l'Unità Laburista N° 9 - "Bisagno". Il Primo Partigiano d'Italia e un "giallo" della Resistenza

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Numero 9 del 12 settembre 2019

Bisagno

Il Primo Partigiano d’Italia e un giallo della Resistenza


Sommario 

“Bisagno”. Il Primo Partigiano d’Italia e un “giallo” della Resistenza - pag. 3 di Giovan Giuseppe MENNELLA

Waters world - pag. 11 di Umberto DE GIOVANNANGELI

Eravamo quattro amici al bar. Breve intervista atipica a Gianni Cuperlo - pag. 17 di Antonella GOLINELLI

Le donne non hanno le palle - pag. 21 di Antonella BUCCINI

Tre raccontini - pag. 24 di Giovan Giuseppe MENNELLA

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Storia della Resistenza

“Bisagno”. Il Primo Partigiano d’Italia e un “giallo” della Resistenza. Giovan Giuseppe MENNELLA

Nasce a Genova il 12 settembre 1921 Aldo Gastaldi che, assumendo come partigiano il nome di battaglia di “Bisagno”, dal torrente che attraversa Genova, doveva passare alla storia come “Il Primo Partigiano d’Italia” tanto rilevante e singolare fu la sua vicenda resistenziale. Una delle particolarità della vicenda di “Bisagno” è che fu attivo nelle Brigate Garibaldi, vicine al Partito Comunista, ma come cattolico e apolitico e notevolmente contrario al reclutamento a fini politici che alcuni capi partigiani andavano svolgendo durante la Guerra di Liberazione e con i quali si scontrò aspramente più di 3


una volta. Fin da poco più che bambino, era stato un grande camminatore, escursionista e cacciatore sulle aspre alture vicino a Genova. Si ricorda che a tredici anni andava a piedi sulla vetta del Monte Antola, camminando dodici ore. Ed anche un forte atleta, rugbista e canottiere della Società Canottieri genovesi Elpis. Studente e lavoratore nello stesso tempo, si divideva tra il lavoro all’Ansaldo e lo studio dell’Economia all’Università di Genova. La caduta del Fascismo il 25 Luglio 1943 lo coglie mentre è in servizio come marconista presso il 15° Reggimento Genio a Chiavari e subito si distingue distruggendo i simboli del Regime nella Casa del Fascio. Dopo l’Armistizio dell’8 settembre 1943 nasconde le armi del suo reparto, ormai sbandato, nel Castello di Chiavari e poi è avvicinato dal Partito Comunista per dare vita a una formazione partigiana. Sulle alture di Cichero, frazione del Comune di San Colombano Certenali sulle pendici del Monte Remaceto, contribuisce a fondare nell’inverno del 1943 la prima formazione partigiana della zona, da lui comandata, che sarebbe diventata la terza Brigata Garibaldi e avrebbe assunto in seguito il nome di Brigata Cichero dopo che i nazisti bruciarono quel villaggio nel Maggio 1943. La Brigata era stata rinforzata notevolmente dall’apporto di centinaia dii Alpini del Battaglione Vestone della Divisione fascista Monte Rosa che avevano disertato ed erano passati ai partigiani per devozione e ammirazione nei confronti di Bisagno. 4


Diventa vice-comandante della VI Zona partigiana che comprendeva parte della Liguria e i territori montani delle province limitrofe del Piemonte, della Lombardia e dell’Emilia. Il tipo di lotta partigiana che si condusse su quelle alture liguri fu del tutto particolare, caratterizzato notevolmente dalla forte personalità e carisma del personaggio Bisagno. Fu lui a elaborare in larga misura, mettendole in pratica con l’esempio, le linee di azione cui si dovevano attenere i combattenti per libertà e che passarono alla storia come “Codice di Cichero”. Non si dovevano molestare le donne, non si doveva bestemmiare, si dovevano aiutare i contadini nei lavori agricoli, la roba ai contadini si doveva chiedere e non prendere e, possibilmente, pagare; in azione si dovevano rispettare gli ordini dei comandanti ma poi, ad azione conclusa, si potevano discutere in libere assemblee, il capo doveva essere eletto dai compagni e doveva essere il primo davanti a tutti nelle azioni pericolose, l’ultimo a ricevere il cibo e il vestiario, gli spettava sempre 5


il turno di guardia più faticoso. Con questi presupposti e questo comportamento, Bisagno divenne ben presto amatissimo dai compagni e quasi una leggenda presso le popolazioni. Una testimonianza di compagni di lotta ricorda che “quando Bisagno ti scrutava, era come se ti passasse da parte a parte con del piombo fuso”. Si ricorda anche di quando si fermò per aiutare un vecchio contadino a portare in salita per molte centinaia di metri delle fascine pesantissime, o della sua umanità come quella volta in cui diede ordine di non sparare in una facile imboscata contro alcuni giovani militi fascisti dicendo che anche loro avevano una mamma e bisognava evitare eccidi e morti inutili perché ben presto sarebbe arrivato il momento di riappacificarsi e di ricostruire tutti insieme l’Italia. Insomma, un forte esempio di moralità e disinteresse, oltre che di efficienza organizzativa e combattiva. Altra caratteristica fondamentale di Bisagno era la critica nei confronti del partitismo nelle brigate. Riteneva che avrebbe potuto compromettere la lotta partigiana, per questo non era disposto a cedere agli ordini dei partiti. Diceva “Noi combattenti non abbiamo un partito, non lottiamo per avere un cadreghino, vogliamo bene alle nostre case, vogliamo bene alla nostra terra e non vogliamo che sia calpestata dallo straniero, dobbiamo agire nella massima giustizia e senza prevenzioni”, oppure “Continuerò a gridare ogni volta che si vogliano fare ingiustizie e griderò contro chiunque, anche se il mio grido dovesse costarmi disgrazie o altro”. Indubbiamente, questo modo di procedere e questo forte slancio morale creò tensioni con altri comandanti e con alcuni ordini dei partiti.

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Inoltre, era fonte di dubbi il suo forte impegno cristiano che destava sospetti soprattutto tra i comunisti. Era sempre critico nei confronti di alcuni commissari politici che sembravano fare solo l’interesse di loro stessi e dei loro partiti. Alcuni dissensi, in particolare con il commissario politico comunista Uckmar, portarono anche a confronti molto serrati e violenti e, alla fine, alla divisione della Brigata Cichero in due distinte brigate, una delle quali comandata da lui. Molti suoi compagni ebbero anche il timore che, al momento della discesa su Genova e della liberazione, si trovasse qualche pretesto per eliminarlo. Partecipa alla liberazione di Genova e alla smobilitazione della sua brigata Cichero. Muore tragicamente nel Maggio 1945 cadendo dal camion su cui era aggrappato mentre accompagnava alle loro case in Veneto proprio quegli Alpini del Vestone che aveva convinto a partecipare alla lotta partigiana. Il Comune di Genova gli ha dedicato un’importante strada cittadina, già via Giulio Cesare presso la Csa dello Studente, ben due Istituti scolastici, inoltre sono stati eretti in sua memoria numerosi monumenti. Ha avuto la Medaglia d’oro al valor militare, nel 2005 i suoi resti sono stati traslati nel Cimitero monumentale di Staglieno a Genova ed è stato nominato ufficialmen7


te “Primo Partigiano d’Italia” la cui fama dura tuttora, almeno presso gli storici e le associazioni partigiane. Dura tuttora però anche il “giallo” legato alla sua morte, perché da subito sembrò a molti che prendessero corpo i sospetti e i timori manifestati da alcuni suoi amici e fedelissimi poco prima della liberazione di Genova. Per la sua caduta dal camion, si pensò a un omicidio perché si sarebbe opposto alle frange comuniste del Movimento partigiano, o perché si sarebbe potuto opporre con tutta la sua forza e il suo carisma a un ipotetico tentativo di colpo di stato comunista per prendere il potere in Italia. Molte di queste illazioni e sospetti sorsero nel clima di aspre contrapposizione tra comunisti e democristiani, tra marxisti e cattolici, proprie degli anni ’40 e ’50 del dopoguerra, ma sono duri a morire, tanto è vero che anche recentemente sono ricomparse sull’argomento alcune polemiche storiografiche e ideologiche. Già alcuni suoi compagni di lotta espressero il dubbio che l’incidente fosse stato procurato ad arte per eliminare il più autorevole e mitico capo partigiano non comunista. Il bel documentario televisivo del 2016 del regista Mario Gandolfo riporta molte testimonianze di alcuni antichi compagni di “Bisagno” che accreditano, sia pure in forma dubitativa, i sospetti sulla sua morte, ma non assume una posizione esplicita. In realtà, già alla fine degli anni ’90, un documento firmato da ex partigiani di tutte le tendenze politiche aveva contestato la teoria dell’omicidio, facendo presente l’inconsistenza delle sue motivazioni, perché “Bisagno” non era il solo capo partigiano non comunista, sia pure il più mitico, quindi non c’era ragione di eliminare soltanto lui.

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Nel 2018, Giampaolo Pansa, continuando nella sua opera di esame, anzi di controesame, di alcuni aspetti, a suo dire poco noti, della Resistenza da un punto di vista non ortodosso, ha ripreso le voci del presunto omicidio di “Bisagno”, nel suo libro “Uccidete il comandante bianco”, ritenendolo probabile, giacché era l’unico capo partigiano non comunista capace di opporsi al progetto egemone di presa del potere di quel Partito. Questa teoria di Pansa è stata contestata dagli studiosi della Resistenza, in genere facenti capo agli Istituti storici, ponendo l’accento il fatto che non era il solo partigiano non comunista della zona della Liguria, ma aveva avuto anche amici, compagni di lotta e ispiratori comunisti, come Giovan Battista Cnepa (nome di battaglia Marzo), Giovanni Serbandini (Bini) quasi un padre spirituale per lui e Michele Campanella (Gino) comandante della volante Severino. In particolare, lo storico Marcello Flores, intervenendo sul libro di Pansa nell’ambito di un convegno di studi all’Istituto ligure per la Storia della Resistenza, ha rilevato che in tutto il libro “Uccidete il comandante bianco” non è riportato un solo documento, una sola citazione o testimonianza, ma solo dei sentito dire, delle 9


voci, delle illazioni. Se “Bisagno” è stato ucciso perché si sarebbe potuto opporre a un colpo di stato comunista, allora si sarebbero dovuti uccidere anche alcune decine di capi partigiani non comunisti. Inoltre, è stato accertato, dall’apertura degli archivi dopo la fine dell’URSS e dal libro di Victor Zaslavsky ed Elena Aga Rossi “Togliatti e Stalin” che lo stesso Stalin aveva imposto a Togliatti la “svolta di Salerno” per una collaborazione con le altre forze democratiche italiane e non voleva che i partigiani italiani facessero la rivoluzione comunista seguendo l’esempio deleterio dei partigiani greci, perché, alla conferenza di Yalta, Italia e Grecia erano rientrate nella sfera di influenza degli angloamericani. Secondo Flores, in effetti, Pansa nel suo libro sembra sposare ancora la vecchia e sorpassata tesi di Luigi Longo nel libro “Un popolo alla macchia” in cui durante la Resistenza tutto il popolo italiano aveva preso le armi e nella guerra di Liberazione tutti i combattenti erano solo comunisti. Anche lo storico Sandro Antonini, nel suo libro “Io Bisagno, il partigiano Aldo Gastaldi” polemizza con la tesi dell’omicidio accreditata da Pansa, sostenendo, come già tutti gli altri prima di lui, che non era vero che “Bisagno” era l’unico comandante non comunista della VI Zona montana di Liguria, Piemonte, Lombardia ed Emilia. Comunque, ancora oggi la figura di Aldo Gastaldi “Bisagno” anche se non molto conosciuta dal grande pubblico, si staglia come la più interessante e particolare nel panorama della Resistenza, avendo meritato il titolo di “Primo Partigiano d’Italia” per la sua figura atletica, sprezzante del pericolo, generosa, efficiente sul piano operativo, suscitando ancora oggi polemiche di parte e discussioni in sede di scienza storiografica. 10


Geopolitica

Waters world Umberto DE GIOVANNANGELI

Un conto troppo lungo. Interminabile. E insanguinato: quello delle guerre combattute nel mondo per l’”oro blu” - l’acqua. Le crisi idriche e il mancato approvvigionamento sono già oggi alla base di un significativo numero di conflitti, come si legge nel rapporto dell’Unesco The United Nations world water development report 2019: leaving no one behind (“Nessuno sia lasciato indietro” presentato in occasione della Giornata mondiale dell’acqua il 22 marzo. “In un contesto segnato da un aumento della domanda (più 1% all’anno dagli anni’80) si è verificato un aumento significativo dei conflitti legati all’acqua. Tra il 2000 e il 2009, ne sono stati censiti 94. Tra il 2010 e il 2018, si è arrivati a 263“, rimarca il rapporto “Se non si inverte questa tendenza, con l’aumentare della popolazione nelle zone povere del mondo (la popolazione africana, stimata oggi in circa un miliardo e 200 milioni di persone, è destinata a raddoppiare entro il 2050) e l’inasprirsi delle conseguenze 11


dei cambiamenti climatici, in futuro sempre più conflitti saranno causati per guadagnare l’accesso all’acqua”. Un concetto su cui insiste l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione Europea, Federica Mogherini: “Fortemente contraria all’uso dell’acqua come arma da guerra, l’UE proseguirà il suo lavoro instancabilmente per prevenire e risolvere i conflitti; contribuire a una gestione equa, sostenibile e integrata delle risorse idriche; e promuovere la resilienza nei confronti dei cambiamenti climatici e a qualsiasi altra cosa abbia un impatto sull’acqua”, ribadisce “Lady Pesc” in un passaggio della sua lunga dichiarazione in occasione della Giornata mondiale dell’acqua. Ci si prepara dunque a ratificare ed adottare le iniziative portate avanti dall’Onu nei confronti di questo tema sempre più delicato, quali ad esempio “la Convenzione sulla protezione e l’uso dei corsi d’acqua transfrontalieri e dei laghi internazionali”, sperando che le Nazioni Unite convoglino all’unisono verso una posizione positiva in materia. Le Water Wars: Ismail Serageldin, ex vicepresidente della Banca Mondiale, nel 1995 avvertì: “Se le guerre del XX secolo sono state combattute per il petrolio, quelle del XXI secolo avranno come oggetto l’acqua. Da Israele all’India, passando per la Turchia, sono numerosi i focolai che presto potrebbero sfociare in veri e propri conflitti armati. Il corso del Nilo, riserva idrica di molti Paesi africani; il fiume Indo in Pakistan i cui affluenti nascono in India; il bacino fluviale del Giordano e infine il controllo da parte della Turchia del Tigri e l’Eufrate, da cui dipendono Siria e Iraq, il Mekong in Asia, sono alcuni dei teatri futuri delle guerre per l’acqua. “La guerra mondiale per l’oro blu: non ha mai usato giri di parole Papa Francesco per richiamare ‘il diritto di ogni persona all’accesso all’acqua potabile e sicura’ e denunciare lo scandalo della sete – scrive l’Osservatore Romano – in occasione della Giornata mondiale dell’acqua, che si celebra il 22 marzo su iniziativa delle Nazioni Unite, le parole del Pontefice pongono l’allarmante questione se, in mezzo a questa ‘terza guerra 12


mondiale a pezzetti’ che stiamo vivendo, non stiamo andando verso la grande guerra mondiale per l’acqua. Con questa denuncia, rilanciata al workshop sulle risorse idriche organizzato dalla Pontificia accademia delle scienze il 24 febbraio del 2017, il Papa ha fatto anche presente, più volte, che l’accesso all’’acqua potabile è un diritto umano essenziale e una delle questioni cruciali del mondo attuale’. “Di qui – prosegue il giornale della Santa Sede – i suoi appelli agli Stati, ricordando la drammatica realtà che costituisce una vergogna per l’umanità: mille bambini muoiono ogni giorno a causa di malattie espressamente collegate all’acqua”. Il grido d’allarme di Bergoglio trova drammatica conferma in un recente rapporto dell’Unicef. Secondo il rapporto dell’Agenzia delle Nazioni Unite per l’infanzia, i bambini sotto i 15 anni nei Paesi colpiti da conflitti protratti nel tempo, in media, hanno probabilità 3 volte maggiori di morire a causa di malattie diarroiche dovute alla mancanza di acqua sicura e servizi igienico-sanitari che per violenza diretta. Il rapporto Acqua sotto attacco (Water Under Fire) mostra i tassi di mortalità in 16 paesi durante conflitti prolungati e mostra che, nella maggior parte, i bambini sotto i 5 anni hanno probabilità 20 volte maggiori di morire per malattie legate alla diarrea dovuta alla mancanza di accesso all’acqua e ai servizi igienico-sanitari sicuri che per violenza diretta. “Le probabilità già sono contro i bambini che vivono conflitti prolungati – molti di loro non possono raggiungere fonti di acqua sicura,” ha dichiarato Henrietta Fore, Direttore generale Unicef. “La realtà è che ci sono più bambini che muoiono per la mancanza di accesso ad acqua sicura che per proiettili”. Senza acqua, i bambini semplicemente non -possono sopravvivere. Secondo gli ultimi dati, nel mondo 2,1 miliardi di persone non hanno accesso ad acqua sicura e 4,5 miliardi di persone non usano servizi igienico-sanitari sicuri. Senza acqua sicura e servizi igienico sanitari efficaci, i bambini sono a rischio di malnutrizione e malattie prevenibili che comprendono anche diarrea, tifo, colera e polio. Le ragaz13


ze sono particolarmente colpite: sono vulnerabili a violenza sessuale mentre raccolgono acqua o si apprestano ad utilizzare le latrine. Devono fare i conti con la loro dignità mentre si lavano e curano l’igiene mestruale. Non vanno a scuola durante il periodo mestruale se le scuole non hanno acqua e strutture igieniche adatte.

Queste minacce sono acuite durante i conflitti quando attacchi indiscriminati distruggono infrastrutture, feriscono personale e tagliano l’energia che consente di ricevere acqua e utilizzare i sistemi igienici sanitari. I conflitti armati limitano anche l’accesso alle attrezzature di riparazione essenziali e ai materiali di consumo come carburante o cloro – che possono essere esauriti, razionati, dirottati o bloccati alla distribuzione. Fin troppo spesso i servizi essenziali vengono deliberatamente negati. “Attacchi deliberati su strutture idriche e igienico sanitarie sono attacchi contro bambini vulnerabili,” rimarca d Fore. “L’acqua è un diritto di base. È una necessità per la vita”. L’Unicef lavora nei Paesi in conflitto per fornire acqua sicura 14


da bere e servizi igienico-sanitari adeguati migliorando e riparando i sistemi idrici, trasportando acqua, costruendo latrine e promuovendo informazioni sulle pratiche igieniche. L’Unicef chiede ai governi e ai partner di: fermare gli attacchi contro infrastrutture idriche e igienico-sanitarie e personale; collegare la risposta salva vita umanitaria a uno sviluppo del sistema idrico e sanitario sostenibile per tutti; rinforzare la capacità dei governi e delle agenzie di fornire consistentemente servizi idrici e igienico sanitari di alta qualità durante le emergenze. Il rapporto ha calcolato i tassi di mortalità in 16 Paesi con conflitti prolungati: Afghanistan, Burkina Faso, Camerun, Repubblica Centrafricana, Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Iraq, Libia, Mali, Myanmar, Somalia, Sud Sudan, Sudan, Siria e Yemen. In tutti questi Paesi, ad eccezione di Libia, Iraq e Siria, i bambini di 15 anni e più giovani hanno più probabilità di morire per malattie legate all’acqua rispetto che a causa di violenze collettive. Eccetto in Siria e Libia, i bambini sotto i 5 anni hanno possibilità 20 volte maggiori di morire per malattie diarroiche legate ad acqua e servizi igienico sanitari non sicuri rispetto che a violenze collettive. Il controllo delle risorse idriche scuote il Medio Oriente. Annotava Gigi Riva, tra i più autorevoli inviati di guerra, nel commentare su l’Espresso il rapporto dell’Onu 2018: “Da sette anni si combatte in Siria e accanto alle cause più conosciute (scontro etnico, religioso, di potere) bisognerebbe elencare anche la siccità. Negli anni immediatamente precedenti alla rivolta contro Bashar al Assad la mancanza di piogge e la minor portata dei fiumi, decimò i raccolti, costrinse un milione e mezzo di persone a cercare invano fortuna nei centri abitati. La povertà conseguente fu una miccia della rivolta contro il regime poi egemonizzata dallo Stato islamico e dalle altre sigle più o meno jihadiste. Basta spostarsi di poco per trovare analogo scenario lungo il Giordano, condiviso da Israele, Giordania, Siria, Libano, Cisgiordania, ma sfruttato soprattutto da Israele: l’acqua non per caso è uno dei punti nodali in ogni tratta15


tiva di pace, tutte al momento fallite, tra lo Stato degli ebrei e i palestinesi. Nel martoriato Yemen, entrato nel quarto anno di guerra, 18 milioni di persone lottano ogni giorno per avere accesso ad acqua pulita per bere, per lavarsi e per scongiurare epidemie di malattie mortali come il colera, ricorda Oxfam. Soltanto lo scorso anno si sono registrati quasi 400 mila casi di colera e un migliaio di morti. Il futuro resta denso di ombre inquietanti. Perché alle Water Wars in atto se ne potrebbe aggiungere un’altra che coinvolgerebbe India e Pakistan. Non si arriverà – si spera – all’uso dell’atomica, ma ci sono studiosi che ipotizzano una prossima “guerra dell’acqua” Come riporta Foreign Policy, la decisione di costruire una diga sul fiume Ravi, al confine tra i due Stati, è già un atto di ostilità: le acque sono indiane, ma una porzione viene lasciata scorrere in Pakistan. Andare a colpire dove fa male – cioè sulle risorse idriche – non farà che aumentare il disaccordo tra i due Stati, soprattutto perché il Pakistan, sotto questo profilo, non se la passa bene: nel 2025, si prevede, la scarsità di acqua sarà altissima e avrà un impatto profondo su tutte le attività umane, in primo luogo l’agricoltura. Una “guerra dell’acqua” combattuta da due potenze nucleari: uno scenario agghiacciante. Uno scenario possibile.

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Politica

Eravamo quattro amici al bar. Breve intervista atipica a Gianni Cuperlo Antonella GOLINELLI

Quindi, sabato 7 settembre sono andata a Ravenna alla Festa Nazionale de l'Unità. Una settimana di organizzazione, anche di più a dirla proprio tutta, per organizzare un incontro di amici di lunga data da mezza Italia. Premessa: durante gli anni del mio impegno politico ho conosciuto tante persone. Veramente tante. Quasi tutte veramente pregevoli. Molti sono diventati amici, persone con cui ci si raccontano i fatti della vita, ci si confronta, cui si chiede un consiglio. Non è scontato. Detto questo, tra previsti e imprevisti, casi e sorprese, ho incontrato il mondo. Il mio mondo. O almeno una parte importante del mio mondo. Non ho più parte attiva ma mantengo ostinatamente i rapporti interpersonali. L'occasione era l'intervista a Gianni Cuperlo di Luca Telese. 17


Si parlava di Berlinguer. Non ne tratterò qui perché sbobinerò l'intervento e lo trascriverò. Confesso sia stato affascinante ascoltare il racconto di episodi che appartengono alla mia giovinezza, il ricordare pezzi di vita con importanti ricadute nell'esistenza di ognuno di noi. Una sala sempre sull'orlo della commozione, azzarderei anche un bel po' di rimpianto di ciò che sarebbe potuto essere. Ma è andata cosi. Approfittando della conoscenza mi sono lanciata. Ho posto, a latere, due domande a Cuperlo. Mi sono improvvisata quello che non sono, ma volevo sapere due cose e ho chiesto. Sì, lo confesso, è un brutto vizio che ho e se non ho risposte, insisto. Ammetto di non essere stata a mio agio in un ruolo non mio. Mi pare di approfittare. Ma è un mio problema. Non ci sono foto delle facce perché i miei accompagnatori non hanno pensato di ritrarre la scena. Chissà perché. Ma forse è meglio. Ecco il risultato 18


Io – Perché Peppe (Provenzano) è ministro e tu no? Sarebbe stato bellissimo vedere i due che hanno rifiutato una candidatura per motivi nobili essere entrambi ministri Cup – “Ah ma perché lui è più bravo!”

Io (borbottando) – Dai, smettila! Cup – “No, no no. È una risposta serissima! Poi lui l'hanno fatto ministro del mezzogiorno a me potevano fare al massimo ministro dell'impero austroungarico”. Io – Ma tu hai idea degli operatori della cultura, come sarebbero stati contenti? Avevano già fatto la bocca alle chiacchiere Cup – “Va bene cosi. Serve anche stare al partito e dare una mano. Serve dare una mano mai come adesso. Il governo è importante ma non è tutto. Il partito è impor19


tante ma non è tutto. Dividiamoci le responsabilità”.

Io – A questo proposito: come li recuperate quelli di Sherwood? Cup – “Quelli che stanno a Sherwood? Con un po' di fatica. Cercando di diventare un po' di più Robin Hood e meno sceriffo di Nottingham”. Da Sherwood è tutto.

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Femminicidio

Le donne non hanno le palle Antonella BUCCINI

Un altro omicidio. Un’altra donna uccisa da un uomo. Un’inedita definizione è assurta non solo nel linguaggio giornalistico ma anche comune: femminicidio. L’evento dunque ha una frequenza e una connotazione tale da aver assunto una formulazione specifica nell’ordinaria comunicazione. Il racconto che segue al fatto, femminicidio, appunto, è variamente declinato. IlGiornale.it titola: “Il gigante buono e quell’amore non corrisposto”. Un certo sconcerto è d’obbligo. Una forma di comprensione dell’omicida è già in premessa. Chi legge può pensare alla bella e la bestia, con un finale però di altro tenore. Un uomo mite, dunque, l’assassino, forse un po’ disadattato e una donna che ne rifiuta le intenzioni, ma lo frequenta, come si legge nel medesimo articolo. Un tentativo surrettizio di insinuare comunque una responsabilità della vittima, un’incoerenza, un’ambiguità, che certo non giustifica un omicidio, però...

Non è una novità. Le donne sono vittime previo accertamento. Possono vantarne la condizione, affrancate da ogni pregiudizio, se aggredite in una 21


rapina o scomparse per un incidente. Diversamente, negli stupri, nelle violenze o negli omicidi che si consumano in famiglia o nei pressi, c’è una sorta d’inversione dell’onere della prova, se non sempre da una prospettiva giuridica quantomeno da quella morale. Vince su tutto la pratica del sospetto nella considerazione del femminile. E la logica del sospetto cela altra e corrente istanza: una donna va plasmata, se inquieta dominata, una ribelle va assoggettata. Eppure il fenomeno è l’esito ancora di una visione culturale che ricomprende anche i più avveduti, quelli che frequentano il politicamente corretto. La libertà sessuale faticosamente conquistata dagli anni settanta sembra fagocitata da questo sistema neoliberista che ne ha mutilato ogni pensiero.

E ancora, una donna ha le palle se possiede determinazione e competenza. Si fa ricorso a uno stilema del tutto maschile, e peraltro sgradevole, di virilità o in alternativa, la sua carriera è l’esito di prestazioni sessuali opportunamente fornite. L’uomo “progressista” che si fa vanto di “aiutare” la compagna nelle faccende domestiche sta in realtà denunciando che il compito è di genere, quello femminile, la 22


sua, invece è una virtù collaborativa. Le prerogative “femminili”, la dolcezza, la cura, la pazienza o la vanità, gravano ancora su una bambina sin da subito e ogni disubbidienza allo stereotipo imposto sarà possibile solo con il coraggio e la tenacia, ma, soprattutto, se potrà accedere a quegli strumenti culturali che favoriscono lo spirito critico, la costruzione dell’identità, la formazione civile. Margareth Atwood nel suo “Racconto di un’ancella”, romanzo distopico che disegna una società fondata sull’asservimento delle donne, sostiene di aver rappresentato solo la realtà a dispetto di uno scenario di fantascienza. L’ultima vittima, Elisa era una ragazza piena di vita, che non faceva mistero dei suoi desideri, la campagna, le moto, né del suo orientamento sessuale, un disvalore in più. Non conosciamo che percorso ha seguito Elisa, quali sono stati i suoi modelli, che sofferenze ha patito per accettarsi e farsi accettare, ma di coraggio e determinazione doveva averne tanto.

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Cultura

Tre raccontini Giovan Giuseppe MENNELLA

Come evitare una giornata al mare e vegetare pericolosamente Ero in vacanza in collina, la giornata era calda e tutti gli ospiti della casa erano in gita al mare, in una localitĂ della costiera, vicina ma non tanto. Assecondando la mia indole, mi ero rifiutato di accompagnarli, tenendomi alla lar24


ga dalla fatica dello spostamento e dalla calura in una giornata che avrei dovuto trascorrere probabilmente assiso in una plaga balneare alla moda. Il mio buen retiro era al secondo piano di un casolare di campagna, affacciato sulle colline. Rigorosamente in mutande, senza frittata di cipolle, birra e rutto libero, bensì con acqua del rubinetto, carta e penna e contemplazione alternata del soffitto e del panorama. Condividevo la giornata con un cagnolino confinato in terrazza al pianterreno, ma non tanto perché il vero confinato ero io. L’occasione era ghiotta per un interessante ancorché estemporaneo studio comparato del comportamento umano e di quello canino. L’umano un neghittoso, passivo, forse inconcludente inquilino del secondo piano, il cagnino un vivace, attivo, ottimista inquilino del pianterreno con terrazza. Nel pomeriggio, ormai inoltrato nella sonnolenza, tutte le volte che mi affacciavo, il cagnolino, quatto quatto, incuriosito, agitava la coda, guaiva, soffiava, mi guardava con intenzione da sotto in su, sicuro che sarei finalmente sceso per socializzare. Ma l’umano del secondo piano, tetragono, non cedeva, fermo nel proposito di una tranquilla clausura, però non smetteva di osservare e riflettere sull’andirivieni del canillo. Fino a che non gli è comparsa un poco di inquietudine, vuoi vedere che questo me l’ha giurata, ormai mi odia, quando tornano gli ospiti e scendo giù, mi azzanna un polpaccio, per farmi pagare la scarsa collaborazione? Ma il finale doveva essere sorprendente. Gli amici si erano dedicati a preparare la cena, avente come dessert finale un residuo di ottimo babà al rhum. Alla fine, com’è come non è, prendi il babà, dov’è il babà, s’erano fumati il babà. Se l’era fumato in un baleno, con balzo repentino sul tavolo della cucina, il mio probabile azzannatore. 25


E così il polpaccio fu salvo per puro caso, per una disattenzione in cucina.

Un’occasione mancata per salvare dei viventi Spesso il caso mischia le carte, quello che sembra facile diventa drammaticamente impossibile e quello che sembra impossibile, si realizza. Un giorno me ne andavo pigramente, con ore di anticipo come mio solito, con la borsa a tracolla, per una stradina secondaria e tranquilla, verso la piscina che frequento tre volte a settimana ormai da anni. Quando vedo zampettare di lato un piccolo scarafaggio, che si appresta ad attraversare la strada. Non avendo fretta, mi metto osservarlo, ce la farà a non farsi schiacciare da una macchina? Penso proprio di sì, perché il tragitto è breve e non si vedono macchine in giro. Ma sono troppo ottimista, arriva una macchina, ma va piano, continuo a pensare che il piccolo ce la faccia e non intervengo. Avrei potuto attraversare lentamente e mettermi in mezzo per dargli tempo. Con raccapriccio, il po26


verino viene proprio schiacciato, contro le mie previsioni. Grande e sincero dispiacere da parte mia, francamento non so se per la brutta fine dello scarafaggio o per aver perso io l’opportunità di essere iscritto con onore nel giardino dei giusti dello Yad Vashem degli scarafaggi. Ho continuato a sentirmi in colpa per tutta la durata della sessione in piscina, chi sa se si dovevano sentire così quelli che non avevano fatto niente per salvare un perseguitato dai nazifascisti, quelli della zona grigia, descritta da Primo Levi non ricordo più se in Se questo è un uomo o se ne I sommersi e i salvati. Basta, finalmente finisce la sessione in piscina, mi sento più sollevato, forse sto dimenticando il triste episodio, sono ormai alla fermata dell’autobus per il ritorno, stavolta sulla larga strada principale, quando il fato, incredibilmente, nella stessa circostanza, nella stessa giornata, mi offre una seconda opportunità. Stavolta dovrei ripiegare sullo Yad Vashem delle api, o forse era una vespa? Sì, perché vicino ai miei piedi, un’ape, o una vespa? , evidentemente incapace di volare, stava cercando d scendere dal marciapiede e di attraversare la larga e trafficatissima strada. Stavolta non voglio fallire e con pazienza e attenzione frappongo diverse volte il piede davanti all’apetta, ma dove vuoi andare, non hai scampo, rinuncia, ti sto salvando. Ma niente, la cocciuta ogni volta riprendeva caparbiamente la sua strada di morte, giù dal marciapiede. Mi arrendo, non c’è niente da fare, oltretutto in uno dei tentativi potrei essere io a schiacciarla, questa è un’ape suicida, tutto sommato. Non posso lanciarmi davanti ad una macchina a rischio della mia stessa vita. Guardo tristemente l’ape ormai al centro della strada già sfiorata da quattro o cinque macchine. E’ finita, ormai, la prossima è quella che porrà la parola “fine” , ed eccola, enorme, che si avvicina a tutta velocità. L’insetto scompare sotto le ruote, è 27


la sua fine. Ma no, che succede, lo vedo incredibilmente proiettato in alto dietro la macchina, come da una catapulta, che si libra alto nel cielo. Era successo che, mancato di un millimetro dalle ruote anteriori, il violento spostamento d’aria dell’alta velocità lo aveva lanciato in aria, come un aereo che decolla da una portaerei. E così almeno questa storia era finita bene, anche se non ero stato io l’autore della

salvezza e avrei dovuto aspettare ancora un bel po’ per avere il mio diploma di giusto. Un’avventura ai confini della realtà Quando eravamo bambini, ai primordi delle trasmissioni televisive, in un’epoca quasi più lontana del Medioevo, c’era una trasmissione che si chiamava Ai confini 28


della realtà. Ve la ricordate tutti, non è vero? No? Non ve la ricordate? Pazienza, non posso farci niente, devo essere più vecchio di Matusalemme. Correva l’anno 2008, ero andato in gita a Roma, col treno, in visita a una cara amica. Stavo ritornando a Napoli sulla solita linea ferroviaria. Veramente ora non è più tanto solita, anzi è in disuso, nel senso che i treni moderni non fanno più quella linea. Ma allora si prendevano ancora i vecchi cari treni di quella linea che, per avventura, passava proprio a pochi metri dalla casetta che abitavo da bambino e dalla quale naturalmente guardavo a mia volta passare i treni. Vicino alla antica casetta c’era la stazione che univa nella denominazione i due paesi vicini tra cui quello in cui sono nato. E così, da bambino guardavo i treni dalla casetta e da adulto, le volte che mi capitava di prendere quel treno, guardavo la casetta dal treno, con una certa emozione, anche se passava via molto velocemente, in un nanosecondo. Sono un nostalgico e quindi era grande l’emozione, ma anche la meraviglia di costatare che da grande la casa era vicinissima, mentre da bambino la ferrovia mi appariva lontanissima. Quel giorno del 2008 mi sono goduto come al solito la veduta della casetta, però è accaduto qualcosa di imprevedibile. Un altoparlante nel treno e nella stazione comunicava ai viaggiatori che il treno si sarebbe ferscendo e vedo che il ponte sui binari, che ricordavo diverso, più srato eccezionalmente alla stazioncina, quando non si era fermato mai nella storia, per un imprevisto e, poiché la partenza era prevista tra mezz’ora potevamo scendere a sgranchirci u n po’ le gambe. Scendo e noto che il ponte me lo ricordavo diverso, più grezzo, stavolta era un ponte finemente istoriato, marmoreo, sembrava il ponte di Rialto. Mi addentro nel paese, qualcosa di irresistibile mi porta verso una certa strada, quando comincio a vedere tutto in bianco e nero, come nei film neorealisti, come nelle vecchie fotografie, come in certi sogni. Man mano che m’incammino, capisco di trovarmi nella 29


strada dove abitavo da bambino. Ma cos’è quell’insegna? E’ il negozio del signor Farina, uno dei primi negozi di elettrodomestici aperto nel paese ai tempi del miracolo economico, ma che poi ebbe una cattiva sorte, fallì miseramente. Quando vedo venirmi incontro una donna, bellissima, giovane, anche lei tutta in bianco e nero. Ma che hai combinato, mi dice, mi hai fatto stare in pensiero, non ti ho visto più da un’ora. Era mia madre, per qualche incantesimo strano non eravamo più nel 2008, ma nel 1958. Vi piacerebbe che vi capitasse una cosa del genere? No? A me sì, sono un nostalgico. Ma forse no, non è capitata, era una cosa ai confini della realtà, come la trasmissione della nostra infanzia, ma sarebbe una bella realtà se capitasse davvero, per tutti, ne sono sicuro. Evviva, evviva.

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