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Sardine libanesi
Esteri
Sardine libanesi
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Umberto DE GIOVANNANGELI
Non accettano bandiere di partito alle loro manifestazioni. Non si lasciano abbindolare da vecchi richiami ad appartenenze etno-confessionali, o partitiche, che sono fuori dal loro sentire comune e dall’idea di democrazia che li unisce. Non sono alla ricerca di un leader mediatico, tantomeno di vecchi arnesi della politica in vena di riciclaggio, ragionano in termini di “noi” e non di “io”. Diffidano da politicanti che pur di mantenersi al potere cercano di rifarsi una perduta verginità dichiarandosi, a parole, al loro fianco. Rispondono con la non violenza e la disobbedienza civile a coloro che conoscono e praticano da sempre il linguaggio della forza. Sono le “sardine” libanesi, i giovani protagonisti della “rivoluzione di velluto” che da oltre 45 giorni sta ridisegnando il volto del Paese dei Cedri. Una speranza di cambiamento che deve fare i conti con la brutalità dei suoi nemici. Arrivano all’improvviso a bordo di motociclette (come i Baji iraniani) sventolando le bandiere di Hezbollah e inneggiando al Partito di Dio sciita e al suo leader Hassan Nasrallah. Armati di spranghe, coltelli, bastoni, pietre, catene assaltano i presidi dei manifestanti anti-governativi. Hezbollah dichiara guerra alla “rivoluzione laica” che da 45 giorni sta scuotendo il Libano. Attaccano a Beirut, a Tiro, incendiano le tende dei manifestanti. Al grido di “sciiti, sciiti” e di “Hezbollah, Hezbollah” in perfetto stile Baji le motociclette passano in mezzo ai manifestanti falcidiandone diversi. I giovani libanesi rispondono urlando “Hezbollah terrorista” e tirando sassi contro i miliziani. E la situazione rischia di precipitare in una nuova, devastante, guerra civile. Raffiche di fucili automatici sono state sparate lunedì sera a Beirut da non meglio precisati uomini armati nel quadro di crescenti tensioni politiche e confessionali nella capitale libanese. Colpi di arma da fuoco sono stati uditi ripetutamente nei pressi dell'incrocio stradale di Cola, poco lontano dal centro della città. L'esercito libanese si era dispiegato stasera in forze nei pressi delle strade che dividono i quartieri controllati dai partiti sciiti Hezbollah e Amal dai quartieri a maggioranza sunnita di Qasqas e Tariq Jdide, non lontano da Cola. Resistono, resistono, resistono. Nonostante la brutale repressione in atto. Amnesty ha parlato con otto manifestanti arrestati durante le proteste e con un avvocato che rappresenta alcune persone in carcere, ha raccolto e analizzato documentazione video e ha esaminato alcuni referti medici. I manifestanti hanno riferito di essere stati arrestati senza mandato, picchiati, derisi e umiliati, bendati e costretti a rilasciare confessioni false. Alcuni sono stati portati in centri di detenzione sconosciuti, senza poter comunicare con avvocati e familiari e senza ricevere cure mediche. Due di loro hanno denunciato di essere stati sottoposti a finte esecuzioni. “Le Forze armate libanesi devono immediatamente porre fine a queste azioni violente e assicurare che, anziché punire i manifestanti perché esercitano i loro diritti, la libertà di espressione e di manifestazione pacifica siano protette”, ha dichiarato Lynn Maalouf, direttrice delle ricerche sul Medio Oriente di Amnesty International. “Nelle ultime tre settimane, abbiamo visto i soldati picchiare e trascinare via manifestanti pacifici. In una fase in cui la tensione politica e sociale è elevata, le forze armate devono comportarsi con moderazione. Le loro a- zioni brutali devono essere sottoposte a indagini serie ed efficaci da parte della giustizia civile e i responsabili devono essere portati di fronte alla giustizia”, ha aggiunto Maalouf.
Almeno due manifestanti risultano indagati dalla procura militare. A tale proposito, Amnesty International ha ricordato alle autorità libanesi che gli imputati civili non devono essere processati dalle corti marziali. Secondo il Comitato degli avvocati per la difesa dei manifestanti, la notte del 27 novembre nella provincia di Marjeyoun uomini dei servizi segreti militari hanno arrestato due ragazzi che stavano scrivendo su un muro slogan a sostegno delle proteste. Sono stati interrogati e, il giorno dopo, rilasciati. In altri sette casi documentati da Amnesty International, i militari hanno sottoposto a pestaggi le persone arrestate, rilasciate chi dopo ore e chi dopo sei giorni. Il 14 novembre Samer Mazeh e Ali Basal stavano camminando lungo Gemmayzeh, una strada adiacente il centro di Beirut dove c’era un raduno di manifestanti, quando sono stati fermati da cinque soldati in abiti civili. Poco dopo è sopraggiunto un veicolo militare da cui è sceso un membro dei servizi segreti militari. “Mi ha spinto con la faccia a terra e mi ha ammanettato. Mi hanno fatto salire sul veicolo e mi hanno picchiato. Mi hanno coperto il volto con la maglietta e obbligato a stare a testa in giù. Poi hanno preso Ali, lo hanno fatto salire a bordo e obbligato a sedersi sulla mia testa. Ho detto che stavo soffocando e un soldato ha risposto che a loro non importava niente”, ha raccontato Samer. Una volta giunti all’esterno di un centro di detenzione sconosciuto, i due arrestati sono stati fatti scendere e costretti a camminare sulle ginocchia coi fucili puntati contro la nuca: “Lì dentro mi hanno chiesto di dichiarare, al posto delle mie generalità, che ero un somaro. Poi è arrivato uno che ha chiesto se fossi stato io a insultare il presidente, e mi ha preso a schiaffi”, ha proseguito Samer. In un altro caso risalente al 13 novembre, mentre stava prendendo parte a una manifestazione pacifica nella città di Baabda, Khaldoun Jaber è stato avvicinato da due uomini in borghese che “volevano fare due chiacchiere”. In realtà, è stato arrestato e portato in una zona lontana dalla manifestazione, dove 30 soldati dei servizi segreti militari lo hanno circondato e preso a bastonate sulla schiena. Poi lo hanno bendato e portato in un luogo sconosciuto. “In seguito ho appreso dal mio avvocato che si trattava del ministero della Difesa. Nel corso degli interrogatori mi hanno chiesto chi ci stesse pagando, chi ci spingesse a scendere in strada, chi ci portasse da mangiare durante le proteste. Mi hanno bastonato sulla schiena, sul costato e sulle gambe. Non potevo contattare nessuno. Non mi hanno dato da mangiare e mi hanno vietato di fumare. Mi hanno solo portato dell’acqua”, ha raccontato Khaldoun. Chris Haddad è stato arrestato il 5 novembre a Jal el Dib insieme ad altri otto manifestanti: “Tre soldati mi hanno assalito, armati di bastone. Mi hanno coperto il volto col mio maglione, trascinato via e picchiato per tutto il tragitto fino a dove avevano parcheggiato i loro blindati”, ha raccontato. Questa è, invece, la testimonianza di Fadi Nader, arrestato nella stessa occasione: “Mi hanno picchiato violentemente e trascinato dall’altra parte della strada. Ho tentato di fuggire ma mi hanno riacciuffato. Mi hanno fatto salire a bordo del loro veicolo e mi hanno picchiato con un bastone. Sapevano benissimo chi arrestare, molti di noi che prendono parte alle manifestazioni sono volti noti di questo movimento di proteste”. Altre due persone contattate da Amnesty International hanno riferito di essere state arrestate il 26 ottobre a Tripoli, all’interno del negozio dove lavoravano, poco distante da una manifestazione. Entrambi sono stati insultati e picchiati, riportando gravi ferite alla testa. Sono stati trattenuti in una prigione militare, senza poter avere contatti con l’esterno, per sei giorni prima di essere stati rilasciati. Almeno due di queste persone sono in attesa del processo, in corte marziale, che dovrebbe iniziare nel 2020. Ciò che Hezbollah e le Forze che tengono ingabbiato il Libano,non possono accettare è uno dei meriti maggiori della “primavera libanese”: quello di voler superare le divisioni settarie che avvelenano il Medio Oriente. “È una grande notizia - annota Pierre Hasky di France Inter su Internazionale - dopo anni segnati dal conflitto tra sciiti e sunniti, dalle persecuzioni contro le minoranze e dal califfato fondamentalista, così come è bello ascoltare lo slogan dei libanesi, ‘tutti significa tutti’, espressione della volontà di lasciarsi alle spalle un sistema politico fondato su un comunitarismo religioso. Certo, non si possono cancellare in un solo colpo secoli di divisioni e guerre, ma un ’libanese nuovo’ sta emergendo dalle manifestazioni: giovane, attivo su internet e deciso a uscire dalla ‘prigione’ mentale settaria”. Quella in atto, a Beirut, è una rivoluzione culturale, ancor prima che sociale: è la rivoluzione dei cittadini, in gran parte giovani, che si sentono iracheni, libanesi, e non sunniti o sciiti, cristiani… Scendono in piazza sventolando bandiere nazionali, esaltando un diritto di cittadinanza che riporta al centro lo Stato-nazione, lo Stato dei cittadini, rompendo le vecchie gabbie identitarie comunitarie. I manifestanti contestano l’alto tasso di disoccupazione e la corruzione della classe politica. Il Paese dei Cedri ha uno dei debiti pubblici più alti al mondo (circa 77 miliardi di euro, corrisponde al 150 per cento del prodotto interno lordo), ma il livello di profitti delle sue banche commerciali, vicine ad alcuni politici e che detengono gran parte del debito, sono superiori a quelli dei Paesi occidentali. Secondo l’ultimo rapporto dell’Undp, l’agenzia Onu per lo sviluppo umano, per ineguaglianza dei redditi il Libano è al 129° posto su 141 Oaesi. L’un per cento più ricco possiede il 25 per cento dell’intero redito nazionale. Nel 2017 il venti per cento di tutti i depositi era concentrato in 1.600 conti correnti: lo 0,1 per cento del totale dei depositi nelle banche libanesi, molte delle quali sono dei politici di turno o dei loro parenti. Le proteste erano iniziate contro il piano del governo di imporre nuove tasse su diversi beni e servizi, tra cui il tabacco, la benzina e le telefonate fatte via internet. A Beirut i blackout programmati vanno dalle 3 alle 6 ore al giorno, fuori dalla capitale si arriva invece anche a 12 ore senza e- lettricità. Chi può permetterselo, copre le ore di "buco" acquistando un generatore, finendo così per alimentare un business gestito da soggetti (in questo caso vicini a Jumblatt, leader druso del Partito socialista progressista) che hanno interesse nel mantenimento del precario status quo. Anche l'approvvigionamento idrico è un problema - in alcune aree costiere della capitale l'acqua della doccia è salata - solo parzialmente lenito dalla presenza di due navi cisterna turche "parcheggiate" sulla costa libanese. A chiunque si trovi in Libano non può sfuggire, poi, l'emergenza rifiuti, che nel 2015 stimolò una prima rabbiosa protesta della popolazione, riunita attorno al movimento della società civile "You stink" (Voi puzzate): il problema, sorto ormai 7 anni fa, non è stato mai risolto. Anzi, in alcuni frangenti si è aggravato, soprattutto dopo la chiusura di alcune discariche, e l'apertura di quella di "Costa brava", sulla spiaggia che lambisce l'aeroporto, che due anni fa provocò anche alcuni problemi di sicurezza (i gabbiani che volavano sopra i rifiuti "sconfinavano" spesso sulle piste di atterraggio). Infine, la logica del "wasta". Tradurlo con "raccomandazione" non renderebbe l'idea del radicato meccanismo clientelare che sottende, insito nel sistema confessionale libanese: chi cerca lavoro in Libano - dove la disoccupazione giovanile ha raggiunto il 40%, cifra che cresce moltissimo se si considerano i non contrattualizzati - nella quasi totalità dei casi deve conoscere qualcuno che lo metta in contatto col politico cristiano, sunnita, sciita, druso (a seconda dell'appartenenza del "richiedente"), che cercherà una occupazione per lui in cambio di una implicita (o esplicita) promessa di "fedeltà". Semplificando, un voto di scambio, che finisce indirettamente per rafforzare la legittimità dell'establishment, oggi integralmente sotto accusa. “Il Libano è un non stato, come ha dimostrato qualche anno fa la paradossale “crisi della spazzatura”, dovuta all’incapacità del potere pubblico di gestire i rifiuti della capitale. Quella era stata la prima avvisaglia di ciò che sta accadendo oggi, con la ribellione di un popolo intelligente e maturo che merita qualcosa di più di un presidente che invita i giovani scontenti a emigrare. Finora soltanto l’esercito è stato risparmiato dalla contestazione, e questo lascia pensare che i militari potrebbero avere un ruolo chiave nell’immediato futuro, rimarca ancora Hasky. ll premier Saad Hariri si è dimesso a fine ottobre. (e nei giorni scorsi ha gettato la spugna rinunciando al tentativo di formare un nuovo governo). E da allora il capo di Stato Michel A- oun non ha ancora avviato le consultazioni politiche previste dalla costituzione. Non riuscendo ad “addomesticare” la piazza, Hezbollah ha deciso di attaccarla. Un’avvisaglia c’era già stata il 25 ottobre. "Se noi scendiamo in piazza, non ci muoviamo finché non raggiungiamo i nostri obiettivi. Tuttavia, quella iniziata come una protesta spontanea, gioiosa e giusta, in cui la gente ha recuperato la speranza di cambiamento, ora viene strumentalizzata da alcuni partiti politici e sta diventando qualcos'altro. Abbiamo informazioni di intelligence secondo cui ci sarebbe uno schema internazionale per delegittimare la resistenza, e ho chiesto alla nostra gente di tenersi lontana dalle piazze. Stiamo entrando in una fase pericolosa", aveva avvertito Nasrallah in un discorso minaccioso trasmesso da al-Manar, la tv di Hezbollah. Gli attacchi susseguitisi nelle ultime 48 ore sono la traduzione operativa dell’avvertimento di Nasrallah. Ma la rivoluzione laica non si fa ingabbiare. Una riprova la si è avuta il 22 novembre, quando migliaia di libanesi sono tornati in piazza a Beirut e nelle altre principali città del Paese nel giorno dell'indipendenza nazionale. I manifestanti hanno inscenato una "parata civile" in piazza dei Martiri e nella vicina piazza Riad Solh, luoghi simbolo della mobilitazione contro il sistema politico, in risposta alla tradizionale parata militare organizzata dalle autorità. Un evento senza precedenti nella storia del Paese dei Cedri. L’abbiamo raggiunta telefonicamente a Beirut. “E’ stata una giornata emozionante – dice Mirna – una giornata di festa. Eravamo, siamo uniti da una comune volontà di cambiamento, non importa se sei sciita, sunnita, cristiano o cos’altro, importa voler costruire un Paese dove vali per quel che sei e non per la tua appartenenza confessionale, o perché ti genufletti a qualche potente locale. Per noi libertà, giustizia, trasparenza, condivisione, non sono parole vuote ma valori per cui vale la pena battersi. Crediamo in un cambiamento dal basso, nell’importanza di investire nell’istruzione e diciamo no ai ladri di futuro. Dicono che siamo degli idealisti. Ma questo per noi è un merito, non una colpa. Sappiamo che giovani con i nostri stessi ideali si sono mobilitati in tanti altri Paesi, non solo in Medio Oriente, ma anche in Asia e da voi in Italia”. In Italia, dico a Mirna, il movimento che riempie le piazze si è autodefinito delle “sardine”. Mirna ride e poi commenta: “L’ironia è una arma potente che fa paura a chi detiene il potere. E poi chi l’ha detto che le ‘sardine’ se sono tante e decise non riescano ad avere la meglio sui vecchi ‘squali’ della politica?”. Meditate gente, meditate...