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Roberto Morozzo della Rocca

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Roberto Morozzo della Rocca

Cattolici italiani e Russia rivoluzionaria

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Nell’accostarsi ai rapporti fra cattolicesimo italiano e Russia rivoluzionaria va tenuta a mente una storia pregressa di sostanziale inimicizia tra Chiesa romana e Russia. L’identità della Russia zarista era connessa alla confessione cristiana ortodossa: nelle terre russe il cattolicesimo era considerato un elemento antistatuale e antinazionale. Inoltre il cattolicesimo era la fede dei polacchi, ovvero di tradizionali Erzfeinde che a loro volta, specularmente, disprezzavano l’ortodossia – graeca fides nulla fides. Limitazioni e divieti al cattolicesimo erano sempre stati drastici in Russia. Allorché le spartizioni settecentesche del grande Stato polacco-lituano fecero sì che nuovi territori ucraini e bielorussi fossero incorporati nei domini dei Romanov, fu precipitevole cura degli zar procedere a sopprimere le Chiese cattoliche di rito orientale presenti in quelle zone e a porre ostacoli alle attività dei cattolici latini1. Solo l’ortodossia aveva diritto alla protezione statale essendo la religione dell’impero – beninteso non era solo la religione dell’etnia russa ma per l’appunto la religione di Stato, essendo l’impero multinazionale e multietnico. Da secoli nei palazzi apostolici vaticani si guardavano Mosca e San Pietroburgo come avversarie e rivali sugli scenari dell’Europa orientale. E proprio alla vigilia della rivoluzione russa, nel 1916, la Santa Sede aveva eccezionalmente derogato alla sua linea di rigorosa neutralità nel conflitto europeo, col chiedere in segreto al kaiser tedesco d’impedire militarmente che la Russia riuscisse a impossessarsi di Costantinopoli. Si temeva che la Russia, assommando nei suoi

1 Su questo aspetto e sulla situazione del cattolicesimo nella Russia zarista del primo Novecento cfr. Roberto Morozzo della Rocca, Le nazioni non muoiono. Russia rivoluzionaria, Polonia indipendente e Santa Sede, Il Mulino, Bologna 1992; Antoine Wenger, Rome et Moscou: 1900-1950, Desclée de Brouwer, Paris 1987; Laura Pettinaroli, La politique russe du Saint-Siège (1905-1939), École Française de Rome, Rome 2015; nonché gli atti dei due convegni organizzati dal Pontificio Comitato di Scienze Storiche e dall’Istituto di Storia Universale dell’Accademia Russa delle Scienze a Mosca nel 1998 e a Vienna nel 2001: Santa Sede e Russia da Leone XIII a Pio XI. Vol. I, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2002 e (a cura di Massimiliano Valente) Vol. II, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006. Sul cattolicesimo nell’impero zarista dopo le spartizioni settecentesche della Polonia, che accrebbero enormemente il numero dei cattolici sudditi dei Romanov, si vedano le opere dei due gesuiti Pierling e Boudou e, per contrasto, quella del procuratore del Santo Sinodo dell’ortodossia russa, Tolstoj: Paul Pierling, La Russie et le Saint-Siège: etudes diplomatiques, 5 voll., Plon-Nourrit, Paris 1896-1912; Adrien Boudou, Le Saint-Siège et la Russie. Leurs relations diplomatiques au XIX siècle, 2 voll., Librairie Plon, Paris 1922 e Editions Spes, Paris 1925; Dmitrii A. Tolstoj, Le Catholicisme romain en Russie, 2 voll., Dentu, Paris 1863-1864.

domini la Terza Roma – Mosca – e la Seconda Roma – Costantinopoli – prevalesse sulla Prima Roma2 . I vertici vaticani, è stato giustamente osservato, lavoravano sin dall’inizio del conflitto a scenari di pace basati «su un accordo di massima fra i belligeranti sul fronte occidentale ed una netta affermazione austro-tedesca su quello orientale», ciò che rispondeva

ai particolari interessi della Chiesa cattolica. Una pace negoziata ad ovest avrebbe rappresentato la salvaguardia degli equilibri fra il blocco franco-inglese e la Germania, mentre la parziale realizzazione degli obiettivi di guerra italiani non si sarebbe risolta in un’umiliazione per l’Austria-Ungheria. Per contro una vittoria schiacciante sulla Russia eliminava i pericoli dell’espansionismo ortodosso e consentiva la formazione di un Regno polacco unito alla corona asburgica o inserito nell’orbita tedesca. L’impero zarista appare come il vero ‘nemico’ della Santa Sede o comunque il belligerante di cui si augurava il maggior ridimensionamento possibile, certo quello a cui far pagar il peso delle compensazioni territoriali che dovevano inevitabilmente servire a trovare una via d’uscita soddisfacente e onorevole per tutti gli altri. Alle vessazioni inflitte da decenni al cattolicesimo polacco e al ferreo giogo imposto alle comunità cattoliche russe, si erano aggiunte di recente le persecuzioni religiose nella Galizia invasa, tese a sradicare la chiesa uniate e ad imporre il passaggio dei fedeli all’ortodossia, subito dichiarata religione di Stato3 .

I sentimenti russofobici caratterizzavano specificamente gli ambienti della Santa Sede ma il cattolicesimo italiano, cattolicesimo papale assai più di altri cattolicesimi nazionali, tanto da non conoscere episcopalismi e gallicanesimi, ne era fortemente influenzato. Conviene dunque, prima di parlare di cattolici italiani e Russia rivoluzionaria, trattare di Santa Sede e Russia rivoluzionaria. Il barone Carlo Monti, ufficioso ambasciatore italiano presso la Santa Sede durante la prima guerra mondiale, munito nel suo delicato compito di un’antica amicizia con Giacomo Della Chiesa, registra passo passo nei suoi diari gli umori vaticani nei confronti della Russia rivoluzionaria. Annota Monti il 19 marzo 1917, allorché giungono a Roma da Pietrogrado – come San Pietroburgo era stata rinominata per essere meno germanica nel nome – notizie meno frammentarie di quelle avutesi nei giorni precedenti:

Il cardinale [Gasparri, Segretario di Stato,] quanto [alla] rivoluzione russa, dopo avermi fatto constatare l’esattezza, la lealtà delle informazioni datemi, dice che, per parte della Santa Sede, non si può che presagire bene per la religione cattolica: la situazione dei cattolici era intollerabile in Russia e la libertà, quindi, proclamata dal nuovo governo, non può che giovare ai cattolici. Teme che il movimento vada più in là e che, eliminata la dinastia, si vada alla repubblica4 .

2 Cfr. Gabriele Paolini, Offensive di pace. La Santa Sede e la prima guerra mondiale, Fondazione Spadolini Nuova Antologia-Edizioni Polistampa, Firenze 2008, pp. 111-113 e Roberto Morozzo della Rocca, Benedetto XV, Costantinopoli: fu vera neutralità?, “Cristianesimo nella Storia”, n. 14 1993, pp. 375-384. 3 Gabriele Paolini, Offensive di pace… cit., pp. 105-106. 4 Antonio Scottà, La conciliazione ufficiosa. Diario del barone Carlo Monti incaricato d’affari del governo italiano presso la Santa Sede (1914-1922). Vol. I, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1997, p. 56.

Analogo giudizio positivo sugli eventi rivoluzionari in Russia per la Chiesa romana, insieme a rilievi politici e militari contingenti, ribadisce Gasparri a Monti pochi giorni dopo:

Sua eminenza dice che la Russia anelava certamente alla pace separata e che, quindi, Inghilterra e Francia, anche per mezzo dei loro ambasciatori, hanno lavorato per effettuare il movimento rivoluzionario, che in fondo si deve all’opera loro. Gli eventi però hanno preso loro la mano e, se non si provvede, sembra difficile che le cose non precipitino e non si vada alla repubblica, a meno che le popolazioni rurali, devote allo zarismo, non insorgano: l’arresto dello czar e della famiglia imperiale, secondo il cardinale, è stato un errore. Per quanto riguarda la Santa Sede, il cambiamento avvenuto in Russia non può che essere favorevolmente considerato: la libertà religiosa che è stata proclamata toglierà [quei] vincoli che hanno reso insopportabili le condizioni dei cattolici in Russia, cui non era consentito neppure di erigersi una cappella; senza poi dire che il cambiamento rende sempre più problematica l’annessione di Costantinopoli, che il Vaticano auspica possa diventare città libera. Sua eminenza ritiene quindi che, per quanto riguarda la guerra, il nuovo stato di cose non può che giovare all’Italia, non essendo improbabile che la Germania ne approfitti per attaccare a fondo la Russia5 .

Il Segretario di Stato riceveva in quei giorni le prime informazioni e impressioni dai cattolici nel mondo russo, il cui tenore può ben essere espresso dal giudizio che si leggeva ad esempio in una memoria del domenicano Jean Joseph Schumpp da Pietrogrado: «Quale sarà il risultato di questo cambiamento? È ancora troppo presto per dare una risposta definitiva, ma si può dire sin d’ora che per la Chiesa cattolica le cose non possono essere peggiori di quanto lo sono state sotto l’impero»6 . Per Gasparri, la rivoluzione russa era un «soffio aures»7, una grazia improvvisa e inattesa per le sorti del cattolicesimo nell’Oriente europeo. Secondo il Segretario di Stato, l’impero russo si sarebbe avviato «al suo disfacimento, locché è del resto naturale, essendo esso troppo grande»8. In ogni caso, i rivolgimenti in Russia erano occasione per Gasparri per ritornare più volte con Monti su un punto con lui già ampiamente trattato negli anni precedenti, ovvero quello che era stato il cauchemar del Vaticano, l’impegno dell’Intesa

5 Ibid., p. 61. Gasparri avrebbe sempre mantenuto fermi i suoi primi giudizi sulla Russia rivoluzionaria. Da lui, alla fine del suo mandato, il 4 gennaio 1922, Monti raccoglierà un’ultima valutazione positiva degli eventi rivoluzionari. A quest’epoca già c’erano state persecuzioni religiose nella Russia bolscevica, e non solo ecclesiastici e fedeli ortodossi erano stati messi a morte ma anche cattolici. Eppure Gasparri ancora si rallegrava della caduta dello zarismo: «Per attrarre la Russia, le era stato promesso tutto ciò che voleva: rettifiche naturali dei confini nella parte occidentale, Francoforte etc. Costantinopoli colla padronanza degli stretti: condizioni queste che avrebbero portato un colpo durissimo al cattolicesimo in Oriente, tanto da eliminarlo, in pochi anni, col trionfo dell’ortodossia […]. Ma la Provvidenza ha vegliato, ed il governo czarista, persecutore del cattolicesimo, è caduto e il mostruoso progetto è andato in fumo» (ibid., p. 570). 6 Memoria conservata negli archivi vaticani e precisamente in Segreteria di Stato, Sezione per i Rapporti con gli Stati, Archivio Storico, Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari, Russia, s.d., Pos. 935, Fasc. 315, f. 82v. 7 Antonio Scottà, La conciliazione ufficiosa… cit., p. 89. 8 Ibid., p. 71.

con la Russia circa Costantinopoli, affinché motivasse al governo italiano l’opportunità di annullare definitivamente tali impegni9 .

Più pensoso era il giudizio sulla Russia rivoluzionaria di Benedetto XV, che accanto alle prospettive favorevoli per il cattolicesimo non nascondeva, parlando con Monti il 5 aprile 1917, timori per le vicende politiche del grande paese slavo: «Ritiene che il movimento russo gioverà alla libertà della chiesa cattolica fin qui conculcata. Se le cose si manterranno sulla via della moderazione. Ma chi può prevedere cosa uscirà dalla costituente: il ritorno dei Romanov e del governo assoluto? La repubblica?»10 .

Nell’insieme, la Santa Sede ha un giudizio favorevole sul governo provvisorio scaturito dalla rivoluzione di Febbraio, che fra l’altro libera il metropolita Szeptyckyj, capo dei greco-cattolici ucraini con speciali facoltà pontificie per i territori russi11, e consente ai cattolici latini di colmare i vuoti di governo nelle loro diocesi, col ritorno di vescovi esiliati o nuove nomine consentite senza intromissioni, ciò che era inimmaginabile sotto il potere zarista. Sia i cattolici di rito orientale sia i cattolici di rito latino ricostituiscono così la loro gerarchia sul territorio russo, premessa per una rinnovata presenza pubblica. Sa bene, la Santa Sede, che la situazione politica in Russia è fluida, e non a caso il governo si chiama “transitorio”. Pertanto si affretta a profittare della inedita libertà religiosa. A Roma l’avvenire russo appare di difficile gestazione e decifrazione. Si nota la crescente anarchia, e anzi Gasparri, a inizio giugno, definisce in privato la situazione in Russia come di «completa anarchia»12, formula che tra varie sfumature d’ora in poi farà da sfondo all’interpretazione vaticana della Russia rivoluzionaria. Ma intanto ci si rallegra dello scampato pericolo di una Russia vittoriosa e padrona di Costantinopoli. Si osserva nel luglio 1917 in una ponenza per l’esame congiunto della situazione russa da parte della Segreteria di Stato e di Propaganda Fide:

Certo, se il tramontato impero degli Czars, fosse riuscito ad ottenere il dominio di Costantinopoli, esso avrebbe nominato un Patriarca per detta città, il quale, con nome di Patriarca di Bisanzio, sarebbe divenuto il capo supremo di tutte le Chiese orientali ed il temibile antagonista del Romano Pontefice: in tal caso, il titolo ed il prestigio storico degli antichi patriarchi di Bisanzio avrebbe supplito al valore personale del patriarca nominato. Sembra, ad ogni modo, che la Provvidenza divina abbia sventato per ora tale disegno, che anzi il momento attuale è l’unico – a giudizio di molti – per ottenere dei vantaggi a favore della Chiesa cattolica13 .

Il dato che domina le analisi romane è il collasso zarista. Il resto, ossia quanto viene interpretato come caos, anarchia, enigmatico avvenire, sembra secondario rispetto a quello

9 Ibid., p. 74. Gasparri tornava su questo punto pochi giorni dopo, prendendo spunto dal fatto che il governo provvisorio russo aveva dichiarato di non essere interessato a Costantinopoli, atto di cui l’Intesa avrebbe dovuto a suo avviso profittare per cancellare gli accordi presi sulla questione. 10 Ibid., p. 64. 11 Cfr. Cyril Korolevskij [J. F. J. Charon], Métropolite André Szeptyckyj, 1865-1944, s.n., Rome 1964 e Roberto Morozzo della Rocca, Le nazioni non muoiono… cit. 12 Antonio Scottà, La conciliazione ufficiosa… cit., p. 109. 13 Ponenza a stampa su Russia. Interessi religiosi, della Congregazione mista della Propaganda Fide per gli affari di rito orientale e degli Affari Ecclesiastici Straordinari del luglio 1917, p. 29, in Segreteria di Stato, S.RR.SS., Archivio Storico, AA.EE.SS., Rapporti delle Sessioni, 1917, Sessione 1207, Stampa 1044, foglio 7 della stampa.

che pare l’avvenimento epocale. Non aveva Pio X confidato a von Pastor di considerare la Russia zarista «comme la plus grande ennemie de l’Église»?14. Tanta era l’avversione per la Russia dei Romanov da non immaginare che nell’immenso paese potessero installarsi poteri peggiori, per la religione cattolica, di quelli appena tramontati. Del bolscevismo, e tanto meno dello stalinismo, non si poteva ancora avere cognizione.

Durante l’estate del 1917 tuttavia un’ombra si posa sulle relazioni fra Santa Sede e nuova Russia post-zarista. Con ogni evidenza, le visioni internazionali della Santa Sede non possono farsi modificare d’improvviso da un evento rivoluzionario che doveva ancora dimostrare di non essere accidentale e contingente. Parimenti può dirsi per la geopolitica europea nel suo complesso. Accade così che nelle proposte di pace di Benedetto XV la Russia venga trattata come lo sarebbe stata nei precedenti anni di guerra, cioè come una potenza da ridimensionare, alla quale, come già si è accennato, far pagare il prezzo della pace sul fronte occidentale15. Nella Nota di pace del pontefice del 1° agosto 1917, preparata anche con richieste all’incaricato d’affari russo presso la Santa Sede di far valere presso l’Intesa il «desiderio di pace» del governo di Pietrogrado16, mancano accenni alla Russia. In una prima bozza c’era un riferimento alla restituzione del territorio russo occupato dai tedeschi. Questo cenno cade nel documento definitivo dove esiste invece un richiamo alla «sistemazione» secondo «spirito di equità e giustizia» delle questioni «territoriali e politiche» relative ai «paesi facenti parte dell’antico Regno di Polonia», termine a indicare non solo la Polonia etnica ma una vasta parte dei territori occidentali della Russia già zarista.

Con questo la Santa Sede diceva che tali territori non erano destinati a restare sotto il governo russo quale esso fosse. Di fatto, la Nota costituiva una presa di posizione netta contro la restaurazione del potere russo in Lituania, Lettonia, Polonia, Bielorussia, Ucraina occidentale. Naturalmente il governo di Pietrogrado fu deluso e amareggiato dalla Nota. Il piano di pace del pontefice prevedeva che gli Imperi centrali facessero concessioni territoriali e politiche all’Intesa affinché questa accettasse di stipulare la pace. Non era detto esplicitamente nella Nota cosa gli Imperi centrali avrebbero ricevuto in cambio ma era evidente che le loro compensazioni, nell’inevitabile do ut des per chiudere le ostilità, erano da trovarsi nell’Est europeo.

Alla data della Nota di pace già prevaleva a Roma l’immagine di una Russia preda di anarchia e conati rivoluzionari e di cui occorreva attendere la fine per avere un’idea chiara della situazione e di cosa fare per il cattolicesimo sugli scenari del grande paese. Questa impressione di caos, in realtà, si prolunga per anni, almeno sino al 1920. Lo dicono a Roma le varie fonti di cui la Santa Sede dispone. Il vescovo di Minsk elenca «la fame, la violenza, il disordine ed il terrore»17. Il visitatore apostolico in Polonia, Achille Ratti, asserisce che «a Pietrogrado dev’essere Babilonia completa»18. Un prete francese dalla Russia meridio-

14 Ludwig von Pastor, Tagebücher, Briefe, Erinnerungen (1854-1928), Kerle, Heidelberg 1950, p. 584. 15 Cfr. la citazione di cui alla n. 3. 16 Cfr. i materiali in Archivio della Segreteria di Stato vaticana, Stati Ecclesiastici, b. 216 (I), tra cui una nota di Gasparri sul colloquio con l’incaricato d’affari russo presso la Santa Sede del 17 luglio 1917, in Segreteria di Stato, S.RR.SS., Archivio Storico, AA.EE.SS., Stati Ecclesiastici, 1917, Pos. 1317, Vol. I, f. 3v. 17 Cfr. dispaccio di Ratti del 29 giugno 1918 con notizie dal vescovo di Minsk, Sigismondo Lozinski, ibid., Polonia, 1918, Pos. 70, Fasc. 44, ff. 46r-51v. 18 Dispaccio di Ratti del 5 settembre 1918, ibid., Pos. 78, Fasc. 51, ff. 53r-57v.

nale avvisa che il popolo russo è «un popolo in delirio senza distinzioni di opinione», cioè indipendentemente dall’essere a favore dei rossi o dei bianchi19. E così via. Una profluvie di notizie e commenti che insistono sulla crudeltà e barbarie bolscevica giunge a Roma da fonti polacche, con chiaro intento propagandistico antirusso.

Nel gennaio 1918 Eduard de Ropp, aristocratico baltico-polacco, arcivescovo della sterminata diocesi di Mohilev20, virtualmente il primate cattolico latino di Russia, descrive a Benedetto XV

la disparition complète de tout ordre moral, la négation de toute loi divine et par suite, l’anarchie, qui non seulement a envahi l’état, mais qui envahit de plus en plus les âmes de notre pauvre peuple, peu éclairé et mené presque de force à faire l’injustice et le mal! […] Les quasi loix émises par les comunards tâchent de détruire dans le peuple toute notion de propriété et le poussent à des actes de vol, de pillage et destruction.

De Ropp conclude: «Un pays, où la civilization occidentale portée par la Pologne reigne encore, est laissé à la destruction des sauvages orientaux»21 . De Ropp guardava al mondo russo con il disprezzo del patriota polacco. Ma anche Ratti, provvisoriamente incaricato da Roma di supervisionare gli affari religiosi russi, non era confortante: la Russia era «tenebrosa e impenetrabile» come sempre era stata22. Per tre anni, le informazioni che giungono a Roma, oneste, strumentali o manipolate che siano, parlano di un paese russo alla deriva.

La fase rivoluzionaria bolscevica viene interpretata a Roma – non diversamente, va detto, che nel resto dell’Occidente – come l’ennesima agonica convulsione del tormentato mondo russo, cui altre sarebbero seguite. Pertanto non si spendono sull’Ottobre russo le tante parole del precedente Febbraio. A Roma il crollo dello zarismo aveva suscitato emozione, l’avvento di Lenin avviene invece nell’indifferenza. La presa del potere bolscevica non pare affatto, alla Santa Sede, un evento preconizzante nuovi sviluppi storici. A Roma si supponeva che il regime dei soviet fosse un altro governo provvisorio, che a sua volta sarebbe caduto vittima dell’anarchia. I bolscevichi giunti al potere erano visti inizialmente come folli utopisti e banditi senza Dio, inabili a governare, senza radici nell’anima russa. Per questo, oltre che per oggettive difficoltà logistiche, i contatti diplomatici con il potere bolscevico sono scarni e rari23. Né, per contrappunto, si cercano intese con i controrivoluzionari bianchi. Questi erano partigiani del vecchio regime persecutore del cattolicesimo. Cosa fare allora? Si attende. Si raccolgono informazioni. Si cerca di garantire le attività religiose sul territorio russo come meglio si può. D’altra parte ciò che a Roma interessa non è in ultima analisi la sfera politica – la Russia scelga pure il governo che le piace, che sia di L’vov, di Kerenskij o di Lenin non importa. Ciò che preme è piuttosto una stabilizzazione della libertà religiosa.

19 Relazione di Ferdinand Renaud dell’11 aprile 1919, ibid., 1919, Pos. 977, Fasc. 346, ff. 62r-71v. 20 L’arcidiocesi di Mohilev, la cui curia era tradizionalmente a San Pietroburgo, guidava come sede metropolitana una provincia ecclesiastica che copriva le immensità dell’impero russo, eccetto le terre polacche degli zar, provviste di un’altra provincia ecclesiastica. Che Mohilev fosse una cittadina bielorussa lontana dai centri del potere indicava l’emarginazione del cattolicesimo in Russia. 21 Lettera di de Ropp, 14/27 gennaio 1918, ibid., 1918, Pos. 979, Fasc. 347, ff. 34r-37r. 22 Dispaccio di Ratti del 30 novembre 1919, ibid., 1919, Pos. 1010, Fasc. 365, ff. 44r-45r. 23 Cfr. Roberto Morozzo della Rocca, Le nazioni non muoiono… cit.

Un certo grado d’attenzione per i bolscevichi si ha quando essi, a fine 1917, rendono pubblici i termini del Patto di Londra, comprensivi all’art. 15 dell’esclusione della Santa Sede dai negoziati di pace postbellici. Nei palazzi apostolici s’inizia a pensare che i bolscevichi non sono dei dilettanti e le loro mosse hanno un peso nella politica internazionale. Ma deve passare ancora un anno prima che Gasparri, il 12 gennaio 1919, rilevi «che la questione russa è preoccupante e che il bolscevismo è più forte di quanto comunemente si ritenga»24. Fino ad allora in Vaticano si era ritenuto inimmaginabile, secondo il corso naturale delle cose, che le rivoluzioni durassero e non si trasformassero in regimi più o meno moderati e ragionevoli. E dunque a commento delle convulsioni russe vi sarebbe stato solo da osservare la necessità d’attenderne l’esaurimento, prima di riflettere con cognizione di causa sui destini della Russia e della sua vita religiosa. In ogni caso, nei cinque anni del pontificato di Benedetto XV coincidenti con l’epoca rivoluzionaria in Russia, Roma non coltivò grandi sogni sull’immenso paese, non progettò una sostituzione dell’ortodossia col cattolicesimo, non si lanciò nel proselitismo. Non mancavano voci che chiedevano la conquista religiosa della Russia, specie provenienti dagli ambienti cattolici latini polacchi e da quelli greco-cattolici ucraini, rappresentativi di linee rivali sul proselitismo in Russia, e del resto polacchi e ucraini si fronteggiavano allora bellicosamente per il possesso di Leopoli e della Galizia orientale, o Ucraina occidentale. Ma Roma preferiva procedere cautamente a risollevare e rincuorare le disperse comunità cattoliche esistenti nel mondo russo, ricostituendo le strutture canoniche e ristabilendo legami diretti di comunione, piuttosto che lanciarsi in una crociata confessionale fondata sul crollo della rivale Chiesa ortodossa.

D’altra parte una crociata avrebbe avuto necessità di condottieri e truppe che invece mancavano: le comunità cattoliche nel mondo russo, tra l’altro composte da genti non russe, erano frammentate e deboli. La linea vaticana è già tracciata nell’esame collegiale che la Curia romana dedica alla Russia il 15 luglio 1917, avvertendo il «momento unico» in cui si trova il cattolicesimo in Russia per «ottenere vantaggi»25. Questa espressione, «ottenere vantaggi», è da sottolineare: si è lontani da sogni di conquista cattolica del grande paese slavo. Semplicemente le circostanze storiche sembrano improvvisamente favorevoli al miglioramento delle condizioni della Chiesa romana in Russia.

Vari fattori spingevano Roma a una politica religiosa la più cauta possibile. I cambiamenti politici si palesavano vieppiù radicali mentre il comunismo rivelava gradualmente la sua forza e il suo disegno d’egemonia. Le lotte di nazionalità infiammavano l’Oriente europeo, e scontri e guerre si susseguivano senza posa in tutto l’ex impero degli zar. Sembrava a Benedetto XV, pur idealmente legato all’unionismo di Leone XIII, non fosse tempo di pensare a epocali riconciliazioni religiose nel segno dell’unico ovile e unico pastore, né tantomeno a conversioni di massa come taluno chiedeva di favorire. Si trattava piuttosto, secondo il papa, di pacificare gli animi, e di concentrare realisticamente l’azione religiosa sul riordino di quelle strutture ecclesiastiche che era possibile restaurare grazie alla libertà religiosa, sostanziale o formale che fosse. Soltanto in seguito sarebbe stato possibile passare a progetti organici per determinare nuove sorti religiose di questa parte dell’Europa. Fase ulteriore che non sarebbe mai venuta. Il bolscevismo infatti prevaleva nella guerra

24 Antonio Scottà, La conciliazione ufficiosa… cit., p. 421. 25 Secondo la già citata ponenza a stampa su Russia. Interessi religiosi, cit.

civile e si consolidava anche nel segno della lotta antireligiosa. E Benedetto XV moriva il 22 gennaio 1922.

Ma intanto il cattolicesimo italiano, così papale, cosa pensava degli eventi russi? La stampa cattolica di questi anni, pur diversificata nelle ispirazioni, non presenta ambiguità. Le sue analisi, esatte o meno esatte che siano, non tradiscono emotività. La Russia è lontana, gli interessi cattolici vi sono marginali. Ciò che preme capire, sin dai rivolgimenti di febbraio, sono innanzitutto le ripercussioni sulla guerra. La Russia resta un’alleata? Intende continuare a combattere con vigore? Successivamente, con l’avvento dei bolscevichi non più disposti a continuare la guerra, vengono a porsi questioni d’altra indole, meno contingenti, sulle sorti interne del grande paese e sui suoi destini religiosi. Infine nel 1919, a conflitto concluso, la rivoluzione russa diviene un mito del socialismo massimalista che influenza la lotta politica interna, in Italia come in altri paesi, e come tale viene confutato dai cattolici.

Nel marzo 1917, sin dalle prime informazioni provenienti da Pietrogrado, nessun foglio cattolico rimpiange lo zar, anzi è generale il compiacimento per la sua caduta. “La Civiltà Cattolica” rinfaccia ai governi dell’Intesa e all’opinione liberale le lodi fino al giorno prima rivolte a Nicola II, che renderebbero incongruente il plauso ora rivolto alla rivoluzione, interpretata come scossa patriottica foriera di più incisivo impegno bellico. La polemica è in certo senso fine a se stessa: il Padre Enrico Rosa che si occupa degli eventi russi non può non comprendere le ragioni strategiche sottese alle precedenti lodi allo zar. Il gesuita ammette del resto di non voler discorrere «dei casi della rivoluzione russa che non conosciamo ancora, se non parzialmente», bensì di quanto se ne dice nei paesi dell’Intesa26. Gli preme in effetti soprattutto affermare un principio, e cioè che ogni rivoluzione è un male, derivato da altri mali: «lo scoppio inesorabile delle rivoluzioni è preparato ora, da lunga mano, nella ribellione preparata dal liberalismo, socialismo, radicalismo e dalla massoneria dominante, sfruttatrice di tutti i partiti nemici di Dio e della Chiesa»27 .

Sarebbero i «principii di laicismo» a fomentare le rivoluzioni, e la verità sull’ultima di esse, quella russa, stava nelle colpe degli zar:

la dinastia caduta segnò la presente sua condanna – oltreché mediante la persecuzione religiosa, di tempo in tempo inasprita fino alle crudeltà di Nicola I, e la politica subdola, ingannatrice di tradizione – sopra tutto con l’approvazione, la partecipazione o l’acquiescenza al regicidio di Belgrado, ed ultimamente a quello di Sarajevo che fu la miccia esiziale della guerra. Dalla Russia mosse poi la scintilla prima, della mobilitazione28 .

Padre Rosa scagionava gli Imperi centrali dall’aver provocato la guerra. Non era, sia detto per inciso, la linea ufficiale della Santa Sede che sulle origini del conflitto non intendeva esprimersi.

Tanto giudizio negativo sulla rivoluzione russa, vista come inesorabile conseguenza dei «falsi principii» degli Stati moderni e della loro «apostasia sociale da Dio e dalla sua Chie-

26 Enrico Rosa, Il trionfo della rivoluzione nella guerra, “La Civiltà Cattolica”, 21 aprile 1917, pp. 129-142, articolo raccolto dall’autore nello stesso anno con altri suoi interventi sulla rivoluzione russa nell’opuscolo La rivoluzione e la guerra, Civiltà Cattolica, Roma 1917. 27 Enrico Rosa, Il trionfo della rivoluzione… cit. 28 Ivi.

sa»29, era tuttavia in contraddizione con fatti concreti come la concessa libertà religiosa e la liberazione di ecclesiastici cattolici prigionieri sotto lo zar, o le critiche del governo provvisorio alla politica espansionista di Nicola II. Padre Rosa se ne doveva fare una ragione, ed infatti il 30 giugno 1917 su “La Civiltà Cattolica” plaudiva improvvisamente ai «despoti democratici» che in Russia andavano riconoscendo errori e misfatti del passato regime, offrendo a tutti i governi

una lezione di sincerità: il nuovo governo, sia pure per rappresaglia contro l’antico ordine di cose, riconosce i torti della Russia, come nazione e come governo, e ne denunzia le ingiuste pretensioni su Costantinopoli agognata, su l’Armenia dissanguata, su la Polonia oppressa e via via. La sincerità si mostra tanto più lodevole, quanto più singolare, anzi unica in tempo di guerra. Questa lezione ha un grande valore morale ed un valore storico di prim’ordine, massime per i belligeranti più ritrosi alle simili confessioni […]. Conseguente a questa prima lezione, di sincerità storica, è quella che potremo dire di lealtà morale, se verrà confermata dai fatti: la rinunzia o il proposito di rinunzia della nuova Russia a tutte le ingiuste pretensioni imperialistiche del precedente governo […] specialmente con la vibrata formula della “pace senza contribuzioni e senza indennità” […]. Assai meglio ci giova sperare, ove sia sincera, dalla terza lezione, che è di libertà religiosa, promessa anche alla vera Chiesa di Cristo. In questo la rivoluzione russa, se pure non ci giungono troppo monche o falsate le notizie, dà finora un buon esempio all’anticlericalismo e al giacobinismo di certi governi e si avvantaggia di gran lunga su le precedenti rivoluzioni, massimamente su quella francese. [Essa] non esclude dal diritto comune, dall’uso delle libertà, il cattolicismo e i cattolici, non li perseguita finora coi bandi, con le stragi, con le calunnie, come in Francia; e poiché i cattolici, in quanto tali, prescindono dalla forma di governo, sia monarchico o popolare, e possono adattarsi a tutte le necessarie condizioni sociali, sia di affrancamento politico sia di rivolgimento economico dei popoli, il nuovo ordine di cose potrà anche preludere ad un vivace rinnovamento religioso30 .

Meno ideologica, più compenetrata dei fatti reali, patriottarda e intesista, “La Rassegna Nazionale”, espressione del conservatorismo cattolico di tendenza transigente31, a inizio aprile ’17 inquadra lucidamente il contrasto fra il governo provvisorio, liberal-borghese, e i comitati degli operai e dei soldati a guida socialista, o soviet. Prevarrà la moderazione? Questa la domanda che la rivista si pone per settimane, accentuando via via una prospettiva pessimista sulla tenuta dei moderati a fronte degli «elementi più rivoluzionari». Analogo scetticismo manifestava la rivista sull’altro aspetto degli eventi russi d’interesse maggiore, ossia la capacità del governo provvisorio di mantenere i livelli prerivoluzionari di mobilitazione bellica. Il 16 giugno 1917 la rivista ritiene

non si debba fare ancora soverchia illusione […] sulla presunta organicità e combattività delle truppe. Lo spirito belligero di queste ci sembra tutto confidato all’energica propaganda del Kerensky;

29 Enrico Rosa, La rivoluzione russa e le sue lezioni politiche, “La Civiltà Cattolica”, 30 giugno 1917, pp. 22-33. 30 Ivi. 31 Cfr. Ornella Confessore, Conservatorismo politico e riformismo religioso. La “Rassegna Nazionale” dal 1898 al 1908, Il Mulino, Bologna 1971; nonché Glauco Licata, La “Rassegna Nazionale”: conservatori e cattolici liberali italiani attraverso la loro rivista (1879-1915), Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1968.

ma per grande che sia l’eloquenza di questo ministro socialista, dubitiamo assai che le sue parole, appunto perché di un socialista ministro, abbiano sulle masse rivoluzionarie il prestigio necessario32 .

Fallita l’offensiva di Kornilov in luglio, “La Rassegna Nazionale” osserva:

Il partito estremista russo più che colle intimidazioni e coi torbidi che facilmente si possono reprimere, ha fin da principio preso il sopravvento sul governo provvisorio strappandogli la promessa della pace senza annessioni e contribuzioni, e della revisione dei fini di guerra degli alleati. Finché il popolo russo e l’esercito reclameranno questi due postulati, Kerensky non potrà essere né il Dittatore né il capo di un comitato di salute pubblica33 .

Non stupisce siano i conservatori de “La Rassegna Nazionale”, spesso d’estrazione nobiliare, a lanciare in settembre una diversa percezione della sorte dello zar e della famiglia imperiale prigioniera, invocando a loro riguardo un «sentimento di umanità»34. Senza modificare il giudizio storico negativo sull’autocrazia zarista, Nicola II e familiari vengono via via presi a cuore dall’opinione cattolica, saldamente monarchica. Quasi un anno dopo, nell’agosto 1918, la Santa Sede, ignara delle già avvenute esecuzioni di Ekaterinburg, ne chiederà il rilascio alle autorità bolsceviche, non ottenendo che derisione35 .

A inizio ottobre “La Rassegna Nazionale” nota come Kerensky sia stretto fra «le tendenze controrivoluzionarie di certi capi militari e le imposizioni sempre più accentuate del partito operaio»36. Il 16 novembre si registra il successo bolscevico e pare quasi vana, al periodico, ogni nuova analisi del processo rivoluzionario:

è sopravvenuta la nuova crisi russa con l’avvento del ‘Soviet’ ossia del massimalismo al potere. Non sappiamo il retroscena di questo movimento che compie il ciclo della rivoluzione, né sappiamo qual base esso sia per avere nell’intero paese. Si è parlato tanto di dissidî, di minacce, di reazione, di conseguenti moti convulsivi, che non sappiamo ormai spogliarci di un’impressione fondamentale, che cioè tali dissidî e tali lotte siano più apparenti che reali37 .

Per aggiungere due settimane dopo, con pari rassegnazione interpretativa, che dopo il prevalere dei soviet «l’eco degli avvenimenti russi ci giunge così incompleta e confusa che ancora non è lecito farsi nessuna idea concreta sullo svolgimento ulteriore della azione rivoluzionaria in merito alla guerra e alla pace», tema cui più ansiosamente guardano i lettori del periodico38 .

Interessanti sono i commenti alla rivoluzione russa de “L’Azione”, il quotidiano cattolico cremonese che esprime le vedute del movimento cattolico delle leghe bianche di Miglioli e più in generale del cattolicesimo militante antiliberale. Le prime notizie su Pietrogrado senza lo zar insistono sull’insoddisfazione del popolo russo per come la guerra era condot-

32 “La Rassegna Nazionale”, 16 giugno 1917, p. 328. 33 Ibid., 1-16 agosto 1917, p. 273. 34 Ibid., 1 settembre 1917, p. 71. 35 Cfr. Roberto Morozzo della Rocca, Le nazioni non muoiono… cit., pp. 110-114. 36 “La Rassegna Nazionale”, 1 ottobre 1917, p. 238. 37 Ibid., 16 novembre 1917, p. 156. 38 Ibid., 1 dicembre 1917.

ta dal deposto governo. I russi si sarebbero ribellati all’autocrazia per la sua «debolezza di fronte ai bisogni molteplici e ineluttabili della guerra», anzi per il boicottaggio dell’impegno bellico: «Il Governo frapponeva continui ostacoli alla vittoria, rifiutando macchinari e fondi, provocando la chiusura di stabilimenti», mandando soldati soltanto armati di bastoni contro artiglieria pesante e micidiali mitragliatrici germaniche. A questo riguardo “L’Azione” echeggia la stampa dei paesi dell’Intesa che inizialmente, come accennato, in una prospettiva di propaganda bellica, trascura il rigetto della guerra da parte dei soldati e della società russa e invece accoglie la rivoluzione come un sussulto di volontà belligerante del popolo, rovesciando sul passato regime l’accusa del peggiore disfattismo39. Il giornale, che lavora su notizie di agenzia, riesce però a distinguere nella rivoluzione di Pietrogrado «due moti»: il popolare causato dalle privazioni e dalla fame, il borghese causato dalla fiacca condotta della guerra. Quindi rileva che la rivoluzione è «venuta a un compromesso tra l’elemento borghese e l’elemento popolare», che solo l’annunciato esercizio del suffragio universale, cui si plaude come democratica premessa di un «luminoso destino», potrà sciogliere nell’uno o nell’altro senso40 .

Il quotidiano lombardo non tace, nell’insieme, le simpatie per quanto sta avvenendo a Pietrogrado, vedendo romanticamente nella rivoluzione la vittoria della Russia di Tolstoj, della letteratura vibrante di misticismo, dei figli dei nobili fattisi populisti, delle donne sacrificatesi per l’istruzione popolare, dei generosi da mezzo secolo intenti a sfidare l’autocrazia in nome della giustizia. Significativa la polemica con Filippo Crispolti che sul “Cittadino” di Genova aveva paragonato la rivoluzione russa alla rivoluzione francese: «Diciamolo pure: i motivi ideali ed etici della rivoluzione russa appaiono più alti e più puri di quelli di molte rivoluzioni occidentali»41. Con certa vena di profezia il giornale ritiene in aprile che la rivoluzione russa, della quale taluni predicevano un consolidamento, «rivela, invece, come agiscano in Russia delle forze formidabili e profonde che manifestamente sospingono le cose verso un indirizzo assai più radicale. Anzi dobbiam dire che chi ha preparata ed ha fatta la rivoluzione non ha ancora manifestato tutto il suo intimo pensiero e tutta la sua verace volontà»42 .

In giugno “L’Azione”, con sguardo retrospettivo, osserva che tante precedenti notizie diffuse sulla Russia rivoluzionaria erano false o ispirate da intenti propagandistici. Senza subire interventi della censura, il quotidiano accenna alle manipolazioni informative, tra l’altro facendo il caso di Lenin, il cui ritorno in Russia era stato giudicato dalla stampa come maldestro, privo di successo, oggetto di ripulse e fischi da parte dei suoi stessi segua-

39 Più volte “L’Azione” torna, nei mesi successivi, sulle false notizie, cioè sulla disinformazione, attuata nei paesi dell’Intesa a proposito della rivoluzione russa. Cfr. Verità russe, “L’Azione”, 19 giugno 1917: «L’opinione pubblica, almeno da noi, ha potuto, attraverso le manchevolezze di un servizio telegrafico reticente, dare importanza ad avvenimenti che non ne avevano e giudicare alla leggera uomini e cose della rivoluzione russa»; indi Mentre passano i delegati russi, ibid., 12 agosto 1917, in cui s’ironizza sulla visita in Italia di delegati dei soviet, festeggiati come pacifisti nelle Case del Popolo e come fautori della guerra a oltranza dagli esponenti interventisti; infine Gli avvenimenti in Russia. Confessioni, ibid., 5 dicembre 1917, ove si criticano gli abbagli del «tempo in cui si proclamava ai quattro venti dai giornali liberali e interventisti che la rivoluzione russa era avvenuta per intensificare la guerra e che la Russia sarebbe stata pronta ad una formidabile offensiva». 40 Cfr. per quanto sopra Dalle rivelazioni alle previsioni, ibid., 20 marzo 1917. 41 L’anima di una rivoluzione, ibid., 1 aprile 1917 (a firma Eleuterio). 42 Ivi.

ci. «L’ottimismo ufficioso – si scrive – ci ha ingannato dichiarando senz’altro la rivoluzione favorevole alla continuazione della guerra […]. Non è buona politica presentare al pubblico uomini e cose di avvenimenti gravi truccati secondo i propri desideri come in una turlupineide da palcoscenico»43 .

La considerazione per le mosse di Lenin è costante ne “L’Azione”. In settembre si giudica «folle» il tentativo di Kornilov d’impadronirsi del potere, perché i soldati sotto il suo comando «i quali non hanno alcun desiderio di battersi contro i tedeschi, non avranno certamente il gusto di battersi contro i loro fratelli rivoluzionari. E poi, non sono certamente i generali battuti quelli che possono darsi il lusso di tentare un 18 brumaio»44. Per concludere: «Tutto lascia credere, dunque, che unica conseguenza di questo colpo di testa sarà un nuovo gran passo verso la applicazione del programma di Lenin: un Governo schiettamente socialista con tutte le sue conseguenze»45 .

L’esattezza della predizione va correlata, in questo caso, alla tendenza del giornale a osservare più i popoli che le élites, più gli umori delle masse che le manovre dei capi. Un angolo visuale confermato dall’editoriale che il 10 novembre commenta la presa del potere da parte dei bolscevichi:

La notizia, per chi segue un po’ gli avvenimenti in Russia, era prevedibilissima […]. Kerenskj si illuse di resistere, di vincere contro il sangue stesso che gli aveva dato la vita. Ma a lungo non si regge contro natura […]. Il massimalismo, cioè l’impeto irrefrenabile di una massa che sente la propria riscossa, procede travolgendo ancora. S’arresterà; ma quando? La storia di questa Russia nuova, nella sua intima e profonda anima, non ci è ben nota. Non si può quindi prevederne il corso. Ma è certo che essa non torna indietro [all’antico regime]. Il massimalismo avrà pure la sua crisi; ma quando questa avverrà, la Russia sarà già più avanti d’oggi verso la meta della sua sistemazione popolare.

Sistemazione auspicata come democratica, che evidentemente piace a “L’Azione” se conclude: «Così la rivoluzione completa la guerra che la ebbe a nutrire nel suo seno. Tutto il mondo in guerra subisce crolli immensi ed impreveduti; e cerca invano fuori di sé la forza di tanta distruzione. Ma la Provvidenza dalle rovine trae anche la vita: destruam et aedificabo»46 .

“Vita e Pensiero” è un periodico milanese espressivo di quella corrente cattolica clerico-moderata discendente dall’intransigentismo ottocentesco e però trascorsa su posizioni conciliatoriste e collaborative con la classe dirigente liberale. Su di esso appare il 10 aprile 1917 uno dei primi articolati commenti cattolici alla rivoluzione del Febbraio, per la firma autorevole del giornalista e scrittore Ernesto Vercesi. Questi muove dai citati commenti internazionali secondo cui la rivoluzione russa sarebbe dovuta allo scontento sociale interno per il debole impegno bellico. Lo zar avrebbe visto nella vittoria un pericolo per l’autocrazia. Vercesi sposa tale tesi per affermare che la rivoluzione era del tutto prevedibile e sicura nella sua deflagrazione: «La burocrazia aveva pure compreso che la rivoluzione sarebbe stata inevitabile con una guerra vittoriosa. Volendo tenere in piedi il vecchio regi-

43 Verità russe, ibid., 19 giugno 1917. 44 Gli avvenimenti in Russia, ibid., 12 settembre 1917. 45 Ivi. 46 Gli eventi della rivoluzione russa. Deposto!, ibid., 10 novembre 1917.

me, bisognava, più o meno apertamente, sabotare la guerra, rendere impossibile e difficile la vittoria»47 . Meno azzardate sono tuttavia le conclusioni, in cui si mettono a fuoco i due confliggenti poli del movimento rivoluzionario e si auspicano tempi migliori per il cattolicesimo:

V’ha un governo provvisorio che comprende che non bisognerebbe precipitare gli avvenimenti e che la moderazione sola potrebbe render duratura la vittoria della rivoluzione; ma accanto al governo provvisorio si stabilisce il comitato degli operai che chiede la Costituente, il suffragio universale, il voto delle donne ed altre cose ancora. Tutto si dovrebbe fare il più rapidamente possibile. La riorganizzazione dell’esercito dovrebbe operarsi in base ai criteri che prevalgono in una camera del lavoro. È un nuovo periodo turbinoso che si attraversa, di cui non abbiamo, né possiamo avere che una vaga nozione […]. Si riuscirà a combinare il governo provvisorio col comitato operaio? La rivoluzione russa sarà saggia abbastanza da mostrarsi davvero matura per un regime di libertà? Tutta la questione sta qui […]: s’aprirebbero orizzonti nuovi pel cattolicismo che in Russia non aveva avuto che ceppi. Fate che il sole della libertà risplenda anche in Russia. Colla libertà entrerà la corrente cattolica, contro cui nulla possono né la corrente protestantica, d’importazione tedesca, né l’ortodossia soffocata dall’amplesso statale48 .

Simili cenni al tema confessionale sono rari nel 1917 sulla stampa cattolica italiana, i cui lettori sono più interessati, come si è detto, agli sviluppi politici e strategici della rivoluzione russa, con riferimento alla guerra in corso. Un’eccezione è rappresentata da Aurelio Palmieri, personaggio estroverso, erudito slavista, sodale di Ettore Lo Gatto, grande viaggiatore, religioso assunzionista e poi agostiniano per rinunciare infine all’abito ecclesiastico49. Palmieri scrive su periodici di cultura ma i suoi articoli, a mezzo fra scienza e divulgazione, influenzano le visioni cattoliche. Da unionista, Palmieri vorrebbe che l’ortodossia russa andasse all’unità con Roma e sotto Roma. Singolare la sua considerazione positiva dei cristiani ortodossi, fin denominati fratres, allorché nell’opinione cattolica erano visti come scismatici od eretici. La rivoluzione, sostiene Palmieri, rappresenta la rivincita del clero bianco, parrocchiale, sull’alto clero, i vescovi e i monaci legati al vecchio regime di cui erano i massimi beneficiari. Diverse

tendenze si contendevano il primato nella Chiesa russa: la tendenza conservatrice, e la tendenza rivoluzionaria; la tendenza cattolica e la tendenza protestante. Da una parte, un episcopato ligio all’autocrazia, ed un monachesimo investito di privilegi che gli assicuravano il governo supremo della Chiesa; dall’altra, la turba immensa del basso clero, famelica, umiliata, schiava di vescovi burocratici, e una turba non meno numerosa di laici che, se istruiti, volevano foggiare una nuova Chiesa

47 Ernesto Vercesi, La rivoluzione russa, “Vita e Pensiero”, 10 aprile 1917, pp. 305-311, 306. 48 Ibid., p. 310. 49 Su Palmieri, prolifico autore di libri e saggi, cfr. Angelo Tamborra, Chiesa cattolica e Ortodossia russa. Due secoli di confronto e dialogo: dalla Santa Alleanza ai nostri giorni, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1992, pp. 377-381; nonché Sergio Mercanzin, Aurelio Palmieri e il suo contributo alla conoscenza dell’Oriente cristiano e in particolare della Chiesa russa. Un pioniere dell’ecumenismo, Dissertazione presso il Pontificio Istituto Orientale, s.e., Roma 1989.

conforme ai loro ideali; se ignoranti, parteggiavano per il clero miserabile che amministrava loro i sacramenti50 .

Timore di Palmieri è che l’ortodossia russa cada sotto l’influenza del protestantesimo, col che la distanza da Roma s’accrescerebbe e ogni speranza unionista sarebbe vanificata. Dell’ortodossia russa Palmieri rileva le colpe nel «servaggio» innanzi allo zarismo e nella complicità col passato regime, ma anche le prospettive di riscatto: «La libertà è venuta; e quale libertà! La Chiesa che aveva assistito passiva all’agonia dello Czarismo, la Chiesa che aveva non solo tollerato, ma eziandio accarezzato Gregorio Rasputin, il dissoluto corifeo della più orgiastica delle sette russe, la Chiesa è stata sciolta dai suoi ceppi»51. Sicché il futuro religioso della Russia sembra a Palmieri impregiudicato e aperto a qualsiasi sviluppo:

Non siamo in grado di tirar l’oroscopo per l’avvenire. Le condizioni politiche della Russia sono così incerte ed instabili che anche il lavorio interno della Chiesa russa procede a sbalzi, senza una meta fissa […]. Checché ne sia, noi cattolici non dobbiamo perder di vista il movimento religioso russo. La Russia democratica apre le sue frontiere all’influenza cattolica […]. La Russia è un serbatoio immenso di energie religiose. Il popolo russo è religioso anche nei suoi istinti anarchici, e anche nel suo nihilismo politico. Queste energie religiose vivificate e dirette dal cattolicismo potrebbero infondere nuovi elementi di vigoria alla cristianità52 .

Scomparsa, con il successo bolscevico, ogni residua illusione d’un potere rivoluzionario impegnato a combattere i tedeschi, dallo scorcio del 1917 nei paesi dell’Intesa si guarda alla rivoluzione quale essa si presenta nei fatti, in primo luogo per decifrarla, avendo preso atto della difficoltà d’utilizzarla nella guerra in corso. Presto si parlerà di rivoluzione bolscevica. Il 1918 è quindi l’anno in cui Lenin e i suoi seguaci rivelano di non rappresentare l’ennesima convulsione rivoluzionaria, come sulle prime si tendeva a ritenere in Occidente e anche nell’opinione cattolica italiana. Di Lenin si riconosce la forza, l’energia e anche la spietatezza. Impressiona la determinazione bolscevica nelle lotte contro i socialisti rivoluzionari, i resti dei partiti borghesi, la vecchia società e i bianchi insorgenti. “La Rassegna Nazionale” scrive di «regime del terrore» bolscevico e di «terrore bolscevista»53 . “La Civiltà Cattolica”, nel marzo 1918, riprende il filo delle questioni russe per qualche tempo passate sotto silenzio, per rilevare «il pianto dei giornali dell’anticlericalismo e della massoneria», e della stampa interventista in generale, dinanzi al definitivo abbandono russo del fronte belligerante contro gli Imperi centrali in forza dell’accordo di Brest-Litovsk. Da parte dei gesuiti della “Civiltà Cattolica” è tutto un dire d’aver avuto ragione sulla stampa laica nel giudicare la rivoluzione russa come un evento appunto rivoluzionario, e pertanto negativo in se stesso, che non poteva dare alcun affidamento quanto agli interessi dell’Intesa. Della Russia in sé poco si dice, se non che

50 Aurelio Palmieri, Lo spirito della rivoluzione nella Chiesa ortodossa russa, “Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliari”, 30 novembre 1917, pp. 193-202, 195. 51 Aurelio Palmieri, Sulle rovine della Russia. Il tramonto dell’ortodossia ufficiale russa ed il concilio nazionale di Mosca, “Vita e Pensiero”, 20 marzo 1918, pp. 136-145, 138. 52 Aurelio Palmieri, Lo spirito della rivoluzione… cit., p. 202. 53 Cfr. le rassegne politiche dei numeri dell’1 settembre e 1 ottobre 1917.

i rivoluzionari d’Oriente sono figliuoli legittimi e discepoli ingenui dei nostri rivoluzionari d’Occidente. Noi li diremmo quasi migliori dei loro padri e maestri, perché più alieni dagli eccessi a cui quelli trascorsero a loro tempo, come si sa dalla storia veritiera della rivoluzione francese, che fece scorrere tanti fiumi di sangue, da quella dei molti rivolgimenti del secolo susseguente, particolarmente dal 1848, ed infine dalla stessa Comune di Parigi54 .

È lo stile usuale della rivista, cui l’uscita dalla scena bellica della Russia sembra non dispiacere, e non è dato sapere se per avversione alla causa dell’Intesa considerata anticlericale e massonica o per il ridimensionamento della potenza russa costretta con la resa agli Imperi centrali a rinunciare alla conquista di Costantinopoli. A fine anno, terminata la guerra, “La Civiltà Cattolica” commenta la situazione russa in un giro d’orizzonte europeo caratterizzato, al dire della rivista, dal prevalere della rivoluzione sulla pace. Il tono è sarcastico verso i vincitori, portatori di una pace che pare consistere in maggior disordine e rovina della guerra appena finita, o per meglio dire di una pace che non sembra esser pace. La rivoluzione russa è presa ad esempio di «orrori» e «fallimenti» dai quali si auspica possano scampare tutti i paesi ora preda della rivoluzione. Come di regola, “La Civiltà Cattolica” svolge un discorso ideologico e polemico, per cui tutte le rivoluzioni finiscono per essere uguali, non essendo altro che rivoluzioni, discendenti tutte dal rinnegamento dello spirito d’ancien régime avvenuto con la rivoluzione francese. Le rivoluzioni non sono cioè accadimenti storici specifici dell’una o dell’altra società bensì un fenomeno unico, obbediente al medesimo paradigma. Non ci sono le rivoluzioni ma soltanto la rivoluzione, al singolare, ovunque segnata dal medesimo «spirito». I cui effetti sono sempre disastrosi e illimitabili: «Come la guerra, così la rivoluzione: è un torrente che altri può facilmente scatenare, ma rotti gli argini, non può più contenere»55 . Più che la storia, a “La Civiltà Cattolica” interessa la filosofia della storia, a fini di controversistica e apologetica. Diversamente altri fogli cattolici cercano di entrare nel merito delle vicende russe per trovarne una chiave interpretativa che non sia soltanto quella teologica dello stare con Dio o contro Dio. La “Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliari”, fondata da Toniolo come rivista d’alta cultura sociologica, si affida per spiegare la rivoluzione russa al migliore esperto della Russia che vi sia in campo cattolico, il citato Palmieri. Nel marzo 1918 questi presenta le cause ultime della rivoluzione russa rinvenendole nella questione agraria: «La rivoluzione russa s’identifica con la questione agraria. Tutta la potenza economica, la fortuna nazionale della Russia dipende dal suolo. L’immenso tratto di pianure, di boschi, di paludi, di pascoli che si estende dalle rive dell’Oceano glaciale sino a quelle del mar Nero, è continuamente smosso dalle braccia di milioni di uomini ai quali la Russia deve la sua grandezza politica»56. L’analisi di Palmieri non è romantica:

Osserviamo anzitutto che il fattore precipuo della rivoluzione russa è un fattore economico. Volgarmente si è detto che lo stomaco porta la responsabilità di molte guerre e di molti rivolgimenti

54 Rivista della stampa. Intorno alla rivoluzione russa. Consensi e dissensi, “La Civiltà cattolica”, 8 marzo 1918, pp. 535-544, 535. 55 L’armistizi degli eserciti e le rivoluzioni dei popoli, ibid., 13 dicembre 1918, pp. 452-468, 456. 56 Aurelio Palmieri, Il problema agrario in Russia e la sua soluzione socialistica, “Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliari”, 31 marzo 1918, pp. 181-193, 184.

sociali. L’idealismo umanitario e nazionale è merce assai rara […]. Può darsi che nei leaders della rivolta russa, l’esaltazione umanitaria e patriottica sia stata una leva possente di azione. Uomini di genio e di coltura, come Paolo Miliukov, sono anche uomini d’idealismo. E fuor di dubbio, se i sobillatori e gli autori morali della levata di scudi contro lo czarismo non si fossero trovati in presenza di gravissimi problemi economici che da secoli travagliarono il colossale organismo russo, la rivoluzione russa sarebbe stata il trionfo di nobilissime rivendicazioni sociali. Sventuratamente, ripetiamo l’espressione volgare di poc’anzi, lo stomaco russo, lungi dall’essere sazio, era affamato. E gli stimoli della fame aguzzano gl’istinti perversi. L’idealismo rivoluzionario russo ha ceduto il posto al realismo teppistico. Le sorti della Russia sono cadute nelle mani di audaci mestatori, che di russo hanno solamente il nome, e fors’anco il battesimo ortodosso, e l’atavismo anarchico, che, secondo Nicola Berdiaco [Berdiaev], forma il sostrato della psiche russa […]. Il problema agrario è stato il fattore principale della rivoluzione russa; che può dirsi una rivoluzione agricola, l’insurrezione dei contadini contro i latifondisti, siano questi lo stato, o la chiesa, o i privati57 .

Dopo pagine di citazioni dotte e dati statistici a dimostrazione del suo assunto, Palmieri conclude con tratto drammatico doversi ora attendere in Russia l’assoluta abolizione della proprietà privata, il monopolio statale sui prodotti agricoli, i prezzi fissati dal governo, l’abolizione delle differenze di ceto sociale, la separazione della chiesa dallo stato, l’elezione popolare dei giudici e altro ancora, secondo i programmi di quel socialismo rivoluzionario radicale che confligge con la «costituzione stabile di qualsiasi consorzio sociale e apre un’era di anarchia, di delitti, di ladronecci, di orrori che non la cederà a quella di Stenka Razin e di Pugacev». «A riguardo di Mosca si rinnova la tragedia di Bisanzio. I nuovi turchi sono i socialisti rivoluzionari»58 .

Lo stesso Palmieri, alcuni mesi dopo, sentiva di dover spiegare come le origini agrarie della rivoluzione russa dovessero interpretarsi alla luce delle idee socialiste estreme da sempre vive nel paese degli zar, anche quando lo stesso termine socialismo non era stato ancora coniato. E proprio alla luce della ricostruzione del passato socialismo russo, andando dall’una all’altra rivolta contadina, da Sten’ka Razin a Radiščev, dai Murav’ëv a Herzen, da Bakunin a Plekhanov, lo slavista cattolico indicava come del tutto autoctona la rivoluzione russa, accreditandola di originalità:

Si è asserito che il socialismo il quale si trova come sostrato in tutti i movimenti rivoluzionari russi, è stato un’importazione tedesca, che i russi, secondo il carattere della loro razza, spinsero agli estremi. Altri, all’opposto, sostengono che il socialismo è un prodotto genuino dell’evoluzione sociale della Russia. Le sue crisi ed il suo processo rivestono, per così dire, un carattere nazionale, serbano l’impronta schiettamente russa. “Il progresso del nostro pensiero rivoluzionario – scrive Giorgio Nevzorov – presenta un processo organico, una serie di manifestazioni che mutuamente si collegano, una catena di deduzioni che logicamente derivano le une dalle altre. Ogni passo in avanti è intralciato da errori e traviamenti; i suoi metodi o sono unilaterali o esagerati; ma gli estremi finiscono per ricongiungersi. Gli elementi spuri sono eliminati e i veri regolarmente si svolgono. La vita funge da critico. La sua critica è senza viscere di pietà; la sua esperienza è il frutto che matura col sangue di molte vittime; ma le lezioni della vita sono necessarie. Passando attraverso il crogiuolo dell’esperienza della vita, l’idea si ringagliardisce, e si trasforma in convinzione incrollabile”. Il socialismo russo

57 Ibid., p. 183. 58 Ibid., pp. 192-193.

si è quindi svolto in virtù di un processo interno, il cui carattere eminentemente russo è superiore ad ogni dubbio59 .

L’asserzione è rilevante allorché molte voci qualificavano la rivoluzione russa come frutto di una trama germanica oppure di un “complotto giudaico”. Per Palmieri erano i russi stessi ad aver voluto la rivoluzione. Lo ribadiva nelle conclusioni, utilizzando la seguente citazione di Herzen a proposito del carattere nazionale russo: «Il pensiero, la scienza, la convinzione, il domma, non restano mai fra di noi allo stato di teoria o di astrazione. Essi non si rinchiudono nei confini angusti di un consorzio accademico, né si nascondono negli scaffali di un erudito, o nelle celle di una prigione; al contrario, senza aspettare la maturità, si lanciano nella vita pratica con una precipitazione eccessiva». Secondo Palmieri, i russi rifiutavano ogni dualismo fra teoria e vita. Le idee non potevano restare idee: «L’Herzen qui parla da profondo psicologo. I dottrinari russi presero dai tedeschi o francesi le loro teorie; ma non si arrestarono ad esse. Nella loro vita speculativa le svolsero sino al nihilismo sociale; nella loro vita pratica inaugurarono il periodo del terrorismo e seminarono rovine nella loro patria». La stessa congiunzione fra pensiero e vita s’aveva ora nella rivoluzione russa. Palmieri si professava conservatore, vedeva la rivoluzione russa marchiata negativamente dal socialismo, dall’anarchia, dal nichilismo, nondimeno riteneva che quanto accadeva in Russia era da prendersi sul serio come un fenomeno storico di ampia portata. Sul finire del 1918, col ritorno alla pace, la rivoluzione russa acquista un ulteriore significato. Da evento lontano le cui ripercussioni si svolgono sul piano bellico, e del quale si attende una chiarificazione politica, diventa un termine di confronto per le società ferite e inquiete che fuoriescono dal conflitto. Paesi in cui per quattro anni la dialettica politica è stata sacrificata all’union sacré necessaria alla belligeranza vedono accendersi le lotte politiche non appena la pace libera da censura e disciplinamento bellico. Anche in Italia, Lenin e Trockij diventano personaggi non più esotici ma popolari, e la rivoluzione bolscevica entra nelle questioni politiche interne. Il mondo cattolico italiano, a differenza del socialista, non sembra attratto dagli eventi russi, identificati con la matrice socialista che è matrice rivale. L’entrata in scena del Partito Popolare Italiano (PPI) di Sturzo, nel gennaio 1919, avviene in concorrenza con la vigorosa crescita del partito socialista: bianchi e rossi costituiscono i due partiti che inevitabilmente si contendono le masse. Gli uni fanno riferimento alla Rerum Novarum e al programma sturziano, gli altri a Marx e Lenin, e quindi al cambiamento russo che diventa il simbolo del socialismo ancora per poco unito in un PSI riformista e rivoluzionario al contempo. A scorrere la stampa cattolica italiana dell’immediato dopoguerra si nota la costante polemica antisocialista oltre che antiliberale. La rivoluzione russa, ormai chiarificatasi in rivoluzione socialista massimalista, diventa un tutt’uno con il socialismo di casa che si vuole fronteggiare. E laddove si teme che qualche buon elemento, magari giovanile, si lasci attrarre dalla propaganda socialista sulla Russia, si provvede a sbarrare la strada.

59 Aurelio Palmieri, Le fasi storiche del socialismo rivoluzionario in Russia, ibid., 31 ottobre 1918, pp. 99-116, 101-102.

Come fa “Studium”, il periodico degli universitari cattolici, che affida a Francesco Aquilanti una prima messa in guardia nel febbraio 1919, cui altre seguiranno60:

L’idea socialista procede rapida e logica nel suo sviluppo in Russia […]. È arduo orientarsi nel groviglio di notizie, che pervengono dai luoghi ove la colossale esperienza si sta realizzando. Da una informazione di fonte socialista si desume che a Pietrogrado il popolo si diverte, frequenta grandi spettacoli, ama la musica prediletta dai nuovi pedagogisti, fila il perfetto idillio con il potere integrale che detiene. Mai pittore fiammingo concepì un disegno di più squisita ed allettatrice intimità. Da altre fonti più autorevoli e concordi si colgono indicazioni assai diverse: la Russia appare roggia come la città di Dite e tra baratterie, abusi, vergogne somiglia davvero alle Malebolge di Dante. Occorre per ora muovere da una constatazione sicura: il socialismo integrale russo, come quello germanico, è il prodotto di sconfitte clamorose; non quindi la creatura che nasce da una società in pieno vigore di sviluppo produttivo ed è erede di beni a lungo tempo accumulati e destinati a convertirsi in felicità collettiva, ma l’aborto, il mostriciattolo, Calibano generato dal disastro nazionale e dal fallimento del programma d’un popolo […]. Il bolscevismo si mostrerà per quello che è realmente, un istinto di cupidigia, un imperialismo scoronato ed a rovescio, il polverizzamento della lotta nella individualità del delitto61 .

Ma, giova ripeterlo, sono soprattutto la nascita del PPI e la concorrenza col socialismo avviato al biennio rosso, a spegnere l’attrazione del modello bolscevico ove mai si fosse manifestata. Non c’è mito bolscevico per i cattolici perché il partito di Sturzo convoglia e concentra le energie politiche cattoliche in un partito sostanzialmente confessionale – per quanto non si dichiari tale. Anche l’ala sinistra del movimento cattolico entra nel PPI, sentendo diversità dal movimento socialista sebbene sul piano sindacale vi siano affinità. La ripercussione in Italia della rivoluzione d’Ottobre e della vittoria bolscevica si faceva sentire nel mondo socialista specie con la creazione dei consigli di fabbrica sul modello dei soviet russi. Non così avveniva nel mondo cattolico.

La concezione sturziana era quella di un PPI sì interclassista ma anche rappresentativo del polo contadino italiano a fronte del polo operaio del PSI, che ci si augurava quanto più possibile riformista e non massimalista. Non stupisce che De Gasperi nel 1921 – ma questa è ormai un’altra storia – saluterà la scissione di Livorno come un felice alleggerimento del PSI dalla «zavorra rivoluzionaria», a segno dell’irriconciliabilità cattolica con quanto proveniva dal bolscevismo e dal suo modello62 .

60 Cfr. Giampietro Dore, Cattolici e socialisti, “Studium”, luglio-agosto 1919, nonché gli interventi al riguardo di Giuseppe Corazzin e Amor Tartufoli, ibid., settembre 1919, infine di Albino Uggé, Enrico Falck, Giuseppe Andreucci, ibid., ottobre 1919, cui sarebbe seguita la replica di Giampietro Dore. 61 Francesco Aquilanti, Esperienza socialista, ibid., febbraio 1919, pp. 17-19. 62 Cfr. Nicola Antonetti, Movimento cattolico e comunismo, in Dizionario Storico del Movimento Cattolico in Italia. Vol. I. Tomo 2. I fatti e le idee, a cura di Francesco Traniello e Giorgio Campanini, Marietti, Casale Monferrato 1981, pp. 29-43, 35.

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