AFRICA: LIMITI DELLA DECOLONIZZAZIONE E DELLA GLOBALIZZAZIONE IL CASO NIGERIA

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ALMA MATER STUDIORUM – UNIVERSITA’ DI BOLOGNA SCUOLA DI LINGUE E LETTERATURE, TRADUZIONE E INTERPRETAZIONE

Corso di studio in Lingue e Letterature straniere

AFRICA: I LIMITI DELLA DECOLONIZZAZIONE E DELLA GLOBALIZZAZIONE IL CASO NIGERIA

Prova finale in: Geografia politica ed economica

Relatore

Presentata da

Prof. Filippo Pistocchi

Filippo Fabbrizi

Correlatore Prof.ssa Elisa Magnani

II Sessione: Novembre 2014 Anno accademico: 2013/2014


Indice

INTRODUZIONE …......................................................................................p 3

CAPITOLO 1, L'Africa precoloniale, coloniale e la decolonizzazione ...p 9 1.1 Il periodo precoloniale ......................................................................p 9 1.2 La colonizzazione dell'Africa ..........................................................p 11 1.3 Il processo di decolonizzazione in Africa .….................... .............p 12 1.4 L'eredità coloniale nella creazione dello Stato in Africa ….........p 12

CAPITOLO 2, La decolonizzazione del continente africano .…..............p 17 2.1 Limiti e conseguenze della decolonizzazione ..............................p 17 2.2 Il clientelismo ....................................................................................p 18 2.3 Conflitti e Guerre ..............................................................................p 20 2.4 Il caso Uganda …...............................................................................p 23

CAPITOLO 3, L'eredità del colonialismo, nuovi e vecchi sistemi di sviluppo ..............................................................................................p 27 3.1 Economia e democrazia in Africa ...................................................p 27 3.2 Lo sviluppo della democrazia in Africa .........................................p 28 3.3 Le economie di sfruttamento ….......................................................p 30 3.4 Il XXI secolo: l'economia e la globalizzazione in Africa …...........p 33 3.5 Globalizzazione e sistema neocoloniale ….....................................p 35

CAPITOLO 4, Il caso Nigeria …...................................................................p 39

CONCLUSIONI ….........................................................................................p 45

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Introduzione

L'Africa è un continente estremamente eterogeneo, ricco di diversità culturali e politicoeconomiche. Pur essendo impossibile delineare una rappresentazione reale delle diversità del continente africano, in poche, righe è opportuno introdurre brevemente la realtà di questo continente. Gli atlanti tradizionali non rendono realmente la grandezza di questo continente: esso si estende per 30,2 milioni km quadrati, 24,3 milioni se si considera l'Africa subsahariana, ovvero 2,5 volte più grande dell'Europa. L'abbondanza di territorio e la contemporanea bassa popolazione per controllarlo ha svolto un ruolo cruciale sia nell'evoluzione delle realtà statuali in Africa sia per l'estrema eterogeneità e frammentazione in tante etnie e lingue diverse. Anche per queste ragioni, il continente presenta un panorama di evoluzione politica ed economica sostanzialmente differente rispetto al resto del pianeta e in particolare rispetto all'Europa. Queste differenze profondamente radicate nella realtà africana, hanno influenzato la nascita degli Stati, con conseguenze che come vedremo si ripercuoteranno nella loro vita e nei loro abitanti. Ad oggi, nel continente africano vivono circa di 1,1 miliardi di persone che parlano più di 2000 lingue diverse appartenenti ad un numero di etnie elevatissimo, divise in 54 Stati riconosciuti e 2 paesi de facto indipendenti ma non ancora formalmente riconosciuti – è il caso del Somaliland e della repubblica democratica araba del Sahrawi. L'etnia di per sé è un concetto vago, ma tuttavia proprio del continente africano. Per etnia si intende un raggruppamento umano che si identifica sulla base di caratteristiche geografiche, linguistiche e culturali. Questo concetto tuttavia potrebbe essere applicabile ad ogni gruppo umano di dimensione variabile. Stando alla definizione appena fornita, anche il popolo italiano potrebbe definirsi un'etnia, in quanto esso condivide una storia, una lingua e una cultura comune. Risulta così chiaro che il concetto di etnia, alla base della grande eterogeneità del continente africano e dei suoi paesi, dunque si sostituisce in quelle regioni in cui mancano identità nazionali.

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La grande segmentazione della popolazione in differenti etnie, come vedremo, ha collaborato significativamente alla mancata formazione di entità statali unite, causa dei grandi problemi che ad oggi affliggono l'Africa. Tuttavia, inquadrarevi problemi dell'Africa non è semplice. Infatti, mentre l'Africa è uno dei territori più ricchi di risorse, si crede che il sottosuolo africano detenga il 90% del cobalto mondiale, il 90% del platino, il 50% dell'oro, il 98% del cromo 1, il 64% del manganese e il 34% dell'uranio2; si stima che solo il Congo-Kinshasa detenga il 70% delle riserve globali di coltan e il 30% dei diamanti. Nonostante questa grande ricchezza del sottosuolo africano e del suolo, l'Africa rimane il continente più povero e sottosviluppato del pianeta. Ad esempio, dagli anni '80 ad oggi, complice anche l'inflazione che ha colpito pesantemente le economie africane, la forbice che separa il reddito medio europeo e quello africano, in termini reali d'acquisto, è aumentato di circa 7 volte. Povertà diffusa, malnutrizione, bassa educazione, crescita urbana fuori controllo, inadeguato accesso a strutture sanitarie e ad acqua pulita sono tutti problemi che colpiscono profondamente il continente. L'80.5% delle persone in Africa vivono sotto i 2,5$ al giorno 3. Carenze critiche si rilevano anche nel settore delle infrastrutture, creando grossi problemi di accessibilità al territorio e aumentando la distanza fra centro e periferia, fra città e campagna e in un certo senso fra occidentalizzazione e tradizione, situazione che crea forti marginalizzazioni. Critico è anche il settore privato. Gli Stati africani infatti si sono retti per lungo tempo sull'assistenzialismo dello Stato piuttosto che su una vera economia e inoltre, dove presenti, gli enti privati si concentrano spesso sullo sfruttamento delle risorse piuttosto che sulla manifattura o sull'industria oppure in attività di sussistenza, le quali non contribuiscono allo sviluppo economico. Le cause a cui comunemente si riconducono le condizioni del continente sono governi corrotti, autorità centrali deboli, bassa istruzione, non accesso a capitali d'investimento privati e conflitti tribali e militari frequenti. Lo Stato, dunque, è l'imputato principale; incapace di costruire e di governare i paesi sotto la loro giurisdizione. A tal merito, Carbone (2005) sostiene: “l'azione governativa degli Stati africani ha rilevato una mancanza di efficacia quasi sistematica. In molti di essi, intere regioni si sono trovate prive di collegamenti solidi e ben funzionanti con le autorità centrali, tanto in termini di infrastrutture come strade e altre vie di comunicazione, quanto in termini di istituzioni per la riscossione delle tasse o l'erogazione di servizi”. È infatti ampiamente 1Allafrica,

2008. Developed Countries' Leverage On the Continent, 7 February 2008. Online: http://allafrica.com/stories/200802070635.html. 2

Winter, J., 2006. DR Congo poll crucial for Africa, BBC News, 16 November 2006. Online: http://news.bbc.co.uk/2/hi/africa/5209428.stm. 3

World Bank Updates Poverty Estimates for the Developing World. Online: http://econ.worldbank.org/WBSITE/EXTERNAL/EXTDEC/EXTRESEARCH/0,,contentMDK:21882162~pagePK:64165401~ piPK:64165026~theSitePK:469382,00.html.

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riconosciuto che la debolezza delle entità statuali nate dalla decolonizzazione sia legata a doppio filo con gli attuali problemi africani. Ma cosa significa Stato debole? Uno Stato si può definire debole quando non riesce a garantire i diritti minimi ai propri cittadini, come l'istruzione, un sistema sanitario, la sicurezza e la sussistenza o che non riesce ad applicare le proprie leggi su tutto il territorio e a garantire la sicurezza ai suoi cittadini. Come si può notare, quanto riportato sono problemi tipici dell'Africa. Si può concludere dunque che il perdurante stato di debolezza delle entità statali è in buona misura la causa delle difficoltà che gli Stati africani continuano ad incontrare, il quale non riguarda soltanto lo sviluppo economico e infrastrutturale, ma ad esempio anche l'incapacità di far fronte ai processi della globalizzazione oppure la capacità di costruire strutture di amministrazione forti sul territorio, di dotarsi di istituzioni democratiche o contenere il dilagare di guerre civili. Tuttavia, l'Africa non è solo povertà e corruzione. Dalla fine degli anni novanta ad oggi, l'Africa è caratterizzata da una crescita rilevante della propria economia, una crescita che è profondamente legata sia alla stabilità che il continente sta lentamente raggiungendo che al conseguente aumento degli investimenti esteri. Pur con discostamenti fra paese e paese, con un tasso di crescita medio del 5% e un tasso di crescita previsto del 6% nel prossimo decennio, l'Africa balza in cima alle classifiche di crescita a livello mondiale. Ciononostante, è assolutamente necessario analizzare e capire quanto questo sviluppo favorisca realmente una crescita complessiva del continente, in altre parole, bisogna capire se tale progresso rimarrà appannaggio di pochi, come sta avvenendo in India 4 dove ristrettissime cerchie della popolazione – circa il 10% – hanno beneficiato del boom economico, oppure se essa coinvolge effettivamente anche le fasce della popolazione più basse, facendo uscire il continente dalle classiche immagini di povertà a cui siamo abituati ad associarlo.

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Per ulteriori informazione consultare Rondinone, E., 2008. India: una geografia politica. Roma, Carrocci.

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È opportuno fin da subito chiarire che con il termine Africa in questo testo si intende più specificatamente Africa sub-sahariana, in riferimento agli Stati africani a sud del deserto del Sahara che estendendosi dall'oceano Atlantico fino al Mar Rosso, divide e ha diviso i popoli e le culture che abitavano e abitano il continente, nonché l'evoluzione di queste due parti nel corso della storia. Inoltre, data l'evoluzione storica delle diverse macroregioni africane, in questa tesi si farà riferimento in particolare agli Stati dell'Africa occidentale ed equatoriale. Escluse alcune eccezioni, come le colonie portoghesi, che ottennero l'indipendenza successivamente e in modi diversi, i paesi africani occidentali ed equatoriali ottennero l'indipendenza principalmente nel 1960, anno in cui videro la luce ben 17 paesi di queste due regioni; tale anno è infatti chiamato l’“anno dell'Africa”. Mentre in queste regioni l'indipendenza giunse in modo concordato e negoziale con le potenze coloniali europee, il processo nell'Africa australe si scontrò con il regime dell'apartheid del Sud Africa che impiegò tutti i mezzi, compresa l'esportazione della guerra nei paesi vicini, per arginare il processo. L'indipendenza di questi paesi dovette giungere attraverso l'azione armata, come d'altronde avvenne per le colonie portoghesi. Lo scopo di questa tesi è di analizzare come la debolezza degli Stati abbia influenzato il divenire degli Stati africani, analizzandone le cause e gli effetti sul progresso e la storia di questi Stati dal momento dell'indipendenza fino ad oggi. In prima battuta sarà fornita un'introduzione sul contesto politico africano precoloniale e coloniale, per poi andare ad analizzare la formazione degli Stati nel periodo della decolonizzazione. Infine, cruciale per lo scopo di questa tesi è analizzare come il continente ha reagito con l'ingresso nell'era della globalizzazione, con quali modalità e rapporti di forza essa si è sviluppata e come essa potrà evolvere nella realtà africana. Inoltre, al fine di evitare che le spiegazioni teoriche rimangano astratte e prive di riferimenti concettuali, saranno forniti approfondimenti e analisi su specifiche dinamiche.

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Figura 1. Gruppi etnici dell'Africa

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CAPITOLO I

L'AFRICA PRECOLONIALE, COLONIALE E LA DECOLONIZZAZIONE

1.1 Il periodo precoloniale La storia negata del continente africano, rappresentata semplicisticamente come una regione priva di Stati e primitiva in contrapposizione col progredito occidente, provoca solo rallentamenti nel superamento dell'esperienza coloniale. Discutere degli assetti politici africani precoloniali è rilevante al fine di spogliare la realtà dagli stereotipi e credenze di stampo razzista. L'Africa, prima dell'avvento delle potenze coloniali, non era un insieme disorganizzato di tribù primitive, come lo è nelle vecchie concezione colonialistiche, ma era un continente in piena evoluzione, il quale aveva già assistito e stava assistendo allo sviluppo di unità politiche caratterizzate da gradi diversi di centralizzazione del potere e di articolazione dell'amministrazione, nonché di durata temporale molto variabile. Carbone (2005) nel suo libro, sintetizza l'enorme complessità ed eterogeneità sociopolitica africana precoloniale in due tipologie: “Stati premoderni” e “società senza Stato” o “acefale”, ovvero senza un reale centro e senza un reale governo, dove lo svolgimento politico si esauriva nel rapporto interpersonale fra i membri di uno stesso clan. Per ciò che concerne, invece, il primo insieme invece queste società possedevano un'autorità centrale e una struttura amministrativa, nonché giudiziaria. Ogni regno era caratterizzato dalle sue peculiarità di strutturazione del potere e di una durata temporale e territoriale molto variabile. Nel solo XIX secolo si possono citare i regni dell'Asante, del Benin, il regno yoruba dell'Oyo, il califfato di Sokoto, l'impero etiope e del Congo; oppure anche regni storicamente rilevanti, come l'impero del Mali e Songhai. Nonostante ciò, il continente africano non subì una divisione in Stati o regni contigui l'uno con l'altro come in Europa, piuttosto essi i distribuivano a macchia di leopardo con confini indefiniti e zone intermedie abitate da popolazioni sprovviste di organizzazioni politiche. Infatti, la bassa densità di popolazione e la conseguente abbondanza di terre comportò che le istituzioni di potere più sviluppate difficilmente

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potevano esercitare un reale controllo sul territorio. Si preferiva dunque spostare il controllo sulle popolazioni che la abitavano, anche se gli ampi spazi e le grandi distanze consentivano alle piccole entità di poter facilmente rifiutare di sottomettersi. La scarsità di competizione sul territorio, dove l'unico limite era la quantità di manodopera per lavorarlo, ha dunque impedito l'evolversi di più complesse entità statuali. L'abbondanza di territorio in Africa si contrapponeva ad esempio alla sua scarsità in Europa, dove essa ha portato a guerre e violenze che formarono e saldarono gli Stati europei moderni. Figura 2. Stati e Regni dell'Africa precoloniale (1750-1775).

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1.2 La colonizzazione dell'Africa Gli effetti dell'arrivo degli europei per l'Africa sono stati significativi, non solo dal punto di vista del sovvertimento della cartina geopolitica africana, ma anche nel nuovo modello politico, economico e sociale che il sistema coloniale affermò; esso si presentò come un'entità sostanzialmente nuova profondamente diversa dal sistema tradizionale, sia come sua definizione sul territorio sia nella sua struttura amministrativa. La regione venne suddivisa in comune accordo fra le potenze senza conoscere la realtà sul territorio. Infatti, al fine di evitare lo scontro e minimizzare le spese, fu sufficiente negoziare in Europa il riconoscimento del dominio sul territorio africano che poteva essere reale nella pratica. Esemplificativo è il modo in cui la frontiera fra il Kenya britannico e il Tanganika tedesco fu decisa; essa infatti fu ideata in modo che entrambe le potenze potessero possedere una parte del Kilimangiaro, il monte più alto del continente. Di conseguenza, pare ovvio che i confini delle colonie non rispecchiarono i contorni delle compagini politiche preesistenti; essi spesso tagliavano e separavano territori e popolazione che facevano parte della stessa realtà sociopolitica oppure univano realtà distanti e diverse. Il motivo per cui questo processo viene chiamato scramble non è casuale, gli esempi sono numerosi: si possono citare a titolo esemplificativo il califfato di Sokoto – una formazione statale vasta e articolata – che venne diviso fra Gran Bretagna e Francia; l'impero Asante, i cui domini, che si estendevano dal Ghana fino al Togo e alla Costa d'Avorio, vennero divisi fra Regno Unito, Francia e Germania; oppure anche lo Stato islamico mahdista che venne distrutto dalle truppe britanniche e inserito nel dominio angloegiziano del Sudan, ma gli esempi che possono essere fatti sono numerosissimi, praticamente ovunque in Africa sono state fatte opere di sovvertimento del territorio e dei popolo che lo abitavano. Le colonie africane, a differenza delle colonie del Nord America, non erano colonie di popolamento, ma di sfruttamento e dunque furono improntate su principi di autosufficienza onde evitare di gravare sulle casse della madrepatria. Prima della seconda guerra mondiale, gli Stati coloniali risultavano dunque molto limitati con apparati burocratici il più delle volte insufficienti. Quando nel secondo dopoguerra si incominciò a reclamare principi di sviluppo anche su queste regioni, presto per l'amministrazione centrale diventarono un peso. Analizzando la velocità e il consenso delle potenze europee sul processo di decolonizzazione e su di come essa si è sviluppata, si può infatti dedurre che i vantaggi di detenere un reale controllo sulle colonie era meno vantaggioso del semplice mantenimento di rapporti economici e politici di favore sui nuovi Stati.

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1.3 Il processo di decolonizzazione in Africa Come già introdotto, le potenze coloniali dopo la seconda guerra mondiale accelerarono sul disimpegno delle proprie colonie africane. Infatti, l'equilibrio mondiale si sovvertì, grazie anche agli ideali di libertà che l'ascesa delle due superpotenze, USA e URSS, propugnavano. Presto l'imperialismo non divenne più sostenibile nella sua concezione tradizionale. In un certo numero di colonie si era avuta una graduale introduzione di forme di partecipazione politica africani all'interno del sistema di governo coloniale, specialmente nelle colonie inglesi gestite con il cosiddetto indirect rule. Ciononostante, il processo di decolonizzazione fu veloce; esso prese forma prima che la popolazione africana avesse potuto realmente portare a termine un processo di emancipazione politica ed economica. La decolonizzazione, inoltre, agì all'interno degli spazi culturali e politici lasciati dal colonialismo e, come conseguenza, i neostati postcoloniali non solo sono nati nei confini ereditati dal colonialismo, ma anche all'interno del concetto d'origine europea di Stato moderno, concetto mai posseduto dalla cultura africana. Nonostante l'effettivo ruolo di state-buliding avuto dal colonialismo, analizzando il percorso di nascita di questi Stati, emerge chiaramente che molte delle loro difficoltà attuali sono problemi che si protraggono fin dal momento della loro indipendenza. Infatti, questo processo è da considerarsi totalmente estraneo con la medesima esperienza europea di creazione dello Stato ed è per questo che si può desumere che la debolezza dell'autorità dello Stato in Africa ha alle radici la sua origine.

1.4 L'eredità coloniale nella creazione dello Stato in Africa Lo Stato africano erede del colonialismo è uno Stato debole il quale rispecchia una leadership debole, sia in termini numerici che in termini di reale capacità di creare e amministrare le strutture dello Stato. È infatti per questi motivi che agli Stati africani si accosta spesso il termine di shadow states, weak states o addirittura failing states. Gli Stati-nazione moderni del vecchio continente nacquero da lunghi processi graduali di concentrazione di potere, di lotta e di mediazione per il possesso del territorio. Parallelo a queste esperienze è lo sviluppo di apparati burocratici e di potere in grado di amministrare territori sempre più vasti e popolosi, con popolazioni che via via andavano a costruire una propria identità. Mentre questo processo di creazione dello Stato-nazione ha richiesto in Europa l'intero arco della storia moderna e numerosissime guerre, in Africa esso fu repentino e ben diverso dall'esperienza europea. Lo Stato sociale, ovvero uno Stato al servizio dei suoi cittadini il quale li tutela e garantisce dei diritti minimi - che possiamo tradurre in welfare state - è stato il frutto di un travagliato cammino di lotte popolari e interstatali, le quali hanno impiegato 12


secoli per legittimare i diritti sociali che venivano rivendicati, nonché per definire i confini degli Stati odierni e l'identità di chi lo abitava. Questi processi in Europa si sono spinti fino al XX secolo, dove dispute territoriali e di ridefinizione dei confini sono stati la causa delle due guerre mondiali e il principale dibattito al termine di esse – esemplificativo è il principio di nazionalità portato avanti fermamente da Woodrow Wilson al termine della prima guerra mondiale. È dunque difficile pensare che i paesi africani avessero potuto costruire uno Stato sociale, percorrendo in pochi anni l'esperienza che i popoli europei hanno percorso in più di cinque secoli. I movimenti di autodeterminazione africani culturali come la negritude o nazionalistici come il panafricanismo, annullavano in un certo senso i confini territoriali rivolgendosi a tutti gli africani, facendo leva su un sentimento di rivalsa dopo secoli di sfruttamento e schiavitù. Sebbene essi si battevano da tempo per raggiungere l'indipendenza, non riuscirono a creare spiriti identitari nazionali né tanto meno avanzarono una contro-acculturazione tale da vincere l'eredità del complesso coloniale. Piuttosto questi movimenti includevano tutti gli africani in quanto condivisori delle stesse esperienze di sottomissione agli stranieri. Se è il nazionalismo che dovrebbe generare le nazioni, in Africa questo non è avvenuto ed è per questo motivo che in questa tesi si è parlato finora di Stati africani e non Nazioni. Infatti, il concetto di nazione può essere accostato con gli Stati europei ma non può essere fatto con quelli africani5. Come già sottolineato, l'indipendenza degli Stati africani giunse in tempi troppo brevi, senza che il popolo africano potesse realmente autodeterminarsi, ovvero identificarsi con quello che stava per essere costruito. A sua volta, la comunità internazionale accelerò il processo, impaziente di liberarsi di un'eredità che stava diventando sotto diversi aspetti sempre più pesante, agì senza verificare che i nuovi governi avessero realmente le strutture per controllare il territorio. Piuttosto, si operò alla creazione di Stati direttamente eredi delle vecchie divisioni coloniali, dai confini totalmente arbitrari e sovraimposti, senza che essi rispecchiassero veramente la divisione etnica e culturale del popolo africano. La volontà delle potenze europee di non rinunciare alla propria influenza sui loro vecchi domini portò alla creazione di territori a dir poco stravaganti. È il caso del Gambia, un micro-stato di possedimento britannico che ad oggi è totalmente circondato dal Senegal, ex colonia francese. Frontiere che attribuivano una tale scarsa rilevanza a popoli e alle realtà culturali locali non potevano fare altro che accentuare le differenze etniche all'interno dei nuovi Stati. Così, mentre 5

Per quanto riguarda la definizione del concetto di Stato si riporta la definizione dell’enciclopedia Treccani online ovvero per Stato “si intende una forma di organizzazione politica, caratterizzata dall’esistenza di un ente sovrano (Stato), dotato di personalità giuridica, che esercita su un dato territorio un potere eminente (sovranità), disponendo del monopolio dell’uso legittimo della forza”. Invece, il concetto di nazione è ben diverso: nazione “è il complesso delle persone che hanno comunanza di origine, di lingua, di storia e che di tale unità hanno coscienza, anche indipendentemente dalla sua realizzazione in unità politica”.

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alcuni popoli vennero divisi - come i tuareg, l'area mande nell'Africa Occidentale francese o gli ewe nel Togo francese - alla formazione delle nuove nazioni vennero chiamati gruppi di popolazione di lingua, cultura e religione diversa, le quali diversità, in mancanza di un senso di appartenenza nazionale, andavano marcandosi progressivamente. Ciò che manca nella gran parte dei neostati africani è dunque una propria identità. Identità che invece venne trovata nell'etnia, la quale include fra i membri una stessa lingua, cultura e storia. L'etnia si scontra così con l'identificazione nello Stato, dove la prima ha più influenza della seconda. In altri termini, gli Stati postcoloniali non sono stati costruiti unendo un popolo ma unificando tanti piccoli gruppi, diversi fra loro. Di conseguenza, il senso di appartenenza allo Stato venne sostituito a quello di appartenenza alla propria etnia, il quale esercitò il ruolo lasciato vuoto dalla politica, delineando così partiti etnici i quali si alternavano al potere garantendo benefici ai propri membri e sottomettendo gli altri, provocando lotte intestine per l'acquisizione del potere e, dunque, frammentando i paesi. Nonostante l'estrema eterogeneità fosse molto chiara a molti, al momento dell'indipendenza i confini scelti vennero sì criticati dalla neo-leadership africana, ma, allo stesso tempo, largamente accettati. Infatti, un singolo processo di ridefinizione dei confini avrebbe potuto scatenare l'emersione di una miriade di richieste di aggiustamenti di confine o secessione, se non perfino guerre fra Stati. A tal fine, la leadership africana insieme alla comunità internazionale si impegnarono profusamente nel difendere lo status quo. Nel 1963, ad Addis Abeba, nasce l'Organizzazione dell'Unità Africana (OUA), dove ogni firmatario – tutti i paesi dell'Africa eccetto Marocco e Somalia – si impegnarono tra le varie cose a rispettare l'integrità degli Stati africani e il suoi confini6. In altre parole, essi andavano a confermare i confini ereditati dall'imperialismo. Ad ulteriore conferma di ciò è la crisi del Katanga del 1960. Il Katanga dichiarò la propria indipendenza quando il Congo Belga ottenne la propria. La reazione della comunità internazionale e dei neo-paesi africani contro l'autoproclamazione di indipendenza del Katanga ha messo in luce il comune interesse di lasciare immutati gli “odiati” confini statali. Tuttavia, il Katanga non è un esempio isolato, si possono citare anche il Biafra in Nigeria nel 1967-1970 e l'Eritrea che combattè contro l'Etiopia per più di 30 anni. La guerra civile in Etiopia che ha portato all'indipendenza dell'Eritrea, è rappresentativo di come nessun gruppo secessionista avrebbe potuto ottenere facilmente l'indipendenza, nemmeno nel caso di un pieno successo militare. Anzi, la legittimazione internazionale ha fornito una garanzia all'esistenza di questi Stati, limitando il loro bisogno di affermarsi come vere entità statuali. Grazie a queste garanzie esterne, gli Stati africani poterono sopravvivere come entità formali, dove esistevano sulla carta ma non influivano realmente sulla vita 6

OUA Charter, terzo punto dell'articolo III. Online: http://www.au.int/en/sites/default/files/OAU_Charter_1963_0.pdf.

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dei propri cittadini. Come afferma Carbone (2005), questo supporto imprescindibile internazionale sull'integrità territoriale ha impedito il naturale processo di state-building, mantenendo in vita entità statuale senza vere radici storiche e istituzioni deboli. L'indipendenza dunque non fu qualcosa che venne raggiunta grazie a un movimento forte dal basso di autodeterminazione, fu piuttosto qualcosa che venne portato avanti dalla nuova leadership africana e ottenuta con il favore dei vecchi dominatori. Sebbene il movimento anticoloniale, che si affermò quando il colonialismo imboccò la sua parabola discendente, richiamò le lotte degli antichi combattenti che si opposero al colonialismo; i suoi protagonisti facevano parte di una élites che collaborò con il colonialismo e che non conosceva altre forme di Stato che quello da cui si stavano accingendo a distaccarsi. Come affermò A. Adu Boahen, storico e politico ghanese, il nazionalismo africano fu uno dei sottoprodotti accidentali del colonialismo e questo era proprio il suo limite. La leadership, impreparata per la creazione di apparati statuali moderni, non seppe abbattere il modello del colonialismo, essa era la rappresentazione dei valori dello Stato coloniale. Questa formazione ha dunque privato il nuovo Stato dell'essenza storica e ideologica che deve precedere la nascita politica della nazione.

Figura 3. La suddivisione dell'Africa da parte delle potenze europee(1915).

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Figura 4. La decolonizzazione.

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CAPITOLO II

LA DECOLONIZZAZIONE DEL CONTINENTE AFRICANO

2.1 Limiti e conseguenze della decolonizzazione Per molti, in Africa, lo Stato ereditato dall'esperienza coloniale è rimasto una presenza estranea, distante e soprattutto sfruttatrice. L'estrema diffusione della corruzione e del clientelismo, nonché il frequente saccheggio delle proprietà private ad opera del settore pubblico, non ha fatto altro accentuare queste sensazioni, mentre le autorità tradizionali acquisivano sempre più influenza. Un'istituzione debole è incapace di mantenere un ordine politico e civile, che, come una spirale verso il basso, genera altra povertà e debolezza, creando un territorio fertile per scontri, divisioni e conflitti. Gli effetti sono chiari e delineabili con tutti i problemi che l'Africa ancora oggi paga. In Africa non si è mai potuto costruire uno Stato forte, complici anche fattori come la povertà, l'impreparazione del nuovo apparato dirigente e l'estrema eterogeneità che hanno segmentato la popolazione piuttosto che unirla, portando alla nascita di rapporti clientelistici in modo quasi sistematico. L'ostinazione nel dover mantenere lo Stato così come era stato creato, coi confini assegnati al momento dell'indipendenza, è stato il principale fattore di sgretolamento del potere governativo, ovvero sulla capacità dei governanti di un reale controllo del suo territorio. Lo Stato africano divenne dunque un guscio vuoto, con confini e potere teorico sul territorio garantiti dalla comunità internazionale, ma privi di una reale autorità sulla popolazione. La debolezza delle istituzioni ha spinto molti a mettere in discussione la necessità di sostenere, ad ogni costo, la salvaguardia dell'unità territoriale di alcuni Stati subsahariani. Situazione come quella del Somaliland – entità dichiaratasi indipendente dalla Somalia, paese che si è dimostrato di poter garantire stabilità nel proprio territorio, nonostante la forte instabilità dei suoi confinanti - non è da considerare una mina nel mantenimento dello status quo africano, ma come un naturale processo di assestamento, dove gli Stati deboli lasciano il passo agli Stati che dimostrano di saper garantire la sicurezza ai propri cittadini. Queste soluzioni sono strategie più innovative che possono essere chiamate per risolvere problemi che si trascinano da tempo all'interno dei vari Stati africani, come il Chad, l'Uganda, il Congo-Kinshasa e anche come la Nigeria dove la radicalizzazione delle divergenze fra il sud cristiano e il nord mussulmano hanno sollevato dubbi sulla futura stabilità di un paese di oltre 120 17


milioni di abitanti, cuore pulsante dell'Africa occidentale. Alla luce di tutto questo, è dunque chiaro che il punto di crisi per lo Stato in Africa è la sua stessa composizione territoriale. Questa composizione fu osteggiata dalle forze internazionali al fine di mantenere la stabilità nel continente, anche se, alla luce dei fatti, è forse stata più utile a mantenere i rapporti di forza delle vecchie potenze coloniali sui loro vecchi possedimenti. Lo stato perpetuo di estrema instabilità del continente, nonostante il miglioramento dell'ultimo decennio, si è comunque dimostrato patologico e non solamente temporaneo. Si è assistito più volte nella breve storia dell'Africa post-coloniale al crollo dell'autorità statale 7. Per molti infatti le nuove entità statali ereditate dell'epoca coloniale non erano altro che una presenza estranea e sfruttatrice. La grande eterogeneità etnica, religiosa e linguistica con cui vennero creati gli Stati africani e i costanti saccheggi del territorio e delle risorse private da parte dell'ente pubblico non fecero che estremizzare questa estraneità del cittadino col proprio Stato, mentre rinsaldava l'autorità di entità non statuali come i capi tradizionali e di movimenti indipendentisti e secessionisti locali.

2.2 Il clientelismo L'eterogeneità delle società africane ha quindi offerto un sistema facile e immediato per delimitare le linee dell'inclusione o dell'esclusione nella vita statale. Queste linee erano per l'appunto quella dell'identità etnica e religiosa ed infatti la direzione dello Stato, per i politici africani, emerse non tanto come la gestione formale e impersonale attraverso la definizione di istituzioni, regole e procedure, ma piuttosto l'apparato pubblico venne utilizzato per acquisire sistematicamente il controllo dei settori economici, utilizzando rapporti informali, personali e particolaristici. L'attività economica sfumò nell'attività politica, dove per svolgere quest'ultima bisognava interpellarsi alla prima, dando dunque piena affermazione delle élites politiche e burocratiche che utilizzavano questi sistemi neo-patrimoniali. Questo sistema neo-patrimoniale o clientelistico divenne l'elemento cardine dell'esercizio di potere, portando alla diffusione della figura della personal rule del capo dello Stato che spesso utilizzava il suo immenso potere per predare le popolazioni e le economie dei territori sottoposti alle loro autorità. Infatti, chi controllava lo Stato poteva dirigere a piacimento le risorse di quest'ultimo. Questi saccheggi prendono la forma di sottrazione dei beni pubblici, l'assegnazione di posti di lavoro o appalti in base ai favoritismi partitici ed etnici o perfino lo scambio di denaro in cambio di servizi. Esemplificativo è il caso del Congo-Kinshasa (ovvero la Repubblica Democratica del Congo, RDC o ex-Zaire) di Mobutu, il 7

Per “crollo” dello Stato si vuole intendere quando le funzioni del potere centrali non sono più esercitate nel suo territorio e quando esso non riceve più sostegno e legittimazione dalla sua popolazione.

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quale diresse gradualmente le finanze del paese nel suo portafoglio personale, risorse che venivano dirottate per mantenere il rapporto clientelistico con altre fazioni che gli consentivano il controllo delle zone di interesse strategiche, come le miniere; rapporti che fondavano il suo dominio. Ma questo non è solo il caso della RDC: la creazione di rapporti parastatali, che di fatto spesso sostituiscono quelli statali e ufficiali, sono stati adottati principalmente da coloro che sono nella posizione di controllare le risorse statali, costruendo network di rapporti patronali sempre più grandi al fine di poter essere al comando dei vari settori dell'“economia nazionale”. I così detti big men dunque occupano gli anelli di comando di queste piramidi clientelari, dove il cliente al fine di accedere a risorse, altrimenti fuori portata, si rivolge al patrono e gli assicura il sostegno. Il cosiddetto big men al fine di garantirsi l'appoggio e la sua sicurezza personale deve dimostrare di essere in grado di controllare le risorse di cui dispone. Dunque, la legittimità della leadership africana passa spesso attraverso la capacità di saper costruire e mantenere questi network. Lo Stato africano, per come è sorto dal processo di decolonizzazione, privo di identità nazionale, è la principale causa che spinge i politici o i comandanti militari a creare questi rapporti clientelari. Essi, infatti, non servono lo Stato, ma bensì rivolgono i loro obblighi politici verso parenti, amici, clienti e anche verso membri della loro etnia, della loro comunità o della loro religione. Ed è proprio questa scelta selettiva che permette di premiare o penalizzare gli individui o gruppo diversi. In tal senso, questo non fa altro che promuovere una politica fra fazioni, che disgrega lo stato. Anche se possiamo definire la lotta fra fazioni trasversale, rispetto a quella fra gruppi etnici o fra gruppi politici, nel clientelismo si instaurano rapporti verticali che prescindono dal concetto di etnia, religione o pensiero politico. Per la natura personale e informale dei rapporti che si stabiliscono, i legami etnici, ad esempio, posso rafforzare i network clientelari delimitando le linee fra inclusione ed esclusione, aggravando le divisioni. Secondo Collier (2001), è infatti la presenza di diseguaglianze socioeconomiche, dove alcuni gruppi rimangono discriminati e isolati mentre altri favoriti, situazione tipica del clientelismo, a favorire i conflitti e le ribellioni. In tal senso, le cosiddette nazionalizzazioni delle società minerarie che contraddistinsero gli anni settanta e ottanta adottate da alcuni paesi come il Congo-Kishasa, lo Zambia, il Togo, l'Uganda o la Mauritania, piuttosto che essere lette come manovre di ispirazione politica, possono essere interpretate come la necessità del potere centrale di accaparrarsi ulteriori fette da poter distribuire alla rete al fine di potenziare il proprio network e rinsaldare la posizione. Questo sistema di clientelismo e corruzione, tuttavia, non va interpretato come un residuo del passato, ma, invece, va riconosciuto nella sua centralità nello svolgimento dei rapporti economici e 19


politici in Africa. A pagarne le conseguenze sono tutti gli Stati africani in quanto tutti nati sotto le stesse condizioni. Per esempio, la Costa d’Avorio è entrata in crisi nel 1999 in seguito al colpo di stato del generale Guéï, portando ad un periodo di forte instabilità, provocando due guerre civili e diversi altri attacchi al potere. Infatti, la progressiva diminuzione del prezzo delle materie prime e l’aumento parallelo del costo del petrolio ha portato il paese in una crisi di bilancio tale che molte fazioni nel corso degli anni sono state escluse dalla redistribuzione di risorse che negli anni precedenti era riuscita a mantenere la stabilità fra nord musulmano e sud cristiano. Sebbene, ad oggi, dopo la destituzione di Gbagbo nel 2011, grazie anche all’intervento della Francia, si sta assistendo a un lento ritorno alla calma, questo caso è la dimostrazione che le forti differenze etnoreligiose possono sempre essere la causa di conflitti e disordini anche in Stati storicamente ritenuti stabili dove manca comunque un'unità nazionale.

2.3 Guerre e conflitti Una seconda modalità in cui la debolezza politica si manifesta in Africa è infatti il continuo stato di conflitto. Guerre interne, colpi di stato, movimenti secessionisti, ribellioni e scontri fra warlords, hanno caratterizzato l'Africa in modo ben maggiore rispetto alle guerre fra Stati. Questa costante emersione di conflitti interni fin dall'epoca dell'indipendenza, sono legati a doppio filo all'irrisolta debolezza delle entità statuali emerse dall'esperienza coloniale, chiaro segnale della perdita di controllo sulla violenza da parte dell'autorità centrale. Dunque, il discorso sulle guerre in Africa implica un'analisi del ruolo dello Stato, della sua formazione, della sua politica e dei suoi attori8. Se le guerre fra Stati in Africa sono state solo 5 - Etiopia-Somalia, Tanzania-Uganda, Libia-Ciad e le due guerre del Congo - le loro cause sono state spesso interne. I conflitti interni sono stati invece molto più abbondanti, basti pensare che basandoci sui dati forniti da Goldsmith - poi aggiornati dall'Economist – i quali riportano che fra il 1960 e il 2003 nelle 180 transizioni totali di potere, in Africa solamente 19 sono avvenute per sconfitta elettorale, mentre ben 112 sono avvenute in modo violento9. Ovviamente in questi numeri non vengono conteggiate le ancor più numerose insurrezioni e lotte armate che non sono riuscite a rovesciare il governo centrale. La nascita di organizzazione di ribelli, gli scontri fra etnie e signori della guerra sono conflitti frutto di una competizione di risorse sempre più scarse. In uno studio esteso a tutte le regioni del 8

Sciortino, A., 2008. L'Africa in guerra: i conflitti africani e la globalizzazione, Milano, Baldini Castoldi Dalai, p313.

9Goldsmith

A., 2004. Survey of sub-Saharan Africa, p. 5, in Carbone, G., 2005. L'Africa: gli Stati, la politica, i conflitti, Bologna, il Mulino.

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pianeta è stato mostrato come la comparsa di movimenti di insurrezione risulta molto più probabile all'aumentare della povertà del paese10. Istituzioni deboli risultano spesso incapaci a mantenere un ordine interno, indifferentemente dal livello di democratizzazione e libertà garantita da essa. Spesso questa lotta per il controllo politico delle risorse è stato motivo di disgregazione sociale, portando i vari paesi in un vortice di povertà, frammentazione e guerre. Le conseguenze delle guerre sono disastrose: guerra significa rallentamento o distruzione degli sforzi di sviluppo economico e politico, essa non crea altro che ulteriore debolezza e povertà che a sua volta causa altre guerre11. Tuttavia, se è vero che le guerre hanno enormi costi umani, sociali ed economici, è anche vero che hanno i loro beneficiari. Infatti, è vero che in un conflitto tutti i partecipanti hanno da perdere, ma è anche vero che non tutti hanno da guadagnare ad un ritorno alla pace. Un conflitto rappresenta l'opportunità di imporsi di un sistema alternativo di relazioni di potere e conflitto oppure la copertura che permette il saccheggio delle risorse naturali del paese e per ottenere il controllo su traffici illegali di persone e di beni, i cosiddetti conflict goods. Essi non sono altro che risorse di difficile tracciabilità e facile commercializzazione, come nel caso di gemme, minerali o legno pregiato, per il quale sfruttamento non è necessario avere il controllo degli apparati statali, come lo è per il petrolio, ma è sufficiente il semplice controllo di zone limitate. A tal proposito, Sciortino (2008) riporta come le dinamiche mondiali della compravendita dei beni prodotti di questo sistema economico e i comportamenti dei soggetti coinvolti a livello internazionale entrano a pieno titolo nella determinazione dei conflitti africani. Infatti, le guerre che danno vita all’economia del saccheggio sono spesso nati dal contrasto del controllo delle risorse, contrasti che evidentemente sono preesistenti alla guerra stessa, e che precedentemente erano gestiti dalle dialettiche di relazioni delle élites al potere, finché questo avvenimento non ha rimesso in discussione gli equilibri e dato le parole alle armi. L’alta richiesta mondiale di certe risorse, di cui l’Africa abbonda - come diamanti, coltan e altre terre rare, oro e legnami preziosi - correlata ad una debolezza dell’autorità statale, comporta l’insorgere di numerosi gruppi o fazioni che sfruttano queste risorse per finanziarsi e arricchirsi. Un caso esemplificativo sono i conflitti in Sierra Leone e in Liberia in cui si fronteggiavano diversi warlords al fine di ottenere l’accesso alle ricchezze derivanti dalla commercializzazione dei diamanti, i cosiddetti blood diamonds. Nel caso della Sierra leone, in un paese povero di infrastrutture di trasporto, l’esistenza di un volo diretto FreetownAmsterdam può essere letta come un collegamento diretto tra fornitore e cliente della filiera del diamante. 10Faeron,

J., D., Laitin, D., 2003. Ethnicity, insurgency and civil war, in American Politic Science Review, 97 (1), p. 75-80.

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Ne è un chiaro esempio la Somalia, in cui il perdurare dei conflitti la ha fatta uscire dalle classifiche mondiali dello sviluppo umano.

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Nel contesto africano dunque risulta importante fare distinzione fra conflitti politici o etnoreligiosi. Tuttavia, pare che quali siano i motivi dell'origine delle dispute, in Africa, essi tendono ad assumere presto o tardi i caratteri di un conflitto etnoreligioso 12. In molti conflitti civili africani raramente la diversità etnica è motivo di scontro in sé, piuttosto, per tale causa, decisiva è la presenza di gruppi o comunità escluse economicamente e politicamente. Come già analizzato, questo fenomeno è particolarmente frequente a causa della presenza di forti apparati clientelari, che sostituendosi ai normali rapporti pubblici, assumono spesso le forme di “clientelismo etnico”, in quanto l'etnia e anche la religione sono le prime e più facili barriere che delimitano i confini fra inclusione ed esclusione. Figura 5. Numeri di guerre in Africa per anno.b

Fonte: Uppsala conflict data program e Peace research istitute Oslo (Ucdp/Prio).

Figura 6. Intensità dei conflitti in Africa per anno

Fonte: ACPP, Conflict trends in Africa: a macro-comparative perspective. Report prepared for the Africa Conflict Prevention Pool (ACPP). 12

Esty, D., Goldstone, J., State Failure Task Force Report, in Carbone, G., 2005. L'Africa: gli Stati, la politica, i conflitti, Bologna, il Mulino, p. 125. b Comparando le figure 6 e 7 si può notare una discrepanza fra i valori riportati dalla prima e quelli della seconda. Infatti, non solo è difficile definire con chiarezza quando certe serie di violenze possono essere realmente definite conflitti interni o no, inoltre mentre la figura 6 riporta il numero di guerre e conflitti, la figura 7 ne misura l'entità. Infine, è da sottolineare che i dati della figura 7 termino nel 2005 e, come possiamo notare dalla figura 6, negli anni successivi a quest'ultimo è stato registrato un sostanziale aumento del numero dei conflitti. Proprio per rimarcare questo fatto, è stato deciso di rappresentare la figura 6 fino all'anno 2013.

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2.4 Il caso Uganda La storia contemporanea dell’Uganda è un chiaro esempio di come il processo di decolonizzazione abbia influenzato la vita degli stati neocoloniali, di come abbia rinforzato le divisioni etniche e di come sia compartecipe dei problemi e dei processi descritti nei paragrafi precedenti. L’area in cui sorge oggi l’Uganda comprende una cinquantina di gruppi etnici appartenenti a diverse famiglie linguistiche. Prima dell’arrivo degli europei, questi gruppi costituivano comunità sociopolitiche a sé stanti. Le regioni meridionali erano dominate da quattro regni: quello del Bunyoro, dell’Ankole, del Toro e del Buganda. Quest’ultimo regno era il più sviluppato politicamente e il più popoloso. I colonizzatori britannici, una volta piegata la resistenza dei nativi, riconobbero il regno del Buganda e il suo sovrano, il kabaka, come alleato privilegiato. Lo stesso nome Uganda deriva dal nome del Buganda in lingua swahili. Al momento della creazione dell’Uganda, il neostato adottò una politica di governo indiretto dividendo il territorio in distretti che corrispondevano all’incirca ai raggruppamenti etnolinguistici del paese. Ma questo non servì, infatti la capitale era una, Kamapala, mentre invece la divisione distrettuale ha impedito la formazione di un’identità “ugandese”. Infatti, la forza e il privilegio dei baganda spinse gli altri gruppi etnici a sviluppare risentimento nei confronti del regno centrale. Già nel periodo precedente al ritiro dei britannici, l’amministrazione del paese veniva gradualmente aperta alla partecipazione dei nativi, specialmente ai baganda. Le divergenze fra i vari gruppi ugandesi si aggravarono in quanto lo scontro per il controllo si intrecciò alla contrapposizione tra i due maggiori gruppi religiosi del paese, cattolici e protestanti. Verso la fine degli anni ’50, in vista dell’indipendenza, nacquero diversi partiti politici che esprimevano queste divisioni interne del paese. Da un lato, l’Uganda people’s congress (Upc) riuniva i protestanti di tutte le aree periferiche escluse dal potere del regno del Buganda, dall’altro il Democratic Party (Dp) formato da cattolici di ogni ceppo etnico e infine il Kabaka yekka (Ky), partito con cui l’establishment bugandese tentò di dar continuità al proprio potere. Nel 1962, con l’ottenimento dell’indipendenza, l’Upc e il Ky si accordarono pur di escludere i cattolici dal potere e portarono al potere Milton Obote. Tuttavia Obote, come accadde spesso nel continente africano, assunse rapidamente uno stile di governo autoritario. Nel 1966, disordini etnici interni portarono alla fine dell’alleanza e Obote, un membro dell’etnia lango del nord, prese d’assalto il palazzo presidenziale, esiliò il kabaka e pose fine ai quattro regni tradizionali, suddividendo il Buganda in più distretti. Inoltre, Obote con una nuova costituzione mise al bando i partiti di opposizione, diede

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maggiori poteri al presidente e concentrò il potere nelle mani della comunità del nord. Ancora una volta, le differenze etniche all’interno del paese portarono a nuove fasi di instabilità. L’influente capo di Stato di Obote, Idi Amin Dada, reagì con un colpo di stato al continuo tentativo di aumentare la presenza di langi e alcholi nei ranghi militari. Una volta che Idi Amin salì al potere fece appello all’identità dei nubiani, gruppo a cui apparteneva il suo gruppo etnico, i kakwa, cercando di creare un cordone di persone fedeli nei punti strategici dell’amministrazione politica e militare del paese. Chiunque era libero di diventare un membro nubiano, adottandone la sua lingua e abbracciando l’islam. Effettivamente, in molti passarono dalla parte di chi governava il paese, riuscendo dunque ad ingrossare significatamene le fila di questo gruppo etnico. Ciononostante, in più di 20000 persone seguirono Obote in esilio in Tanzania e diedero vita ad un movimento di resistenza contro la dittatura di Idi Amin. In seguito ad un attentato subito, Idi Amin reagì attaccando i ribelli ugandesi in Tanzania. Queste causò la guerra ugandese-tanzaniana (1978-1979) che culminò con la destituzione di Idi Amin in favore di una coalizione di fedelissimi di Obote. Dopo la sconfitta di Idi Amin, si aprì per l'Uganda una lunga fase di conflitti che vide l'insorgere di diversi gruppi di combattenti, tra i quali il National resistence movement (Nrm) di Yoweri Museveni che insorse nell'area della cittadina di Luweero e gli acholi che destituirono Obote nel 1985. Fra questi ultimi due gruppi si tentò il dialogo ma l'anno successivo le forze dell'Nrm entrarono a Kampala. Tuttavia, i disordini continuavano, specialmente al nord, dove i gruppi etnici venivano maggiormente esclusi dalla vita politica a favore dei componenti provenienti dalla regione sudoccidentale dell'Ankole, terra d'origine di Museveni, e del Buganda. Così gruppi come l'Uganda People's Democratic Army e la Lord's Resistence Army (Lra) rifiutavano il dominio di Museveni e insorsero contro lo Stato centrale.

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Ciononostante, Museveni avviò il periodo più prolifico della recente storia ugandese. Il sistema politico adottato era privo di partiti politici, infatti, secondo Museveni il modello ortodosso di democrazia è inadeguato all'area subasahariana. In una regione con appartenenze etno-religiose molto radicate, la formazione di partiti politici tende a rispecchiare questo tipo di legami, favorendo la polarizzazione politica, escludendo intere comunità e generando una situazione incline all'esplodere in conflitti violenti. Tuttavia, il successo di Museveni fu garantito anche dall'alleanza sociopolitica delle due regioni meridionali, il Buganda e l'Ankole, a scapito di quelle settentrionali che come già menzionato si ribellarono, dando origine ad un conflitto che oltre ad aver trascinato la regione dell'Acioli in una spirale di povertà e sottosviluppo, ad oggi, si stima che abbia causato più di 100 mila vittime. Nel 2005, a voto quasi unanime si è deciso di ritornare ad una democrazia partitica. Infatti, nemmeno la politica di Museveni a base individuale è mai riuscita a sanare le divisioni sociopolitiche all'interno del paese. Queste divisioni, nate fin dall'arrivo dei britannici e dalla loro scelta di porre il regno del Buganda sopra tutti gli altri, sono continuate quasi in maniera continua fino al giorno d'oggi. In conclusione, sembra dunque chiaro che la decisione di preservare i confini d'eredità coloniale abbia aggravato la polarizzazione delle diversità etnico religiose e che abbia radicalizzato lo scontro fra queste diverse fazioni. Inoltre i conflitti interni ugandesi sono stati esportati anche oltre i confini nazionali: favorì la presa del potere Fronte Patriottico Ruandese in seguito al genocidio dei tutsi nel 1994; nel Congo-Kinshasa. Il governo ugandese del Nrm intervenne assieme al Ruanda, dapprima a sostegno di Kabila per la deposizione del dittatore Mobutu, poi contro lo stesso Kabila e infine entrando in conflitto con lo stesso Ruanda; in Sudan, invece, l'Uganda era accusato di sostenere la guerriglia del Sudan People's Liberation Army (Spla). Tutta l'area dei grandi laghi - Uganda, Ruanda, Burundi, Congo-Zaire e anche il Sudan del Sud - pare perennemente destabilizzata da conflitti etnoreligiosi, conflitti spesso supportati dai paesi vicini che, in cerca di alleati, finanziano gruppi ribelli con la speranza che essi conquistino il potere.

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Figura 7. Mappa etnolinguistica dell'Ugandaa

a

La mappa riporta chiaramente le divisioni fra il sud bantu del paese e il nord, dominato dalle etnie nilotiche, tra le

quali troviamo i lango e gli acholi. Le divisioni sono ulteriormente accentuate considerando la differenza religiosa, il paese infatti si divide fra cristiani cattolici (42%), anglicani (36%), evangelici, pentecostali, mussulmani (12%), e animisti.

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CAPITOLO III

L'EREDITA' DEL COLONIALISMO; NUOVI E VECCHI METODI DI SVILUPPO

3.1 Economia e democrazia in Africa Se la debolezza o perfino l'assenza dell'autorità dello Stato in Africa può essere chiamata come causa principale di tutti quei fenomeni fin qui discussi, è anche vero che la stessa irresolutezza ha comportato l’arresto dello sviluppo economico dei paesi africani così come era strutturato al momento dell'indipendenza. I rapporti verticali di forza, tipici del sistema coloniale, diventarono il modello classico di relazione politica ed economica, chi comandava poteva esercitare infinita forza sui comandati, i quali potevano trovare espressione soltanto con la rivolta armata. L'economia dei paesi africani ha attraversato momenti tragici negli anni '70 e '80 dove indebitamento, povertà e assenza dello Stato sociale erano caratteristiche diffuse. Per motivi già analizzati, si è assistito al “crollo” di diversi paesi e, dove non è giunto il crollo, spesso è giunto il “fallimento”, ovvero al dissesto delle funzioni più fondamentali che uno Stato deve svolgere. Se dunque, in Africa ogni tentativo di sviluppo economico ha dato perlopiù risultati deludenti e a volte socialmente drammatici, questo è avvenuto indipendentemente dall'approccio ideologico adottato. Infatti, sono esistiti Stati sia guidati con ideologie occidentali e capitalistiche, come Kenya, Nigeria e Costa d'Avorio, che modelli più socialisti, come la Guinea di Ahmed Sékou Touré, Senghor nel Senegal e Nyerere in Tanzania o talvolta perfino marxisti-leninisti, come l'Angola di Agostino Neto o il Mozambico postcoloniale di Samora Machel. Nonostante queste differenziazioni ideologiche, in un continente dove generalmente il settore privato era quasi assente, in termini reali l'economia africana assunse in genere le tinte di un capitalismo di Stato, nel quale lo Stato svolgeva un ruolo assistenzialistico, il quale elargiva posti di lavoro mediante la creazione di organi statali e parastatali. Ad esempio, negli anni settanta il numero degli impiegati nel settore pubblico è cresciuto in media del 7% ogni anno, senza che la

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crescita delle economie degli Stati africani potesse realmente motivare questa crescita 13. Di conseguenza, i governanti acquisirono un grande rilievo nei diversi processi economici che prendevano vita nel paese. La vita economica dello Stato dunque sfumava in quella politica, provocando l'ascesa di presidenti monarchi che riuscirono a mantenere il potere per svariati mandati, figure di cui la recente storia africana offre numerosi esempi. Questa sorta di dittatori o neomonarchi esercitavano un potere di tipo personalistico che travalicava il potere istituzionale che la figura ricopriva. Ponendosi al di sopra della legge, essi governavano in modo arbitrario, utilizzando fondi pubblici a proprio piacimento. In altre parole, essi erano il centro politicoeconomico dello Stato. Regimi come quelli di Mobutu in Zaire o di Idi Amin in Uganda sono esempi di manifestazioni estreme dell'uso personale delle risorse pubbliche, tali da far diventare irrilevanti le istituzioni statali.

3.2 Lo sviluppo della democrazia in Africa Emerge dunque che politica ed economia per gli Stati postcoloniali africani sono intimamente legate. Nonostante l'apertura di molti paesi ad elezioni pluripartitiche, la realtà rimane ben diversa, queste democrazie sono caratterizzate da basse possibilità per i cittadini di partecipare alla loro vita politica. Il gioco politico si svolge tutto all'interno di un'élite preesistente, le cui differenze interne non hanno nulla di ideologico, ma piuttosto rappresentano gruppi di potere diversi. Infatti, l'occupazione dello Stato garantisce lo sfruttamento delle risorse, degli aiuti stranieri e la gestione dell'uso dei finanziamenti pubblici, utili a garantirsi la fiducia dei rapporti clientelari. In altre parole, la democrazia in Africa rimane un'istituzione di facciata, conseguenza della spirale negativa dell'economia africana, che ha lasciato poche opportunità alla sua élite se non quella di accettare le richieste della comunità internazionale di dotarsi di un apparato democratico. Il fine per i paesi africani è quello di poter accedere ad aiuti internazionali e a grossi investimenti, potendo così anche accedere ai programmi di aggiustamento finanziario promossi da istituzioni internazionali come l'FMI. Dunque, i mercati sono riusciti ad imporre allo Stato africano una maggior democrazia e stabilità. L’aumento della democrazia multipartitica è stato da sempre considerato un elemento essenziale per la riduzione degli scontri etnicoreligiosi, ma nella realtà, come osserva anche 13

A titolo esemplificativo, nella sola Tanzania gli impiegati nel settore pubblico passarono da 65.708 nel 1966 a 295.352 nel 1980.

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Carbone (2005) e Valsecchi (2005), questo non è mai stato determinante nella risoluzioni di questi conflitti interni.

È servito invece ad aprire le porte dei paesi del continente africano agli

investimenti esteri; infatti, nell’epoca moderna l’aumento della democrazia non può slegarsi dall’attuazione di politiche di libero mercato e non sorprende quindi che il recente aumento di democrazia nominale in Africa sia stato indicato come uno dei fattori che hanno causato la ripresa economica, in quanto ha consentito l’apertura del continente agli investimenti dei grandi attori internazionali. Tuttavia, questa affermazione del regime democratico è stata spesso più che altro indotta dall'esterno piuttosto che guadagnata attraverso un processo dal basso, un'evoluzione che dunque assomiglia al processo di decolonizzazione grazie al quale gli Stati africani hanno ottenuto l’indipendenza. Quindi, esattamente come la formazione degli Stati, anche questo processo di democratizzazione è destinato a fallire in quanto è privo di sostanza, un "guscio vuoto". Esso non nasce dall'interno, ma è soltanto un espediente a cui gli Stati africani hanno ricorso per allentare le pressioni dei grandi attori internazionali, i quali necessitano di una figura istituzionale legittima con cui poter trattare e concludere contratti, una figura insomma che preservi e garantisca gli interessi che si instaurano esattamente come nell'epoca coloniale. Possiamo definire dunque che in Africa le istituzioni rappresentano il “regno dell’importato”, mentre il comportamento del singolo individuo nella società continua a rappresentare più il “regno dell’indigeno”. Queste due realtà non si sono quasi mai integrate e dunque lo Stato contemporaneo in Africa, pur integrato nell’economia capitalistica mondiale, rimane la costruzione di gruppi che controllano le opportunità prodotte dai meccanismi differenti nel cuore delle società tradizionali. Questa incapacità dello Stato di staccarsi dalle proprie tradizioni ha permesso ai nuovi fenomeni, come la globalizzazione, di inserirsi nella realtà del continente esattamente nei modi ereditati dal passato coloniale, un modello che può essere definito di sfruttamento. Lo Stato africano appare impotente di poter contrastare questi nuovi processi politici ed economici, i quali si inseriscono fra le deboli maglie delle società africane, dove l'individualismo supera il senso pubblico e si impone come unico modello di sviluppo. La politica dunque, o meglio i soggetti che la compongono, coloro a cui cade la responsabilità di garantire la protezione ai propri cittadini e la democrazia, sono in realtà ostaggio dei grandi attori internazionali che ne fanno uso per perpetuare le proprie attività politico-economiche sul continente subsahariano. È dunque chiaro che in Africa il dualismo fra democrazia e sfruttamento - ovvero fra politica ed economia - si fa complesso.

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3.3 Le economie di sfruttamento

L'Africa, come già detto nei paragrafi precedenti, non sfuggì a nessuno dei limiti lasciati dalla decolonizzazione e come riporta Valsecchi (2005) la scarsità dei mezzi effettivi a disposizione del nuovo apparato di potere, l'andamento negativo dei termini di scambio fra i prodotti scambiati dall'Africa e quelli acquistati causarono uno stato di crisi generalizzata, indebitamento, povertà di massa e vuoto di potere: screditando i nuovi governi africani e innescando problemi cronici di stabilità. Ad esempio, la mancanza di entrate legate dal rapporto fra il governo e la popolazione, di difficile formazione - come ad esempio la riscossione erariale - hanno portato gli Stati a concentrarsi sul mantenere più che altro il controllo della capitale e su aree strategiche come le aree ricche di giacimenti petroliferi e minerari14. Dunque, sia per propri limiti che per reale impossibilità strumentale, la leadership dei paesi africani ha rinunciato ad ogni reale tentativo di incentivare la nascita di un'economia di produzione, limitandosi allo sfruttamento delle ricchezze del suolo, proseguendo il modello di sfruttamento ereditato dal colonialismo. Si può notare come l'Africa si basa tutt’ora su questo modello di sfruttamento delle materie prime: si calcola che in media il 90% delle esportazioni dei paesi africani siano proprio materie prime15 e dove non si sfruttano le risorse minerarie o forestali si fa affidamento sui cosiddetti cash crops, ovvero caffè, tè, cacao, cotone, olio di palma e altro. Il lavoro, in questo sistema di sfruttamento, viene pagato pochissimo, mentre le materie prime sono direttamente inviate fuori dal continente senza corrispettivo e il surplus economico. In altre parole, le rendite vengono trasformate in valuta e anch'esse trasportate all'estero e anche quella piccola parte che non fugge all'estero, insieme alle merci vendute, si perde in tanti rivoli, necessari al mantenimento dei network di potere. Dunque, chi trae godimento da questo sistema rimane comunque una ristretta cerchia di uomini politici e militari. È noto, anzi, come spesso i coltivatori africani, dediti ad un'agricoltura di sussistenza, vengano allontanati per far posto a enormi piantagioni monoculturali. In sostanza, si coltiva, si raccoglie e si vende al mercato internazionale, 14

Si può notare come gli Stati abbiano offerto un'estrema resistenza quando perdevano il controllo di province ricche di materie prime, seppur culturalmente o religiosamente molto diverse dal resto dello Stato. Emblematico è il caso del Sudan il quale ha a lungo osteggiato l'indipendenza del Sudan del Sud, territorio culturalmente e religiosamente molto diverso dal nord ma molto ricco di giacimenti petroliferi. Mentre, quest'ultimo paese riuscì a dichiarare la propria indipendenza soltanto nel Luglio del 2011, dopo svariati anni di lotte; già gli inglesi provarono a dividere questi paesi nel 1947, fallendo. Al contrario, il Darfour, territorio molto più omogeneo al resto del paese, ma povero, la guerra civile prosegue dal 2003 ed è da sempre stata ignorata dal governo di Khartoum, il quale si è limitato ad appoggiare i Janjwid, ribelli filogovernativi, per fermare l'avanzata dei ribelli. 15

Tranfo, L., 1995. Africa: la transizione tra sfruttamento e indifferenza, Bologna, EMI, p. 49.

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mentre quello che rimane alla popolazione locale è ben poco; così mentre si esporta cacao, tè, cotone o caffè a prezzi sempre meno conveniente si deve ancora comprare riso e grano per sfamare la popolazione. Dunque, nell'impossibilità di creare un'economia capace di produrre reddito e lavoro, per limiti già analizzati, nasce il sistema economico basato sullo sfruttamento, dove la produzione di materie prime prende il sopravvento su qualsiasi altra attività. La completa dipendenza dell'Africa su questo debole sistema di sfruttamento delle proprie risorse è chiaro: in Angola il 97% dell’export è costituito da prodotti energetici, mentre in Nigeria questa soglia e di circa l’80%. L'Africa rimane imbrigliata in questo sistema che, oltre produrre danni all'ambiente, rende gli Stati ostaggio della fluttuazione del prezzo dei beni commercializzati, su cui non hanno potere. Si spinge alla produzione e all'estrazione eccessiva anche quando le prospettive di mercato sono deboli, in quanto non si hanno reali alternative. Come sottolinea Carbone (2005, p. 51) “il problema della indipendenza delle economie africane dai paesi africani era e sarebbe stato sopratutto un problema di vulnerabilità. La logica di sfruttamento economico che stava alla base che stava alla base dei sistemi coloniali aveva aggravato il peso dell'arretratezza delle popolazioni del continente, favorendo la sostituzione delle colture per la sussistenza con quelle richieste dai mercati coloniali e dal sistema di specializzazione delle economie di colonia. […] Anche in Stati quali Zambia, Nigeria o Zaire, in cui un ruolo importante è stato svolto da risorse minerarie come petrolio, oro, diamanti o rame, il peso preponderante di un limitatissimo numero di prodotti da esportazione ha reso l'intera economia nazionale vulnerabile alle oscillazione della loro richiesta internazionale.” Il rischio per la crescita dell'Africa è infatti insito in questo modello del suo sviluppo. Le crisi africane, come anche il forte indebitamento degli anni '70 e '80 e i conseguenti conflitti, sono strettamente legate al progressivo deprezzamento delle risorse e al conseguente snellimento delle entrati dello Stato, portando all'insorgere di quei gruppi che venivano via via esclusi dalla spartizione delle rendite. A titolo esemplificativo, il valore del caffè in Kenya in 30 anni si è dimezzato, mentre il tè ha perso il 69% del suo valore. In Zambia, il valore del rame è diminuito del 60% in 10 anni e si calcola che se in Costa d'Avorio negli anni '60 erano necessarie tre tonnellate di banane per comprare un trattore, nel 1987 ne servivano 2016. Il paese ivoriano, povero di materie prime, ha subito un calo fra il 1970 e il 2001 del prezzo del Cacao del 50%, quello del caffè è diminuito del 75%, quello del cotone del 55% mentre quello del petrolio e passato da 4 euro a poco

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Tranfo, L., 1995. Africa: la transizione tra sfruttamento e indifferenza. Bologna, EMI, p. 50.

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meno di 2417, 18. È chiaro dunque che l'Africa oggi non può continuare a contare sullo sfruttamento intensivo delle proprie risorse. Anche quando il sistema dei cash crops è entrato in crisi, a causa del deprezzamento dei beni, i paesi africani si sono semplicemente rivolti allo sfruttamento delle risorse minerarie o petrolifere, esponendosi ulteriormente ai limiti che questo modello comporta. Così, mentre i più potenti potevano godere di questo sistema per arricchirsi; i più deboli, ovvero la gran parte della popolazione, pagava i suo limiti, aumentando enormemente la disparità e le ingiustizie. Anche più recentemente tale tendenza non sembra essersi invertita, il divario fra chi ha accesso alla ricchezza e le fasce più povere della popolazione aumenta e il numero delle persone facenti parte a quest'ultimo gruppo non sembra diminuire. Lo Stato africano democratico rimane comunque un’autorità incapace di distribuire ricchezza alla sua popolazione, in quanto il meccanismo di gestione del potere è rimasto ancorato alla gerarchia “verticale” ereditata dal colonialismo. Questo modello economico di sfruttamento sembra dunque relativamente intangibile nell'immediato, ma deleterio se viene analizzato nel lungo termine, sia a livello politico, economico, sociale ed ambientale. Infatti, come si è visto, le entrate dei paesi subsahariani rimangono inesorabilmente vincolati dai prezzi del mercato internazionale su cui questi paesi hanno un'influenza quasi nulla. Non solo, ancor più grave sono le conseguenze nel campo politico, in quanto questi paesi rimangono ostaggio dei paesi più sviluppati, accettando le loro regole e dovendosi dunque inchinare al sistema chi li pone alla base della piramide. Il gioco è infatti quello di abbassare il più possibile il costo dei beni, massimizzando il profitto; se questo dovesse avvenire - cosa che è già accaduta ai cash crops – i rischi e le conseguenze di un ritorno ai cupi scenari degli anni '70 e '80 ricadrebbero interamente sull'Africa.

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Sciortino, A., 2008. L'Africa in guerra: i conflitti africani e la globalizzazione, Milano, Baldini Castoldi Dalai, p312.

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La crisi ivoriana è un chiaro esempio di quanto sia fragile questo sistema di sfruttamento su cui le economie africane si poggiano. In Costa d'Avorio il deficit delle casse statali ha portato ad un forte indebitamento pubblico e ad un conseguente indebolimento dello Stato; la coperta si è fatta troppo corta e molte fazioni sono state escluse dalla redistribuzione dei profitti portando ai conflitti già citati precedentemente.

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3.4 Il XXI secolo: l'economia e la globalizzazione in Africa Nonostante gli evidenti limiti di queste “economie di sfruttamento”, negli anni '90 e col nuovo millennio si è aperta una nuova fase di sviluppo per molti di quei paesi che sono riusciti a soffocare i conflitti interni e a mantenere una certa stabilità, aprendosi al mercato mondiale. L'economia africana è cresciuta con ritmi del 5-6% fin dall'inizio del nuovo millennio, contro un'economia globale cresciuta mediamente intorno al 4%. Ora che la crisi economica del 2008 sta lasciando il passo alla ripresa, l'Africa è tornata a crescere, nel 2013 l'Africa subsahariana è cresciuta del 5% e si stima che crescerà nei prossimi anni di oltre lo 6%19. Come dimostra la figura 5 e 6 nelle pagine precedenti il numero dei conflitti è diminuito sensibilmente nel nuovo millennio. Tuttavia, si può notare come questo numero sia tornato ad aumentare di recente20. Se per alcuni l'incremento della stabilità interna - e la conseguente diminuzione di turbolenze e conflitti - è dovuto al rafforzamento dello Stato centrale, che nel corso del tempo ha potuto sviluppare apparati amministrativi più efficaci, pare molto più determinante invece il ruolo della comunità internazionale, interessata sempre di più alle enormi ricchezze che il continente nasconde. Infatti, come già riportato, più uno Stato è in grado di distribuire ricchezza alle varie fazioni interne, più esso è in grado di mantenere la stabilità. Infatti, è grazie all'ingresso di grossi capitali di grandi gruppi internazionali e di accordi fra quest'ultimi e i governi locali che l'economia africana ha avuto l'occasione di vivere una fase di rilancio, attivando quei meccanismi che da tempo si erano interrotti a causa delle ristrettezze economiche. Attirati da politiche leggere sul lavoro e sulla protezione ambientale, gli investimenti stranieri in Africa sono triplicati negli ultimi dieci anni raggiungendo i 182 miliardi di dollari americani nel 201321 e si stima che nel 2014 questo livello supererà i 200 miliardi. Tali numeri, diventano ancora più considerevoli se si prende in considerazione la loro relativa economicità. Infatti, a titolo esemplificativo per ciò che concerne i land deals, in Etiopia un ettaro di terreno viene ceduto in concessione per 2 dollari all'anno, mentre in Liberia il prezzo medio è di 5 dollari all'anno22. 19

African Economic Outlook, Global Value Chains and Africa’s Industrialisation, 2014. online: http://www.africaneconomicoutlook.org/fileadmin/uploads/aeo/2014/PDF/Chapter_PDF/01_Chapter1_AEO2014_EN. light.pdf. 20

Nonostante il numero nuovamente in crescita dei conflitti nel continente subsahariano è stato riportato una tendenza verso conflitti a più bassa intensità, ovvero conflitti meno distruttivi sulla popolazione. Per ulteriori approfondimenti: Uppsala Universitet, 2013. The number of armed conflicts increased strongly in 2011. Online: http://www.uu.se/en/media/news/article/?id=1724&area=2,3,16&typ=pm&na=&lang=en. 21

Il sole 24 ore, 2013. Gli investitori riscoprono l'Africa. Online: http://www.ilsole24ore.com/art/impresa-eterritori/2013-07-18/investitori-riscoprono-africa-083606.shtml?uuid=AbIpmFFI. 22

The Economics, 2011. When other are grabbing their land: Evidence is piling up against acquisitions of farmland in

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Dunque, emerge chiaramente che l’abbondanza di risorse e un sistema statale ancora debole garantiscono ampi profitti per chi investe. Non è un caso quindi che quei paesi in forte via di sviluppo, al fine di garantirsi la crescita, siano sempre più interessati all'Africa e ai tesori che nasconde. Spinti da queste ampie possibilità di profitto, attori come la Cina o le grandi multinazionali stanno rivoluzionando il panorama africano, scardinando l’isolamento in cui la regione subsahariana era caduto. In questo processo di riconquista del continente africano, il gigante asiatico, ha rapidamente guadagnato fette di mercato in Africa, scalzando gli USA dalla leadership di maggior partner commerciale. Si stima che gli interscambi totali fra Cina e Africa abbiano raggiunto i 114 miliardi di dollari americani (2011), quando erano soltanto 10 nel 200023. Visto i recenti dati di crescita economica africana, è di concezione comune che con l'affermarsi dell'era globale sia diventato ancora più fondamentale per i paesi della regione subsahariana di dotarsi di un sistema infrastrutturale capace di inglobare l'Africa nei processi non solo economici ma anche sociali, culturali e tecnologici che stanno prendendo atto in tutto il mondo. Sotto le pressioni della comunità internazionale, utilizzando anche la leva del sistema degli aiuti, gli Stati africani sono stati esortati ad adottare istituzioni formali di democrazia che favorissero anche gli ideali del libero mercato. Queste riforme sono tappe fondamentali che un paese sottosviluppato deve compiere al fine di garantirsi l’arrivo degli investitori internazionali, ma occorre sottolineare quanto questi processi nascondono dietro le cifre di crescita economica.

poor countries. Online: http://www.economist.com/node/18648855. 23

Morone, A., La Cina per le risorse africane: opportunità o minaccia? in Chiusano, G., Dansero, E., 2012. Ori d'Africa: terra, acqua, risorse minerarie ed energetiche.

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3.5 Globalizzazione e sistema neocoloniale Per quanto riguarda la globalizzazione, in primo luogo, si possono smentire quelle affermazioni che rilegano l'Africa come un continente ancora estraneo a questi grandi fenomeni economici del nuovo millennio. Infatti, se si prende in considerazione che il 45% dei beni commerciati in Africa è destinata ad essere esportata fuori dai confini continentali, mentre è del 12,8% in Europa, del 23,7% in America Latina, del 13,2% in America del Nord e del 15,2% dell’Asia 24, si può definire l’Africa come il continente più globalizzato del pianeta. In secondo luogo, va sottolineato che l'imposizione esterna della democrazia, la quale ha permesso l'apertura del continente alla globalizzazione, non serve realmente a garantire la vita democratica all'interno di un paese, quanto piuttosto alla creazione di apparenze democratiche. Inoltrandoci nell'analisi del fenomeno della globalizzazione e superando i dati di facciata della crescita economica, emerge chiaramente il lato oscuro di questa nuova fase. È dunque necessario capire con quali scopi questi grandi attori internazionali finanziano la riconquista dell’Africa e le ricadute sulla realtà del continente subsahariano. Se la ricerca e l'accaparramento delle risorse è un caso ben noto al continente africano, oggi tale fenomeno sta vivendo una nuova fase in cui le multinazionali, i governi stranieri e altri attori privati comprano diritti sul controllo del territorio africano e delle sue ricchezze. Questi investimenti rimangono slegati dall'economie locali e la crescita economica sfuma nello sfruttamento. Dietro alle cifre di crescita economica e alle rosee prospettive di crescita futura continua spesso a celarsi c'è una realtà diversa, una realtà dove la crescita economica non porta progresso, le popolazioni restano drammaticamente povere, mentre le terre e le risorse vengono sfruttate senza curarsi del domani. Secondo l'Economist infatti questa crescita è dovuta principalmente alla svendita degli apparati pubblici, aziende pubbliche e servizi 25. È infatti ovvio che vendendo terre, commodities ed apparati pubblici, l'economia nell'immediato fa un balzo in avanti, ma la realtà è ben più complessa di quella che viene mostrata dai classici indicatori di sviluppo economico. L'obbiettivo di questi attori, infatti, non è tanto lo sviluppo industriale del paese, la produzione di beni, né tanto meno il rilancio economico, quanto piuttosto quello di accaparrarsi appezzamenti di terreno da poter sfruttare - sia per l'estrazione di risorse minerarie che di produzione agricola - concludendo coi governi locali contratti di leasing pluridecennali a prezzi irrisori26. Secondo stime dell’International Food Policy Research Institute di 24

Sciortino, A., 2008. L'Africa in guerra: i conflitti africani e la globalizzazione, Milano, Baldini Castoldi Dalai, p300.

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The economist, 2011. Africa rising. Online: http://www.economist.com/node/21541015. Ad esempio, il Sudan, nonostante i milioni di abitanti che soffrono la fame, ha ceduto 1,5 milioni di ettari ai paesi del Golfo Persico; la Cina ha concluso accordi per 2,8 milioni di ettari in Congo al fine di produrre carburanti da olio di palma.

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Washington dal 2006 sono stati ceduti dagli stati africani terreni per uso agricolo con prezzi irrisori pari all’intera superficie coltivabile della Francia. Questo fenomeno, noto come land grab, sta investendo pesantemente l'Africa e si stima che in questa regione, su un totale di 80, dai 51 ai 63 milioni di ettari sono stati ceduti in questo modo27. Questi accordi - land deals - non sono elementi separati dai normali processi di sviluppo economico che stanno prendendo piede in Africa, ma anzi ne sono parte integrante; è dunque lecito domandarsi con quale entità l'avvento degli investimenti esteri possa portare ad un vero sviluppo in questi paesi. In altre parole, ancora non è chiaro come la globalizzazione può diventare un punto di rottura per l'Africa col suo passato di sfruttamento e povertà, dandole la possibilità di un reale e concreto sviluppo socioeconomico. Emerge chiaramente che il processo di globalizzazione che sta investendo l'Africa è ricco di punti critici. L'Africa continua ad essere considerata un semplice serbatoio di materie prime e mano d’opera a basso costo e non come un potenziale mercato. Gli attori della crescita africana per la natura dei loro investimenti non portano sviluppo nel paese ospitante; il loro interesse piuttosto si limita a vendere le proprie merci nel mercato internazionale e ricavarne il massimo profitto. I rapporti con cui l'occidente si approccia al continente africano, dunque, non sono cambiati, così come è rimasta inalterata la classe che trae profitto dalla svendita della ricchezza del continente. Come rivela Rodger Chongwe, ex ministro della Giustizia dello Zambia, la privatizzazione delle compagnie precedentemente nazionalizzate ha comportato un quasi sistematico riacquisto da parte dei proprietari originari. L'ex ministro cita il caso della compagnia mineraria ZCCM zambiana riacquistata nel 1999 dalla Anglo American Corporation dopo che essa fu nazionalizzata. La verità che emerge, secondo Chongwe, è un atto di ricolonizzazione del continente, causata anche dalla mancanza di capitali privato africano. Questo nuovo processo infatti garantisce lo sfruttamento delle risorse a chi ha il capitale e quindi agli stranieri. Emerge dunque che questo processo esclude ogni partecipazione e godimento da parte della popolazione e allo stesso tempo garantisce una vendita, senza barriere, di risorse naturali e manufatti a basso prezzo, portando all'eccessivo sfruttamento sia del lavoro umano che delle risorse28. Come espone Valsecchi (2005) nella prospettiva centroperiferia la decolonizzazione non agisce come un punto di rottura fra i rapporti asimmetrici delle due parti, ma piuttosto li cristallizza. Infatti, la fine degli imperi coloniali non esclude, de facto, la continuazione di un apparato di controllo mediante gli strumenti meno formalizzati dell'economia, degli aiuti, dell'influenza culturale o della presenza di forze o basi militari all'insegna del 27

The Economics, 2011. When other are grabbing their land: Evidence is piling up against acquisitions of farmland in poor countries. Online: http://www.economist.com/node/18648855. 28

Ferrari, A., 2002. La globalizzazione? È nel dna africano, in Hakuna Matata: nessun problema: la globalizzazione galoppa mentre l'Africa muore, Milano, Baldini & Castoldi, p.64.

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neocolonialismo o della politica di potenza. In altre parole, le decolonizzazione ha agito all'interno di spazi ereditati dall'imperialismo e la leadership africana, che portò avanti questo processo, era figlia del vecchio sistema e incapace di poter pensare altri modelli. Di conseguenza, la decolonizzazione non fu un punto di riscatto ed emancipazione del popolo africano come si auspicava. La politica postcoloniale restò compressa nello spazio ereditato dall'occidente e la globalizzazione, si sta affermando negli stessi spazi, imponendosi come una sorta di neocolonialismo, dove gli Stati hanno si un'indipendenza formale, ma le loro economie e i loro sistemi politici sono diretti all'esterno29. La critica verso questo sistema può essere articolata sotto svariati punti di vista, ma per le strutture di relazione politica fra attori privati, pubblici ed internazionali che prendono atto, si può definire questo sistema improntato su un modello neocolonialistico30. Parlare di neocolonialismo nell'Africa del XXI secolo non risulta sbagliato in quanto nessun reale cambiamento a livello di sistema è stato compiuto dal momento dell'indipendenza ad oggi. Secondo Masto (2011) in questo modello non ci sono reali benefici per le popolazioni, i vantaggi e i proventi della crescita economica riguardano infatti solo élite politiche che in Africa continuano a spadroneggiare, anche grazie al sostegno delle grandi potenze. È vero che quando la crescita è imponente qualche briciola arriva anche alla gente comune, ma si tratta appunto di briciole. Si costruiscono stadi, palazzi, simboli del potere insomma ma le baraccopoli restano baraccopoli e le popolazioni soffrono come e quanto prima. Esempio emblematico sono i già citati land deals, che sottraggono le terre alla popolazione africana per la produzione di beni richiesti dai mercati occidentali, costringendo i locali a comprare il cibo di cui necessitano invece, innescando un sistema di forte dipendenza dall'esterno, sia in termini di allocazione e vendita dei beni prodotti sia in termini di acquisizione di beni di prima necessità. 29

Le forme in cui gli Stati industrializzati impongono il proprio volere sugli Stati africani ha molte forme. Si può partire dal caso più estremo di presenza fisica di truppe straniere ed interventi diretti a supporto di determinate fazione di favore - come la Francia che è intervenuta militarmente più di trenta volte nel suolo africano fra il 1960 e la fine del secolo - o in forme più indirette, agendo sulle leve economiche come il valore di cambio monetario, l'accesso ai finanziamenti ed aiuti internazionali eccetera. La fortuna di un politico africano e del suo governo è spessa decisa dall'appoggio e dai favori garantiti da certe potenze straniere. Anche in questo caso gli esempi sono numerosi, si può citare il Togo di Eyadéma sopravvissuto per 38 anni grazie al continuo appoggio di Parigi o anche la Costa d'Avorio, i cui cambi di governo negli ultimi 15 anni possono essere fatti risalire alla lotta fra Washington e Parigi al fine di conquistare per se e per le proprie compagnie lo status di partner privilegiato col paese ivoriano. Ancora ad oggi la Costa d'Avorio mantiene un volume di scambio di merci ben superiore rispetto a tutti gli altri paesi confinanti, pari a quasi tre volte il volume con la vicina Nigeria. Così, per esempio, il paese transalpino può accaparrarsi il cacao ivoriano per le sue aziende a prezzi bassi e permettere ad altre compagnie francesi, come France Telécom e la compagnia energetica Bouygues di insediarsi in un regime di quasi monopolio nel paese del golfo della Guinea. 30

Tranfo (1995, p.37) definisce il neocolonialismo come “quel processo attuato da un paese industrializzato - o da una sua rappresentanza, come le multinazionali – che tende a creare o a perpetuare un sistema di sfruttamento in un paese sottosviluppato, pur senza esercitare un dominio militare visibile”.

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In questo senso, grazie alle leve di potere in possesso ai paesi più sviluppati e alle loro compagnie, i rapporti di forza rimangono strettamente verticali e il più debole si trova costretto ad accettare grossi compromessi. Un sistema di libero mercato, in questo contesto di forti squilibri di forza, snellisce ogni forma di protezione che un singolo Stato può avere verso l'aggressione esterna, agendo ovviamente negativamente sul soggetto debole. Risulta chiaro che la globalizzazione essendo appunto l'affermazione a scala globale del modello di libero mercato - non può far altro che aggiungere peso su chi viene sfruttato e dar forza a chi è al vertice. Non è un caso dunque che un modello di mercato sempre più aperto, che smontasse i vecchi comparti imperialisti, fu sostenuto a gran forza dagli Stati Uniti, leader assoluto del “mondo libero”. Nell'ottica neocoloniale, lo smantellamento dello Stato coloniale e delle vecchie prerogative sul territorio delle potenze europee ha permesso agli Stati Uniti - e di recente ai nuovi attori come la Cina - di penetrare sul suolo africano scardinando il potere delle potenze imperiali europee senza però sovvertire il modello. È ormai assodato che in Africa il concetto di libero mercato e di globalizzazione abbia permesso ai vecchi modelli coloniali di protrarsi fino al giorno d'oggi. Infatti, gli Stati africani, nonostante la loro formale indipendenza, hanno subito nel corso della loro breve storia - e lo stanno subendo tutt'ora - un continuo travasamento di potere da apparati pubblici ad entità commerciali private, spesso oltre i confini nazionali. La punizione per chi cerca di arginare questi processi è l'emarginazione, gli aiuti vengono bloccati e gli investimenti vengono deviati verso altri paesi. Lo Stato africano, basato su questo sistema di dipendenza,vpuò contare su poco altro e ne rimane dunque incatenato. Come sottolinea l'ex ministro zambiano Rodger Chongwe “si è costretti a essere globalizzati, schiavi di Paesi industrializzati”31. Emerge dunque chiaramente la vera e forte necessità per l'Africa di trovare un nuovo modello di sviluppo economico;: un sistema che scardini l'ordine coloniale e neocoloniale. È dunque necessario per l'Africa subsahariana che questo rinnovamento parta dall'Africa e che veda l'Africa come centro. La comunità internazionale per quanto si sia impegnata nell'aiuto alle sue popolazioni è stata incapace di arginare i processi di cui lei stessa è stata promotrice. L'Africa, dunque, non può essere salvata, ma deve salvarsi da sola, occorre estromettere chi viene per sfruttare e l'élites che ha permesso questo saccheggio; occorre che i paesi africani ricorrano a manovre difensive sia politiche sia economie; occorre una politica forte e capace di contrattare contratti per garantire i diritti ai lavoratori, l'ambiente e re-investimenti di una parte del guadagno sullo sviluppo del paese e delle sue infrastrutture; occorre dunque che le due Afriche si aprano l'una con l'altra.

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Ferrari, A., 2002. La globalizzazione? È nel dna africano, in Hakuna matata: nessun problema: la globalizzazione galoppa mentre l'Africa muore, Milano, Baldini & Castoldi p.65.

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CAPITOLO IV

IL CASO NIGERIA

La storia del paese nigeriano, sicuramente il paese più influente nella regione nell'Africa occidentale, presenta grosse similitudini con le situazioni e gli avvenimenti che hanno caratterizzato l'Africa nell'ultima metà del XX secolo. La Nigeria, nazione più popolosa dell'Africa, sorge dall'omonimo dominio britannico circondato da colonie francesi. Ciononostante, nessun cittadino nigeriano, al momento dell'indipendenza, ha sviluppato una forma di appartenenza a questo nuovo Stato. Come tutti i paesi africani, infatti, il territorio nigeriano è profondamente diviso a livello etnoreligioso: il paese è spaccato fra il sud cristiano e il nord mussulmano e i suoi circa 180 milioni di abitanti si dividono in 250 etnie diverse, i più numerosi sono hausa-fulani, yoruba, igbo, efik, edo, ibibio e tiv. Nonostante la Nigeria sia un paese in forte crescita, con un aumento sensibile del Pil pro capite negli ultimi anni, le statistiche rimangono drammatiche per un'ampia fascia della popolazione. Più del 45% della popolazione vive sotto la soglia di povertà 32, meno della sua metà ha accesso all'acqua corrente, l'istruzione rimane carente, la crescita industriale è vicina allo zero e le grandi città sono inghiottite dagli slums33. Figura 8. Gruppi etnolinguistici in Nigeria e divisioni amministrative.

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Questo valore può variare sensibilmente, in quanto non esiste un parametro chiaro per definire chi è povero e chi no. Altre fonti, ad esempio, pongono questa soglia minima del 33% fino ad un massimo del 70% (CIA Factbook).

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Fonte: World Bank, Online: http://data.worldbank.org/country/nigeria.

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Esattamente come in Uganda, con l'avvicinarsi dell'indipendenza si crearono diversi partiti che rispecchiavano le diverse compagini etniche, venne così fondato l'Action gruop (Ac), costituito da yoruba; il National council for Nigeria and Camerun (Ncnc), a rappresentanza degli ibo o igbo e il Nigerian people's congres (Npc) formato dal popolo hausa-fulani. Al momento effettivo dell'indipendenza la Nigeria aderì al Commonwealth come stato federale diviso in 3 regioni. Questi tre dipartimenti dividevano grossomodo le tre maggiori etnie del paese dando modo ai singoli partiti di conquistare una forte influenza sul territorio abitato dalla loro etnia. La debolezza dello Stato nigeriano emerse fin dai primi momenti di vita indipendente del paese. L'Ag venne spodestato nel suo ruolo di predominio nell'ovest da un nuovo partito yoruba - il Nigerian national democratic party (Nndc) - mentre le elezioni del 1965 portarono il paese sull'orlo della guerra civile. Il partito igbo dell'Ncnc venne messo da parte dal partito dominante Npc che si alleò con il nuovo Nndc, portando alcuni generali igbo alla ribellione e al compiere un colpo di stato nel ‘66. Il paese precipitò nel caos, il nuovo regime tentò di abolire la federazione provocando l’intervento di alcuni generali originari del nord del paese, che nel Luglio dello stesso anno misero in atto un altro colpo di stato. La Nigeria cadde così nel caos, dove i vari gruppi etnici si scontravano, in special modo gli igbo contro gli hausa-fulani. I morti furono migliaia e presto si arrivò alla dichiarazione di indipendenza del sudest igbo da resto del paese. Questi eventi, che hanno caratterizzato molti dei paesi africani postcoloniali, sono la chiara espressione di un paese in cerca di un equilibrio che comunque non poteva essere trovato. Le divisioni interne erano troppe profonde e, conseguentemente, favorivano conflitti, squilibri, corruzione, clientelismi e malgoverno. Lo Stato coloniale tentò di rimodellare la società, la politica, l’economia e il singolo individuo all’interno di uno spazio che poco aveva a che fare con gli spazi tradizionali. Dunque, in Nigeria, come nel resto dell’Africa, si delineavano scontri fra il nuovo e il tradizionale, fra città e villaggi, fra l’identità etnica e lo Stato; due mondi che all’interno dello Stato si allontanavano sempre di più, portando presto molti stati al collasso. Negli anni successivi in Nigeria si susseguirono regimi militari, colpi di stato, governi civili ed elezioni caratterizzate da accuse di brogli e violenze. Nel 1999, con la salita al potere di Obasanjo, si celebrò l'entrata della Nigeria nella democrazia moderna, ma, nonostante il disimpegno degli organi militari nell'attività della società civile e l'aumento della libertà di stampa, anche quest'elezione venne aspramente condizionata da brogli. Inoltre, Obasanjo dovette confrontarsi con forti violenze interetniche che dopo quarant'anni dal raggiungimento dell'indipendenza ancora continuavano e a problemi socioeconomici che non seppe risolvere.

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Con la salita al potere di Obasanjo si promise una rotazione al potere di due mandati fra presidenti del sud e del nord. Di conseguenza, nel 2007, al termine del mandato di Obasanjo vene eletto Umaru Yar'Adua, proveniente dal nord e di religione mussulmana, che però morì nel 2010. Al suo posto venne eletto Goodluck Jonathanad, politico del sud e cristiano che ebbe la meglio su il candidato del nord Muhammadu Buhari. L'elezione di Goodluck fu appoggiata pubblicamente da Washington e Londra, le quali auspicavano l'elezione di un personaggio più sensibile ai propri interessi. Tuttavia ciò provocò forti instabilità nel nord del paese, permettendo l'ascesa di gruppi integralisti, come Boko Haram, che tutt'ora disseminano terrore nel paese. Dunque, niente di nuovo sotto il sole; il fallimento dello Stato non ha fatto altro che aggravare le fratture presenti al momento della sua creazione; l’incapacità della politica di distribuire la ricchezza derivata dallo sfruttamento inesorabile delle risorse, ha rafforzato la percezione di Stato vessatore, rinsaldando i legami con la tradizione. Nel 1969 il regime nigeriano promulgò il Petroleum Decree, che stabiliva l’esclusivo controllo dello Stato nigeriano sulle risorse petrolifere e successivamente nel ‘71 venne fondata una compagnia petrolifera nazionale la Nnoc, poi Nnpc, manovre che portarono ad un effettivo aumento delle entrate nelle casse dello Stato federale, composte mediamente per l’80% da rendite petrolifere. Tuttavia, la gran parte dei profitti rimaneva comunque nelle mani delle compagnie private e di ristrette schiere dei politici nazionali e locali. Lo sfruttamento delle risorse del territorio aveva comunque la priorità sullo sviluppo del paese, sui diritti dell’uomo e sulla salvaguardia dell’ambiente. Ad esempio, nel 1993, in meno di cinque mesi il governo di Ibrahim Babangida uccise più di 1800 persone che manifestarono contro nuove trivellazione concesse alla Shell nello stato del Rivers34. Non esistendo un sentimento di identità, la classe dirigente non si è mai sentita in dovere verso lo Stato e i suoi cittadini. Quindi, investire nella crescita del proprio paese e nelle sue infrastrutture non è mai stato percepito come prioritario quanto invece l’arricchimento personale e il finanziamento del proprio network di potere. Un esempio paradossale è il prezzo della benzina in Nigeria che è fra i più alti dell’Africa, infatti, mentre in nazioni come il Venezuela e l’Iran – nazioni con molti problemi ma ricche di petrolio - il suo prezzo è irrisorio, in Nigeria non esistendo impianti di raffinazione l’oro nero viene venduto all’estero e la benzina comprata a prezzi molto più alti. L’economia nigeriana si sorregge interamente sulle Royalties del petrolio, che alimentano il sempre più dispendioso apparato clientelare che regge lo Stato, nell'impossibilità di creare, in assenza di uno Stato unitario, ogni altro tipo di rendimento. Le statistiche parlano chiaro: il petrolio 34

Cdca.it, Multinazionali del petrolio sul delta del Niger. Online: http://www.cdca.it/spip.php?article158.

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è la principale fonte di rendita del paese, ma nonostante questo il 70% della popolazione vive ancora sotto la soglia di povertà, più di due milioni di giovani sono disoccupati e il 40% della popolazione è analfabeta, con scarse possibilità di migliorare il proprio futuro. Le infrastrutture urbane e rurali - acqua potabile, elettricità, strade, strutture mediche - sono estremamente scarse e inefficienti, con condizioni ambientali disastrose nel Delta del Niger, dove si estrae principalmente il petrolio nigeriano. Lo Stato nigeriano è stato incapace di superare i limiti dello scontro etnoreligioso, questo scontro si è concentrato anche sull’accesso al controllo politico e alle ricchezze derivanti dal petrolio. Infatti, mentre per altre risorse - come diamanti, terre rare e legname pregiato - al fine di godere delle rendite derivate dal loro sfruttamento è sufficiente avere accesso alle singole aree di estrazione, per il petrolio è indispensabile detenere il controllo di un apparato governativo, il quale garantisca tra le altre cose la costruzione di oleodotti e l’attività di estrazione dei pozzi. In Nigeria, l’etnia si è distinta non solo per problemi legati alle richieste politiche, ma anche in relazione al problema dello sfruttamento da parte delle multinazionali del petrolio. Insurrezioni come quella degli ijaw e itsekiri nel 1997, quella del Movement for the survival of ogoni people (Mosop) nel 1990 o quella del Movement for the emancipation of the Niger delta (Mend) sono chiari segni di uno scontro interetnico che ha origine per la rivendicazione di autonomia, conservazione dell’ambiente e diritto all’esistenza di queste minoranze contro il governo federale visto come legato ai loro sfruttatori: uno Stato non espressione dei cittadini, ma espressione degli interessi privati. Il petrolio continua ad essere visto da molti nigeriani dell’area del Niger Delta più come una maledizione piuttosto che una ricchezza, molti gruppi continuano la lotta, dove petrolio è sinonimo di morte. Significative sono le parole rilasciate da Nadine Gordimer, in un articolo sul New York Times: “Acquistare petrolio nigeriano nell’attuale situazione equivale ad accettare di comprare petrolio in cambio di sangue, il sangue di altri esseri umani, la riscossione della pena di morte sui nigeriani”35. Lo scontro continua anche dopo l’insediamento di Obasanjo, è ormai chiaro che si può anche cambiare presidente e governo, ma il potere è sempre rimasto nelle mani della corrotta élite politico-militare, la quale ha continuato a polarizzare lo scontro etnico per indebolire le posizioni dei rivali e garantirsi i privilegi acquisiti, grazie anche al benestare di multinazionali e governi stranieri che tengono in vita la traballante economia nigeriana. In conclusione, lo Stato nigeriano condivide gli stessi limiti degli altri stati africani: i confini eredi del periodo coloniale hanno creato formazioni nazionali mai esistite prima, unendo etnie e religioni prive di un sentimento di unità; lo Stato stesso, nella concezione occidentale adottata con 35

Gordimer, N., 1994. In Nigeria, the price of oil is blood, New York Times, 25 May 1994.

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la decolonizzazione, è un’entità non propria del continente africano; l’inesperienza nel gestire la cosa pubblica e la mancanza di un'identità nazionale ha provocando che gli interessi del singolo prevaricassero su quelli del pubblico e che lo Stato, sempre più frammentato, scivolasse in una spirale di violenza e povertà. La crescita economica dell'ultimo decennio può far ben sperare, ma non è stato riscontrato un reale miglioramento della vita del nigeriano medio e le violenze nel paese continuano. Così, mentre il nord è vittima di gruppi terroristici come Boko Haram, il sud, in particolare il delta del fiume Niger, deve pagare le conseguenze di una devastazione ambientale senza precedenti, nell'indifferenza dello Stato centrale che pare continuare la sua politica clientelistica.

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Figura 9. Comparazione fra le rendite petrolifere e PIL procapite in Nigeriac

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0 1982 1986 1990 1994 1998 2002 2006 2010 1980 1984 1988 1992 1996 2000 2004 2008 2012 PIL pro capite

Rendite petrolifere (calcolate)

Fonte: The World Bank, Index Mundi c

Il grafico, pur sommariamente, raffigura come l'economia nigeriana sia legata con le rendite derivate dal petrolio. Il netto aumento del prezzo del petrolio ha conseguentemente provocato un sostanziale aumento delle PIL pro capite. Tuttavia, bisogna notare che questo valore non rappresenta pienamente le condizione di benessere, specialmente in un paese dalle forti diseguaglianze come la Nigeria. La grande dipendenza economica nigeriana dal petrolio non non è affatto una situazione inusuale, specialmente per l'Africa, e questo fattore è noto come “dutch disease”. È proprio il nigeriano Thandika Mkandawire che nel suo Our Continent, Our Future. African Perspectives on Structural Adjustment (1999) ad affermare che il suo paese soffre di questo “male”. Per la Nigeria la dutch disease si traduce con un mancato sviluppo economico e sociale nonostante le entrate garantite dal petrolio. Le cause che portano a questa situazione sono molteplici, i facili ricavi garantiti dal petrolio disincentivano altre forme di investimento su altri settori, confinando il paese in un sistema petroliodipendente. Questa teoria, chiamata rentier effect, può spiegare solo in parte il contesto nigeriano; infatti Stati come la Norvegia, il Canada, il Qatar, Messico o l'Indonesia, sono riusciti a emanciparsi economicamente dalla propria petrolio-dipendenza. È dunque chiaro che se il petrolio, come altre risorse, è un bene che può garantire ingenti entrate, esso non può essere l'unica fonte di rendita per uno Stato, ed è la politica che deve farsi carico della responsabilità di emanciparsi da questa stretta dipendenza, utilizzando il petrolio come volano per una crescita generale del paese e non appoggiandosi su di esso. In Nigeria, la politica, per i limiti analizzati in questa tesi, è stata incapace di far ciò che è stato fatto in altri paesi come l'Indonesia, dove se 30 anni fa il suo PIL pro capite era comparabile con quello nigeriano, oggi è di dieci volte migliore.

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Conclusioni

Questa tesi ha voluto fornire un'analisi critica del processo di formazione degli Stati nell'Africa subsahariana, focalizzandosi sui limiti del processo di decolonizzazione e sulle conseguenze che hanno investito l'Africa nel secondo dopo guerra fino ai giorni d'oggi. I mali dell'Africa hanno proprio origine dal fallimento dello Stato come autorità, in quanto essa non è mai stata riconosciuta dal suo popolo come tale, rendendo lo Stato un “guscio vuoto”, ovvero un'autorità riconosciuta dall'esterno ma totalmente priva di un potere al suo interno in quanto mai riconosciuta come reale autorità e dunque anche incapace di garantire i diritti minimi alla popolazione. Il vuoto di potere conseguente ha lasciato spazio a crimini, povertà e conflitti, trascinando il continente in una delle peggiori delle sue fasi. Fallendo, questi Stati hanno discreditato anche tutti i movimenti ideologici che si sono sviluppati in quegli anni, rendendoli ad oggi inaccettabili per la comunità internazionale. Tuttavia, come è stato detto, all'epoca l'Africa non poteva essere pronta a tale passo. La colonizzazione lasciò infatti troppo velocemente la sua eredità ad un apparato dirigente non formato, incapace di affrontare la gestione di uno Stato e di risolvere i problemi insoluti del dominio coloniale, come la questione del nations-building. Al processo di decolonizzazione vanno i limiti di aver originato paesi di singoli individui, lo stesso concetto di identità etnica, rinsaldatosi all'interno dello Stato africano, è il simbolo del fallimento dell'istituzione statale in Africa. Il fallimento di questi paesi senza popolo e autorità si è tradotto in termini politici con la personal rule, con le dittature e il sistema clientelare; in termini economici con le economie di sfruttamento e in termini sociali con una delle pagine più nere dell'epoca contemporanea. Ha fallito dunque il nazionalismo africano, che si impegnò a far rinascere il continente nelle dinamiche contemporanee, abbracciando gli ideali non propri per non per farla regredire al proprio passato. Con questa demonizzazione delle vecchie ideologie nazionalistiche l'avvento di una nuova fase democratica in Africa - e la sucessiva apertura al mercato mondiale - è stata salutata come una grande opportunità di crescita che il continente non poteva mancare. Ciononostante, è stato analizzato come anche questi nuovi processi democratici ed economici ad oggi non sono stati un reale punto di rottura col passato. La democrazia non è riuscita ad appianare le divergenze etnoreligiose e ad allargare i diritti anche alle fasce più deboli della società. Anche a livello economico le cose non sono cambiate, al tempo del colonialismo le 45


ricchezze dell'Africa venivano spartite fra le grandi potenze europee, oggi gli attori sono cambiati – grandi multinazionali, USA, Cina - ma il sistema di sfruttamento rimane spietato come allora. La globalizzazione si sta affermando con la stessa crudeltà con cui si affermò lo sfruttamento coloniale, continuando ad approfittarsi di un sistema politico debole, povero e corruttibile. In tanti infatti, tra i quali Bartholomäus Grill, affermano che attribuire l'intera colpa all'occidente è un escamotage troppo semplicistico, una grossa fetta di responsabilità va attribuita a una élite corrotta e predatoria, così come non erano gli europei a scendere dai loro velieri per catturare gli schiavi compito affidato ad altre tribù africane in cambio di qualche cianfrusaglia o di riconoscimento politico – oggi è la classe politica africana che permette la perpetuazione di questo sistema ingiusto e il ricompenso rimane miserabilmente simile. Secondo Masto (2011, p.4) “fra sei o sette secoli uno storico che dovrà raccontare i nostri tempi, probabilmente sarà costretto a scrivere che la schiavitù è stata abolita nell'ultimo scorcio del milleottocento, ma che questo odioso sistema è stato usato, in forme più attenuate e senza la copertura della legge, per diversi secoli ancora, almeno fino ai primi decenni del Duemila”.

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A ormai più di 50 anni dall'anno dell'Africa, il continente non si è dimostrato ancora capace di superare nessuno dei nodi più critici, i quali si ripresentano ciclicamente nella sua storia: le guerre ritornano, la povertà e lo sfruttamento rimane, mentre il divario fra Africa e resto del mondo aumenta (vedi figura 10). Dunque, nulla di nuovo sotto il sole, secondo Masto (2011, p.4) "l'Africa continua ad essere un territorio di saccheggio come nel passato [...] Un tempo le potenze coloniali bramavano il potere sul controllo di prodotti come la gomma, l'avorio, gli schiavi. Oggi sono cambiate le materie prime e l'utilizzatore finale è un soggetto più complesso, ma il meccanismo è rimasto lo stesso". La globalizzazione sta agendo dunque esattamente come fece il colonialismo, imponendo un modello di sviluppo che ha portato alla nascita di due Afriche, slegate l'una dall'altra e incapaci di comunicare. L'Africa più numerosa, ovvero l'Africa della povertà, ancora legata alle tradizioni, ha dovuto accettare il potere della seconda, ovvero l'Africa delle piantagioni, delle miniere, delle multinazionali e dei politici corrotti. Costruire un'Africa diversa era possibile, l'errore, causato dalla commistione di paure, incertezze ed interessi, è stato quello di costruire la nuova Africa nella concezione europea. La leadership africana, che si è alternata al controllo politico ed economico dei paesi del continente, è stata incapace di integrare il concetto di Stato e della sua gestione con la tradizione africana. Di fatto, la nuova Africa, nata con la decolonizzazione, è un continente che non ha mai trovato riconoscimento nel suo popolo, ma soltanto nella cartina geografica e nella comunità internazionale, garantendo la vita a Stati e sistemi incapace di governare. L'incapacità di rompere con questo sistema a bloccando l'Africa nel suo processo di sviluppo, esponendola a fenomeni a tutti i limiti che ancora oggi presenta. Dunque, non esiste nulla di nuovo dell'Africa della decolonizzazione e fintanto che il continente subsahariano rimarrà impantanato in questo sistema derivato dal colonialismo e di dipendenza verso l'esterno, non potrà realmente superare questa fase. Figura 10. Crescita del potere di acquisto medio in Europa e in Africa

Fonte: Maddison Project

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Articles inside

CONCLUSIONI

6min
pages 46-50

CAPITOLO 4, Il caso Nigeria

10min
pages 40-45

3.5 Globalizzazione e sistema neocoloniale

10min
pages 36-39

INTRODUZIONE

7min
pages 4-9

2.2 Il clientelismo

4min
pages 19-20

2.3 Conflitti e Guerre

6min
pages 21-23

2.4 Il caso Uganda

5min
pages 24-27

1.2 La colonizzazione dell'Africa

2min
page 12

3.4 Il XXI secolo: l'economia e la globalizzazione in Africa

3min
pages 34-35

3.3 Le economie di sfruttamento

6min
pages 31-33

3.2 Lo sviluppo della democrazia in Africa

4min
pages 29-30
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