TRAKS MAGAZINE #32

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Numero 32 - marzo 2020

UNIBRIDO un progetto fatto di grande baccano OTTODIX NICOLA DENTI I PROBLEMI DI GIBBO

GIACOMO DEIANA ROGOREDO FS VERONICA


sommario 4 Unibrido 8 Ottodix 12 Giacomo Deiana 16 Nicola Denti 20 Rogoredo FS 24 I problemi di Gibbo 28 Veronica 32 TGTS 36 InO 40 Nebbioso 44 The Lansbury

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UNIBRIDO: un progetto fatto di grande baccano

“P.I.G.S.” è il nuovo lavoro del duo abruzzese, “nato per caso” ma con idee molto chiare e anche con un po’ di buon umore, nonostante tutto Ci raccontate come nasce e cresce il vostro progetto? Gli Unibrido nascono per caso e necessità nel 2018 dalle menti alienate di Carlo e Marvin, due ragazzi abruzzesi che cercano il loro senso nella musica. Dal materiale sonoro dei primi mesi hanno cercato di prendere il meglio e infilarlo in P.I.G.S., il primo album

pubblicato a settembre dello scorso anno. In mezzo a tutto questo, molte esperienze dal vivo in regione hanno permesso loro di portare in giro un progetto fatto di grande baccano, messaggi sociali, filosofia e traumi infantili. Ma con buon umore. Quello che succederà quando sarà di nuovo possibile vivere insieme ad altri esseri 4


umani è ancora da scrivere. Quali sono state le idee attorno alle quali avete costruito il vostro disco? Sinceramente all’inizio non avevamo le idee molto chiare su come avrebbe dovuto suonare l’album e in questo ci ha dato una grossa mano il nostro produttore nonché amico Luigi Caprara. Per quan-

to riguarda i “contenuti” c’è tutto quello che abbiamo vissuto, respirato, letto e ascoltato negli ultimi anni condensato in poche ma essenziali liriche. Alienazione sociale, nichilismo intrinseco, svolte antropologiche e fine della metafisica. La presentazione del vostro disco chiude, dopo alcune con5



siderazioni sulla realtà di crisi circostante, con una domanda di bruciante attualità: ne usciremo vivi? Come si esce dalla crisi imperante in cui siamo cresciuti? Quel passaggio della presentazione di cui parli sembra descrivere, anche se indirettamente, la situazione straordinariamente paradossale di questi giorni su cui non vogliamo soffermarci troppo. Siamo infatti di fronte a una crisi storica su cui è impossibile formarsi un’opinione lucida, almeno per il momento. Sarebbe più opportuno viversela interiormente come l’opportunità per riconsiderare la scala di valori e priorità che ognuno di noi ha costruito mentalmente nella propria vita. Non possiamo fare altro. E alla fine dell’emergenza saremo costretti a fare i conti con tutte le scelte politiche ed economiche totalmente sbagliate che hanno portato l’Occidente fin qui. Benché qui e là nel disco ci siano idee alternative, mi sembra che quello che vi piace suonare sia un rock attento alle radici. Quali sono i vostri capisaldi? Il rock degli anni settanta, con ve-

nature blues psichedeliche è piuttosto presente. Coesistono anche influenze stoner e alternative rock degli anni Novanta nostrani. Ovviamente a tutto questo proviamo a dare un’impronta originale, o almeno ci proviamo. Non abbiamo paletti da questo punto di vista, sentiamo di poter stravolgere i nostri “capisaldi” in futuro. Come spiegate il fatto che, mentre ovunque in Italia si punta sul pop, in Abruzzo fiorisca il rock (Management fino a poco fa, Voina, voi e altri gruppi)? Non ce lo spieghiamo. Semplicemente ci godiamo le cose buone che riescono a nascere dalle nostre parti, senza fare paragoni. L’Abruzzo è un posto strano dove, già prima dei decreti ministeriali, noia e immobilità gironzolavano a braccetto per i paeselli silenziosi e le piccole cittadine. Coltivare una qualsiasi forma d’arte viene ancora visto da fette enormi di vecchie e nuove generazioni come un’inutile perdita di tempo. Capisci bene quanto siano preziose le realtà musicali nate qui. Valgono doppio. 7


OTTODIX “Entanglement è il nuovo disco del poliedrico musicista, un album riflessione sulla connessione globale

Prima di parlare del disco nello specifico, credo che sia giusto chiedere un parere, a un musicista dalle vedute ampie come le tue, un parere sul periodo, paradossale e singolare, che stiamo vivendo, sotto lo schiaffo del virus. Sono come tutti scombussolato dalla martellata in testa che a ognuno di noi è arrivata in testa, sulle abitudini, sui progetti, sulle sicurezze, ma ho per indole personale e professionale la fortuna di essere abituato a immaginare scenari capovolti, clamorosi. Ora sono reali. Certi esercizi di immaginazione artistica ti portano a essere più preparato a scenari de-

stabilizzanti come quello di oggi, li hai già in qualche modo ipotizzati, hai un po’ più di confidenza con le situazioni estreme. Non sono preoccupato per me, insomma, ma per le persone che avevano basato le loro certezze sulla routine, sulla stabilità del sistema, dell’economia. Mi preoccupa l’italiano medio e l’individualismo cieco che fa del nostro sacro trantran la cosa più importante del mondo a discapito del senso civico, che è la stessa cosa che ci porta a smantellare la sanità pubblica in favore di quella privata, a evadere il fisco, ad avere le casse pubbliche vuote in emergenza o che fa trasgredire le regole di quarantena, 8


perché quest’ultima viene scambiata da alcuni, per una vacanza, da usare per andare tutti al mare. Questo mi preoccupa. E che per contrasto dall’altra parte in ospedale ci siano supereroi che non possono resistere a oltranza. E’ un gigantesco esperimento sociale che trasformerà in modo drammatico il mondo definitivamente, credo, ma è interessantissimo. Cadranno molte maschere, rimarrà l’essenza di chi siamo nel bene e nel male e saremo costretti a guardarci in faccia nudi allo specchio. Abbiamo un’occasione senza pari per ripensare ai fondamentali dell’esistenza, al fatto che c’è ancora la morte dietro l’angolo a far rivalutare la vita. Sono scenari, questi, apocalittici, intuiti o intravisti da scienziati, artisti e filosofi, e gridati invano, da coloro che insomma, per attitudine e mestiere hanno il dovere di presagire l’aria in lontananza. Entanglement, il mio nuovo album, è in tal senso di un profetico quasi imbarazzante, ora. Un album-riflessione sull’iper connessione globale, geografica, economica, ambientale e web, in

cui causa-effetto si propagano in modo immediato da una parte all’altra del globo, come nel fenomeno, appunto dell’entanglement in fisica quantistica. Veniamo proprio al disco: da quali presupposti nasce? Dal concetto di fisica che ti accennavo poco fa. Due particelle unite in precedenza e poste anche a milioni di chilometri di distanza, interagiscono tra loro a livello istantaneo, annullando il concetto di spazio-tempo. Questa cosa mi ha appunto fatto pensare in chiave poetica (e non scientifica) alla similitudine con la globalizzazione alla quale siamo giunti come società umana. dalle fake news, all’odio, ai crolli di borsa, alla vita web, ai collegamenti aerei e navali internazionali, alle migrazioni umane e animali, dall’esplorazione al colonialismo, ai disastri ambientali e umani. Tutto si propaga all’istante da una parte all’altra del mondo. Tutti siamo causa di tutto e non possiamo credere di farla più franca, usando il Pacifico come discarica o sfruttando i bambini nelle miniere di cobalto 9


all’isola di rifiuti che circola per il Pacifico. Ci vuoi spiegare motivazioni di questo brano? Tra tutti i continenti toccati dal sommergibile Entanglement (uscirà un mio racconto a puntate nel web, a breve, per accompagnare la promozione in quarantena di questi giorni), c’è anche il non-continente del Pacific Trash Vortex, l’immensa chiazza di rifiuti e micro plastiche galleggianti che sta uccidendo il pacifico. Ha una doppia lettura, perché in realtà parlo dell’inquinamento dell’informazione, La manipolazione della realtà nel web, il trash (appunto) che impera in rete e i veleni e l’odio che propaga, creando una impalpabile , ma pericolosissima discarica in cui far scaricare alla gente tutte le loro peggiori pulsioni intestinali, lontane dal cervello. E’ il brano più trasversale e poi per contrasto secondo me ha un mood travolgente, ballabile, grintoso, in pieno Ottodix electro-style. Su quali aspetti sonori hai concentrato la tua attenzione? Ho ulteriormente consolidato

in Congo per i nostri microchip, che poi riempiono le barche e vengono qui il giorno dopo. Non la facciamo più franca pensando che l’epidemia in Cina sia una rogna lontana, o che la radioattività di Fukushima non ci tocchi, perché ce l’abbiamo nel banco del pesce a Milano. Ho dedicato un album alla storia dell’intreccio delle connessioni umane, dalla storia della navigazione antica fino alla navigazione web. Entanglement immagina un viaggio geografico attraverso gli oceani e i continenti, per capire la follia umana e la necessità che ha la natura di muoversi e spostarsi ovunque. Ma riflette anche sul bisogno di disconnessione, di intercapedini di silenzio, di isole remote. La bellezza infantile della geografia, di aprire un atlante e immaginare isole lontane, mari sconosciuti e spaventosi o le terre polari disabitate. La bellezza anche di sapere esattamente dove siamo noi-rispetto-a-cosa. Coordinate per ridarci un senso della posizione, del limite e della misura. Pacific Trash Vortex è dedicata 10


il mio sound tra pop sinfonico orchestrale e elettronica. Flavio Ferri che ha messo mano ai miei elaboratissimi provini, già molto prodotti, ha aiutato tanto a valorizzare e ripulire queste idee aggiungendone di nuovissime. Ho inserito per necessità di “suggestione” geografica, alcuni elementi dal sapore più etnico, ambient. Il brano che forse più mi soddisfa in tal senso è Africa By Night, in cui ho evitato di cadere in uno dei tanti cliche musicali africani, dal percussionismo ai cori tribali, agli strumenti etnici che danno quel colore new age un po’ abusato. E’ una marcia migratoria di elefanti, cadenzata, marziale, che attraversa un’Africa moderna in rovina, che sogna che venga sera, quando soffia un filo d’aria fresca. Oltre a questi interventi c’è la grossa novità delle 5 tracce strumentali dedicate ai luoghi disabitati del pianeta: 3 oceani e le due zone polari, in cui a Barcellona io Flavio e Loris (Sovernigo, il pianista) abbiamo creato un tessuto drone-ambient minimal davvero molto inedito per Ottodix, ma che serviva a dif-

ferenziare le canzoni continente da quelle dei mari e dei poli, come camere di decompressione sonora. Anche da questo disco trarrai uno show dal vivo. Ci puoi anticipare qualcosa in merito? Il tour di 13 date era appena stato pubblicato e ora verrà quasi cancellato e posticipato chissà a quando. Un dolore che non sai, anche per la qualità e l’importanza di molti eventi, da Milano a Roma a splendidi teatri e festival o biennali importanti. Lo spettacolo prevede la grande sfera gonfiabile che abbiamo usato anche per Micromega, che si accenderà e diventerà come un mappamondo con proiezioni e visuals in cui a tappe percorreremo questo viaggio che unirà letteralmente il globo, canzone per canzone seguendo la tracklist precisa, con band e quartetto d’archi in palco. Tra una canzone e l’altra anche contributi e letture di attori su riflessioni, statistiche e dati riguardanti l’iper connessione globale e i suoi paradossi. Seguiteci per posticipi e conferme eventuali, si vive come tutti, ora, alla giornata. 11


GIACOMO DEIANA

Si chiama “Single” il nuovo album del chitarrista e cantautore. Non vedente dall’età di 12 anni, l’artista sardo unisce le trame strumentali di una chitarra solista alle canzoni che incontrano anche la partecipazione di Andrea Andrillo, Max Manfredi, Pierpaolo Liori e Giuliana Lulli Lostia


“Single” è il tuo secondo album. Vorrei sapere che elementi di novità hai introdotto e percepito rispetto al tuo esordio, e anche la ragione del titolo. Single è la continuazione del mio primo disco. Più che elementi di novità prosegue un discorso. Mentre il primo disco è suonato con una sezione ritmica sempre presente e con tanti strumenti, questo disco è suonato solo con la chitarra. Quindi è un disco completamente diverso, mentre quello è un disco corale, questo è un disco unico con un’unica voce. Magari è più difficile estrimere i concetti ma proprio per questo è stato più affascinante. Single, intanto perché è un disco che suona con un unico strumento, con degli ospiti che vengono a fare visita però la voce è unica e anche perché al momento della scrittura di questo disco era la mia situazione sia sentimentale sia musicale. Come sono andate le lavorazioni del disco? Le lavorazioni del disco sono state rapide e molto rilassate. Forse rapide perché moto rilassate. In

realtà la maggior parte dei brani sono stati registrati in un solo pomeriggio, in uno studio piccolo, quindi in un ambiente molto intimo. Eravamo io, i microfoni ed Emanuele Pugeddu che è il fonico. E così è venuto molto naturale anche l’inserimento degli ospiti. E’ stato proprio un disco “rilassato”, è la cosa che mi sento di sottolineare: nessuna fretta, nessuna scadenza, e proprio per questo in realtà è stato molto veloce. Vuoi raccontare qualcosa rispetto agli ospiti di questo album? Per quanto riguarda gli ospiti: sì c’è qualcosa da dire. Andrea Andrillo canta “Tutto tramonta”: desideravo sentire una mia canzone cantata da un artista che non fossi io. Il giorno stesso che presi questa decisione andai a teatro a sentire un concerto di Andrea e lì fui folgorato e mi dissi “Questo è un brano per la sua voce”. Non mi sbagliavo perché la sua interpretazione io la trovo assolutamente adorabile, lui è un artista di prima categoria che meriterebbe dei palchi direi internazionali, ma questi sono i tempi e quindi anche i


grandi performer e i grandi artisti hanno spesso dei piccoli pubblici. Però sono felicissimo del lavoro che ha fatto. Max Manfredi non ha bisogno di presentazioni, ci siamo conosciuti sul palco nell’agosto del 2018, durante un concerto che prevedeva la presenza di molti artisti e c’era anche lui. Tra l’altro un aneddoto simpatico: mi venne presentato come “Massimo”, e continuammo a chiacchierare e a farci una birra insieme. Sul palco, quando ha iniziato a cantare ho riconosciuto questa voce, poi ho riconosciuto le canzoni e solo allora mi sono reso conto che si trattava di un cantautore che io seguivo. Poi andammo a cena insieme e più tardi mi venne l’idea che “Il valzer della domenica”, che non avevo ancora scritto, fosse adatta a lui e non mi sono assolutamente pentito, anzi. Pierpaolo Liori, fisarmonicista che ha già collaborato con me nel primo disco e mi segue dal vivo, è un artista dalla sensibilità e dalle competenze molteplici perché lui è anche un bravissimo arrangiatore e compositore, e quindi ogni volta

che metto un mio brano in mano sua dice sempre: “Mah, non so, ho provato a metterci lì una cosa, vediamo se ti piace...” ed è sempre una gran figata! Giuliana Lulli Lostia ha nel suo repertorio un mio brano, tratto dal mio primo disco e quindi è stato praticamente automatico nel momento in cui ho deciso di inserire una voce femminile in Serena rivolgermi a lei. Anche perché nell’ultimo anno lei si è presa cura della mia “vociaccia” che se non viene tenuta sotto controllo inizia a fare i fatti suoi. Quindi fa anche un gran lavoro con me come insegnante. Tre nomi di chitarristi che ti hanno cambiato la vita? Desidero dare due risposte a questa domanda. Inizio come Giacomo come persona: il primo nome è Alessandro Cocco, mio cugino, anche se lui non fa il chitarrista di mestiere è quello che mi ha insegnato il giro di do. Il secondo è Pero Alfonsi, il mio maestro, che mi ha mostrato cosa si può fare con una chitarra classica, mi ha portato fino al diploma. A lui devo tanto, anche della mu14


sica che poi ho ascoltato, la mia apertura a generi diversi dal rock e dall’hard rock, dal jazz al jazz acustico, a tutta la musica che si muove tra il classico e l’improvvisazione. Il terzo nome è Flavio Sala, che secondo me attualmente il chitarrista classico vivente più in gamba e più bravo e più completo che c’è. L’ho conosciuto a Siena all’Accademia Chigiana e mi ha aiutato a capire quello che volevo e quello che non volevo fare. Ho capito per esempio che la carriera del concertista classico non era la mia strada e grazie a lui ho preso il coraggio di portare la tecnica e la voce della chitarra classica nella canzone. Parlando di grandi maestri ti faccio tre nomi a bruciapelo: Alirio Diaz, Andrea Braido, Dean Murray, uno dei due solisti degli Iron Maiden. In questi giorni si è citato spesso Cecità di Saramago. Tu che conosci davvero la sensazione come stai vivendo questi giorni e che giudizio hai delle reazioni? Sì, si è citato spesso e onestamente devo dire a sproposito: chi ha letto il libro sa che la cecità di cui parla

Saramago è metaforica. Sarebbe stato bene citare già da una decina d’anni questo libro perché la cecità del mondo in cui viviamo non è epidemica e fisica quanto morale. Non sono trascinato dall’ansia di apparire sui social, per far vedere che esisto anche se nessuno mi vede, sto approfittando per stare tranquillo, riprendermi e riflettere su alcune cose importanti. Per esempio sto cercando di ricordarmi e far ricordare alle persone i nomi dei politici che non hanno mai parlato di ricerca, cultura e istruzione. E questo sarà bene ricordarcelo in un futuro perché non si può parlare di ricerca in campo medico solo quando è troppo tardi. Le epidemie erano già previste, non c’era un se ma un quando. Sto tappandomi le orecchie il più possibile e sto cercando di prendere il meglio, riflettendo anche sulla condizione dei lavoratori dello spettacolo che non sono tutelati, vengono chiamati a tenere compagnia al popolo alle ore 18, però poi quando si fa il decreto i lavoratori dello spettacolo non ci sono... 15


NICOLA DENTI “Egosfera” è il nuovo disco del musicista, un viaggio strumentale attraverso le allucinazioni di Ekow, personaggio alla ricerca della propria dimensione

Hai un percorso musicale estremamente ricco e prestigioso. Come sei arrivato all’idea di un disco a tuo nome? Ho sempre lavorato con band sia live che in studio e devo dire che la dimensione “band” è molto coinvolgente per la condivisione delle idee, ma avevo bisogno di dare una mia personale visione della musica e la voglia di fare sentire la mia “voce”. Fare tutto da soli è molto impegnativo, ma entusiasmante allo stesso tempo e ho pensato che il modo migliore fosse fare un Crowdfunding; un mio caro amico è uno dei fondatori di BeCrowdy e ho così ho fatto una campagna di raccolta fondi che mi


ha permesso di raggiungere buona parte della cifra che mi è servita per realizzare il disco. E’ stata un’esperienza fantastica, che mi ha dato una carica pazzesca per procedere nel migliore dei modi alla registrazione di Egosfera. Egosfera è un concept album strumentale. Ci spieghi come sei arrivato all’idea del disco e alla sua realizzazione? Ho sempre amato i concept album per il loro potere di trasportarti per la totalità del disco in un’altra realtà, e ho sempre desiderato scrivere un concept come primo album. Il disco parla di Ekow, una persona che soffre di allucinazioni e deliri che parte per un viaggio alla ricerca della propria dimensione simboleggiata da Egosfera. L’idea è partita da un periodo molto negativo della mia vita vissuto parecchi anni fa e avevo bisogno di un modo per parlarne, è stato più forte di me, era una storia che dovevo raccontare, non con le parole ma con la musica. Il progetto è stato congelato per parecchi anni, per i tanti impegni musicali e di insegnamento ed è


sempre stato rimandato, poi un bel giorno di tre anni sono partito con le idee chiare e mi sono posto l’obiettivo di portare a termine l’album, il primo brano che ho ultimato è stato The Project e da lì non mi sono più fermato. Le idee arrivavano in ogni momento della giornata, anche senza lo strumento in mano. E’ stato un anno pieno di creatività che ho sintetizzato in Egosfera, penso di avere scartato altrettanto materiale per scrivere un altro album intero. Forzando un po’ il concerto di Egosfera, non trovi curioso che oggi per cause di forza maggiore siamo tutti un po’ chiusi nella nostra Egosfera, eppure sembra starci così stretta che stiamo ri18

scoprendo l’esigenza di socialità “vera”? Ho sempre visto Egosfera come un concetto più ampio, la dimensione dove trovare il proprio equilibrio, ma non necessariamente un luogo dove siamo da soli con noi stessi. Mi piace pensare che in questo momento siamo tutti in viaggio verso Egosfera, in un qualche modo penso che queste restrizioni ci stiano facendo riscoprire noi stessi, iniziano a mancarci i contatti umani, quelli veri, stiamo ricominciando a dare un po’ più valore alle piccole cose, abbiamo il bisogno di sentirci più comunità. Il mondo non si ferma mai e non abbiamo mai il tempo di pensare, prendiamo questo periodo negativo almeno come una occasione di risveglio collettivo. Nel disco collabori con molti nomi eccellenti. Ti va di parlarci di loro? Prima di tutto ho avuto la fortuna di lavorare con Fausto Tinello e Mirko Nosari che hanno mixato il disco, hanno saputo dare perfettamente carattere e forma a quello che avevo in testa. Il primo


musicista che ho coinvolto è stato Federico Paulovich, batterista dei Destrage davvero incredibile, abbiamo registrato le batterie in un solo giorno e devo dire che ha saputo interpretare fantasticamente ogni brano e soprattutto zero editing, era già tutto perfetto. Ho avuto l’enorme piacere di avere anche Bryan Beller, un mostro vivente del basso che suona con Aristocrats e Joe Satriani, che ha suonato su Awakening, è stato molto emozionante appena ho sentito la linea di basso sul brano, l’ha davvero impreziosito. Mi sono affiancato poi di colleghi bassisti che stimo molto musicalmente con cui ho avuto l’opportunità già di suonare in diverse situazioni sia live che in studio: Anna Portalupi, Emiliano Bozzi Fausto Tinello, Lucio Piccoli e Pier Bernardi. L’ultimo tassello è stato Sbibu, percussionista straordinario che con i suoi interventi mai banali ha reso magici alcuni momenti del disco. Superato il 100% del crowdfunding ho voluto fare un ulteriore regalo a tutti i sostenitori e ho chiesto a John Cuni-

berti di fare il mastering, il tocco finale della produzione dell’album. Lavorare con lui è stato fantastico, John ha prodotto i più famosi album di Joe Satriani, tra cui Surfing with the Alien, una vera leggenda. E non potevo fare mancare nell’album mio figlio Tobias, l’ho registrato tutte le mattine quando aveva pochi mesi e la sua voce apre e chiude il brano All Good Things. Tre nomi di musicisti contemporanei che stimi particolarmente? Ti cito i primi tre che mi vengono in mente, perché ne avrei davvero troppi da menzionare. Il primo è Steven Wilson, musicista e compositore che apprezzo davvero tantissimo, una discografia pazzesca, non smette mai di stupirmi. Ultimamente ho iniziato ad apprezzare Tosin Abasi, che con i suoi Animal as Leaders sta confezionando dei dischi strumentali davvero molto interessanti e con sonorità innovative. Come non citarti poi uno dei miei idoli, che è Joe Satriani, che per me è rimasto una continua ispirazione fin da quando mio padre mi regalò a 13 anni il suo disco Time Machine. 19


ROGOREDO FS

Sono in cinque e si vogliono bene: la band lombarda pubblica il singolo d’esordio “Psicosociale” e prepara tutte le “bombe” successive


Partiamo dal (vostro) inizio: come hanno avuto inizio i Rogoredo FS? I Rogoredo FS (o rogoredi, se vogliamo umanizzare il nome) nascono nel novembre 2017, oggi


sono in cinque e si vogliono bene. Esistono due versioni sull’origine del nome, ma la sintesi è che l’abbiamo scelto in metro, di fronte all’insegna dell’omonima stazione, perché in fondo era coerente con quello che volevamo raccontare. In stazione ogni giorno transitano studenti, imprenditori, scippatori, artisti; ci sembrava interessante parlare di ognuno di loro nelle canzoni. Come nasce il vostro singolo d’esordio, Psicosociale?

Psicosociale nasce dall’immediato bisogno che avevamo di raccontare, di chiarire da subito che il nostro obiettivo non era quello di intrattenere gli amici durante gli aperitivi, bensì di spiegare il disagio che un ventenne qualsiasi può ritrovarsi a vivere in un mondo così complesso. E’ curioso pensare che io e Jacopo (il tastierista) scrivemmo la prima bozza del brano tre anni fa. Abbiamo atteso due anni prima di portarlo a maturazione, questo grazie a una line-up 22


completa e affiatata, oltre all’incontro con il produttore Max Palmirotta. E’ stato lui a incoraggiarci, a insistere sul progetto, e noi l’abbiamo ascoltato: Psicosociale è solo l’inizio, abbiamo già un arsenale di bombe pronte al lancio. Vi chiamate come una stazione, il vostro primo singolo parla di andare “via da qui”, sembra che la fuga sia proprio nel vostro DNA... In effetti può sembrare un paradosso cantare “via da qui” in questo momento di clausura forzata. In realtà fa capire meglio il messaggio della canzone: le prigioni non sono sempre dei luoghi fisici, molto spesso l’incomprensione e il bigottismo sono il materiale migliore per costruire una gabbia. D’altronde non esistono persone dall’anima sedentaria; chiunque su questo pianeta, dal Pleistocene a oggi, è in fuga da qualcosa. Quali sono i vostri punti di riferimento musicali? Domanda difficile! Siamo tutti molto diversi in realtà, Jacopo è un discepolo dei Radiohead, Nicholas adora Justin Vernon, Ric-

cardo ha un tatuaggio dei RHCP e Armando ha venduto l’anima agli Afterhours. Andrea (il batterista) ascolta di tutto, adora i Dream Theater ma sa apprezzare anche la semplicità. Ad ogni modo, la nostra fase creativa origina dalle jam session, in due o in cinque, per poi lasciare spazio alla scrittura. L’unico mantra che siamo tenuti a osservare è: solo testi in italiano! Momento difficile per l’Italia ma per la Lombardia in particolare. Che cosa vi sentite di dire oggi ai vostri concittadini? Per 3/5 della band siamo bioingegneri, crediamo tutti fermamente nella logica e nella statistica: al momento la soluzione più logica è attenersi rigidamente alle disposizioni del governo. I rockers sono noti per la loro lotta alle convenzioni e alle regole, ma di sicuro non è questo il momento giusto per farlo. Invitiamo chiunque abbia una penna, uno strumento musicale o una fotocamera a rispolverare la propria creatività, in modo da recuperare quella “libertà espressiva” che è spesso soppressa dagli impegni lavorativi. 23


I PROBLEMI DI GIBBO

“Sai dirmi perché?” è il nuovo album della band che nasce sulla spinta di Stefano e Daniele, membri fondatori, e di un personaggio, Gibbo, che non ha paura di mostrarsi fragile


Ci raccontate la band? E chi è Gibbo? La band nasce da un’idea di Stefano e Daniele, un paio di anni fa. Stefano aveva iniziato a scrivere qualche canzone e Daniele era da un po’ che aveva voglia di


differenza di noi, non ha nessun timore di mostrarsi fragile e interrogarsi sulle contraddizioni del nostro tempo. I suo “problemi” rappresentano questo nostro disagio, nel vedere come in un mondo sempre più connesso, in realtà sembriamo tutti più distanti. Quali sono state le ispirazioni alla base del vostro disco d’esordio? Tutto è nato in primis da un esigenza personale, cercare di capire quello che ci portiamo dentro ogni giorno e osservare il mondo che ci circonda. È difficile mettersi in discussione e ascoltarsi, ma tanto è difficile quanto è necessario per riuscire a evolvere. Questi interrogativi lì ritroviamo nei cantautori italiani, moderni e non al

realizzare una produzione originale. Abbiamo iniziato a lavorare in studio e a produrre delle demo tape, alle quali hanno collaborato fin da subito anche Alessandro e Carlotta. Sì è creata una bella sinergia e tutto è stato molto spontaneo. A quel punto ci voleva un nome... Ci siamo quindi inventati questo personaggio, Gibbo, come una sorta di nostro alter ego, che a 26


quale cerchiamo di ispirarci e di imparare molto. Mi sembra che Lei ballava sia una traccia cardine del disco. Come nasce? In effetti è la canzone a cui teniamo di più, perché è quella che rappresenta meglio il nostro mondo sonoro. È stata anche la prima canzone che abbiamo scritto e quella che ci ha dato la possibilità di poter collaborare con Luca Serio Bertolini (Modena City Ramblers). Diciamo che dopo aver realizzato Lei ballava, abbiamo capito che tutto poteva avere inizio. Quali sono i vostri punti di riferimento musicali? A livello sonoro una parte di noi è ben radicata alle sonorità folk americane, a quel suono che resiste al tempo nelle sua totalità e semplicità, ma nel nostro percorso non abbiamo potuto fare a meno di sperimentare grazie alla tecnologia, sonorità più moderne, elettroniche, e tuttora stiamo cercando di trovare un giusto connubio tra le due cose. Non scordarsi quello che è stato e che ha dato inizio a tutto senza guardare però

con pregiudizio le possibilità che il “nuovo” ci mette a disposizione. Citiamo Niccolò Fabi, il quale ha saputo unire le due cose in modo magistrale nel suo ultimo album, e un cantautore statunitense di nome Gregory Alan Isokov, che mantiene viva quella semplicità e naturalezza nel fare musica. Quali saranno le prossime tappe della band? Negli ultimi mesi ci siamo concentrati sulla produzione dell’album e dei video dei primi due singoli. Il prossimo passo era quello di mettere in programmazione diverse esibizioni live... Diciamo “era” perché vista la situazione attuale, non sappiamo quando potremo finalmente suonare dal vivo le nostre canzoni. Tutto quello che abbiamo realizzato fino a oggi, ha come obiettivo ultimo quello di poter presentare dal vivo il nostro lavoro. Adesso, come sappiamo, ci sono altre priorità, ed è giusto dare la precedenza all’emergenza sanitaria che stiamo vivendo, ma non vediamo l’ora che tutto si sistemi, sarà ancora più bello ed emozionante... 27


VERONICA

“Kaleidoscopio” è il primo singolo della giovane cantautrice di Aversa, dedicata alle vittime di bullismo, con un brano che fa perno sulla sua esperienza personale Cominciamo dalle presentazioni: chi è Veronica? Sono Veronica, ho 24 anni e sono cresciuta ad Aversa, una piccola città in provincia di Caserta. Ho iniziato ad appassionarmi alla musica alle elementari, quando durante l’ora di musica suonavo

le percussioni e la diamonica senza saper leggere le note. Oltre alla passione per gli strumenti musicali, il mio primo amore indiscusso è stato il canto. Sin da bambina ho da sempre provato una sensazione di totale libertà cantando al karaoke le canzoni dei miei artisti pre-


cessità di dare voce a tutte quelle esperienze negative che mi portavo dentro da troppo tempo. Questo brano parla di me e del mio acerrimo nemico, il bullismo. Da bambina e anche in adolescenza ho subito diversi atti di bullismo sia di natura psicologica sia fisica. Il bullismo è stato un capitolo difficile, di cui non ho mai avuto il coraggio di parlare per non essere ulteriormente “presa in giro” dalle persone che per anni hanno gioito nel vedermi cadere in un baratro sempre più profondo. Ho impiegato diversi anni a chiedere aiuto ed è stata questa agonia prolungata a farmi rifugiare nella musica. La musica mi ha salvata, mi ha dato la chiave per sopprimere tutte quelle sensazioni negative che mi rendevano vulnerabile e insicura. Kaleidoscopio rappresenta il ritrovo di una voce che avevo perso e che avevo finito per dimenticare a causa del giudizio altrui, ma da quando l’ho ritrovata ho deciso di metterla a disposizione di chi ancora stenta a trovare la propria e che ha bisogno di essere rappresentato con coraggio. Non ho

feriti, in particolare, il mio cavallo di battaglia era La solitudine di Laura Pausini. Durante il periodo delle medie mi resi conto che il canto era diventato una sorta di rifugio dai tormenti che subivo quotidianamente a scuola. Così, decisi di prendere lezioni e al contempo iniziai a suonare la chitarra da autodidatta guardando video su YouTube. Durante il liceo decisi di affrontare l’ansia da palcoscenico suonando in numerose band della mia città e partecipando a concorsi di canto regionali. Dopo essermi laureata, dai banchi di scuola di periferia, sono stata selezionata per studiare alla Luiss Business School, dove lo scorso anno mi sono diplomata al Master of Music: l’obiettivo più importante che ho conseguito fino ad ora. Oggi posso dire che Veronica vive di musica in tutti i sensi. “Kaleidoscopio”, il tuo primo singolo, è dedicato alle vittime di bullismo. Come nasce? Lo spunto è una tua vicenda personale? “Kaleidoscopio” è nata in un periodo molto buio della mia vita, periodo in cui ho sentito la ne29


voluto soffermarmi soltanto sulla mia personale esperienza, ma ho voluto dare una visione più ampia rispetto alle difficoltà che ognuno di noi si ritrova ad affrontare ogni giorno. I veri protagonisti di questa canzone sono tutti coloro che inspiegabilmente e quotidia-

namente vengono spinti giù nel baratro dell’isolamento da una società conformista, dove tutto si dissolve in un silenzio – assenso assordante che non lascia spazio alla diversità. Nel mio brano ci sono influenze non eterogenee ma anche di artisti precisi quali Billie 30


Eilish e Lorde che ritengo abbiano rappresentato e rappresentino una generazione vulnerabile che, persa tra i meandri di internet, non sappia distinguere più dei punti di riferimento reali a cui appellarsi o confrontarsi. Anche il video mi sembra piuttosto carico di simboli e molto d’impatto. Come sono andate le riprese? Il testo di Kaleidoscopio è ricco di metafore così come il video e queste ultime hanno l’arduo compito di descrivere al meglio il concetto di diversità, termine che molto spesso viene utilizzato in modo dispregiativo. Ho immaginato il bullismo come un film in bianco e nero, dove non si riesce a individuare alcun tipo di colore. All’inizio del video mi ritrovo in questo limbo dal quale non riesco a evadere perché queste mani ricoperte di vernice mi trattengono senza alcun valido motivo e sono la metafora di una società che ancora zoppicante non riesce ad accettare a pieno la diversità. Il caleidoscopio, rappresentato dai miei occhiali, è lo strumento

chiave che mi permette di guardare oltre questa nube grigiastra e di vedere finalmente la vita dal mio punto di vista, ricca di colori e di forme che prima non riuscivo a percepire in alcun modo poiché offuscati dal giudizio altrui. Nel video, girato dal regista Valerio Matteu, è presente anche una ballerina (Anna Massaro) che simboleggia tutto ciò che fin da bambina ho sempre sognato di essere e che sono riuscita a diventare dopo aver trovato il coraggio di affrontare le mie paure. Nelle scene finali riesco ad accettare me stessa e a trasformarmi in una rosa rossa, simbolo di rinascita. So che hai altri piani, altri progetti in arrivo... Sto lavorando con Key Music e Cantieri Sonori alla realizzazione di un ep, dove affronterò tematiche sociali che mi stanno a cuore. Prossimamente duetterò con un rapper napoletano per raccontare della riqualificazione di zone come Scampia e Secondigliano che si stanno rialzando a testa alta da un periodo di sofferenza durato fin troppo a lungo. 31


PALMER GENERATOR THE GREAT SAUNITES Uno split album tra due band “parenti” che condividono anche sonorità e gusto per la sperimentazione. Il risultato è “PGTGS”


Come nasce e che cosa vi ha spinto a condividere questo progetto? PG: Il progetto è nato nel 2010 e la spinta è sicuramente stata quella di suonare in famiglia.Tommaso e suo fratello Michele suonavano già insieme in una precedente band. Nel 2010 Mattia, figlio di Michele, era quattordicenne e aveva da poco cominciato a suonare la batteria cosi, inizialmente per gioco, iniziammo a sfruttare la sala prove per farci delle suonate


in compagnia. Col tempo il progetto è diventato sempre più concreto per noi fino al 2014 quando, usciti col primo album ufficiale, abbiamo veramente cominciato il nostro percorso come band. Cosa che ci ha poi unito molto sono gli ascolti musicali, dato che tutti e tre si è sempre ascoltato molto e ricercato molto, andandosi a procacciare la nostra propria musica e puntualmente condividendola parlandone con gli altri. Anche questo un meccanismo fondamentale per la crescita. TGS: Il progetto “PGTGS” ha ori34

gine dal primo incontro tra le due band, in occasione del “Field Fest” di Jesi, un festival estivo al quale i Palmer collaborano in veste di organizzatori e a cui ci invitarono qualche anno fa. Mantenendo nel tempo i contatti, ci siamo ritrovati abbastanza a livello di gusti e approccio. L’idea di dare vita allo split è quindi nata così, tra uno scambio di vedute sulla scena underground e un confronto sui rispettivi progetti futuri. La collaborazione si è sviluppata a distanza, ispirata dalla passione comune e da un’idea di album non necessariamente immediato, ma che potesse conciliare nei limiti del possibile lo stile e il momento attuale dei gruppi. Che cosa vi piace di più dell’ “al-


tra” band? PG: The Great Saunites sono dei grandi amici e una grande band. Una delle prime cose che sicuramente ci ha colpito della loro musica sono gli andamenti ipnotici circolari. Prima di collaborare insieme li abbiamo visti live tante volte, ci siamo conosciuti bene e ci è sempre piaciuto lasciarci incantare dai loro vortici psichedelici. Una sorta di seduta ipnotica dove basta chiudere gli occhi e lasciarsi andare. Una band poi molto longeva, dato che suonano dal 2008, e ciò non può che aver giovato, li consideriamo infatti estremamente maturi come musicisti e consci del proprio io. Poi anche qui, continuando a sottolineare l’importanza che per noi hanno i rapporti di amicizia in musica, condividere gli ascolti e le discussioni musicali con loro è sempre stato molto bello, una band preparata e che conosce davvero molto ed approfonditamente ciò che tratta, senza superficialismi e soprattutto senza ego-mania, che oggi purtroppo porta molte band a suonare solo per mettersi in vetrina, per piacere

agli altri. Da questo punto di vista i Saunites sono una band “vera” e che si vive, come non moltissime ce ne sono oggi in giro, visto anche il dilagare del mood da band a progetto che straripa in Italia: dove quel che conta è il singolo e dove ogni tot si abbandona una band per passare ad un altro progetto e poi riprenderla in mano solo per la successiva pubblicazione, senza “viversi” veramente nel tempo. TGS: Be’, dei Palmer non poteva non incuriosirci il legame familiare anzitutto, non ci sono molte band che possono vantare una tale particolarità. A livello musicale invece condividiamo lo spirito psichedelico, le atmosfere dilatate, anche se poi loro riescono a conciliarle con strutture più quadrate e spigolose, riconducibili allo stile di certe band post-rock che hanno fatto scuola sul finire degli anni 90 e di cui noi stessi al tempo ci siamo un po’ nutriti da ascoltatori. La coesistenza di queste due “anime” costituisce una forma di originalità che apprezziamo molto nei nostri compagni di split! 35


InO

“Casa Anastasia” è il primo disco da solista di Andrea Sella, cantautore veneto con forti legami con la famiglia e con il rock Chi è InO? E in cosa si distingue da Andrea Sella? InO è un diminutivo, InO è uno e tanti, InO è un sogno. Diminutivo perché è nato dalla mia nonna materna Anastasia che vedeva in Andreino un nome troppo lungo, uno e tanti perché è un progetto

solista che vive grazie all’aiuto e alla fiducia di tanti amici musicisti, un sogno perché suonare, cantare e magari donare qualche emozione non può che essere un mestiere per sognatori. Ecco InO è il sognatore che canta, suona e si emoziona dentro ad Andrea.



Casa Anastasia” è il tuo nuovo disco, ricco anche di sensazioni e ispirazioni famigliari. Ci racconti come nasce? “Casa Anastasia” è nato piano piano ma anche un po’ per caso perché mai avrei pensato, fino a tre o quattro anni fa, di realizzare un

album completo di canzoni in italiano. È un album come punto di arrivo e nello stesso tempo come punto di partenza e il titolo parla di una casa a me cara, dove sto bene anche da dove vorrei partire in cerca di cose nuove. Qual è la canzone alla quale sei più legato nel disco? E perché? Credo Andiamo a Venezia, la traccia numero 3, perché l’ho scritta di getto e perché è la prima canzone della consapevolezza di InO. Come si affronta una situazione così difficile come quella che stiamo vivendo dal punto di vista dei musicisti? Ognuno affronta le vicende della vita nel modo che sente più consono alla propria natura, non credo ci sia una via giusta o una via sbagliata da seguire, c’è chi canta in continuazione ovunque, dai balconi alle varie pagine social, c’è chi 38


vive in sacro silenzio il tutto. Ecco io sto cercando un equilibrio non facile, ho fatto un paio di dirette, le prime in assoluto della mia vita, ma non credo ne farò altre, lascerò spazio a un po’ di silenzio, però cercherò anche di far sapere, in punta di piedi, che c’è un nuovo album da ascoltare. Il Qoelet diceva, ma ci dice ancora oggi, che c’è un tempo per ogni cosa sotto il sole e quindi tornerà il tempo di far “baccano”, magari con una consapevolezza diversa e con più rispetto verso chi, con la propria arte, cerca di colorare la vita delle persone. Parliamo di futuro (bisogna sempre parlare di futuro): che cosa vedi davanti a te e al tuo progetto musicale? Suonare, suonare e ancora suonare dal vivo, non conosco molte altre strade per far sentire la propria musica e magari tornare in studio

al più presto per dar vita ad altri brani. In molti mi hanno detto che il periodo per fare uscire un album forse non è dei migliori, lo posso anche capire, ma il 25 marzo per me è una data importante e forse qualcuno in questo periodo avrà più tempo per ascoltare, io ci spero. 39


NEBBIOSO

In occasione del trentesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino, il bassista Davide Sciacchitano ha pubblicato “Nebbiosa”, suite distopica che ha per tema l’obsolescenza programmata dell’uomo


Ci vuoi spiegare chi è Davide Schiacchitano? Cosa non facile... lo scopro ogni giorno: sono stato un bambino attratto dal mondo del giornalismo e da come i media influenzano i comportamenti e la cultura. Mi sono occupato di cronaca per anni e ne sono uscito deluso, ho mollato tutto. Scrivendo volevo per primo affinare il mio sguardo sul mondo che mi circonda e contribuire alla causa della consapevolezza. Oggi mi occupo felicemente di educazione ai media e ho la possibilità di incontrare migliaia di ragazzi. Avevo la loro età, 13 anni, quando sentii il richiamo del basso elettrico, altro strumento di verità, dopo la penna: mi chiudevo in camera e ascoltavo soltanto certe frequenze. Dopo aver suonato con diverse formazioni in Friuli e conosciuto amici musicisti con sensibilità particolari e tante cose da dire, ho deciso che volevo realizzare un’opera con un’ambientazione sonora ben precisa, cupa e di confine. E il confine doveva essere l’uomo. Mi sono sempre chiesto cosa c’è prima e dopo l’uo-

mo? Cosa succede quando finisce l’umanità? La risposta è ogni giorno sotto gli occhi di chiunque abbia voglia di guardare oltre il proprio piccolo orizzonte. È nata così Nebbiosa. Migliaia di ore notturne passate a dare un senso a tutto. Un album che nasce da un film abortito di Pasolini. Su quali basi concettuali poggia Nebbiosa? Per le ambientazioni, in particolare, mi sono ispirato a Pasolini e alla sua sceneggiatura La Nebbiosa, una Milano cyberpunk che ha molto in comune con la Los Angeles di Blade Runner. Non ebbe fortuna quel manoscritto del poeta, che appunto non divenne mai film. E Nebbiosa nasce certamente da una mancanza: ho sognato di aver lasciato mio figlio in un freddo contenitore d’ospedale. Preso carta e penna, imbracciato il basso, ho voluto mettere al mondo (ma un mondo parallelo) una ragazza, una trovatella di nome Nebbiosa, che si muove in una dimensione distopica, vivendo nella città circolare di Tr3SeiZer0, chiusa da mura-schermi che im41


del video-wall, in seguito all’emanazione dell’ordinanza del Profondosonno, vengono convinti ad assumere dosi letali di cianuro. Ricordate Berlino? Ricordate il massacro di Jonestown? Sembra fantascienza, ma in realtà è già accaduto. L’idea è quella della presa di coscienza: una ragazza di sedici anni deve capire se stessa e conoscere la propria storia per potersi salvare da questo incubo. In che modo si collegano la storia del disco e quella della caduta del Muro di Berlino? Anche in Nebbiosa c’è una popolazione che vive una limitazione della propria libertà perché qualcuno vuole “proteggerla” da ciò che c’è fuori. E’ un disegno folle

pediscono a chiunque di entrare e uscire. In questa città-laboratorio si sta per sperimentare l’utopia: l’introduzione dell’intelligenza artificiale. E cittadini intorpiditi da una vita senza orizzonte a causa 42


che oggi attrae più che mai: il presidente del Friuli Venezia Giulia ha annunciato di voler bloccare i migranti della rotta balcanica con un muro al confine con la Slovenia. Non è cambiato nulla, è psicopolitica. Allo stesso tempo non sappiamo più cosa significhi “libertà”: viviamo costretti dai social alla completa nudità, obbligati a essere liberi in una dittatura che non si vede ma c’è. Come topi da laboratorio, gli abitanti di Tr3SeiZer0 vivono nudi e circondati da schermi. Da bambino seguivo in diretta tv la caduta del Muro, fu emozionante. Quelle immagini così potenti mi hanno sempre accompagnato, dunque è venuto spontaneo rielaborare quel ricordo e trasformarlo in paesaggio sonoro. Vuoi spendere qualche parola a proposito dei numerosi musicisti che hai coinvolto nel progetto? Grazie per darmene la possibilità: Nebbiosa non esisterebbe senza il cuore e la competenza di chi mi è stato vicino e ha dato forma e voce a questo lavoro. La terra in cui vivo, il Friuli, è ricca di talenti

musicali, che con fortuna sono riuscito a raccogliere attorno a questo progetto, amici musicisti, anche professionisti, che mi hanno dato fiducia. E chissà poi perché... In fondo io non so suonare, lo ammetto, ho soltanto cercato l’inconsueto. Non citerò nessuno perché dovrei citarli tutti, dico solo che la musica è stata un pretesto per costruire un sentimento di amicizia. Ognuno di loro è impegnato in super progetti dal dub al jazz, dal cantautorato all’elettronica, che consiglio a tutti di seguire. Nebbiosa è anche l’immagine di copertina, grazie a chi ha saputo dare un volto a questa ragazza delicata e combattiva. Quali saranno i tuoi passi successivi? Sto cercando di organizzare una presentazione live, mi immagino uno spettacolo di musica, luci e danza in cui il pubblico è parte della storia narrata. E’ una sfida molto grossa, sarà bello poter trasformare questo disco in qualcosa di ulteriore, liberare la musica dai confini posti dall’immutabilità della registrazione. 43


THE LANSBURY Un singolo e un video, “Alba”, molto forte e attuale, dedicato alla violenza sulle donne. E tutta la voglia di suonare di un trio torinese emergente e promettente Intanto, le presentazioni: chi sono The Lansbury e perché si chiamano così? Ciao a tutti e tutte! L’annoso problema della scelta del nome attanaglia tutte le band nascenti, ma abbiamo avuto la brillante idea di trovare un punto comune nelle tre nostre infanzie che si è rivelato essere nientepopodimeno che: La Signora In Giallo (Murder She Wrote). Lansbury è il cognome dell’attrice che interpreta la famigerata Jessica Fletcher. Ed è abbastanza fico. The Lansbury sono: Davide Mura, chitarra sarda e voce… sarda pure quella. Andrea Carenzi in arte Oscarito, bassista lombardo, fumettista e Luigi De Rosa, batterista e scrittore campanoromagnolo ( o romagnompano


se preferite ). Ci siamo incontrati nell’inverno 2016 tra piogge torrenziali e cartelloni pubblicitari che invitavano alle vacanze in Mongolia. Al posto di prenotarci una bella Yurta abbiamo dato vita al progetto. Inizialmente eravamo orientati su un genere più radicato nell’alternative rock, come potete sentire nell’ep Studio Session che abbiamo registrato nel 2017. Avendo tutti e tre gusti e formazione musicali abbastanza diverse, ci siamo contaminati a vicenda virando le sonorità verso un postrock sporcato da noise, shoegaze e altra robaccia che ascoltiamo. Alba, nella sua versione ufficiale, è un buon esempio di questa maturazione. Alba è un pezzo molto forte, con una tematica molto attuale e di grande impatto. Ci raccontate l’ispirazione di questo brano? Alba è stato il primissimo testo che Davide ha scritto. Nasce dall’incontro con una ragazza, di cui non faremo il nome per ovvie ragioni, che confidò a Davide quello che stava vivendo. Dalle sue parole traspariva una soffe-


renza forse ancora informe e non comprensibile per lei, che la portava a giustiďŹ care gli atti di violenza subiti. Conosciamo i meccanismi complessi e radicati che

si mettono in moto nelle relazioni umane e non giudichiamo negativamente una donna che, pur consapevole di ciò che ha di fronte, cerca di trovare un senso e una 46


ragione per salvare una relazione, sia pure deleteria. In molti e molte confinano queste situazioni con l’uso di termini come “vittima, relazione malata” non lasciando spazio al dialogo e al confronto che porti invece a una maggiore consapevolezza da entrambe le parti senza relegare chi subisce violenze all’isolamento. Per noi una nuova Alba è possibile, necessaria e la vediamo spogliata di vittimismo imposto, piena di forza, di lotta. Il nostro è un invito a cambiare rotta per demolire una cultura patriarcale che da troppo tempo ci portiamo addosso. Anche il video mi ha colpito molto, e so che l’avete confezionato da soli o quasi. Ci spiegate anche come? L’idea è nata, ovviamente, dalla necessità di tradurre in immagini i contenuti trattati in Alba e dalla nostra passione per il cinema. Non ci piace essere super espliciti e quindi abbiamo preferito una messa in scena meno didascalica, ma che fosse comunque chiara negli intenti e nel messaggio. Com-

prensibile ed esteticamente valida, ecco. Non come il bassista (ridono). Edith Ben, un’amica attrice e danzatrice, ha subito reagito con entusiasmo alla nostra proposta di collaborazione perché anche lei affrontava, nel suo laboratorio artistico, delle tematiche simili. Quali saranno i passi successivi per The Lansbury, quando sarà possibile tornare a fare live? Suonare suonare suonare e poi, se capita, suonare. Ci piacerebbe far conoscere il progetto a più persone possibili, anche in vista della pubblicazione dell’ep che sarà anticipata dall’uscita di altri singoli a cui stiamo lavorando con lo studio Brutus Vox Music che ha già seguito registrazioni, mix e mastering di Alba. Abbiamo anche aperto un progetto con il laboratorio di stampa serigrafica Zanna Dura per realizzare una fanzine illustrata che contenga i testi dei pezzi e degli scritti di Luigi che portiamo in concerto in forma di reading. Crediamo fortemente nel messaggio dei contenuti che produciamo e ci piacerebbe che arrivassero il più lontano possibile. 47



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