35 minute read

Paolo Savona

Next Article
Abstracts

Abstracts

Paolo Savona

Il modello economico di riferimento implicito nell’azione di Carlo Azeglio Ciampi da Governatore della Banca d’Italia e da Ministro del Tesoro

Advertisement

La logica della ricerca scientifica insegna che la realtà si legge con una lente teorica di riferimento. In economia le teorie prevalenti sono due, quella quantitativa-monetarista e quella neoclassica-keynesiana; esse si presentano con almeno 19 varianti1. I modelli comunemente usati dagli economisti sono di tipo deduttivo; di conseguenza poggiano su ipotesi indimostrate e sovente indimostrabili, e offrono soluzioni “valide”, non la “verità”, se lo sviluppo logico è corretto, ossia rispondente alle regole del linguaggio formale2. Le “verifiche” di validità del modello interpretativo di tipo econometrico si basano su osservazioni analizzate secondo la logica delle probabilità oggettive, ma non mancano verifiche basate sulla logica delle probabilità soggettive3 .

Sulla base di questo metodo di analisi ho già tentato di ricostruire il modello di riferimento seguito da Paolo Baffi e Guido Carli usando le due lenti teoriche indicate4. Tenterò lo stesso per il modello al quale Carlo Azeglio Ciampi ha fatto implicito riferimento nell’esercizio delle funzioni di Governatore della Banca d’Italia e di Presidente del Consiglio e, in

1 Per questo calcolo si veda Paolo Savona, Cos’è l’economia. Cinque conversazioni, Mind Edizioni, Milano 2012, terza edizione, p. 41, dove riporto su un diagramma di Venn le 19 scuole di pensiero con sovrapposizioni che aiutano a individuare, usando il linguaggio grafico, i punti in comune e l’area di indipendenza. 2 Sul tema ho insistito in molti scritti. Tra questi suggerisco il manuale delle mie lezioni universitarie intitolate Politica economica e new economy, McGraw-Hill, Milano 2002, Capitolo 1 “Che cos’è la politica economica e di quali strumenti si avvale”, pp. 1-6. 3 Per l’Italia l’unica verifica basata sulla logica delle probabilità soggettive è, salvo prova contraria, quella sperimentata dall’ambito della mia cattedra di Politica Economica alla LUISS, ripresa poi in Confindustria nel 1977, da Gabriella Chiesa, con la collaborazione di Cliff Wymer del Fondo Monetario Internazionale; questa partecipazione fu propiziata dall’allora direttore esecutivo del Fondo, Lamberto Dini. In proposito si vedano le mie Considerazioni sullo stato della modellistica economica in Italia: note a margine dei modelli CSC, “Economia Italiana”, n. 2 1981, pp. 213-235 – versione inglese in “Review of Economic Conditions in Italy”, n. 2 1981, pp. 211-237. 4 Si veda Paolo Savona, Paolo Baffi e il canale estero di creazione monetaria, “Economia Italiana”, n. 3, settembre-dicembre 2009, pp. 833-843; Id., Il modello economico di Paolo Baffi, “Bancaria”, n. 11, novembre 2013, pp. 26-33; Id., Le radici storiche e i fondamenti logici delle Considerazioni finali del Governatore Carli, in Considerazioni finali della Banca d’Italia di Guido Carli, a cura di Paolo Savona, Treves Editore, Roma 2011, pp. 1-89.

particolare, di Ministro del Tesoro del Governo Prodi, quando decise e guidò la confluenza della lira nell’euro.

Prima di intraprendere questo impegno desidero aggiungere una precisazione del mio modo di intendere i risultati dei comportamenti analizzati. Anche le persone con un’etica e una professionalità elevate possono commettere errori, senza perciò perdere l’elevato standard culturale e civile che ha contraddistinto la loro vita pubblica. L’azione umana è esposta al rischio della fallibilità ed è dai fallimenti che emerge il progresso, se le persone sono disposte a mettere in discussione ogni loro conoscenza e ogni atto compiuto invece di difenderlo per orgoglio personale. La mia valutazione è che Carli e Ciampi abbiano operato in buona fede per entrare nell’euro, ma l’Italia era impreparata ad affrontare l’impegno che si prendeva; hanno perciò lasciato una pesante eredità dai cui effetti negativi, per motivi interni e per la cecità politica di alcuni paesi europei, l’Italia stenta ad uscire. È pur vero che Baffi raccomandò più prudenza nel cedere la sovranità monetaria, ma le vicende della vita gli hanno impedito di incidere sui contenuti di quella scelta. Il vincolo esterno accettato dall’Italia nel 1992 con la firma del Trattato di Maastricht, ribadito nel 1998 con lo straordinario impegno per entrare nell’euro, non aveva le caratteristiche di quello sperimentato positivamente con l’adesione al Fondo Monetario Internazionale, al General Agreement on Tariff and Trade e ai successivi accordi di libero scambio europeo. Siamo infatti passati da un vincolo esercitato dal mercato internazionale, che la nostra politica poteva correggere esercitando la sovranità sugli strumenti “classici” di politica economica – rapporto di cambio, spesa pubblica e tassazione, moneta e tassi dell’interesse – a un vincolo esercitato dalla burocrazia europea sulla base di clausole dei trattati divenuti “tavole della legge”, da rispettare con modesti margini di azione qualsiasi cosa fosse accaduta. Dall’adattabilità delle scelte politiche nazionali alle vicende della storia, giuste o sbagliate che fossero, siamo passati alle rigidità applicative di accordi frutto di compromessi pieni di imperfezioni5. Tra l’altro, in una tale situazione, il mancato rispetto degli accordi invita la speculazione ad agire contro i paesi che li violano e gli stessi richiami all’ordine delle istituzioni sovranazionali la rafforzano, senza tenere conto delle circostanze pratiche che le hanno indotte, ma per il solo fatto che gli accordi corrispondono a quelle che sono state definite “preferenze rivelate” e il mancato rispetto testimonia una debolezza politica del paese coinvolto, indicatore di una sua carenza di governo.

Dal 1992 in poi la costruzione europea ha avuto la caratteristica di creare divisioni piuttosto che spingere all’unione politica desiderata – anche se non da tutti i firmatari. Evento dopo evento, anno dopo anno, ci troviamo sempre più immersi in scelte imposte dai vuoti di regolamento delle istituzioni europee, soprattutto di fronte a shock esterni, perché le clausole dei Trattati e i paesi “che contano” non intendono colmarli. Il vuoto maggiore è

5 Ho sostenuto questa tesi nel mio ricordo di Carli nel centenario della sua nascita, come pure avvertii per tempo Carli, Ciampi e il Presidente della Repubblica Cossiga che gli accordi imperfetti creavano un’unione europea imperfetta e, quindi, esposta al rischio di collasso. Cfr. Carli e il vincolo esterno, Atti del Convegno per il centenario della nascita di Guido Carli organizzato dall’Università di Pisa il 28 ottobre 2014, dattiloscritto in corso di pubblicazione. Vedi inoltre Paolo Savona-Carlo Viviani, L’Europa dai piedi d’argilla: basi empiriche, fondamenti logici e conseguenze economiche dei parametri di Maastricht, Scheiwiller, Milano 1995. Ho inoltre reso testimonianza della mia azione sul Presidente Cossiga nel mio Quadrare il cerchio, ne La grande riforma mancata. Il messaggio alle Camere del 1991 di Francesco Cossiga, a cura di Pasquale Chessa e Paolo Savona, Rubbettino, Soveria Mannelli 2014, pp. 139-142.

la mancata indicazione di una politica che avrebbe dovuto rendere coerente la sopravvivenza di un’area monetaria nella quale dovevano convivere paesi con ragioni di scambio strutturalmente diverse. Un altro vuoto non minore è la mancata attribuzione alla BCE del potere-dovere di svolgere in piena autonomia le funzioni di lender of last resort per le crisi bancarie, assolutamente indispensabile quando si permette di “trasformare” moneta in credito, come insegna il più grande studioso di crisi bancarie, Hyman Minsky. L’assenza di questo potere ha costretto la BCE a colmare la lacuna con equilibrismi interpretativi che riducono l’efficacia della sua azione di fornire “riserve” monetarie al sistema economico nei momenti di più grave crisi. Ciò nonostante, si è dato vita a un primo esperimento di unione bancaria europea senza sistemi comuni di garanzia dei depositi e meccanismi di intervento pubblico per evitare crisi sistemiche.

La tesi indimostrata e indimostrabile avanzata per l’Italia – non solo da parte di Carli e Ciampi, principali protagonisti – è che, se non fossimo entrati nell’euro fin dall’inizio, non saremmo più stati capaci di farne parte. Il giudizio si può considerare fondato, ma implica che, contrariamente a quanto in molti sostengono, chi la pensava così aveva coscienza delle reali condizioni culturali e politiche del Paese, quelle che hanno finito con il prevalere negativamente sullo sviluppo italiano e tuttora in gran parte prevalgono.

L’unità d’Italia non si è realizzata in forma di un contratto sociale fondato su the rule of law, il rispetto della legge. Se prima del 1946 la mancata partecipazione di tutti i cittadini poteva lasciare adito al non rispetto di leggi alla cui definizione partecipava una minoranza dei cittadini, da quando esiste il suffragio universale e tutti i cittadini hanno scelto la forma repubblicano-democratica, la regola della legge ha trovato piena legittimazione, divenendo fondamento della convivenza. Tuttavia il popolo non ha partecipato direttamente alla scelta di aderire al Trattato di Maastricht e alla rinuncia della lira, attuata proprio quando esso ha avuto coscienza che i gruppi dirigenti dell’economia e della politica non rispettavano la legge. Poiché nonostante impreparazione e difetti, «gli italiani non sono cretini», come disse Carli nel corso di una tormentata riunione del CIPE, il cittadino ha compreso che l’Europa promessa non si va realizzando e, siccome capisce che i gruppi dirigenti non pongono rimedio, si affida per protesta alle forze antipolitica (italiana) e antisistema (europeo). Invece di dare risposta ai vuoti istituzionali della costruzione europea i gruppi dominanti preferiscono praticare la denigrazione, definendo “populiste” le reazioni del popolo, così accelerando divisioni e creando i presupposti per una fine drammatica dell’Unione Europea; questa non sarà certo originata da carenze di tipo economico, che tecnicamente possono essere fronteggiate, ma da reazioni sociali, più difficili da governare.

Gli storici avranno molto da fare per fare emergere un’interpretazione ragionevole delle ragioni della scelta di entrare prematuramente e impreparati nell’euro, e degli effetti che essa ha causato alla collettività. La conoscenza personale di Carli, Baffi e Ciampi, con cui ho collaborato per diversi lustri, acquisendo così molti strumenti di conoscenza sorretti da appropriate analisi del Servizio Studi, possono consentire di dare un contributo all’intrapresa di questo difficile compito, pur nei limiti dei giudizi legati alla contemporaneità. Ho infatti vissuto i fatti intercorsi dalla fine del 1963 – momento in cui l’Italia attraversò la prima seria crisi della bilancia dei pagamenti con l’estero del dopoguerra – agli inizi del 2001, data di avvio dell’euro, e partecipato direttamente ad alcune scelte.

Riesaminati scritti e decisioni di Ciampi, la mia interpretazione di sintesi è che egli, da Governatore, ha ereditato il modello economico di riferimento – o lente di lettura – seguito da Baffi; esso è di tipo neoquantitativo – dove il tasso dell’interesse e il rapporto di cam-

bio svolgono un ruolo importante – con integrazioni ispirate al modello keynesiano, dove l’intervento pubblico viene considerato necessario. Nella sua esperienza politica, invece, per raggiungere la confluenza della lira nell’euro, ha recepito il modello con caratteristiche prevalenti di tipo monetarista proprie dell’Unione Europea, percepite in modo particolare dalla Germania. Una volta raggiunto l’obiettivo, Ciampi ha propiziato il recupero di alcuni aspetti del modello keynesiano, ma ha incontrato i vincoli fiscali derivanti proprio dagli accordi europei che aveva fortemente voluto. Il risultato è stato la caduta degli investimenti pubblici, componente indispensabile del motore dello sviluppo di mercato, quando esso perde colpi o si inceppa. Entrambi i riferimenti teorici indicati sono stati usati da Ciampi con una concretezza non dominata da influenze teoriche, di cui egli non disponeva, ma di cui percepiva la differenza. Questa interpretazione sconta le difficoltà che incontra la messa a punto per Ciampi di un modello di riferimento più preciso rispetto a quelli da me proposti per i suoi due predecessori. La continuazione da parte di Ciampi, divenuto Governatore, della politica monetaria avviata da Baffi aveva come componente principale il canale estero di creazione monetaria, alla cui definizione teorica e applicazione pratica Baffi diede un contributo pratico rilevante, riconosciuto a livello internazionale6. Esso ha radici nella logica del regime monetario del gold exchange standard come interpretato dal quantitativismo cantabrigiense, secondo cui la creazione monetaria attraverso il canale Tesoro distorce o quanto meno disturba il funzionamento dell’economia; quella che si attua finanziando il sistema bancario si trasmette con lentezza e può produrre effetti distorti; l’immissione attraverso il canale estero si innesta invece direttamente ed efficacemente nel governo degli eccessi o delle carenze dell’economia reale. Nell’epoca in cui Baffi fu responsabile della gestione della lira, le condizioni in cui si trovava la bilancia estera dei pagamenti valutari, nonché l’inflazione e la crescita reale si potevano considerare, con un eufemismo, alquanto preoccupanti. La politica fiscale non era in condizione di svolgere un ruolo anticiclico, perché dominata da istanze sociali che le impedivano di condurre politiche di stabilizzazione, né tantomeno di correzione dei vincoli strutturali7; ossia quelle caratteristiche che non furono tenute in debito conto all’atto della scelta di disfarsi della sovranità monetaria per confluire in un Eurosistema dotato di minore libertà di scelta per avere omesso di dotarlo degli strumenti classici di intervento. Baffi e, soprattutto, Ciampi ebbero occasione d’impossessarsi delle innovazioni tecnico-analitiche introdotte dalla Scuola di Chicago di Milton Friedman e Anna Jacobson

6 Questo prestigio emerge chiaramente nella disputa che, in occasione del Terzo Congresso dell’Associazione economica internazionale tenutosi a Montreal nel 1968, Baffi ebbe con Tibor Scitovsky, tenendo testa alle sue obiezioni e finendo col raccogliere elogi per le sue idee e la sua condotta da banchiere centrale. I tratti di questa disputa sono riportati nello scritto di Baffi intitolato La liquidità internazionale e la riforma del meccanismo di aggiustamento (Commento a Scitovsky), in Paolo Baffi, Nuovi studi sulla moneta, a cura dell’Associazione Guido Carli, Rubbettino, Soveria Mannelli 2011, pp. 63-72; la versione originale in inglese è stata pubblicata nei Proceedings dell’International Economic Relations, Macmillan, London 1969. 7 Si consideri che la creazione del sistema sanitario nazionale fu decisa alla fine del 1978, in piena crisi petrolifera, il miglioramento del sistema pensionistico voluto da Andreotti e accettato da Carli per propiziare la firma del Trattato di Maastricht e il ricorso allo strumento del pensionamento anticipato fu usato negli anni a seguire da strumento di sistemazione degli effetti sull’occupazione delle crisi aziendali.

Schwartz introdotte in Italia da Antonio Fazio, divenuto Governatore dopo Ciampi8. La Banca d’Italia non ha mai accolto le prescrizioni monetariste per le sue scelte politiche, ma si è limitata ad usare l’apparato tecnico di questa Scuola, sostituendo alla distinzione dominante tra liquidità primaria e secondaria usata da Baffi, quella tra la base monetaria – high powered money, la moneta ad elevato potenziale – e il prodotto della sua moltiplicazione. Di conseguenza è stata spostata l’attenzione e l’impegno delle autorità monetarie dalla velocità di circolazione della moneta, cuore dell’equazione quantitativa in versione cantabrigiense, al moltiplicatore dei depositi e del credito.

Agli inizi degli anni Settanta, nei due negoziati con il FMI per ottenere gli stand-by indispensabili per fronteggiare il deficit dei conti con l’estero creato dall’aumento dei prezzi dei prodotti petroliferi, Fazio restrinse ancor più i limiti della visione monetarista imponendo il ricorso all’indicatore del credito totale interno, che lasciava spazio alle variazioni del saldo della bilancia valutaria. Ha perciò recuperato implicitamente la concezione dell’importanza della foreign dominance nelle scelte monetarie, tanto cara a Baffi. Ciampi si è collocato in questo solco di analisi della realtà. La principale differenza tra l’impostazione del modello neoquantitativo-monetarista rispetto a quello neoclassico-keynesiano di Hicks-Modigliani non è però la distinzione di ruoli tra la banca centrale e le banche commerciali nel meccanismo di creazione monetaria, ma la diversa concezione dell’occupazione: economica per il primo e fisica per il secondo. Per i monetaristi si impiega il lavoro che conviene utilizzare per permettere al mercato di esprimere tutte le sue potenzialità di gestione razionale delle risorse e per i keynesiani si impiega tutto il lavoro disponibile per raggiungere finalità socio-economiche9. Questa seconda concezione apre la strada al governo della domanda aggregata del settore reale, soprattutto attraverso la politica fiscale – tassazione e spesa pubblica – che il monetarismo considerava una distorsione per il buon funzionamento del mercato10 .

Ciampi ha vissuto in un momento in cui vi è stata convergenza tra le due scuole, alimentando le sue speranze di conciliazione: i keynesiani hanno accettato le tecniche di governo della domanda di moneta e il monetarismo ha ammesso l’utilità dell’intervento pubblico per realizzare public goods che suscitano economie esterne e aumentano la produttività del sistema economico. Ciampi, tuttavia, era costretto ad effettuare aggiustamenti di bilancio pubblico necessari per rientrare nei parametri di Maastricht prima e del Patto di stabilità poi: una politica che ha causato una riduzione degli investimenti pubblici data la

8 Per le innovazioni nell’interpretazione dei modi d’essere della moneta si veda Milton Friedman-Anna Jacobson Schwartz, Il dollaro. Storia monetaria degli Stati Uniti (1867-1960), Utet, Torino 1979 (ed. or. 1963). Per l’estensione di questa metodologia all’Italia si veda Antonio Fazio, Base monetaria, credito e depositi bancari, Tipografia Banca d’Italia, Roma 1968. 9 Chi volesse avere un quadro di queste diversità veda il settimo capitolo di Paolo Savona, Dalla fine del laissez-faire alla fine della liberal-democrazia, Rubbettino, Soveria Mannelli 2016, in particolare le sinossi dei due modelli alle pp. 179-180. 10 Invero Jan Kregel, co-fondatore della Scuola post-keynesiana, ha spiegato che Keynes ha prima concentrato la sua attenzione sul meccanismo risparmio-investimenti, pervenendo alla conclusione che vi fosse uno stretto legame tra investimenti e piena occupazione, per poi integrare questo concetto con quello di una politica di governo della domanda aggregata. Credo che la sequenza logica messa in evidenza da Kregel sia quella giusta, ma non era quella che animava la politica di Ciampi da Governatore e da Ministro del Tesoro poiché, come si è detto, sacrificò proprio gli investimenti per perseguire altri obiettivi.

maggiore resistenza alla riduzione della spesa corrente, fornendo la prima dimostrazione che quest’ultima è difficilmente riducibile di fronte alla larga maggioranza delle forze politiche che la difendono, un problema tuttora irrisolto. In una sua memoria, Baffi descrive l’evoluzione del suo pensiero in materia, creando similitudini con l’esperienza poi vissuta da Ciampi11. Nell’immediato dopoguerra, di fronte ai problemi della ricostruzione e delle condizioni difficili di vita degli italiani, Baffi era propenso a un maggiore intervento pubblico, peraltro sollecitato dagli americani che mal gradivano il fatto che la Banca d’Italia destinasse parte dei loro aiuti finanziari ad incrementare le riserve ufficiali. Di fronte, però, all’inflazione, egli riconobbe la necessità di una specializzazione dei compiti tra la politica monetaria, dedita alla stabilità per volontà della democrazia, e la politica fiscale, di competenza dei Governi e dei Parlamenti, dedita alla crescita reale, all’occupazione e a un’equa distribuzione dei redditi. Rispetto a Baffi e Ciampi, Carli forzò maggiormente il ruolo della banca centrale nel combattere non solo le fluttuazioni cicliche dell’economia, in linea con la filosofia di Keynes, ma anche la disoccupazione strutturale e il malcontento della popolazione. Baffi Governatore aveva ereditato una situazione economica molto difficile a seguito della crisi petrolifera, della conseguente inflazione e dell’accondiscendenza fiscale dei Governi e aveva perseguito una politica monetaria meno acquiescente rispetto a quella di Carli, che alcuni commentatori hanno considerato non in linea con i compiti propri d’una banca centrale12 .

La caratteristica della co-presenza di alcune componenti dei due modelli si può considerare un tratto dell’impostazione di politica economica del Servizio Studi della Banca d’Italia che Ciampi assorbì nella sua prima esperienza in questa prestigiosa istituzione, e che Carli evidenziò parlando delle due anime di Faust13. Essa si può sintetizzare come segue: se la stabilità monetaria è garantita, si può essere keynesiani, altrimenti si è costretti ad essere monetaristi. Al di là di questa semplificazione, si può verificare la dominanza dell’una o dell’altra scuola di pensiero economico verificando se il modello di riferimento condivide una delle quattro rivoluzioni fatte da Keynes nel modo di intendere il funzionamento del mercato: 1. Gli investimenti devono tendere al pieno impiego della forza lavoro; se quelli privati non sono sufficienti, provvede lo Stato; 2. Il tasso dell’interesse è un fenomeno puramente monetario; 3. L’inflazione non è un fenomeno puramente monetario; 4. Il ri-

11 Si veda Paolo Baffi, Via Nazionale e gli economisti stranieri, 1944-53, testo della testimonianza resa da Baffi in occasione del Convegno tenutosi a Firenze il 4 giugno 1983 su Keynes in Italia, riedito con integrazioni e varianti in Id., Nuovi studi sulla moneta, cit., pp. 165-221. 12 Mi riferisco in particolare a Michele Fratianni-Franco Spinelli, Storia monetaria d’Italia: lira e politica monetaria dall’Unità all’Unione Europea, Etas, Milano 2000, con una forte impronta monetarista che ha messo sotto accusa tutti i Governi dal centro-sinistra in poi per aver creato una fiscal dominance nella creazione di base monetaria. Questi autori considerano Carli il peggiore Governatore nella storia d’Italia, giudizio al quale mi sono opposto segnalando che anch’egli era un continuatore della foreign dominance che ha caratterizzato la gestione di Baffi e Ciampi, sia pure con finalità diverse: vedi Paolo Savona, Alla ricerca della sovranità monetaria. Breve storia della finanza straniera in Italia, Collana “Quadrare il cerchio”, n. 3, Libri Scheiwiller, Milano 2000, in particolare le pp. 166-170. 13 Cfr. in particolare Guido Carli, Pensieri di un ex governatore, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1988 e Id., Le due anime di Faust. Scritti di economia e politica, a cura di Paolo Peluffo, Collana Libri del Tempo, Laterza, Roma-Bari 1996.

sparmio privato non è risultato di una scelta diretta, ma un residuo, una volta esplicitati i consumi, le esportazioni e la tassazione.

Applicando questo test al modello di riferimento implicito delle scelte di Ciampi, si può affermare che nelle sue scelte: 1. gli investimenti pubblici si fanno se possibile, non sono quindi una variabile strumentale; 2. il tasso dell’interesse di mercato è influenzato, non determinato, dai tassi ufficiali posti al servizio del debito pubblico, ed è quindi un fenomeno solo in parte monetario; 3. l’inflazione è soprattutto un fenomeno avente origine in shock esogeni rispetto alla creazione monetaria, come la crescita salariale e gli aumenti dei prezzi dei beni essenziali importati, come il petrolio; 4. il risparmio è un residuo, ma anche frutto delle scelte fatte dai risparmiatori – secondo la life cycle hypothesis di Franco Modigliani importata in Italia da Ezio Tarantelli. Emergono pertanto i tratti della co-presenza delle due lenti di lettura dei modi di funzionamento dell’economia nell’impostazione di politica economica di Ciampi.

In questa struttura logica ed operativa dell’economia italiana si inserisce l’obiettivo, divenuto primario in Ciampi, prima da Governatore e poi da Presidente del Consiglio e, ancor più, da Ministro del Tesoro, di aderire all’Unione Europea e all’ingresso della lira nell’euro, subordinando ad esso l’uso degli strumenti di politica monetaria e fiscale. Si è cioè perso il nesso tra realtà e politica di un suo governo, affidando alle clausole dei trattati europei la riconciliazione, che non è avvenuta perché non poteva avvenire sulla base delle regole fissate. È pur vero che la politica fiscale si dibatteva tra le pressioni provenienti dalla domanda sociale e gli squilibri di bilancio pubblico storicamente accumulati sotto forma di pressione fiscale deflazionistica – e, in particolare, di un aumento del debito pubblico – e quella monetaria era chiamata a fronteggiare l’inflazione esogena e gli squilibri valutari. Ciampi si trovò nelle strette di un viaggio “omerico” tra Scilla e Cariddi che gli ha suggerito di forzare l’uso del modello monetarista, con eccezione per il rapporto di cambio che gli accordi di Maastricht rendevano irreversibilmente rigido, mentre la Scuola di Chicago voleva flessibili. L’Europa scelse di seguire le prescrizioni valutarie del monetarismo nei rapporti tra l’euro e il dollaro, accettando di subire le fluttuazioni della moneta americana, mentre ha reso irreversibili i rapporti di cambio interni all’euroarea la cui flessibilità era più necessaria. Ancora una volta la realtà si è resa indipendente dalle prescrizioni della lunga maturazione storica della teoria, creando non pochi problemi.

Il modello di riferimento di Ciampi appare con chiarezza nell’enunciato della sua “Costituzione monetaria” ideale. Essa prescrive che il sistema economico e sociale debba essere basato sulla stabilità monetaria, la coerenza fiscale e la politica dei redditi. Il fatto che parli di “coerenza” fiscale e non di “governo” fiscale indica la subordinazione di questo importante strumento di sviluppo alla stabilità monetaria, obiettivo incorporato nella creazione dell’Eurosistema. L’accordo di Maastricht lasciava agli Stati l’uso dello strumento fiscale, sottoponendolo però a vincoli quantitativi, poi ristretti con il Patto di stabilità, in un mondo in cui la flessibilità di ogni tipo è una delle principali caratteristiche per affrontare la concorrenza e orientare le scelte politiche, come gli organi dell’UE continuamente invocano, ma solo per i fattori di produzione e per l’output. La politica dei redditi è il sogno non realizzato di Ugo La Malfa, date le condizioni politiche e sociali vigenti all’epoca, che Ciampi tentò di rilanciare in misura moderata con la politica di concertazione voluta da Presidente del Consiglio; essa fu da lui riproposta come obiettivo indispensabile in qualità di Ministro del Tesoro, per sua stessa convinzione e per convincere i paesi membri dell’UE che l’Italia aveva in mente le riforme del mercato del lavoro che ci venivano sollecitate.

A quel punto Ciampi si distingue nettamente da Baffi, che invece mostrò obiezioni tecniche ai modi in cui si andava delineando l’unione monetaria europea, avanzando critiche fin dalle prime proposte avanzate e poi esperimenti fatti all’inizio degli anni Settanta. Le obiezioni di Baffi divennero politiche quando si cominciarono a delineare i contenuti monetari del Trattato di Maastricht. In una lettera resa pubblica, diretta a Carli, sostenne che si prefigurava un futuro difficile per il Vecchio Continente e affermò che la moneta CEE era «un falso traguardo» e aggiunse: «La storia monetaria d’Europa ci rivela che, ogni qualvolta la parità di cambio è stata eretta a feticcio o imposta senza adeguato riguardo alle sottostanti condizioni dell’economia, le conseguenze sono state nefaste»14. Restano inspiegabili i motivi per cui Ciampi non stette a sentire, almeno per gli aspetti tecnici, le idee del suo Maestro, di cui ben conosceva le capacità analitiche e l’onestà di pensiero. Fu forse un atto di presunzione, improprio per il suo stile di governo, o forse perché attorno a lui si era formato un gruppo di funzionari pubblici altamente professionalizzati che sull’adesione della lira all’euro hanno costruito importanti carriere, oggi ancora oggetto di considerazione.

Nel tentativo di dare una risposta a questi dubbi, porto una mia personale esperienza. Nel 1978, quando Carli cominciava ad esprimere il desiderio di non essere rinnovato alla Confindustria – per i motivi che ho descritto nella mia memoria su Carli Presidente di Confindustria – e si pensava a una sua nomina alla Confederazione delle imprese europee a Bruxelles15, accolsi la proposta che proveniva dal Governo italiano di assumere l’incarico di Direttore Generale II (DG-II) della Commissione europea diretta dal francese Xavier Ortoli; nella ripartizione degli incarichi questa importante posizione era di pertinenza dell’Italia. Il problema che incontrai ancor prima della entrata in carica fu il tentativo fatto dai tedeschi d’impossessarsi delle competenze monetarie della Direzione Generale II nel periodo di transizione del mio ingresso. Nel colloquio a quattr’occhi che ebbi con Ortoli a Bruxelles, capii che egli non poteva resistere alle pressioni tedesche e individuammo concordemente che fosse possibile attribuire la delega da parte mia al Vicedirettore Generale tedesco, riservandomi però la responsabilità di revoca della stessa nel caso di conflitto, che non sarebbe stata possibile qualora la delega fosse stata data da lui direttamente. Uscito dal colloquio, Ortoli non mantenne l’accordo verbale e sottoscrisse la delega al Vicedirettore tedesco già in carica. Mi consultai con Carli e decidemmo che avrei rinunciato all’incarico per non ledere gli interessi del Paese, cosa che feci.

I giornali dell’epoca diedero ampio risalto non alla gravità dell’evento, ma al fatto che non gradivo i vice direttori con funzioni di “angeli custodi”: il tedesco per le competenze monetarie e il francese per quelle fiscali. Mi chiamò un po’ contrariato il Ministro del Tesoro Pandolfi chiedendomi se ritenevo d’essermi rafforzato con quella dichiarazione pubblica e io non ebbi esitazione nell’ammettere che la mia candidatura era “bruciata”, ma suggerii di offrire a Ortoli la mia testa in cambio del ripristino al Direttore Generale

14 La lettera fu pubblicata da “La Stampa” di Torino il 3 giugno 1989 ed è stata riedita con il titolo Una lettera di Baffi a Carli: Ai nostri tempi…, in Paolo Baffi scienziato e maestro, a cura di Mario Sarcinelli-Pierluigi Ciocca-Lorenzo Infantino-Paolo Savona, Associazione Guido Carli-Rubbettino, Soveria Mannelli 2013, pp. 93-94. 15 Scritti e discorsi di Guido Carli. Vol. 4. Guido Carli presidente di Confindustria, 1976-1980, a cura di Paolo Savona, Bollati Boringhieri, Torino 2008.

delle competenze di delega16. Pandolfi ignorò l’importanza del mio suggerimento e designò Tomaso Padoa Schioppa, che accettò la delega monetaria diretta di Ortoli al Vicedirettore tedesco che avevo rifiutato. Considero questo un errore grave sulla strada della sudditanza in cui si è posta l’Italia nelle scelte monetarie europee, pur godendo il Paese, in particolare la Banca d’Italia, di un prestigio culturale e posizionale che avrebbe potuto far pesare al tavolo delle trattative, se adeguatamente rappresentato.

Negli anni che seguirono, incontrai più volte Ortoli nelle riunioni conviviali organizzate a Parma da Giorgio Orlandini, intelligente e volitivo Direttore della locale Unione degli Industriali. Chiesi a Ortoli ragione dello sgarbo fattomi e mi disse che dall’Italia gli avevano detto che ero un “pianta grane” che non doveva far accedere nell’ambito dei suoi principali collaboratori. Questo episodio è la conferma che intorno all’obiettivo dell’ingresso dell’Italia nell’euro si era formato in Italia un gruppo di potere inscalfibile e impenetrabile a ogni obiezione sui contenuti dei patti monetari, che avrebbe invece richiesto di unire le forze per cambiare il contenuto degli accordi ancora in fieri come Baffi suggeriva.

La storia delle vicende che hanno condotto all’ingresso della lira nell’euro è stata descritta con dovizia di particolari, ma insufficiente analisi critica, da parte di Fabrizio Saccomanni e Paolo Peluffo17. Un contributo inquadrato in una tematica più ampia lo offre anche Curzio Giannini18. Dato il livello delle persone che hanno collaborato con Ciampi per portare la lira nell’euro fin dall’inizio – Mario Monti, Tommaso Padoa Schioppa, Mario Draghi, Vittorio Grilli, Fabrizio Saccomanni, Umberto Vattani, Roberto Nigido, Augusto Zodda – è difficile fornire una spiegazione razionale per la scelta affrettata e non ben negoziata, se non ipotizzando un personale interesse. Se ci poniamo nell’ottica della parte avversa che mosse numerose obiezioni alla scelta dell’Italia di voler aderire all’euro fin dall’inizio, capeggiata dai tedeschi, non si incontrano minori difficoltà nel dare una spiegazione razionale del perché gli oppositori abbiano alla fine deciso di sostenere la nostra candidatura; salvo considerare che i vantaggi da essa ottenibili con i vincoli posti al nostro

16 Nella sua intervista concessa a L. Guzzetti il 24 giugno 1998 e pubblicata nella “Oral History Collection” [archives.eui.eu/en/files/transcript/15173.pdf] il Ministro Pandolfi non riferisce i motivi per cui avevo «rinunciato in maniera piuttosto brusca», mentre elogia l’accettazione senza condizioni di Padoa Schioppa all’incarico, riferendo che Ortoli era soddisfattissimo della scelta. 17 Cfr. Fabrizio Saccomanni, 1990-1999. Dialogo alla fine del millennio (fra banca centrale e cambisti) [www.ilsole24ore.com/art/.../2007/03/FOREX-50-Anniversario-31-marzo-2007] e Paolo Peluffo, Carlo Azeglio Ciampi. L’uomo e il presidente, RCS Libri, Milano 2007, in particolare il capitolo “L’Italia entra nell’euro”, pp. 238-286. 18 Cfr. Curzio Giannini, L’età delle banche centrali: forme e governo della moneta fiduciaria in una prospettiva istituzionalista, Il Mulino, Bologna 2004, in particolare il paragrafo 5 del Cap. VI, pp. 372-387. Curzio Giannini è un bravo economista, scomparso prematuramente, tenuto in grande considerazione dai suoi colleghi del Servizio Studi della Banca. Egli traccia un quadro dei motivi e degli eventi che portarono all’euro, che conferma la valutazione qui espressa: che si è giunti alla decisione con troppa superficialità, pur essendo il Servizio Studi della Banca d’Italia dotato di quelle conoscenze che avrebbero dovuto essere tenute presenti, ma che non lo furono perché «il processo di integrazione economica e istituzionale europea aveva ormai raggiunto una fase tale da rendere un’inversione di tendenza difficilmente immaginabile» (p. 376). Questo lavoro ignora la gran parte dei contributi di analisi di Baffi, di Carli e dei loro più stretti collaboratori e non presta attenzione alle analisi degli italiani, salvo alcuni tra quelli che si erano posti nel solco dell’analisi deterministica dell’ingresso della lira nell’euro, non mettendo a frutto il capitale di credibilità che la generazione successiva alla mia aveva ricevuto in eredità.

Paese su cambi, moneta e tassi dell’interesse erano più elevati dei costi che avrebbe pagato se avessero lasciato fuori l’Italia; avremmo infatti avuto il potere di attivare gli strumenti classici di aggiustamento alternativi rispetto alle “riforme” che ci venivano e ci vengono richieste e alla deflazione che oggi ci viene imposta per la salvezza dell’euro, sostenendo che le une e l’altra corrispondono ai nostri interessi di lungo periodo. Ancora una volta con il sostegno della professione e dell’alta dirigenza delle istituzioni dello Stato e della politica, non facile da comprendere sul piano degli sbocchi politici del Paese.

Resta per me inspiegabile anche il ruolo, a tratti passivo, svolto dal Servizio Studi della Banca d’Italia nella vicenda, che ben comprendeva le condizioni oggettive in cui l’economia italiana andava collocandosi. Fazio, da Governatore, fece qualche tentativo per spingere alla cautela e negoziare clausole più accettabili, ma anche a lui, come per Baffi, le vicende della vita impedirono d’incidere in profondità. Il Servizio Studi della Banca d’Italia era il centro di elaborazione più attrezzato dopo il depotenziamento del Centro Studi Confindustria deciso dai successori di Carli e miei alla Direzione Generale, ed era orientato ad accogliere le idee di Padoa Schioppa piuttosto che ad assegnare peso all’adeguato riguardo richiesto da Baffi; se si fosse posta maggiore attenzione ai suggerimenti del comune Maestro si sarebbero potuti correggere i termini dell’accordo evitando di condurre una battaglia per entrare nell’euro conducendo politiche monetarie e fiscali deflazionistiche, contro le quali si pronunciò anche Franco Modigliani19. Alberto Baffigi ha recentemente ricordato che Federico Caffè ha contrastato questa passiva, forse sarebbe meglio dire partigiana partecipazione alle negoziazioni per il Trattato di Maastricht con più scritti che hanno suscitato dure reazioni di Padoa Schioppa, che reagì alle accuse di «strangolamento» che sarebbero derivate dall’accettazione di «un sistema monetario a egemonia tedesca»20 .

Carli condusse con successo la battaglia sulla convergenza del debito pubblico, invece del rispetto puntuale del 60%, asseverando implicitamente la valutazione qui espressa che un suo impegno più ampio avrebbe sortito migliori effetti a favore di una istituzione più adatta all’eterogeneità di quelle che sarebbero state le componenti dell’Eurosistema; ma anche per lui l’ingresso nell’euro fin dall’inizio era un obiettivo prioritario. Feci un ultimo tentativo di sospingere verso una decisione più meditata operando sul Presidente della Repubblica Cossiga21. In occasione della redazione del Messaggio alle Camere del giugno

19 Franco Modigliani scrisse un articolo sul “Corriere della Sera” del 1° aprile 1997 che non era certamente un “pesce di aprile”. In esso sosteneva che i provvedimenti presi per rientrare nei parametri di Maastricht al fine d’essere accolti nell’euro fin dall’inizio «violano regole elementari di contabilità e fanno danno all’economia e, soprattutto, alla credibilità del Governo e del Paese». Modigliani rivolse anche di seguito critiche severe alla politica monetaria della BCE e a quella deflazionistica dell’UE. 20 Cfr. Alberto Baffigi, 1978, Padoa Schioppa scrive a Caffè: due visioni della democrazia e dell’Europa, “Eticaeconomia. Menabò”, n. 55, 19 dicembre 2016 [http://www.eticaeconomia. it/1978-padoa-schioppa-scrive-a-caffe-due-visioni-della-democrazia-e-delleuropa/]. 21 Nel corso del settennato della Presidenza collaborai in continuazione, ma in tutta segretezza, con Cossiga, il quale tentò di avermi ufficialmente nel suo staff come consigliere economico, non fosse altro perché doveva verificare la rispondenza degli atti legislativi che avrebbe dovuto firmare all’art. 81 della Costituzione, il “cavallo di Troia” dell’eccesso di debito pubblico che angustiava e angustia il Paese. La richiesta venne respinta dalla burocrazia interna al Quirinale e dalla DC; quest’ultima pose come condizione che il posto andasse a uno di sua fiducia e Cossiga preferì una soluzione informale. Nel messaggio alle Camere, Cossiga prese una posizione simile a quella riferita da Carli

1991, al quale avevo collaborato per la parte economica, mi era sembrato di averlo convinto; quando incontrò Carli e Ciampi, si convinse però che non poteva seguirmi sulla strada di una sua raccomandazione alla cautela per l’ingresso immediato della lira nell’euro e, quando si prese la decisione, egli era già in posizione esterna alle grandi scelte politiche del Paese.

Eppure ben si sapeva che l’Eurosistema non era un’area monetaria ottimale, ossia caratterizzata da divari strutturali nei saggi nazionali della produttività che l’avrebbero tenuta in permanente instabilità. Secondo l’insegnamento del Nobel Robert Mundell, la decisione di bloccare la flessibilità del cambio al suo interno, come implicato dalla nascita della moneta unica, avrebbe richiesto la presenza simultanea di una politica finalizzata all’eliminazione di quei divari, che fu sistematicamente respinta22. Il punto sul quale si doveva insistere usando il prestigio dell’Italia era che questa politica non fosse caratterizzata da interventi compensativi dei divari di tipo assistenziale, come in parte è stato fatto con le cosiddette “politiche di coesione”, ma operando sulle infrastrutture civili e sociali per collocare le aree arretrate su un mercato aperto alla concorrenza; ciò è stato riconosciuto decenni dopo con il Piano Juncker, ma con scarsi risultati.

La realtà è che la costruzione europea ha il suo fondamento nella stabilità, piuttosto che nella crescita. Ne è conferma non solo il Trattato di Maastricht del 1992, ma anche quelli successivi, tra i quali svetta il Patto di stabilità del 1997, al quale il Presidente francese Chirac, con il sostegno di Ciampi, chiese di aggiungere «e crescita»; ma ben poco si è fatto in questa direzione, mentre sono stati introdotti condizionamenti sempre più stringenti per la stabilità fiscale con il cosiddetto Fiscal compact, sulla cui illiceità Giuseppe Guarino ha lungamente insistito23. Oggi queste rigidità hanno mostrato i loro limiti di fronte alla crisi dell’euro manifestatasi a seguito della crisi finanziaria globale del 2008 iniziata negli Stati Uniti. Solo chi legge la realtà con una lente teorica rigorosa in termini economici poteva capirlo; ma fummo in pochi a farlo e molti tra questi erano anglosassoni che, invece di ricevere considerazione teorica, subirono ingiuste accuse di voler difendere la supremazia

dopo la firma del Trattato: l’impegno preso creerà «forse» difficoltà, ma il Paese è «certamente» in condizione di superarle – i due giudizi virgolettati sono quelli usati da Cossiga. Cfr. infine il mio Quadrare il cerchio, ne La grande riforma mancata… cit., pp. 139-142. 22 Cfr. Robert Mundell, A Theory of Optimum Currency Areas, “American Economic Review”, n. 51 1961, pp. 657-665 e Id., A Plan for a European Currency, in The Economics of Common Currencies, a cura di Harry G. Johnson e Alexander K. Swoboda, Allen and Unwin, London 1973, pp. 143-72. Nel suo Mundell, the Euro, and Optimum Currency Area, del 22 maggio 2000 [khp.vse.cz/ wp-content/uploads/2010/07/McKinnon.pdf], Ronald McKinnon ha criticato la posizione favorevole presa da Mundell sull’euro, tanto da essere considerato il padre della moneta europea, sottolineando l’incoerenza con i suoi contributi seminali sulle Non-Optimal Currency Area, tra le quali va incluso l’Eurosistema. Il tentativo di negare questa condizione di partenza, di seguito accentuatasi, ha spinto la BCE a produrre lavori del suo Ufficio studi tendenti a dimostrare che la convergenza era in atto e che l’Euroarea non si poteva considerare “non ottimale”. 23 Giuseppe Guarino ha lungamente dibattuto i difetti della costruzione europea, soprattutto dal lato giuridico. Due dei suoi scritti più recenti toccano l’argomento del Patto di stabilità e del Fiscal compact. Uno è Salvare l’Europa, salvare l’euro, Passigli, Bagno a Ripoli 2013; l’altro è Saggio di verità sull’Unione e sull’euro, Polistampa, Firenze 2014.

del dollaro24. Gli altri, con Ciampi – considerato leader di questo mutamento costituzionale dell’Italia – usavano lenti appannate da ideali europei tramutatisi in vere passioni, alimentate da speranze infondate.

Anche per uno degli aspetti principali dell’azione di Ciampi da Capo del Governo, quello di aver avviato un processo di privatizzazioni delle partecipazioni statali, l’obiettivo non era lo stesso dei monetaristi – quello d’ampliare l’area del mercato sottraendola a quella dell’intervento pubblico – ma aveva lo scopo di agire in profondità nella conduzione razionale dell’economia italiana, sottoponendola a un vincolo esterno più stringente di quelli accettati in passato con l’adesione al Fondo Monetario Internazionale e alla Comunità Europea. L’intento era quello di creare un Paese “migliore”, riducendo il condizionamento della politica sulla gestione delle risorse e preparando l’economia all’integrazione europea, anche monetaria25. Come per le altre decisioni, questa valutazione conteneva un’illusione che la Scuola di Public Choice della Virginia aveva evidenziato, ossia che la burocrazia europea potesse avere caratteristiche diverse da una normale burocrazia, quella d’esercitare un potere sulla collettività, invece di mettersi al suo servizio. Eppure questa interpretazione, per esplicita ammissione di uno dei fondatori, James Buchanan, sarebbe dovuta essere “di casa”, in quanto si ispirava alla Scuola economica di Torino, dove aveva svettato l’ingegno di Luigi Einaudi, in seguito Governatore della Banca d’Italia e primo Presidente della neonata Repubblica.

La conclusione dell’analisi qui condotta è che, quella che si può considerare una forzatura finalizzata al sogno europeo dei due modelli di riferimento economici usati da Ciampi, è innata nell’assetto istituzionale deciso per la sovranità monetaria europea; essa, infatti, è più vicina al neo-quantitativismo di quanto non sia al monetarismo, imprimendo alle scelte una continua oscillazione tra le finalità della stabilità monetaria e lo sviluppo reale. Essa non fa altro che ripetere l’eterno dibattito tra economisti – e quello tra loro e i policy maker – su chi determina chi e che cosa, nel quale l’Unione Europea e l’Eurosistema ancora si dibattono senza trovare una soluzione. Alcuni insistono che basti cambiare politica per consentire all’Unione Europea di rilanciarsi prima di tutto nelle coscienze; ma, se ciò accadesse, sarebbe una condizione necessaria, ma non sufficiente. Occorre modificare le istituzioni europee, dalla Banca Centrale di Francoforte, priva di uno Statuto che l’abiliti a competere con le più agguerrite colleghe del mondo; al Parlamento europeo, al quale andrebbe assegnato potere legislativo, per toglierlo dai giochi e dalle influenze dei Governi in ambito del Consiglio Europeo dei Capi di Stato e di Governo – la cosiddetta Europa intergovernativa; fino alla Commissione e alla relativa burocrazia, da porre al servizio dei cittadini europei nei limiti del possibile. Tutto ciò fu ignorato all’atto della creazione dell’Unione e dell’euro ma, nonostante gli errori allora commessi siano

24 Cfr. Paolo Savona-Carlo Viviani, L’Europa dai piedi di argilla… cit., come pure Giorgio La Malfa, L’Europa legata: i rischi dell’euro, Rizzoli, Milano 2000 e Martin Feldstein, EMU and International Conflict, “Foreign Affairs”, n. 6, November/December 1997 [https://www.foreignaffairs. com/articles/europe/1997-11-01/emu-and-international-conflict]. 25 Ho esaminato questa scelta nella memoria presentata al Convegno organizzato dal Ministero dell’Economia e della Finanza in occasione dell’intestazione a Ciampi della Sala della Maggioranza del Ministero in Via XX Settembre 79, sotto il titolo Linee di azione del Governo Ciampi in materia di politica dei settori industriali, in corso di pubblicazione. Si veda inoltre Paolo Savona, Un disegno di politica industriale mancato. Riflessioni sulle privatizzazioni del Governo Ciampi quindici anni dopo, “Economia Italiana”, n. 3, settembre-dicembre 2007, pp. 561-596.

oggi in gran parte riconosciuti, essi sono ancora strenuamente difesi da quelli che si autodefiniscono i veri europeisti, i quali volutamente ignorano che sono tali quelli che hanno raccomandato cautela e maggiore impegno per dotare la costruzione europea di basi più solide di quelle d’argilla sulla quale essa è stata fondata26 .

26 In chiusura ho voluto ripetere il termine usato nel mio L’Europa dai piedi di argilla… cit., come sintesi di un giudizio che avevo espresso in una memoria preparata per Guido Carli prima della firma del Trattato di Maastricht.

This article is from: