l'Unità Laburista - Razzi e la Piattaforma Rousseau - Numero 8 del 7 settembre 2019

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Numero 8 del 7 settembre 2019

Razzi e la Piattaforma Rousseau


Sommario 

Razzi e la Piattaforma Rousseau - pag. 3

di Antonella

BUCCINI

L’intifada dei falascia. I paria d’Israele - pag. 7

di

Umberto DE GIOVANNANGELI

Altiero Spinelli e il processo d’integrazione federale europea - pag. 15 di Giovan Giuseppe MENNELLA

L’Università scende in campo - pag. 27 di Umberto SCOTTI DI UCCIO

Effetti collaterali - pag. 29 di Antonella GOLINELLI

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Politica

Razzi e la piattaforma Rousseau di Antonella BUCCINI

Lo confesso: sono un’analfabeta digitale. Con grande affanno ho acquisito dimestichezza con le e mail, word, non ancora excel. L’evocazione di una piattaforma mi fa venire la pelle d’oca come una folata di vento freddo e per riprendere calore ci impiego qualche secondo. E’ l’accesso che mi mette i brividi: account, password, riprova... riprova... azz! Mi sembra di ascoltare il comandante Schettino… no… l’altro… che si accanisce! Cionondimeno, vorrei spendere due parole sulla piattaforma Rousseau.

E’ un sistema di consultazione degli iscritti a un movimento e quindi legittimo. Ognuno si sceglie i propri. Le occasioni di partecipazione sono molteplici ma anche i dubbi. La formulazione delle domande orienta? Certo che orienta. I dati sono manipolabili? Se il garante o il capo politico lo richiedono la consultazione va ripetuta. Perché? I dati degli iscritti, più di 100mila, chi li detiene? Si tratta di un bene 3


non di poco conto.

Certamente le dinamiche congressuali degli altri partiti, quelli che ancora le praticano (solo il PD?), sono a noi cittadini sconosciute e pure hanno le loro impenetrabili ragioni magari anche perverse così come gli iscritti saranno pure gestiti da qualche parte. Fermo restando che la tecnologia digitale è un mondo ancora ricco di stupefacenti sorprese e non solo per me che sono ottusa, ciò che mi inquieta è l’ideologia sottesa alla piattaforma Cinquestelle. Si può dire “ideologia” riferendosi ai grillini? Spero non sia un’offesa.

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Dunque, tempo fa, in un’intervista Casaleggio junior sostenne che tra un po’, non ricordo quanto, il parlamento non sarebbe più esistito perché avrebbe trionfato la democrazia diretta, uno vale uno! Una ministra grillina qualche giorno dopo spiegò: tutti i cittadini possiedono un PC no? Sì. Tutti sanno adoperarlo no? Sì (fatte le dovute eccezioni, vedi la sottoscritta!). Bene, in occasione del varo di una legge, ad esempio, sostenne la ministra, il cittadino con un clic esprimerà il suo consenso o dissenso! Non erano ancora arrivate le coppette per le mestruazioni in luogo degli assorbenti proposte da altro parlamentare grillino, ma io già avvertii una sensibile apprensione. Dovremmo ricordare, come ci hanno insegnato in questi 14 mesi, che esiste il popolo che parla e pensa semplice. Sono le elite che si barcamenano in discussioni e pensieri inutilmente articolati e astrusi. Questo popolo dovrebbe, quindi, essere chiamato a interpretare una legge! Anche se si vuole immaginare che il linguaggio giuridico, davvero onanistico in molte occasioni, si semplifichi, non si può sottacere che l’apposizione anche di una sola virgola o una declinazione al plurale e non al singolare può incidere in maniera sostanziale su una norma o sul senso complessivo di una legge. Il cittadino dovrà dunque appassionarsi al dettato normativo, coglierne lo spirito e inquadrarlo nel complessivo ordinamento dello stato nella materia trattata. Ma intanto che ne sappiamo delle quote latte o dei riflessi sulla separazione delle carriere dei magistrati o ancora delle esatte connessioni degli interventi fiscali? Altra possibilità è che le scelte sulla piattaforma siano orientate sul capro espiatorio prescelto, come oggi i migranti, o sollecitate con formulazioni sintetiche che omettono la ratio complessiva di una legge e non spiegano le relazioni con gli altri 5


provvedimenti, con buona pace dell’articolato normativo. La rappresentanza parlamentare dunque ha un senso preciso in termini di competenza politica e democrazia sostanziale. Un improvviso rigurgito eversivo. quasi mi soffoca... Razzi... Scilipoti‌ Ma no‌ Dobbiamo essere ottimisti!

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Esteri

L’intifada dei falascia. I paria d’Israele di Umberto DE GIOVANNANGELI

S’inizia con gli arabi israeliani, e poi si continua con chi non rientra nell’idea della “purezza”. La “purezza ebraica”.

Per cercare di capire dove va Israele non serve guardare alla sempre più frantumata e degradata scena politica) né raccontare di una campagna elettorale, quella che poterà alle imminenti elezioni anticipate del 17 settembre, che in quanto a personalismi esasperati, veleni, colpi bassi, dossieraggi, alleanze estemporanee, sta facendo impallidire anche la campagna che portò al voto, anch’esso anticipato, del 9 a7


prile, campagna considerata, e a ragione, da tutti gli analisti di qualunque coloritura politica, la peggiore nella storia d’Israele. Per cogliere gli elementi fondanti della “psicologia di una nazione” occorre frequentare la piazza. Con i suoi malesseri, la rabbia che l’anima. Pneumatici dati alle fiamme. Giovani con i volti coperti che si scontrano con la polizia in assetto di guerra. Hanno il loro “martire” a cui ispirarsi, il dolore e la rabbia come compagni di vita. E lo slogan gridato che è, al tempo stesso, rivendicazione e denuncia “Black lives matter” (“Le vite nere sono importanti”). È l’“intifada dei falascia”, gli ebrei etiopi. E già il nome dà conto dell’atteggiamento maturato nei loro confronti: li chiamano con disprezzo falascia (o falasha), traducibile con esiliati, immigrati, stranieri. Quale sia la loro condizione, lo racconta alla Radio pubblica d’Israele uno dei giovani protagonisti della rivolta: “Abbiamo paura che le nostre vite non valgano nulla. […] I giovani hanno paura di uscire e vedere la polizia. Ogni giorno ci troviamo di fronte al razzismo, gli etiopi non sono assunti, non sono date case in affitto, non sono ammessi nei bar nei fine settimana.La cronaca delle scorse settimane racconta di almeno sessanta manifestanti arrestati negli scontri avvenuti a Gerusalemme in seguito alla morte di un rappresentante della comunità etiope, Solomon Tekah, ucciso domenica scorso da un agente di polizia non in servizio. La morte del giovane ha ridato vigore alle accuse contro la polizia di brutalità e razzismo verso la comunità etiope. Lo scorso primo luglio centinaia di manifestanti hanno bruciato pneumatici e bloccato le vie principali di Haifa. Da parte sua, la polizia ha fatto sapere che risponderà in modo “deciso” a ogni ulteriore violenza. I rappresentanti della comunità si stanno preparando per nuove proteste in tutto il paese, come avvenne nel 2015 quando ci furono scontri fra i manifestanti e la polizia in piazza Rabin, a Tel Aviv. La rivolta dei falascia offre altri argomenti alla ricerca su cosa sia oggi Israele, della faglia sociale, culturale, etnica, identitaria che sta sempre più dividendo la società, con processi di 8


marginalizzazione delle minoranze che ormai non riguardano più solo la comunità araba (oltre il venti per cento della popolazione) ma che attraversano anche la maggioranza ebraica. Siamo in Israele, ma le cronache che hanno accompagnato l’uccisione del giovane etiope e la rivolta che ne è scaturita, assomigliano molto allo scenario americano, alle proteste di strada dopo l’uccisione di un giovane, o non giovane, afro. In questo, concordano analisti a Tel Aviv, Israele si sta “americanizzando”, nel senso, però, più deteriore: l’America che ghettizza, che emargina, l’America nella quale chiunque non sia conforma ad una concezione divisiva di “normalità”, nei comportamenti, nel colore della pelle, nell’essere condannato a permanere ai livelli sociali più bassi, è considerato una minaccia, un problema di sicurezza, di ordine pubblico. Vicina a questa America, Israele appare sempre più lontana dal Medio Oriente. Stavolta, il discorso non riguarda la pace o la guerra, i nemici esterni, veri o presunti, contro cui far fronte, siano essi i Pasdaran iraniani, gli Hezbollah libanesi, i palestinesi di Hamas o della Jihad islamica. L’Israele “americanizzata” teme il multiculturalismo, diffida del pluralismo etnico, e al proprio interno crea ghetti per coloro che vengono considerati inferiori: i falascia rientrano in questa categoria. Un “nemico interno” e come tale va fronteggiato. E allora ecco i racconti dei manifestanti che fronteggiano gli agenti, al grido di “assassini, assassini”, che bloccano le autostrade e almeno quindici incroci, con 47 poliziotti feriti e almeno sessanta contestatori rimasti bloccati in enormi ingorghi. Solomon Teka era un ragazzo di diciannove anni, ucciso a colpi di arma da fuoco a Kiryat Haim, nei pressi di Haifa, lo scorso 30 giugno. Il suo omicidio ha scatenato la rabbia dei membri della comunità etiope. Questi affermano che i loro giovani, poiché neri, vivono nella costante paura dell’aggressività della polizia. In seguito alla morte di Teka, in un primo momento la polizia ha riferito che l’ufficiale ha visto uno scontro tra “un certo numero di giovani” nelle vicinanze e ha cercato di se9


darlo. Dopo che l’ufficiale si è identificato, i giovani hanno iniziato a lanciargli pietre. Un comunicato della polizia afferma che l’uomo ha aperto il fuoco contro Teka dopo aver “sentito che la sua vita era in pericolo”. I media israeliani hanno rivelato che gli altri giovani ed un testimone hanno smentito che il poliziotto fosse stato attaccato. Il soprintendente Micky Rosenfeld, portavoce della polizia, ha annunciato che l’agente è agli arresti domiciliari ed è in corso un’indagine da parte del dipartimento del ministero della giustizia che indaga sulla condotta della polizia. Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha pubblicato un video nel quale afferma che “tutti sono in lutto per la tragica morte di Solomon Teka”. Pur riconoscendo che “vi sono problemi da risolvere”, Netanyahu ha chiesto ai manifestanti di cessare i blocchi delle arterie stradali. “Vi chiedo, risolviamo i problemi insieme, secondo la legge”, ha affermato. Ma questi problemi si sono aggravati con i governi delle destre e con la consacrazione di una” psicologia della nazione” che non contempla l’esistenza di segmenti che non rientrano nei parametri imposti della “purezza” ebraica. Quanto a Netanyahu, un passo indietro nel tempo. Novembre 2018: è stata una sorpresa amara per gli ebrei etiopi la decisione del governo israeliano di mettere un tetto al numero di coloro che possono lasciare il paese africano per essere accolti in Israele.

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Una scelta che smentisce l’impegno preso nel 2015 di dare a tutti la possibilità di stabilirsi nello stato ebraico. Mentre gli ebrei falascia residenti in Etiopia sono ottomila, Tel Aviv ha deciso di limitare questi permessi a mille, portando migliaia di loro a scendere nelle strade di Addis Abeba al fine di protestare contro il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, e la sua decisione, che rischia di dividere intere famiglie, nelle quali spesso alcuni membri sono già partiti mentre altri sono ancora in Africa. Per questo motivo Neggousa Zemene Alemu, coordinatore della comunità ebraica per Addis Abeba e Gondar, tramite una dichiarazione ripresa dall’agenzia Associated Press ha invitato tutti gli ebrei falascia a non dare il loro voto al Likud, il partito che sostiene il governo che ha preso questa decisione che causerà loro problemi e sofferenze. Nove mesi dopo, la situazione non solo non si è risolta ma è esplosa. Durante la cerimonia funebre, Varkah, il padre del ragazzo ucciso ha sottolineato: “Vogliamo giustizia”. Varkah ha raccontato che suo figlio aveva intenzione di arruolarsi nella polizia come parte del suo servizio militare. “Ci sono agenti di polizia che vengono per proteggere la gente e fanno il loro lavoro fedelmente”, ha detto, aggiungendo tuttavia che ve ne sono però altri, “pochi che si sono arruolati e usano le loro armi e il loro potere”. Subito dopo la cerimonia, migliaia di ebrei di origine etiope hanno bloccato strade e circonvallazioni strategiche a Haifa, Tel Aviv e altrove in Israele. “Basta con questi omicidi, basta con il razzismo” e hanno incendiato pneumatici e qualche macchina. “L’uccisione di Solomon Teka e le proteste che ha generato hanno portato alla luce qualcosa di profondo e profondamente negativo, che scava dentro la società israeliana, che investe le sue trasformazioni etno-demografiche alimentando processi di disgregazione sociale che finiscono per mettere a rischio le stesse basi di un sistema democratico che, in uno stato di diritto, dovrebbe avere tra i suoi pilastri la parità di trattamento di tutti i propri cittadini” ci dice Yael Dayan, scrittrice, più volte parlamen12


tare laburista, paladina dei diritti delle minoranze. Nonostante la coscrizione obbligatoria e l’obbligo di frequenza della scuola pubblica, l’integrazione è infatti rimasta per lungo tempo lettera morta. I più giovani sono inseriti in programmi educativi e religiosi specifici in nome del progresso. Secondo molti autorevoli attivisti dei diritti umani, la cultura ebraico-etiope ha subìto in questi trent’anni, prima nei campi profughi e poi nelle istituzioni pubbliche, un processo di assimilazione forzata che ha invano tentato di annullarne le specificità identitarie e i legami con la tradizione sincretica africano-ebraica. Come ha messo in luce il documentario Vacuum della giornalista israeliana Gal Gabay, il governo israeliano ha continuato per anni a imporre alle donne etiopi in età fertile la somministrazione controllata di Depo Provera, un pericoloso farmaco anticoncezionale, al fine di ridurre la crescita demografica delle famiglie di origine etiope. Nota come falascia o Beta Israel, la comunità ebraica etiope di Israele conta circa centoquarantamila membri, tra cui oltre cinquantamila nati nel paese. La maggior parte di essi discende da comunità tagliate fuori dal mondo ebraico per secoli. Solo nel 1975 il rabbinato e il governo israeliano hanno riconosciuto la loro identità ebraica, aprendo le porte al loro arrivo. Israele ha accolto decine di migliaia di etiopi negli anni Ottanta e Novanta, attraverso la legge del ritorno. Tra il 21 novembre 1984 e il 5 gennaio 1985 ottomila falascia furono trasportati con aerei della El Al fino in Israele. Si presume che siano stati molti di più coloro che avevano cercato di raggiungere il Sudan, ma che hanno trovato la morte durante la lunga marcia a piedi, falcidiati dalla fame e dalle malattie. I voli, con l’autorizzazione del governo sudanese, furono effettuati di nascosto, in piena notte. Quando l’operazione divenne nota, gli stati arabi costrinsero il Sudan a ritirare la propria autorizzazione, lasciando circa mille ebrei etiopi in Sudan. Nonostante la maggior parte di questi fosse poi portata in Israele durante l’“operazione Giosuè”, circa mille bambini rimasero orfani in Israele, a 13


causa della morte della loro famiglia in Etiopia. A tutt’oggi sono ancora oltre settemila i falascia che si trovano da anni nei campi di transito ad Addis Abeba e Gondar in Etiopia, in attesa di essere trasferiti in Israele. Eppure con la risoluzione 716 del 2015 il governo israeliano aveva approvato all’unanimità che entro cinque anni, chi era in possesso dei necessari requisiti – il permesso d’entrata è vincolato all’esito positivo del processo di omogeneità con l’ebraismo – avrebbe ottenuto i necessari documenti di viaggio. I viaggi della speranza sono stati continuamente rinviati per mancanza di fondi e altro. A.Y. Katsof, a capo di Heart of Israel, che ha dedicato la sua vita per riportare “a casa” gli ebrei, ha fatto sapere che i campi di Gondar e Addis Abeba non sono per nulla attrezzati: manca la corrente elettrica, l’acqua, molti di loro lavorano per meno di un dollaro al giorno. La comunità si è spesso lamentata per “il razzismo istituzionalizzato”. Il 41 per cento delle famiglie di ebrei etiopi vive al di sotto della soglia di povertà. Rabbia, dolore, fame di rivalsa: l’Intifada dei falascia, i paria d’Israele.

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Federalismo Europeo

Altiero Spinelli e il processo di integrazione federale europea di Giovan Giuseppe MENNELLA

Altiero Spinelli nasce a Roma il 31 Agosto 1907 da una famiglia di tradizione socialista. I primi anni di vita li trascorre in Brasile dove il padre ha una carica diplomatica. Ben presto ritorna con la famiglia a Roma, dove compie gli studi e inizia a interessarsi della politica. Nel 1924 aderisce al Partito comunista d’Italia, formatosi nel 1921 dalla scissione di Livorno dal vecchio partito socialista. Nel partito si lega di amicizia con Giorgio Amendola. Abbiamo la testimonianza di Camilla Ravera, una dei fondatori, secondo la quale lo stesso Gramsci lo considerava un militante molto serio e promettente; le aveva detto che bisognava dare a quel ragazzo la possibilità di fare qualcosa di utile, essendo maturo e capace e anche un gran lavoratore. Diventa dirigente del Partito e nel 1926 Segretario della Federazione giovanile. Ben presto è schedato dalla Polizia politica fascista, la famigerata Ovra diretta da Arturo Bocchini, ed entra in clandestinità a Milano prendendo il nome di battaglia di Ulisse. E’ scoperto e arrestato e viene incarcerato a Regina Coeli a Roma. Nella corrispondenza con la famiglia difende la sua scelta e chiede libri di tutti i tipi per non far passare infruttuosamente il soggiorno in carcere. 15


E’ processato al Tribunale speciale per la difesa dello Stato il 6 Aprile 1928 subendo una condanna a 16 anni e 8 mesi. Inizia il periodo di detenzione nel carcere di Lucca dove rifiuta la richiesta della famiglia di presentare domanda di grazia, cosa che avrebbe tolto molto significato alla sua lotta, in quanto in genere i condannati graziati da Mussolini dovevano sottoporsi a umiliazioni che privavano di credibilità la loro lotta. Viene trasferito al carcere di Viterbo, dove ha modo di conoscere e frequentare i più importanti esponenti del Partito Comunista, l’elite anche intellettuale del movimento, come Mario Scoccimarro, Girolamo Li Causi, Manlio Rossi Doria, Emilio Sereni, Leo Valiani. In questo periodo comincia ad avere seri dubbi sulla credibilità del movimento comunista, in quanto cominciava a filtrare dall’’Unione Sovietica la realtà che ormai 16


in quel paese, guida del comunismo internazionale, Stalin aveva assunto un potere assoluto instaurando una dittatura personale particolarmente crudele, in barba a tutte le speranze di giustizia, uguaglianza e libertà dei militanti in buona fede. E’ liberato dal carcere, ma inviato al confino fino al 1939 a Ponza. Qui rifiuta di approvare come giusti e necessari i processi politici staliniani e il grande terrore instaurato in URSS dal 1937 in poi. Ritiene i processi in URSS uguali a quelli del fascismo, volti a difendere esclusivamente la dittatura e il potere assoluto di un uomo solo. Emergono chiaramente il suo spirito liberale e libertario e il rifiuto di ogni ingiustizia e di ogni violenza, anche se perpetrate in nome della ragion di Stato. Rimangono famose le sue critiche, indirizzate con franchezza a quelli che ormai stavano diventando i suoi ex compagni comunisti, sulla loro convinzione che il Partito aveva sempre ragione anche quando aveva torto. Se aderivano ciecamente alla politica sanguinaria di Stalin, non toglievano solamente la libertà a tutti gli altri non comunisti ma la toglievano soprattutto a loro stessi. Era più libero lui in carcere quando parlava con gli scarafaggi che i militanti comunisti fuori dal carcere quando parlavano fra di loro o alle masse da indottrinare. In seguito a queste chiare prese di posizione è espulso dal Partito e non fa nulla per evitarlo. Dal 1939, fino al 1943, approda all’isola, Ventotene, che doveva passare alla storia proprio per essere il luogo dove è pensato il Manifesto federalista europeo, scritto da lui, da Ernesto Rossi e da Eugenio Colorni. Qui sono confinati esponenti politici non solo comunisti, ma anche di altri partiti e tendenze, dai socialisti ai liberali agli anarchici e la varietà di opinioni stimola ulteriori sue riflessioni. 17


Nel Manifesto, stampato a Roma nell’Agosto 1943 alla caduta del Fascismo si prevede la restaurazione delle democrazie, il superamento degli Stati nazionali e l’istituzione di una federazione europea, anche per prevenire nuove sanguinose e catastrofiche guerre tra gli Stati, dopo le esperienze delle due Guerre mondiali che 18


avevano devastato il continente. L’idea federalista in funzione della pace trovava un illustre precedente nelle ultime, profetiche, pagine de “La storia d’Europa nel secolo XIX di Benedetto Croce, scritta nel 1932. Il filosofo prevedeva, sulla base del solo ragionamento razionale, l’ineluttabilità dell’istituzione, in un futuro non lontano, degli Stati Uniti d’Europa, organismo in cui gli Stati nazionali si sarebbero dovuti fondere senza però perdere le peculiarità culturali e civili di ognuno, come gli Antichi Stati Italiani si erano fusi nello Stato unitario nazionale italiano sorto nel 1861. Nel Manifesto gli estensori si auguravano anche la sopravvivenza nel dopoguerra dello spirito rivoluzionario, se non di un vero e proprio partito, che si era sviluppato nella lotta al nazifascismo. Tuttavia, ben presto lo stesso Spinelli dovette ammettere che si trattava di un errore. La necessità di una Federazione unitaria europea era dettata anche dalla lucida consapevolezza che, dopo la perdita di centralità causata dalla guerra civile tra gli Stati europei durata dal 1914 al 1945, l’Europa sarebbe stata condizionata pesantemente dall’azione di potentati extraeuropei e, quindi, si doveva unire se voleva continuare ad influire nelle decisioni mondiali. Dopo la guerra Spinelli si trasferisce per qualche tempo in Svizzera, dove si lega di amicizia con Ignazio Silone, un altro fuoruscito dal Partito comunista, e aderisce al Partito d’Azione, erede politico del Movimento Giustizia e Libertà. Rientrato in Italia nel Maggio del 1945, comincia l’incessante opera di organizzazione e sensibilizzazione per realizzare le sue idee federaliste. Con Andrè Malraux organizza una conferenza federalista europea, nel corso della quale si oppone alle idee di quanti preferivano ad una vera e propria federazione europea, annullando i poteri degli Stati nazionali, più limitate e parziali unioni solo economiche e/ normative tra Stati. Credeva che la cooperazione tra Governi in possesso della piena 19


sovranità nazionale in organismi burocratici, quali dovevano essere nel tempo l’OCSE o il Consiglio d’Europa, non fosse sufficiente per una vera ed auspicabile integrazione politica del continente In effetti, sarà sempre questo il discrimine e il punto determinante di frizione tra le due visioni della Unione dell’Europa, il superamento o meno degli Stati nazionali. Il dissidio, o meglio la diversità di vedute, dura ancora ai nostri giorni. E’ scontato, per dirla con un detto popolare, che nessun tacchino si mette da solo in pentola nel giorno del Ringraziamento. Fuor di metafora, sembra davvero improbabile che Capi di Stato, Primi Ministri e occupatori di posti di potere degli Stati nazionali decretino da se stessi la loro estinzione. Assistiamo così, ancora ai nostri giorni, ad una situazione istituzionale in cui l’odierna Unione europea, così come è stata realizzata, somiglia pericolosamente a quelli che erano gli Stati Uniti d’America prima della Guerra Civile, cioè una “casa divisa”, come la definì Lincoln in un famoso discorso. Una Confederazione in cui ogni Stato fa parte per se stesso, può bloccare qualunque decisione. Così si crea l’impossibilità di prendere decisioni comuni se non all’unanimità, con la conseguente paralisi operativa sulle sfide importanti di un Mondo che cambiava allora, e che cambia anche oggi rapidamente. Le sfide importanti erano per gli Stati Uniti del XIX Secolo la schiavitù, la tariffa doganale, i lavori pubblici, le ferrovie da costruire verso l’Ovest, la Banca centrale, i suoli liberi da assegnare ai pionieri. Per l’Europa di oggi sono la politica fiscale comune, gli investimenti produttivi con particolare riguardo alla green economy, la politica di regolazione dei flussi migratori etc.. Nel Settembre del 1945 Spinelli si trova in minoranza nel Movimento federalista europeo che abbandona nel 1946 insieme ad Ernesto Rossi per aderire al Movimento per la Repubblica, con lo stesso Rossi ed Ugo La Malfa. Nel 1948, al con20


gresso del Movimento federalista europeo lancia a tutti i partiti politici italiani, coinvolti nelle elezioni del 18 Aprile, un messaggio perché esprimano tutti insieme l’adesione al Movimento federalista europeo.

Comunque, da allora in poi nel dopoguerra, il percorso dell’integrazione europea va avanti, non certo secondo gli auspici e le proposte di Spinelli e Rossi, ma con provvedimenti burocratici che non intaccano la sovranità degli Stati nazionali. Nel 1949 è istituito a Londra il Consiglio d’Europa, nel 1951 è istituita la CECA, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, con la partecipazione di Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo. La CECA può essere considerata il vero inizio della Comunità europea come poi si è andata sviluppando fino ad oggi. Fu istituita con il Trattato di Parigi del 18 Aprile 1948 ed entrò in vigore il 23 Luglio 1952, voluta dai francesi Schumann e Monnet, dal tedesco Adenauer e dall’italiano De Gasperi. Il Trattato aveva recepito il cosiddetto “Piano Schumann”, dal Ministro francese Robert Schumann, ispirato 21


a sua volta dalle riflessioni e proposte del ministro Jean Monnet. Consisteva nel mettere in comune le risorse produttive di due materiali strategici come il carbone e l’acciaio, presenti in grande quantità proprio ai confini di tanti Stati europei come Francia, Germania e Benelux e per il possesso dei quali proprio quegli Stati, a cominciare da Francia e Germania, si erano combattuti, sanguinosamente e inutilmente, per secoli. Anzi, per un millennio intero, dai figli di Carlo Magno alle due guerre mondiali del ‘900 che non pochi storici considerano una vera e propria Guerra Civile europea o una seconda Guerra dei trent’anni, durata dal 1914 al 1945. Non a caso, due dei politici fautori del Trattato, De Gasperi e Schumann, erano originari proprio di quelle Regioni di confine, il Trentino e l’Alsazia, per cui gli europei si erano combattuti inutilmente ed un terzo, Jean Monne, era stato uno dei delegati alla Conferenza di pace di Parigi del 1919 ed uno dei pochissimi ad avere capito l’errore di umiliare ed emarginare dal contesto europeo la Germania. Posizione condivisa con un altro importante intellettuale, presente a sua volta nella delegazione inglese, John Maynard Keynes, che l’espresse nel suo scritto “Le conseguenze economiche della pace” dopo essersi dimesso polemicamente dalla delegazione. Per l’impegno di Spinelli, come consigliere politico del Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, è proposta da quest’ultimo, insieme ad altri politici europei, l’istituzione della CED, l’esercito comune europeo. Con grandissima delusione di Spinelli la CED però venne bocciata nel 1954 dall’Assemblea Nazionale francese, in un accesso di nazionalismo fuori tempo massimo, al canto della marsigliese. Più che altro per ragioni e umori di politica interna, visto che era il periodo in cui la IV Repubblica e l’opinione pubblica erano lacerati fortemente sull’atteggiamento da tenere rispetto a quello che restava della politica coloniale e di potenza nazionalista, messe alla prova dai drammatici sviluppi bellici in Indocina ed in Algeria. 22


Intanto, in quegli anni il nostro Altiero Spinelli continua il suo apostolato per un federalismo europeo che tenda ad annullare la sovranità degli Stati nazionali. Appoggia il Governo italiano sulle decisioni di adesione all’idea di Europa unita e si pone contro i socialisti e i comunisti. Però nel 1950, al congresso di Berlino per la Libertà e a Cultura, la sua posizione non è pregiudizialmente anticomunista, in quanto sostiene che anche le democrazie occidentali possono essere criticate se adottano politiche sbagliate. Nel Giugno 1955 segue con interesse la Conferenza di Messina dei sei Ministri degli esteri della CECA tenuta per rilanciare l’idea dell’Europa. Però, quando nel 1957 vengono firmati i Trattati di Roma, li critica aspramente, considerandoli la beffa dei mercati e dell’integrazione esclusivamente economica. I cosiddetti due Trattati di Roma sono firmati il 25 Marzo 1957 e istituiscono rispettivamente la Comunità Economica Europea CEE e la Comunità europea dell’Energia Atomica TCEEA, in aggiunta alla già esistente CECA. Spinelli nel 1963 crea il Centro di iniziativa democratica europea e l’Istituto Affari Internazionali di Roma, dal 1970 al 1976 è un componente della Commissione europea in cui è Commissario agli Affari Industriali. Finalmente, nel 1979, alle prime elezioni europee, è eletto Deputato europeo. Al Parlamento europeo crea nel 1980, insieme ad altri membri del Parlamento europeo di orientamento federalista, il “Club del Coccodrillo”, che prende il nome dal ristorante di Strasburgo da loro frequentato. Il Club auspica un nuovo Trattato europeo e i suoi membri propongono una mozione parlamentare finalizzata alla costituzione di un Comitato speciale per la preparazione di un nuovo Trattato dell’Unione europea, destinato ad essere in tutto, salvo che nel nome, una Costituzione europea. L’intendimento fondamentale era quello di riformare da cima a fondo le istituzioni dando molto più potere al Parlamento, prevedendo un vero potere legislativo euro23


peo nel Parlamento e un vero potere esecutivo nel Governo europeo che decidesse per tutti senza attendere l’unanimità di tutti gli Stati. Nel 1984 è rieletto al Parlamento europeo ed elabora il cosiddetto “Piano Spinelli” che viene approvato a stragrande maggioranza il 14 Febbraio 1984 come Progetto di Trattato istitutivo dell’Unione europea. Però prevede esclusivamente la creazione di una Conferenza intergovernativa. I Parlamenti nazionali non ratificarono il Trattato. Comunque, negli anni ’80 l’entusiasmo di Spinelli convinse il Presidente francese Mitterrand a rinunciare all’atteggiamento di ostilità nei confronti di una Europa che non fosse solo quella giostrata nell’ambito intergovernativo delle cancellerie degli Stati nazionali. In molti governi europei il mutato atteggiamento francese fornì la spinta per far progredire ulteriormente il processo di integrazione Di fatto, si accettavano a parole le sue proposte ma senza poi conferire concretezza alle stesse. Rimase famoso un suo discorso al Parlamento europeo in cui, per spiegare la situazione di stallo rispetto alle sue proposte, prese a prestito un episodio da “Il vecchio e il mare” di Hemingway paragonando l’Europa al vecchio pescatore e gli inconcludenti progetti di integrazione federale al grande pesce tenuto in mare per troppi giorni e ridotto, per i morsi dei pescecani, ad una nuda lisca all’arrivo della barca in porto. In conclusione, esortò i politici responsabili, continuando nella metafora, ad uscire in mare aperto con tutti i mezzi a disposizione per pescare il pesce e portarlo rapidamente in porto evitando gli assalti dei pescecani. Altiero Spinelli muore nel 1986 senza vedere realizzato in pieno il suo sogno di completa integrazione europea, ma l’edificio principale del Parlamento europeo a Bruxelles porta il suo nome e il Movimento federalista europeo organizza ancora oggi incontri periodici nella piccola isola di Ventotene dove tutto era cominciato più di settanta anni fa. Si può dire che il suo ricordo è stato rimosso dai Partiti politici ma è tuttora presente nella cultura e nelle speranze dei giovani che sempre più 24


numerosi si spostano in Europa e si sentono sempre più cittadini europei. Comunque, il “Piano Spinelli” e il conseguente “Progetto di Trattato istitutivo dell’Unione europea” costituirono una base per l’Atto unico europeo del 1986, che aprì i confini nazionali al mercato comune, nonché per il Trattato di Maastricht del 1992 con cui nacque l’Unione europea come la conosciamo oggi. Il Trattato di Maastricht previde i tre pilastri delle Comunità europee (CE), cioè il mercato comune europeo, l’unione economica e monetaria e altre competenze aggiunte in seguito, oltre alle già esistenti politiche comuni del carbone e dell’acciaio e a quella atomica, della politica estera e di sicurezza Comune (PESC) e della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale (GAI). Nella PESC e nella GAI i poteri del Parlamento europeo, della Commissione Europea e della Corte di Giustizia erano limitati rispetto a quelli del Consiglio dell’Unione europea che comprendeva i Ministri degli Stati nazionali, cioè uno di quegli organismi burocratici intergovernativi tanto osteggiati da Spinelli. Poi ci furono il Trattato di Nizza sui diritti dei cittadini europei, il Trattato di Amsterdam che irroga sanzioni per gli Stati che non rispettino le regole, il Trattato di Lisbona del 13 Dicembre 2007, entrato in vigore il primo Dicembre 2009 sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE). Nonostante non tutte le sue idee ambiziose siano divenute realtà, Altiero Spinelli ha perseguito accanitamente il proprio obiettivo di un governo europeo sovranazionale con il fine di evitare altre guerre e di unire i paesi del continente in un’Europa federale. I suoi pensieri hanno ispirato molti cambiamenti nell’Unione, in particolare l’aumento significativo dei poteri del Parlamento europeo. Nell’ultimo periodo, infine, all’indomani delle ultime elezioni europee, un’eco delle lotte e degli auspici di Spinelli si può cogliere nelle proposte di un “Green New Deal” per l’Europa. 25


Questo progetto rinforza ulteriormente gli auspici della neoeletta Presidente della Commissione europea Ursula von der Leiden per un nuovo patto per un’Europa più sostenibile che intrecci lo sviluppo con la salvaguardia ambientale. Ci si propongono tre obiettivi: 1) de-carbonizzare l’economia europea, 2)fermare il degrado della biodiversità, 3)garantire un’occupazione lavorativa decente a quanti più cittadini possibile ma fermando il degrado climatico. Tutto ciò anche con il sostegno di green bonds da parte della Banca Centrale.

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Università e Politica

L’Università scende in campo di Umberto SCOTTI DI UCCIO

Il documento stilato dall’Osservatorio sul Regionalismo differenziato, istituito dal Rettore Gaetano Manfredi presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Napoli Federico II (http://www.giurisprudenza.unina.it/it/images/stories/doc/ repository/documento_osservatorio.pdf), si scaglia contro l’interpretazione strumentale del concetto di “residuo fiscale”, un cavallo di battaglia dei Governatori di Veneto e Lombardia. Ma è giusto che un Ateneo prenda una posizione politica? O invece la politica dovrebbe restare fuori dalle Scuole e dalle Università, come va dicendo qualcuno, tipicamente da destra? Se fosse così, l’istituzione dell’Osservatorio sarebbe inopportuna e questo documento irricevibile, un’invasione di campo che, per dirla con una battuta di spirito, meriterebbe ai professori il titolo di baroni rossi (tanto per pareggiare il conto con le toghe). Io però penso esattamente il contrario. Sotto il martellamento dei media non pensiamo a due fatti importanti: primo, la politica è una scienza viva che si studia e s’impara; e secondo, abbiamo bisogno vitale di approccio scientifico per l’analisi dei progetti politici. 27


Deve sorprendere allora che un intero Ateneo, tra i più grandi d’Europa, scenda in campo in modo ufficiale su un tema di attualità politica?

Eh, no: come il documento sinteticamente dimostra, l’Osservatorio ha analizzato la questione sul piano tecnico-giuridico, e questo è proprio il mestiere dei ricercatori universitari. Il problema, allora, sta dalla parte di quei professionisti della politica (penso soprattutto a Zaia e Fontana) che aizzano il popolo forzando la Costituzione e le Leggi dello Stato a esclusivo vantaggio di una parte e si offendono dei ragionamenti solidi e strutturati. Opponiamoci: atteggiamento scientifico e populismo non vanno d’accordo.

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Politica

Effetti collaterali di Antonella GOLINELLI

È nato il governo. Il nuovo governo. Quello giallorosso. Dopo il gialloverde il giallorosso. Un semaforo in pratica. Ma non è di questo che voglio parlare.

Nuovo governo, ancora col cellophane, e già comincia la polemica su un ministro. Anzi su una ministra. Teresa Bellanova. Perché? Non è laureata. Il, anzi, la ministro dell'agricoltura non è laureata, ha la terza media. Scandalo al sole! In effetti la Bellanova ha iniziato am14/15 anni la sua carriera di bracciante agricola. Sotto il sole c'è stata. Cosa ne potrà mai sapere di agricoltura? È stata una sindacalista prima nel settore agricolo poi, se non ricordo male, degli edili. Cosa ne potrà mai sapere di sfruttamento e caporalato? Ha già ricoperto incarichi ministeriali, ma poco importa. Non è laureata. 29


E non voglio nemmeno discorrere a proposito delle critiche al fisico e all'abbigliamento che sono una porcheria.

Accetto solo le critiche modaiole da chi se ne intende del settore non certo da un Capezzone qualsiasi di cui ricordo solo l'espressione sempre luttuosa. Ma non era nemmeno su questo che volevo intervenire. 30


Provo ad andare al sodo. Le critiche sul titolo di studio le ho viste, nella mia bolla ma ho capito molto piÚ generalizzate, provenire dall'area renziana. Questo non me lo spiego. Nel senso che una bella messe di renziani ha criticato aspramente e crudelmente un ministro di area renziana. Ha un senso? Apparentemente no. Non me lo spiego. Tanto piÚ che stamani il capo corrente è intervenuto con un post a difesa del ministro rivendicando l'area di provenienza.

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Domande: 

la comunicazione renziana ha badato a dare direttive, per canali loro, affinché fosse avviata una campagna denigratoria?

È un moto spontaneo di gruppi di facinorosi?

Nel primo caso c'è da chiedersi perché. Per dare visibilità a un ministro d'area oscurando nello stesso tempo altri? Per togliere visibilità o importanza a esponenti altri del governo con diplomi? Per creare un incidente preliminare? Per dare agio al capo corrente di esibire un'algida e fulgida corazza di purezza eroica? È un avvertimento di guerra di logoramento? Vedremo come evolve. Statene certi. Nel secondo caso, quello di cui effettivamente vorrei ragionare, la questione è più 32


complessa. Nell'appartenenza partitica una delle regole fondamentali è non attaccare i compagni di partito. Mi sembra il minimo. La difesa correntizia è ancora più stretta. Non sono pratica (da dove vengo io correnti non ce n'erano. C'erano opinioni diverse ma non correnti). Non sono pratica, dicevo, ma so che è cosi. Quindi che valore ha l'attacco interno a una corrente? Cannibalismo primordiale puro e semplice? Stupidità intrinseca? Ciò che mi ha stupito maggiormente è la spocchia, la supponenza, il disprezzo, esibiti come un bel vestito nuovo di sartoria (a proposito). Ciò che mi è intollerabile è la mancanza di volontà di confronto e riconoscimento dell'altro da parte di questi soggetti. Perché in qualche diatriba mi ci son buttata a capofitto. Non scherziamo. Risultato: minacce e compatimento. Accompagnate da un contorno di insulti e insinuazioni di squilibrio mentale. Poco importa argomentare puntualmente le posizioni. Non si confrontano. Rifiutano. Loro sono loro e noi non siamo un cazzo.

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Il disprezzo per le “classi inferioriâ€? siano esse di tipo economico o accademico è strabordante. Provo a metterla cosi: loro sono bravi, perfetti, colti, belli e buoni e noi no. Loro si abbassano, ci concedono, di prestarsi generosamente a rappresentarci, nonostante siamo brutti sporchi e cattivi, mentre noi siamo impegnati nelle nostre giuste occupazioni di basso livello e rango. Possibilmente al loro servizio a quel che ho capito. Questi sarebbero, dicono loro, di sinistra. Questo giustificherebbe il loro dissennato attacco al titolo di studio di un ministro. Ma anche no.

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Questo è il mondo renziano. Quel mondo che si chiede come sia potuto succedere che, pur con tutto il loro impegno, noi cafoni non ci siamo allineati e li abbiamo lasciati lì da soli. Quelli hanno perso tutto, compreso un patrimonio di elettori e sono ancora lì che pontificano su quanto sono bravi loro e quanto sono scadenti gli altri. Anche se gli altri sono quelli seduti di fianco a loro alle leopolde. Perché il punto di caduta è proprio questo. Come dice la mia amica Lucia: “Guardate che il problema della Bellanova non è la terza media: se la tua scuola sono state le lotte nei campi gli studi abbandonati presto ti fanno onore. Il problema della Bellanova è che ha buttato in vacca questa bella storia per diventare renziana”.

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