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La microbiologia contro le microplastiche
© xalien/shutterstock.com
Si trovano in frutta, verdura, pesce e nell’uomo. Sono particolarmente assorbenti e possono intrappolare sostanze inquinanti come pesticidi e metalli pesanti
di MIchelangelo Ottaviano
La questione dello smaltimento delle microplastiche è un nodo che sembra sempre più impossibile da sciogliere. È una lotta ad un nemico ubiquo e quasi invisibile: 150 volte più piccole di un capello umano e presenti in diversi contesti naturali, vengono trasportate dall’aria, sono conseguentemente nella pioggia e nella neve, e popolano in gran parte i mari e gli oceani. Proprio questi ultimi sono i soggetti più inquinati e destano molta preoccupazione tra gli studiosi. Inoltre la presenza delle microplastiche non è statica, esse hanno avuto la capacità di penetrare nella catena alimentare umana. Quasi tutti gli organismi sono contaminati: sono state trovate in frutta e verdura, nel pesce e, ovviamente, anche nell’uomo. Sono particolarmente assorbenti e possono intrappolare sostanze inquinanti come pesticidi, metalli pesanti, farmaci in alte concentrazioni, peggiorando ulteriormente la loro tossicità.
Gli effetti non sono ancora del tutto chiari, ma si sa che potrebbero causare lesioni infiammatorie, stress ossidativo e, nei peggiori casi, cancro. È quindi urgente e necessario trovare un modo per liberarsene, e un gruppo di microbiologi della Hong Kong Polytechnic University ha forse trovato una soluzione che per ora funziona nel contesto più problematico, ovvero l’acqua. Il metodo scoperto si basa sull’impiego di un biofilm, una sostanza appiccicosa creata dai batteri, che è in grado di intrappolare le particelle. I batteri tendono naturalmente a raggrupparsi e ad aderire alle superfici, creando una pellicola adesiva per proteggersi. Milioni di cellule si impacchettano una sull’altra, formando delle vere e proprie masse, producendo degli esopolimeri collosi. Al loro interno hanno dei canali che contengono fluidi e funzionano al pari del sistema circolatorio degli organismi superiori, permettendo lo scambio delle sostanze nutritive e dei prodotti di scarto. Le reti vischiose che si creano sono in grado di catturare le microplastiche, in questo modo diventano pesanti e dunque possono precipitare sul fondo. I ricercatori di Hong Kong hanno utilizzato il batterio Pseudomonas aeruginosa.
Esso agisce in modo meccanico, si trova in tutti gli ambienti ed è particolarmente efficiente perché in grado di creare una massa pesante recuperabile. A quel punto è possibile sfruttare un gene che provoca il rilascio della microplastica che, una volta recuperata, può entrare in un processo di trattamento. L’esperimento è però in fase preliminare: è stato solo presentato alla Conferenza annuale di Microbiologia della Microbology Society, ed è stato condotto solo in situazioni controllate, dato che lo Pseudomonas è un patogeno per l’uomo. Una sua applicazione è però possibile nella pulizia delle acque di scarico, dove si accumulano un gran numero di microplastiche primarie. Gli attuali depuratori sono progettati per rimuovere dalle acque reflue solamente sostanza organica e nutrienti, ma non sono efficaci nella rimozione di altri contaminanti. Riuscire a proteggere il nostro bene primario sarebbe un primo passo importante.