne e Lavoro
Rosa Shocking Raffaele FLAMINIO
Il 31 di ottobre si è tenuto a Napoli lo sciopero dei sindacati confederali a sostegno della vertenza Whirlpool e delle decine di crisi industriali che si producono in Campania e al Sud. Decine di migliaia sono state le presenze che hanno dato un corpo umano allo sciopero. In prima fila c’erano le operaie e gli operai dello stabilimento di via Argine, al loro seguito le altre donne e uomini vittime delle sessanta vertenze che interessano il decadente tessuto produttivo della Campania: Whirlpool, Comdata, Mecfond, Dema, Jabil per citarne alcune balzate all’onore delle cronache. L’elemento di novità di questo sciopero è stato la presenza delle donne, che stanno vivendo finalmente da protagoniste questa vicenda che nel passato recente era so20
prattutto appannaggio degli uomini. Queste donne coraggiose stanno incarnando con efficacia e determinazione lo spirito del tempo che viviamo, insieme e alla pari dei loro compagni ma, incardinando nella vicenda i loro vissuti quotidiani di mogli, madri e, sempre più spesso, di assistenti sociali. Nel complessivo deserto sociale e lavorativo che sta piegando il nostro territorio e il nostro paese l’altra “metà del cielo” sta prendendo il proprio destino nelle proprie mani, senza delegare o farsi intimorire dalle convinzioni sociali, per cui questa materia sia solo nelle mani degli uomini. L’occasione che questa tragica contingenza sta proponendo è irrinunciabile, non va compromessa. Il punto di vista e il vissuto quotidiano di queste novelle eroine è imprescindibile da questa lotta. Questa spontanea manifestazione a esistere e all’essere presenti delle donne operaie campane ammonisce efficacemente il mondo sindacale e la sinistra. L’affermazione di genere è un elemento costitutivo di un nuovo modo di elaborazione politica e di lotta. Le donne campane non hanno chiesto il permesso, hanno invece preso l’iniziativa politica, hanno messo la propria faccia in televisione e nelle interviste, non hanno avuto paura di mostrare le proprie lacrime che non sono manifestazione di debolezza e mollezza. Quelle lacrime sono la sintesi della determinazione e la volontà di contare. Esse rappresentano una promozione di integrazione dei generi, maschili e femminile che, se coniugati imprimono quella “Spinta Propulsiva” di cui la sinistra ha un disperato bisogno. La presenza convinta delle nostre compagne, nelle lotte per il lavoro e del lavoro, è il giusto propellente per le battaglie civili di cui tutto il nostro Paese deve beneficiare. Le donne, combattenti odierne, esigono voce in capitolo. La parità che esse rivendicano, non è solo quella rappresentata dalla parità di sala21
rio, accesso alle carriere, accesso paritario alla previdenza sociale senza nessun tipo di penalizzazione ma, principalmente la parità di genere nel riconoscimento delle peculiarità, un allineamento che consenta un efficace costruzione di una sintesi condivisa e parimenti contaminata senza prevaricazioni e opportunismi di sorta. La risposta delle donne del 31 ottobre rappresenta anche un efficace antidoto alla conferenza sulla “Famiglia” tenutasi a Verona nella scorsa primavera, organizzata dall’oscurantismo razzista di una parte politica. Le crisi del sistema capitalistico hanno un fattore comune e costante nella storia, le donne e il lavoro. L’arretramento di queste due importanti componenti, determina lo scivolamento delle società nel baratro. Muore l’istruzione di tutti i generi, muore la diversità, muore la sanità pubblica, prevalgono l’arroccamento e le politiche di esclusione. Lo Stato e la società abdicano al loro ruolo di coesione sociale. La determinazione di questa lotta sta, inoltre, dimostrando che la resistenza e la cittadinanza attiva sono di sprone alla partecipazione collettiva. Non è un caso, infatti, che le lavoratrici e i lavoratori delle altre aziende, abbiano trovato il coraggio e la determinazione di mostrarsi e di essere protagonisti di questa lotta che deve e dovrà coinvolgere tutta l’Italia unitariamente. Le alte professionalità, costituite da quest’orgogliosa umanità, non vanno depauperate e disperse. Le aziende per le quale esse sono impiegate rappresentano i settori più avanzati della produzione: dall’aereonautica, agli elettrodomestici, dalla componentistica elettrica ed elettronica all’assistenza ai cittadini. L’istruzione universitaria nel Sud ha dato prova di efficienza e innovazione, ne sono testimonianza l’insediamento della accademie di Cisco, colosso mondiale dell’ Infomation Tecnology (IT), di Google e di Amazon nel territorio regionale; il fer22
mento innovativo ha semini in tutto il Sud che con migliaia di start up testimonia vitalità e inclinazione ad accompagnare le evoluzioni produttive tese alla qualità e alla sostenibilità . Il 31 ottobre ha dimostrato che i luoghi di discussione della sinistra non possono essere le colonne dei giornali o i convegni, sono le piazze e i luoghi di lavoro, questa mobilitazione lo ha dimostrato, indicando una strada. La sinistra non deve avere paura dei luoghi aperti, la sindrome claustrofobica in cui versa ha reso l’aria contaminata e irrespirabile asfissiando le idee e la partecipazione. Questa data ha dimostrato che non esistono latitudini, differenze di genere tali, da impedire battaglie giuste e sacrosante per impegnare la Sinistra a essere seriamente progressista e anche rivoluzionaria nelle idee.
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Politica
Io, tu e le tasse Antonella GOLINELLI
Lo strano caso di chi le tasse le approva o addirittura, pare, le propone in sede di lavoro di impianto del DEF e in pubblico le contesta e promette di farle togliere. Sarà una malattia strana? Sarà malafede? Saranno semplicemente sempliciotti? Chissà. Vogliamo cominciare con le auto aziendali? Orsù facciamolo. La vicenda dell'abbassamento fino all'azzeramento dei bonus fiscali sulle auto aziendali è strabiliante. Pare, ma non mi è chiarissimo, l'abbia proposta un noto vivaista per poi sca24
gliarcisi contro. Ma non è importantissimo stabilire chi l'abbia proposto. Quello che non si capisce è perché una componente del quadripartito al governo abbia approvato la norma per poi contestarla. Hanno addirittura avviato una raccolta firme. Che poi non è nemmeno malvagia come norma. Di fatto la diminuzione della soglia di esenzione fiscale va, se ho capito bene, in riferimento a parametri. Non ultimo il fattore inquinamento. Qualche considerazione: intanto perché dovrebbe continuare ad esserci una esenzione fiscale per le auto dei dirigenti. Fanno parte della paga. Perché la paga ai dirigenti la devono fornire i poveracci? Si, lo so, è sempre così, ma questo è piuttosto odioso oltre che ingiusto. Quelle che sono le auto di servizio altamente inquinanti perché non dovrebbero essere sostituite? Le aziende cosa mandano in giro i dipendenti con degli scassoni a calzini sporchi? Siccome, pare, che le flotte aziendali siano parte consistente del mercato dell'auto se le cambiassero (altrove lo fanno ogni 4 anni) darebbero un bell'impulso ad un settore piuttosto asfittico al momento. O no? Anche le nostre vie respiratorie ringrazierebbero. La plastic tax. Oh questa mo' è una vicenda ai limiti del surreale. Ce l'hanno tutti i paesi occidentali, anche più consistente della nostra, su plastiche monouso e pure sulla riciclabili; hanno fratturato l'anima con Greta e il movimento green giovanile; per direttiva europea nel 2021 le plastiche monouso verranno messe al bando e in tutto questo scenario saltano fuori a dire che non va bene. Non va bene? A chi esattamente? Non si capisce bene. Ai produttori? Perché a poco più di un anno ancora non sono in dirittura d'arrivo nella riconversione? Mi pare siano un filino lunghi. O aspettavano forse di arrivare 25
a scadenza e battere cassa piangendo? Sentivo tempo fa che “non c'è abbastanza tempo per la ricerca”. La ricerca di che, di grazia? Esistono i macchinari appositi. Li vendono in tutto il mondo. Dalle mie parti c'è un colosso di queste linee. Basta comprarli. O dobbiamo finanziare pure i vostri bene di produzione iperammortizzati? #mognint Non va bene politicamente? Ma se è stato tutto un fiorire di esortazioni alla politica da parte del vivaista in capo ad essere conseguenti ai temi proposti dal movimento. All'atto pratico no? Chi se ne frega della plastica e dell'inquinamento? Cosa mi sfugge in questo ragionamento? Mah. Alla fine parliamo della sugar tax. Anche questa ce l'hanno tutti. E non da oggi. Serve da un lato a scoraggiare il consumo di cibo spazzatura dall'altro a finanziare la sanità. Non è una brutta pratica. Tra l'altro molto in linea con l'educazione alimentare praticata nelle scuole, salutista e sostenibile. Anche questa no. Approvata in consiglio e contestata in pubblico. Ma come siete messi? Ma certo! Continuiamo a a far crescere la gente a zuccheri e grassi saturi (consiglio la lettura di La famiglia Winshaw di Coe) e vedrai come si trabocca di salute! Ho visto gli spots di una nota multinazionale di bibite zuccherate che era tutto un florilegio di lodi per se stessi, di quanto sono bravi e di quanto lavoro diano in giro per l'Italia. Tze. Come se due o tre centesimi di tassa in più sul prezzo finale li facesse chiudere. #mognint Dei 23 miliardi di IVA sterilizzata non dicono nulla i vivaisti. Leggo di tutto di più sul resto. Mi chiedo da che parte stiano questi aderenti al par26
tito virtuale. Mi chiedo, non da oggi, quali idee professino e pratichino. Ecologia no, giustizia sociale nemmeno, redistribuzione non se ne parla. Va a capire. Son curiosa di vedere come va a finire. Ormai ci siamo. Bisogna discuterla e approvarla. O approvano o fanno cadere il loro governo. Passeremo di nuovo dal Papeete alla Leopolda?
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Cultura
Fernanda Wittgens, la Walkiria che salvò il Cenacolo di Leonardo Giovan Giuseppe MENNELLA
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Non dette all’usciere quasi il tempo di annunciarla. E mi vidi davanti una donna diversa da tutte le altre. Un erudito avrebbe immaginato in lei Pallade-Athena: io pensai a una Walkiria. Il nome me lo ripeté lei allungandomi la mano: «Sono Fernanda Wittgens. Era irresistibile, le promisi che l’avrei aiutata». Con queste parole si espresse Antonio Greppi, primo sindaco della Milano appena liberata, quando, nell’estate del 1945, incontrò la donna che era diventata l’anima della Pinacoteca di Brera. Era appena uscita dal carcere di San Vittore, dove era stata rinchiusa dai fascisti per aver salvato e fatto fuggire molti ebrei e antifascisti. Un poco Pallade, un poco una Walkiria, un poco un’intellettuale, un poco una guerriera. Chi è stata Fernanda Wittgens? Si potrebbe dire in modo assai sintetico che è stata la prima donna italiana nominata Sovrintendente di un grande Museo e la donna che ha salvato il Cenacolo di Leonardo da Vinci. Ma sarebbe forse riduttivo, è stata molto di più. Fernanda Wittgens era nata a Milano il 3 aprile del 1903 in una famiglia della borghesia intellettuale milanese. Il padre Adolfo, di origine svizzera, era professore di lettere e filosofia nel prestigioso Liceo statale Parini e traduttore. Lui e la mamma Margherita Righini di domenica avevano l’abitudine di portare i sette figli a visitare i musei per instillare in loro l’amore per l’arte. Lei frequentò lo stesso liceo Parini e poi nel 1925 si laureò in lettere e filosofia all’Accademia scientifico-letteraria con il professor Paolo D’Ancona, che era stato a sua volta allievo di Adolfo Venturi e uno studioso illustre dell’antico miniaturismo fiorentino. Dopo la laurea iniziò a insegnare storia dell’arte ai licei statali Parini e Manzoni di Milano. Nel 1928 Mario Salmi, ispettore della Pinacoteca di Brera, la presentò a Ettore Modigliani, Direttore della Pinacoteca e Soprintendente alle Gallerie della Lombardia. Fu assunta immediatamente a Brera, all’inizio come “operaia avventi29
zia” ma, ovviamente, svolse da subito funzioni tecniche e amministrative da ispettrice. Molto preparata, soprattutto attiva, instancabile, non c’erano orari, non c’erano limiti alla sua competente dedizione. Nel 1931 divenne assistente diretta di Modigliani e nel 1933 ufficialmente “ispettrice”. Si ricorda come mitico il viaggio che fece fino in Inghilterra su una nave piena dei più grandi capolavori dell’arte italiana, inviati in mostra al British Museum. La nave incappò in una gravissima tempesta e rischiò seriamente di affondare. Con essa sarebbero affondati i più grandi dipinti dell’arte italiana e anche la nostra protagonista. Nel 1935 Modigliani fu allontanato dall’amministrazione di Brera in quanto antifascista e nel 1938, con le leggi razziali, come ebreo, gli fu revocato ogni incarico, perseguitato e inviato al confino. In questo periodo Fernanda continuò la sua attività informando costantemente Modigliani, di cui poteva dirsi la vera alter ego. Gli fece anche da prestanome firmando un libro scritto in realtà dall’ex Sovrintendente. Il 16 agosto del 1940 vinse il concorso per direttrice della Pinacoteca di Brera, diventando così anche la prima donna italiana a essere posta a capo di un grande museo o galleria. Intanto, era scoppiata la seconda guerra mondiale e l’Italia vi era entrata il 10 giugno del 1940. Con grande preveggenza, Fernanda attuò una capillare opera di convincimento, di organizzazione, anche di raccolta di fondi, lavorando notte e giorno, per mettere in salvo con numerosi trasporti anche rischiosi le opere d’arte di Brera, del Museo Poldi Pezzoli e della Quadreria dell’Ospedale Maggiore. Ci riuscì, appena in tempo. I trasferimenti delle opere terminarono nel giugno del 1943 e, di lì a poco, il 7 agosto, Brera fu devastata e semidistrutta da un pesantissimo bombardamento aereo degli Alleati. 30
Questa del salvataggio dell’immenso patrimonio d’arte italiano è una pagina poco conosciuta ma esaltante e meravigliosa che accomunò, in un’attività pericolosissima, instancabile e avventurosa, Fernanda e altri illuminati giovani ispettori ministeriali delle belle arti, come, tra gli altri, Pasquale Rotondi per l’Italia centrale, Mario Lavagnino e Palma Bucarelli per Roma. Molti di loro portarono via letteralmente da sotto il naso dei tedeschi dipinti e statue dei grandi maestri italiani. Pasquale Rotondi e la moglie dormirono per un certo tempo su un letto sotto il quale c’erano i più importanti dipinti di Leonardo, Raffaello, Caravaggio. Sotto la facciata ufficiale della beneficenza e dell’assistenza, contando sul suo prestigio personale e sulle numerose e importanti conoscenze, attraverso una straordinaria rete di solidarietà al femminile, Fernanda Wittgens mise in piedi una vera e propria organizzazione di appoggio ai perseguitati dei fascisti e di salvataggio di ebrei e antifascisti. In seguito a una soffiata di un infiltrato collaborazionista, un giovane ebreo tedesco, fu scoperta e il 14 luglio del 1944 arrestata con alcune amiche e collaboratrici. Nel tragitto che la portava al carcere di San Vittore chiese ai suoi carcerieri della scorta di poter entrare un’ultima volta nella bellissima chiesa milanese di Sant’Eustorgio, una delle sue più amate, per ammirare gli affreschi quattrocenteschi di Vincenzo Foppa, raffiguranti le storie di San Pietro martire, situati nella cappella Portinari di stile rinascimentale fiorentino. Fu condannata a quattro anni di prigione, ma scontò solo sette mesi perché la famiglia presentò un falso certificato di tubercolosi, anche se lei non avrebbe voluto, perché disse sempre che la prigione era un’altra tappa di perfezionamento nel percorso esistenziale di una cittadina e di un’intellettuale. Infatti, anche prima dell’arresto, durante l’impegno per aiutare i perseguitati antifascisti, a chi la invitava a essere più prudente disse: «Sarebbe troppo bello essere intellettuali in tempi 31
pacifici e diventare codardi, o anche semplicemente neutri, quando c’è un pericolo». Comunque, il 25 aprile del 1945 con la liberazione di Milano e di tutta l’Italia settentrionale,
Fernanda si vide annullare la condanna e reintegrare come pro-
direttore e commissario di Brera. Il 12 febbraio del 1946 fu reintegrato anche Modigliani e lei lo affiancò. Entrambi non limitarono sforzi e impegno quotidiano per procedere alla ricostruzione della pinacoteca, affidandone il progetto al grande architetto milanese Piero Portaluppi. La “Grande Brera” fu ingrandita negli spazi e si cercò di coinvolgere tutta la cittadinanza per dare nuova linfa al museo, con visite guidate per categorie specifiche di cittadini, sfilate di moda notturne, apertura alle diverse forme d’arte, in modo da incrementarne la fruizione in modo esponenziale. Nel 1947, il 22 giugno, dopo la morte di Modigliani, fu affidata a lei anche la soprintendenza di tutto il museo di Brera nel suo complesso, non più della sola pinacoteca. Infine, il 9 giugno del 1950, ci fu la solenne inaugurazione di Brera ricostruita, con un discorso pronunciato da lei davanti a tutte le maggiori autorità statali e comunali, in cui parlò del miracolo che era stato compiuto per ridonare vita in così poco tempo a uno dei più importanti musei del mondo. Ma la Walkiria, sempre instancabile, non si fermò qui. Affidò a Portaluppi il progetto per una Grande Brera, con un Piano Regolatore che previde il collegamento tra Pinacoteca, Accademia di Belle Arti, Biblioteca, Osservatorio Astronomico e Istituto lombardo di Scienze e Lettere. Nello stesso anno, intanto, era stata nominata anche Soprintendente alle Gallerie della Lombardia. In questo periodo convinse il Comune di Milano ad acquistare la Pietà Rondanini di Michelangelo, promuovendo una vera e propria mobilitazione 32
cittadina, anche con raccolte di fondi tra la popolazione. E ci riuscì. La statua fu acquista per 130 milioni di lire nel novembre del 1952. Nel 1955 fu premiata con una medaglia commemorativa dall’Unione delle Comunità israelitiche per l’opera di soccorso prestata a favore degli ebrei perseguitati e l’anno successivo rifiutò una proposta di Ferruccio Parri per candidarla alle elezioni amministrative con la Lista del Fronte laico, perché non se la sentì di rinunciare alla libertà assoluta di persona e di funzionaria entrando nel mondo della politica e dei partiti. Ma dove il suo impegno rifulse per l’ultima volta e in modo più efficace, fu nel salvataggio del Cenacolo di Leonardo da Vinci in Santa Maria delle Grazie a Milano. Infatti, affrontò tremende responsabilità, critiche e difficoltà nell’opporsi alla maggior parte degli storici dell’arte, con in testa il grande critico Cesare Brandi, che consideravano ormai irreparabilmente deteriorato e perduto l’affresco di Leonardo. Secondo questi studiosi, le operazioni di restauro avrebbero cancellato anche gli ultimi lacerti di dipintura che rimanevano. Fernanda Wittgens non si arrese, con la solita forza delle idee e dell’azione, convinta che si dovesse tentare il tutto per tutto e andare a vedere se sotto le ridipinture successive era rimasto il colore di Leonardo, decise per il restauro e lo affidò al gruppo di lavoro di Mauro Pellicioli. Ancora una volta ebbe ragione. Il 30 maggio 1954, al termine delle celebrazioni per il quinto centenario della nascita di Leonardo da Vinci, il Cenacolo felicemente restaurato e la sala del Refettorio di Santa Maria delle Grazie furono riaperti al pubblico. Fu questo l’ultimo lascito importantissimo di quella donna straordinaria anche se poco conosciuta. Infatti, morì prematuramente, per un tumore, il 12 luglio del 1957. Fernanda Wittgens fu una delle tante donne eccezionali che hanno dato la loro ca33
pacità e il loro impegno a questo Paese e meritava di essere conosciuta meglio. Infatti, di recente è stato pubblicato un bel libro sulla sua vita, a cura della storica dell’arte Giovanna Ginex. Il libro non poteva che intitolarsi con le parole “Sono Fernanda Wittgens” con cui si presentò in quel lontano 1945 al primo sindaco di Milano liberata, per convincerlo, quasi costringerlo, a lavorare insieme per la ricostruzione dei monumenti e dei musei danneggiati dalla guerra.
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