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Giorgio Petracchi

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Giorgio Petracchi

L’impatto della rivoluzione russa e bolscevica in Italia tra guerra e primo dopoguerra

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Il 6 novembre 1917, un martedì, erano convenuti a Rapallo, oltre a Vittorio Emanuele Orlando – Presidente del Consiglio dal 30 ottobre – e al Ministro degli Esteri Sidney Sonnino, i primi ministri di Francia e Gran Bretagna, Painlevé e Lloyd George, con un seguito numeroso di generali e d’esperti. Per due giorni il Consiglio interalleato, in riunione d’emergenza, esaminò la situazione italiana e quella più generale dell’Intesa alla luce del disastro di Caporetto e della Russia di Kerenskij. Sotto l’incubo della rotta di Caporetto, Sonnino accettò la costituzione del Supremo Consiglio di Guerra alleato. Su un punto, però, Sonnino e Orlando s’irrigidirono, là dove l’art. 1 prevedeva la possibilità per la Russia di partecipare al Consiglio supremo: «Bisogna guardare le cose in faccia – esordì Sonnino – Possiamo fidarci nelle presenti torbide circostanze del governo russo? [...] Possiamo noi predisporre dei piani di guerra alla presenza, per esempio, di un delegato del Soviet?»1 .

É bene precisare che la Russia a cui si riferiva Sonnino, non era la Russia bolscevica. Si trattava – e la puntualizzazione non è senza significato – della Russia di Kerenskij. Nessuna informazione era giunta a Rapallo il 7 novembre – 25 ottobre secondo il calendario russo vecchio stile – della riuscita occupazione del Palazzo d’Inverno da parte dei bolscevichi, né il giorno dopo al convegno di Peschiera, alla presenza di Vittorio Emanuele III. Nessuno ancora sapeva del cambiamento di regime in corso in Russia. Soltanto dopo il loro ritorno a Roma, i ministri italiani raccolsero notizie frammentarie sugli avvenimenti decisivi a Pietrogrado. Ma gli elementi raccolti non bastavano a farsi un’idea della nuova situazione. L’ambasciata italiana comunicava ad intermittenza, tacque addirittura per diversi giorni. La corrispondenza fra Pietrogrado e Roma ritornò a farsi più regolare soltanto dopo il 17 novembre.

La stessa incertezza aleggiò sui ministri francesi e inglesi. Fintanto che furono assenti dalle loro rispettive capitali, nulla seppero dei giorni decisivi a Pietrogrado. Il governo francese, inoltre, era dimissionario dal 28 ottobre e da Parigi non venne nessuna apprezzabile reazione fino al 15 novembre. La prima risposta alla rivoluzione d’Ottobre venne, infatti, dalla nomina a Presidente del Consiglio e a Ministro della Guerra di Georges Clemenceau, il più risoluto avversario dell’estrema Sinistra sia interna sia internazionale2. In Inghilterra, il Gabinetto non ebbe notizie precise sui fatti di Pietrogrado fino al 9 novembre

1 Luigi Aldrovandi Marescotti, Guerra diplomatica. Ricordi e frammenti di diario, 1914-1919, Mondadori, Milano 1938, p. 165. 2 Maxime Mourin, Les relations franco-soviétiques, 1917-1967, Payot, Paris 1967, p. 58.

e anche dopo non fu fatto alcun serio tentativo per interpretarli. Quel giorno Lord Milner aveva annotato sul suo diario che le notizie in arrivo dalla Russia e dall’Italia erano cattive e complicavano la guerra dell’Intesa3 .

Crisi e rottura delle relazioni tra l’Italia e la Russia di Kerenskij

Nei verbali del Consiglio alleato colpisce sicuramente l’anacronistico riferimento ad una Russia che ormai il 7 novembre 1917 aveva cessato d’esistere dopo il colpo di Stato attuato da Lenin e Trockij. Ma colpisce ancora di più la circostanza che gli uomini di governo e i generali alleati concordassero tutti nel riconoscere che l’apporto della Russia alla guerra era passivo. Il generale boero Smuts, membro del Gabinetto di guerra britannico, ammise, candidamente, che la Russia cercava un’occasione per uscire dal conflitto. Nessuno di essi, però, voleva per il momento formalizzare una tale rottura, né offrire a Kerenskij l’occasione che andava cercando. Eccetto gli italiani.

Sonnino e anche Orlando considerarono la rottura con la Russia rivoluzionaria come intervenuta di fatto. In fondo, l’Italia aveva già scontato i frutti della “defezione” russa prima dell’Ottobre4. E nel corso della conferenza i ministri italiani motivarono, senza giri di parole e cautele diplomatiche, i danni e i contraccolpi subiti dall’Italia: diplomatici, sociali, militari.

Prima che Lenin e Trockij prendessero il potere a Pietrogrado, il governo italiano aveva richiamato, senza nominare il sostituto, l’ambasciatore Andrea Carlotti di Riparbella, in Russia dal 1913. Il quale, ironia della sorte, lasciò Pietrogrado il 7 novembre 1917 – 25 ottobre secondo il vecchio calendario russo. Sonnino gli imputava di tutto: d’aver letto la rivoluzione secondo i canoni del «modello liberale», di non aver seguito il conflitto interno alla rivoluzione aperto dal manifesto del 27 marzo del Soviet di Pietrogrado, di non aver capito che la pace e il pane erano le aspirazioni del popolo russo, di aver dato di Lenin l’immagine sfocata di un utopista senza seguito5. E, tra le due Russie in lotta, di aver sposato la tesi «Kerenskij (ordine)-Lenin (disordine)», a conclusione del fallito moto bolscevico del luglio 1917 a Pietrogrado6. Insomma gli imputava gli indirizzi sbagliati presi dal governo in politica interna ed estera. E anche i propri errori. Come l’aver sostenuto alla Camera, nella tornata del 16 marzo 1917, che la rivoluzione, agli effetti della guerra, era diretta non

3 Richard H. Ullman, Anglo-Soviet Relations, 1917-1921. Intervention and the War. Vol. 1, Princeton University Press, Princeton 1961, p. 19. 4 Cfr. Giovanna Procacci, Dalla Russia notizie sempre peggiori, “La Fiera Letteraria”, marzo 1967, p. 12. 5 «Lenin è qui arrivato avantieri accolto da un migliaio dei suoi aderenti con entusiasmo. Recatosi al Consiglio operaio vi pronunziò un discorso di carattere massimalista che agli stessi suoi adepti apparve esagerato»: Carlotti a Sonnino, telegramma n. 301, Pietrogrado, 18 aprile 1917, Archivio Centrale dello Stato (ACS), Carte Boselli, b. 9, fasc. 84 – il telegramma non è riprodotto nella raccolta dei Documenti Diplomatici Italiani (DDI), Serie V, Vol. VIII. D’altra parte, anche il “Corriere della Sera” dette di Lenin un’immagine negli stessi termini. Cfr. Guido Donnini, Il 1917 di Russia nella stampa italiana, Giuffrè, Milano 1976, p. 100. 6 Carlotti trasmise – per corriere n. 1316/328, 8 agosto 1917 – l’istruttoria del tribunale di Pietrogrado relativa alle accuse rivolte a Lenin quale agente al soldo della Germania, pubblicata dal giornale pietrogradese in lingua francese “l’Entente”, L’affaire des Leninistes, il 26 luglio 1917: cfr. Archivio Storico Ministero Affari Esteri (ASMAE), Russia Affari Politici (A.P.), 1915-1918, b. 172.

verso «un rallentamento ma verso una sempre più intensa e più energica prosecuzione delle operazioni belliche»7 .

Sotto l’incalzare dell’interrogativo “che faranno i russi?”, erano stati versati in Italia fiumi d’inchiostro e intere colonne di piombo andarono fuse, senza particolare cognizione di causa. Di tante opinioni generiche e coloristiche formulate, la più improbabile risultò l’interpretazione sostenuta da “Il Fronte Interno”, l’organo dei Comitati d’Azione interventisti, secondo la quale se il popolo italiano aveva fatto «le sue giornate di maggio», il popolo russo faceva ora «le sue giornate di marzo»8. Dietro tante narrazioni contraddittorie non stava la realtà. La rivoluzione si alimentava da circostanze che lavoravano per la rivoluzione, non per la guerra. E mentre fiaccava quel che rimaneva dell’efficienza bellica della Russia, creava una serie di nuovi problemi che avrebbero cambiato le basi alla politica di guerra dell’Italia e tolto sicurezza a Sonnino e a tutti gli interventisti.

I problemi nuovi posti dai fatti russi iniziarono con la ricostituzione della Polonia, che spalancò le porte alla politica delle nazionalità; continuarono con la formula “né indennità, né annessioni”, che demoliva la piattaforma diplomatica con cui l’Italia era entrata in guerra, il Patto di Londra; culminarono con l’additare all’Europa l’esempio d’un paese che muoveva «guerra all’ordine politico e sociale interno, per instaurare la pace col nemico»9 .

Sulla Russia rivoluzionaria si appuntarono gli sguardi dei socialisti italiani, i quali si attivarono per aprire le porte dell’Italia alla sua influenza. Il 12 luglio 1917, l’on. Treves tenne alla Camera un ampio discorso nel corso del quale raccomandò a Sonnino, in procinto di recarsi alla conferenza interalleata di Parigi, di appoggiare le proposte avanzate dal governo provvisorio russo e di rivedere gli accordi che avevano preceduto guerra. E concluse il suo discorso con la voce che saliva da tutte le trincee come un ultimatum: «il prossimo inverno non più in trincea»10. La censura lasciò che i giornali pubblicassero il discorso e la frase ebbe una vasta ripercussione anche nelle trincee. Intanto, nelle officine torinesi si gridava alternativamente, come fossero sinonimi, “fare come in Russia” e “Viva Lenin!”. Nell’agosto gli inviati dei Soviet, gli “argonauti della pace” Josif Petrovič Gol’denberg, Vladimir Michajlovič Smirnov, Nikolaj Sergeevič Rusanov, Henryk M. Erlich, arrivarono in Italia dalla Francia, dove avevano ricevuto accoglienze piuttosto fredde. Orlando, all’epoca Ministro degli Interni, ne aveva favorito l’ingresso, considerandoli rappresentanti del “marxismo blando”. Li aveva forse scambiati, sulla base delle contraddittorie informazioni di Carlotti11, per riformisti bissolatiani e, come Bissolati, amici dell’Intesa e favorevoli alla continuazione della guerra. «Amici dell’Intesa?», aveva replicato Cadorna,

7 Sidney Sonnino, Discorsi Parlamentari. Vol. III, Tipografia della Camera dei Deputati, Roma 1925, Tornata del 16 marzo 1917, p. 557. 8 Gian Francesco Guerrazzi, Evviva il popolo russo, “Il Fronte Interno”, 18 marzo 1917. Cfr. Giorgio Petracchi, Diplomazia di guerra e rivoluzione, Prefazione di Rodolfo Mosca, il Mulino, Bologna 1974, p. 95. 9 Gioacchino Volpe, Ottobre 1917, dall’Isonzo al Piave, Libreria d’Italia, Milano-Roma s.a. [ma 1930], pp. 48-49. 10 Alberto Malatesta, I socialisti italiani durante la guerra, Mondadori, Milano 1926, p. 147. 11 Nel telegramma del 2 luglio, Carlotti li aveva presentati come appartenenti alla maggioranza del Soviet; quattro giorni dopo come «minoritari e in principio favorevoli al governo provvisorio» – DDI, Serie V, Vol. VIII, NN. 524, 561.

Ma che favola è questa? Perché dobbiamo ingannarci solo per il piacere d’ingannarci? Bisogna essere pazzi per credere ad una Russia ancora amica dell’Intesa. Se la Russia fosse amica dell’Intesa comincerebbe a combattere. Manderebbe generali per studiare insieme con noi il modo di portare la guerra a buon fine. Invece calano a Torino i messaggeri della pace bolscevica per incontrarsi con quell’analfabeta di Barberis, con Serrati, con Maria Giudice e compagnia12 .

Alla frontiera italiana questi “argonauti” vennero presi in consegna dai socialisti ufficiali e accolti da manifestazioni popolari entusiastiche. Il 5 agosto 1917 dal balcone della Casa del Popolo di Torino, Smirnov e Gol’denberg tennero «una confusa concione alla fine della quale una marea di quarantamila persone (il comizio all’aperto era stato vietato, ma la polizia, ligia ai suggerimenti del Ministro dell’Interno, chiuse un occhio) vociarono il loro entusiasmo per la rivoluzione russa e per Lenin»13. In realtà, commentò Colajanni sarcastico, si mostravano poco dissimili dai Lenin, dai Trockij e da tutti gli altri disfattisti14 .

Lo stesso Gol’denberg, perduto il treno delle ore 15.00 per Roma, fu invitato a parlare alla Camera del Lavoro. Alla presenza di 100 militanti del PSI «confidò che il vero scopo del loro viaggio [era] quello di sommuovere i compagni, affinché capeggino il moto per l’abbattimento dei troni e degli altari»15. I due delegati tornarono ancora a Torino il 13 agosto. Gol’denberg tenne un concitato comizio in francese. Giacinto Menotti Serrati, che lo tradusse assai liberamente, trasformò l’impostazione genericamente pacifista del russo in un invito ad intensificare l’azione proletaria per porre fine alla guerra: «benzina sparsa in un pagliaio»16. Non senza ragione, Sonnino avrebbe accusato i delegati del Soviet di essere stati «propagandisti di pacifismo ad oltranza e di tradimento militare»17. E rimproverò a se stesso l’eccessiva condiscendenza verso gli Alleati e verso la blanda condotta dell’ordine pubblico in Italia: «Restar ministro anche con Orlando è stato eroico», confessò a Ferdinando Martini dopo l’armistizio18. Lo stesso Orlando avrebbe poi ammesso che «in quell’occasione si lasciò correre»19 .

Nello stesso mese di agosto del 1917 seguirono altri fatti che suscitarono nel governo le più gravi apprensioni. L’iniziativa diplomatica che Benedetto XV aveva rivolto ai capi dei popoli belligeranti, con la lettera papale del 1° agosto, per indurli a una pace di compromesso, era fallita. E cosa rimase presso il grande pubblico di quella Nota papale, quando se

12 Rino Alessi, Dall’Isonzo al Piave. Lettere clandestine di un corrispondente di guerra, Mondadori, Milano 1966, pp. 131-132. Rino Alessi era il giornalista de “Il Secolo” accreditato presso il Comando Supremo dell’Esercito Italiano a Udine. 13 Mario Silvestri, Isonzo 1917, Einaudi, Torino 1965, p. 201. 14 Cfr. Corrado Scibilia, Tra nazione e lotta di classe. I repubblicani e la rivoluzione russa, Gangemi, Roma 2012, p. 45. 15 Gol’denberg aveva parlato in francese e in russo, tradotto da un professore non identificato, ma non sovversivo, invitato per l’occasione come interprete. Il documento è riprodotto in “Storia e Dossier”, inserto redazionale allegato al n. 16, marzo 1988, p. 50. 16 Paolo Spriano, Storia di Torino operaia e socialista. Da De Amicis a Gramsci, Einaudi, Torino 1972, p. 412. 17 Sidney Sonnino, Carteggio. Vol. 2: 1916-1922, a cura di Piero Pastorelli, Laterza, Roma-Bari 1975, p. 355. 18 Ugo Ojetti, I taccuini, 1914-1943, Sansoni, Firenze 1954, p. 79. 19 Vittorio Emanuele Orlando, Memorie, a cura di Rodolfo Mosca, Mondadori, Milano 1960, p. 515.

ne conobbe il contenuto? Solo una frase. Quella che condannava quella guerra tremenda, «la quale ogni giorno più apparisce una inutile strage»20. Perfino l’“Avanti!” esultò e scrisse: «Benedetto XV parla il linguaggio di Zimmerwald»21 .

Il 21-22 agosto Torino insorse per la momentanea mancanza di pane. Le forze dell’ordine non riuscivano a ripristinare l’ordine. Dovette intervenire l’esercito. E a Torino, diversamente che cinque mesi prima a Pietrogrado, dove i reparti militari solidarizzarono con gli insorti, i tentativi dei rivoltosi di far partecipare la truppa all’insurrezione fallirono e i soldati italiani collaborarono attivamente a riportare l’ordine nella città. I gravi scontri, protrattisi per diversi giorni, causarono 41 morti, di cui tre donne e tre militari, e 151 feriti22 .

Il comportamento dei reparti italiani fu diverso da quello dei reparti russi in circostanze, apparentemente, analoghe. Questa aporia viene spiegata in chiave psicologica: si dice che sui soldati italiani avesse agito il risentimento fortissimo del «fante contadino» contro l’«operaio imboscato»23. Tuttavia, ogni relazione che tra i due fenomeni si volesse stabilire, in chiave sociologica o psicologica, deve tener conto della dimensione storica, ossia della diversità profonda tra la storia russa e quella italiana. Anche negli anni seguenti, come vedremo, per quanto la lettura ideologica della realtà abbia teso ad omologare i contesti russo ed italiano, premesse in apparenza analoghe avrebbero prodotto conseguenze diverse od opposte.

Tuttavia, più di tutte le novità politiche e psicologiche provenienti dalla Russia, fu la crisi dell’esercito russo a rendere la situazione dell’Italia assai delicata: perché materializzò la debolezza strutturale del fronte italiano. In quella congiuntura, Sonnino acquisì lucida consapevolezza d’una responsabilità del tutto soggettiva: quella d’aver precipitato l’intervento dell’Italia sul presupposto che la decisione della guerra continentale sarebbe dipesa dall’esercito russo24. E gli sarebbe stato rinfacciato che la fiducia nella Russia era la causa principale della bancarotta della sua politica25 .

20 La lettera, fu spedita a Londra, in via riservata, mentre gli alleati erano in congresso. Ma giunse solo il 9 agosto, a congresso concluso e nei giorni seguenti fu comunicata dal Foreign Office ai governi alleati. Il 14 agosto arrivò al governo italiano. Indiscrezioni raccolte dalla stampa, la trasformarono in un documento pubblico e quindi il 17 agosto fu pubblicata dall’“Osservatore Romano” per fare chiarezza. Cfr. Enrico Serra, La nota del 1° agosto 1917 e il governo italiano: qualche osservazione, in Benedetto XV e la pace, 1918, a cura di Giorgio Rumi, Morcelliana, Brescia 1990, pp. 50-51. Sulle risposte alleate alla Nota, si veda Angelo Martini, La Nota di Benedetto XV alle potenze belligeranti nell’agosto 1917, in Benedetto XV, i cattolici e la prima guerra mondiale, a cura di Giuseppe Rossini, Edizioni Cinque Lune, Roma 1963, pp. 380 sg. 21 Emilio Faldella, Caporetto. Le vere cause di una tragedia, Cappelli, Bologna 1967, p. 82. 22 Paolo Spriano, Storia di Torino operaia e socialista… cit., p. 432, nota 2. 23 Cfr. Piero Melograni, Rivoluzione russa ed opinione pubblica italiana tra il 1917 e il 1920, relazione al VI Convegno degli storici italiani e sovietici (Venezia, 2-5 maggio 1974), s.e., s.a., p. 12. Con questo titolo la relazione è, a mia conoscenza, inedita. 24 Sonnino lo “confessò” a Salandra nel momento in cui la Russia cominciava ad essere «la grande incognita». Cfr. Antonio Salandra, Il diario di Salandra, a cura di Giambattista Gifuni, Pan, Milano 1969, p. 95. 25 Comitati segreti sulla condotta della guerra, giugno-dicembre 1917, Archivio Storico della Camera dei Deputati, Roma 1967, intervento dell’on. Giuseppe Emanuele Modigliani, socialista, nella seduta del 14 dicembre 1917, pp. 159 sg.

Fino al crollo militare della Russia, l’Austria-Ungheria schierava sul fronte italiano soltanto il 40% del proprio esercito; il 60% era schierato sul fronte russo e romeno, là dove anche la Germania schierava 90 divisioni. Dieci offensive sull’Isonzo erano state lanciate da Cadorna potendo contare sul fatto che l’esercito austro-ungarico era prevalentemente impegnato sul fronte orientale. Durante la preparazione dell’undicesima offensiva sull’altipiano della Bainsizza – 17-30 agosto 1917 – Cadorna ricevette informazioni d’un movimento di truppe austro-ungariche dal fronte russo-romeno a quello italiano. Il 6 giugno ne quantificò il numero in una lettera a Boselli: tre divisioni e mezzo già trasferite, altre cinque in viaggio, altre otto probabilmente in corso di trasferimento26. Il 7 giugno avrebbe informato anche Foch e Robertson, aggiungendo che si erano rese disponibili anche 18 divisioni tedesche e, prevedibilmente, alcune di esse avrebbero potuto essere impiegate sul fronte italiano27. Ciononostante continuò alacremente i preparativi dell’offensiva. Nessuno, né il Ministro della Guerra, né il Presidente del Consiglio, né Sonnino, pur essendo contrari all’offensiva, osò opporvisi: «C’è di che rimanere stupefatti»28 è il commento dello storico. Successivamente, per non aver cambiato sistema e per non aver assunto allora un atteggiamento difensivo, Cadorna fu accusato di tardiva valutazione del crollo russo29 .

Il collasso dell’esercito russo divenne evidente – ed inarrestabile – il 3 settembre 1917, dopo la presa tedesca di Riga. Cadorna fu visto sbiancare in volto alla notizia che il generale Kornilov aveva fallito nell’impresa di restaurare la disciplina nell’esercito e l’ordine nel paese: «Era sulla porta del palazzo, gli giunse il telegramma; impallidì; disse: abbiamo perduto ogni speranza. Era il 18 settembre»30. Allora diramò alla II e alla III Armata l’ordine di assumere un atteggiamento nettamente difensivo. Aveva acquisito la certezza che l’Italia sarebbe stata il nemico principale dell’Austria-Ungheria31. Il Capo di Stato Maggiore austriaco, generale barone von Arz, aveva chiesto l’aiuto tedesco per lanciare un’offensiva sul fronte dell’Isonzo, divenuta necessaria dopo la presa dell’altopiano della Bainsizza con l’undicesima battaglia32. La richiesta venne accolta dal governo tedesco per mantenere l’Austria-Ungheria in guerra dopo i sondaggi di pace intercorsi tra Vienna, Parigi e Londra. L’accordo tra la Germania e l’Austria-Ungheria fu sottoscritto il 22 ottobre 191733. Due giorni dopo scattò l’offensiva a Caporetto. La rotta dell’esercito italiano a Caporetto affonda le sue premesse nello spostamento – e svuotamento – dal fronte russo a quello italiano delle truppe austro-tedesche, che costituirono la massa offensiva della XIV Armata, al comando del generale germanico Otto von

26 Luigi Cadorna, La guerra alla fronte italiana (24 maggio 1915-9 novembre 1917). Vol. II, Fratelli Treves, Milano 1921, p. 87. 27 Emilio Faldella, La grande guerra. Vol. I. Le battaglie dell’Isonzo (1915-1917), Longanesi, Milano 1978, p. 309. 28 Ibid., p. 316. 29 Cfr. Vittorio Emanuele Orlando, Memorie, cit., pp. 133 sg. 30 Angelo Gatti, Caporetto. Diario di guerra, il Mulino, Bologna 1997, p. 210. 31 Cadorna comunicò il suo convincimento alla figlia Carla e alla moglie Ninetta in due lettere, datate 16 e 18 settembre 1917: vedi Luigi Cadorna, Lettere famigliari, a cura di Raffaele Cadorna, Mondadori, Milano 1967, pp. 220, 222. 32 Cfr. Gerhard Ritter, I militari e la politica nella Germania moderna. Vol. 3. Il sopravvento del militarismo e il crollo dell’impero: 1917-18, tr. it., Einaudi, Torino 1973, p. 46. 33 Cfr. Fritz Fischer, Assalto al potere mondiale. La Germania nella guerra 1914-1918, tr. it., Einaudi, Torino 1965, p. 547.

Below e del suo Capo di Stato Maggiore Konrad Krafft von Dellmensingen: 6 divisioni germaniche ritirate da Riga, più l’Alpenkorp, 8 divisioni austro-ungariche, tra rincalzi e riserve, insomma il fior fiore dei due eserciti. L’attacco concentrato sulla destra dell’Isonzo, da Plezzo e da Tolmino, e la nuova tattica d’infiltrazione del generale von Hutier, fanno di Caporetto essenzialmente «un fatto militare»34, anche se, concludiamo con Piero Pieri, «un fenomeno come Caporetto è troppo complesso perché si possa spiegare con una sola causa, e della depressione morale del momento non si può non tener conto, salvo a considerare a quale categoria di disfattisti – socialisti, giolittiani, clericali – essa spetti soprattutto, e se non vi abbia avuto parte anche il cattivo governo del soldato al fronte»35. Il ripiegamento sul Piave, d’altronde, «era la classica linea di resistenza per l’esercito italiano, nel pensiero del suo Stato Maggiore. Saletta aveva stabilito sul quel fiume lo schieramento, in caso di guerra con l’Austria»36 . Purtroppo, la ritirata dall’Isonzo al Piave fu precipitosa e si verificò in modo caotico, senza che «alle strade, ai ponti, ai bivi spesso non ci [fossero] gli incolonnatori»37, di modo che le truppe rimasero talvolta senza ordini.

Caporetto e rivoluzione bolscevica: “disfattismo”, “passività”, “resistenza”

La crisi di Caporetto conteneva sorprendenti analogie – e straordinarie implicazioni rivoluzionarie – con la precedente esperienza russa. Dalla primavera all’autunno del 1917 si era discusso molto di rivoluzione in Italia. Numerose, seppure confuse – e anche sanguinose – erano state le dimostrazioni popolari contro la guerra. Gli interventisti ad oltranza temevano la diffusione di sentimenti disfattisti ed erano esacerbati per la blanda gestione dell’ordine pubblico praticata dall’uomo della transigenza con i socialisti e con i giolittiani, il Ministro Orlando. Alle prime notizie del colpo di Stato leninista, il nuovo governo mise in quarantena tutto ciò che arrivava dalla Russia, nel tentativo di circoscrivere la diffusione dell’«insidioso contagio delle parole». La censura intervenne pesantemente. Le notizie furono limitate ai soli comunicati dell’agenzia Stefani, ampiamente purgati38, dopo che i bolscevichi si furono impadroniti dell’agenzia ufficiale telegrafica. Le notizie trapelarono comunque in vari modi. Circolarono anche false notizie che trasmettevano l’impressione che il governo bolscevico fosse sempre sull’orlo del collasso. Esse andrebbero, perciò, analizzate per ciò che rivelavano delle attese profonde d’una nazione in guerra. Sarebbero occorsi mesi al formarsi di un quadro anche solo approssimativo della rivoluzione d’Ottobre e dei suoi sviluppi.

34 Gioacchino Volpe, Ottobre 1917… cit., p. 8. 35 Piero Pieri, La prima guerra mondiale, 1914-1918. Problemi di storia militare, Gheroni, Torino 1947, p. 264. 36 Gioacchino Volpe, Ottobre 1917… cit. p. 85. Il generale Tancredi Saletta era stato nominato Capo di Stato Maggiore nel 1896. 37 Angelo Gatti, Caporetto… cit. p. 264. 38 Una prima circolare proibì qualsiasi commento e qualsiasi evidenza tipografica che accentuasse la gravità dei fatti; la seconda consentì commenti sulla situazione russa purché intonati a criteri non allarmistici. Cfr. Giorgio Petracchi, La Russia rivoluzionaria nella politica italiana. Le relazioni italo-sovietiche, 1917-1925, Prefazione di Renzo De Felice, Laterza, Roma-Bari 1982, p. 294, nota 98.

Il disastro di Caporetto poteva travolgere tutto e tutti e precipitare l’Italia in una “situazione alla russa”, anzi peggiore, perché avrebbe condotto il Paese alla fame. Era la preoccupazione di Nitti. L’Italia infatti doveva ricevere dagli Alleati 30 milioni di quintali di grano all’anno, 60 milioni di quintali di carbone e prestiti ingenti di cui Nitti conosceva l’entità39 . Il Ministro del Tesoro sosteneva da tempo che la rivoluzione in Italia non avrebbe potuto verificarsi «senza che [avvenisse] la più terribile jacquerie che la storia ricordi»40. Il Comando Supremo era informato dall’Arma dei carabinieri sull’attività sotterranea che, nei centri industriali dell’alta Italia, andavano svolgendo «i più scalmanati socialisti, appartenenti alla corrente massimalista, e ad un nascente filocomunismo di marca bolscevica»41. I disordini di Torino erano stati sedati, ma «il fuoco cova sotto la cenere», scriveva Cadorna alla figlia Carla42. Il Comando Supremo era preoccupato che scioperi e sabotaggio creassero profonde incrinature nello spirito pubblico. Cadorna aveva cercato di tener separato il fronte militare dalle influenze del fronte interno; ma per sua stessa ammissione la chiusura non era stata ermetica. Il 31 ottobre, ancora sotto lo stato d’animo della disfatta, scrisse di getto alla sorella Maria: «Caporetto è stato un vero fenomeno di leninismo alla russa. I soldati obbedendo evidentemente ad una parola d’ordine, non si rivoltano, ma buttano le armi e si sbandano. Insomma, è stata una vera catastrofe prodotta dagli infami che hanno avvelenato il paese e l’esercito»43 .

Bissolati, in preda allo stesso sconforto, avrebbe parlato di «sciopero militare»44. Entrambe le versioni, espresse a caldo, nell’ignoranza di tanti risvolti della battaglia, fornirono, poi, una copertura agli errori e alle insufficienze degli alti comandi. Cadorna sarebbe andato assai più vicino alla verità se avesse indicato nello stato d’animo delle truppe in ritirata il terreno favorevole all’innesto d’un fenomeno leninista. L’Italia era davvero sull’orlo della catastrofe.

Qualche giorno dopo Bissolati sarebbe ritornato sulla sua prima versione, correggendola. Le ragioni della sconfitta gli apparvero più complesse del semplice sciopero militare. Parlando con Olindo Malagodi cercò d’interpretare la stupefacente mentalità dei fuggiaschi: «Pareva che ai soldati fosse dato di volta il cervello; cantavano l’Inno dei Lavoratori, ed una nuova canzone: Addio mia bella addio, la pace la fo’ io [...]. Vi furono episodi disgustosi […]. Sono in una condizione morale che non avrei mai immaginata: niente rivoltosità [sic], ma qualche cosa tra lo stupido e l’astuto [...]. Che sia proprio questa l’Italia delle masse, e noi dei poveri Don Chisciotte in cerca di avventure ideali?»45 .

Lo sfaldamento dell’esercito spiegato in termini psicologici, non esclusivamente militari, aiuta a comprendere come la guerra fosse percepita dagli interventisti non solo come uno scontro armato, ma anche come un confronto d’energie morali. La disfatta di Caporetto, perciò, prima che come un fatto puramente militare fu vissuta e sentita come una

39 Comitati segreti sulla condotta della guerra… cit., p. 190. Intervento dell’on. Marcello Soleri, liberale giolittiano, nella seduta del 17 dicembre 1917. 40 Alberto Monticone, Nitti e la grande guerra (1914-1918), Giuffrè, Milano 1961, p. 124, nota 29. 41 Rino Alessi, Dall’Isonzo al Piave… cit., p. 130. 42 Luigi Cadorna, Lettere famigliari, cit., p. 217, alla data del 29 agosto 1917. 43 Ibid., p. 236, alla data del 31 ottobre 1917. 44 Mario Silvestri, Isonzo 1917... cit., p. 467. 45 Olindo Malagodi, Conversazioni della guerra, 1914-1919, Vol. I. Da Sarajevo a Caporetto, a cura di Brunello Vigezzi, Ricciardi, Napoli 1960, pp. 193, 194, 196. Cfr. anche Ugoberto Alfassio Grimaldi-Gherardo Bozzetti, Bissolati, Rizzoli, Milano 1983, pp. 229 sg.

sconfitta “morale” della Nazione. «Quasi che proprio questa non fosse una diagnosi ancor più terribile per noi» avrebbe commentato un altro interventista democratico, Gaetano Salvemini. E proseguendo sulla stessa falsariga, egli considerò la resistenza dell’esercito italiano opposta al nemico sul Piave, prima che una vittoria militare, una vittoria morale del popolo italiano, che «si è rivelato a se stesso e al mondo capace di resistere nel suo insieme a qualunque più duro disastro»46. Giovanni Spadolini avrebbe poi rafforzato lo stesso concetto scrivendo che «l’unità italiana si cementò a Caporetto molto più che a Vittorio Veneto»47 . Caporetto fu, dunque, un trauma, ma anche una scossa salutare. La sconfitta provocò un sussulto che richiamò la maggioranza del ceto politico – e forse la maggioranza degli italiani – all’unità e alla resistenza. E un’occasione per un esame di coscienza. Un gruppo di noti intellettuali costituì il Comitato del riesame nazionale e si propose d’interpretare tutta la storia nazionale alla luce di quell’avvenimento48. «La pigliavano di lontano» ironizzò Gioacchino Volpe, «e rivangavano tutta la storia d’Italia, presentandola quasi come teologicamente [sic] orientata verso Caporetto»49 .

In quest’esame di coscienza una vecchia Italia bruciò, un’altra meno provinciale emerse, quella che aveva una visione meno “egoistica” della guerra. Un centinaio di deputati si costituì «in un fascio di difesa nazionale»50 per combattere quello che essi chiamavano il disfattismo parlamentare. L’opinione pubblica interventista, ma anche cattolica e giolittiana, fino a comprendere il riformismo socialista, alzò una barriera psicologica ad ogni altro avvenimento che non avesse carattere nazionale e patriottico. La sconfitta di Caporetto e la rivoluzione bolscevica segnarono anche la progressiva conversione di Mussolini – e di una parte dei sostenitori della tesi della “guerra rivoluzionaria” – su posizioni nettamente antisocialiste e patriottarde.

La reazione provocata dal trauma di Caporetto si può cogliere nella sdegnosa risposta che, nel marzo 1918, Giuseppe Lombardo Radice – un uomo descritto da Arturo Carlo Jemolo come veramente buono, veramente comprensivo – dette dal fronte al giovane Antonio Gramsci che lo invitava, in modo cortese, quasi ammirativo, ad una pacata discussione sui problemi etici e sociali posti dalla guerra: «Il mio posto è quassù, per l’Italia, per l’umanità che non vuole servire la Germania. Mala fede dei socialisti o cieca loro astrattezza, certo è che essi hanno collaborato più o meno coi tedeschi! Oggi non è l’ora delle accademie pedagogiche, ma dell’azione per la Patria e per le Patrie! Viva l’Italia e non dimentichiamo Mazzini!»51 . Ancora per mesi, soldati e ufficiali avrebbero continuato a parlare di Lenin e Trockij. Erano perfettamente ragguagliati dalla propaganda nemica delle trattative di pace a Brest-Litovsk. Migliaia di manifestini, inneggianti alla pace e alla fraternizzazione, venivano lanciati ogni giorno dagli aeroplani nelle trincee italiane. Lo stile adottato era quello

46 Beniamino Finocchiaro (a cura di), L’“Unità” di Gaetano Salvemini, Neri Pozza, Venezia 1958, p. 528. Le citazioni sono tratte dall’articolo L’ultima battaglia del 20 novembre 1918. 47 Giovanni Spadolini, La stagione del “Mondo”, 1949-1966, Longanesi, Milano 1983, pp. 25-26. 48 Cfr. Piero Melograni, Storia politica della grande guerra, 1915-1918, Mondadori, Milano 1998, p. 428. 49 Gioacchino Volpe, Ottobre 1917… cit., p. 212. 50 Ferdinando Martini, Diario, 1914-1918, a cura di Gabriele De Rosa, Mondadori, Milano 1966, pp. 1087 sg. 51 Citata in Arturo Carlo Jemolo, Anni di prova, Passigli, Firenze 1991, p. 138.

bolscevico. I soldati austriaci si rivolgevano direttamente ai soldati italiani e spiegavano: «Noi siamo stanchi della guerra al pari di voi; seguiamo l’esempio del fronte russo; ribellatevi ai vostri ufficiali; passate di qua e riabbracciamoci come fratelli; è giunto il momento in cui i popoli debbono ribellarsi a chi li ha portati al macello per i propri interessi»52 .

Purtroppo, commenta Rino Alessi, questa propaganda faceva presa. Poco a poco, tuttavia, il morale dell’esercito cominciò a rinsaldarsi grazie a un concorso di circostanze, tra cui l’adozione di misure migliorative dell’esistenza materiale e morale del soldato, nonché l’azione della propaganda indiretta, svolta fra le truppe dagli ufficiali di collegamento. Ancora si sarebbe discusso con passione dei fatti di Russia, ma in una prospettiva rovesciata. Ai fanti fu spiegato che le trattative di Brest-Litovsk non aprivano speranze di pace generale e rinnovamento sociale, ma rappresentavano per loro un inasprimento e un allungamento della guerra53. Le conseguenze della defezione russa, che si scaricavano sui fanti, rovesciarono in negativo il mito della rivoluzione bolscevica. Lo conferma Giuseppe Lombardo Radice, quando scrive: «L’idea che la sconfitta di Caporetto era il prodotto di vaste cause si faceva strada in tutti i cervelli. Chi non arrivava a questa idea semplificava dando la colpa ai Russi: la Russia era maledetta come cagione di ogni rovina»54 . L’inizio della primavera segnò la fine della fase ascendente della rivoluzione bolscevica tra i soldati al fronte; il wilsonismo, l’ideologia alternativa al leninismo, consapevolmente diffusa dalla propaganda americana, e abbracciata con convinzione dai repubblicani per contrapporre Wilson a Lenin55, riassorbì le tendenze disfattiste sul fronte interno. Mentre il fronte interventista si rinsaldava e scivolava su posizioni nazionalistiche, il partito socialista era lacerato dalla polemica tra riformisti e intransigenti sulla “resistenza” o sulla “passività” del proletariato di fronte alla crisi di Caporetto. Turati e Treves invitavano il proletariato ad essere solidale con lo spirito di resistenza che si levava dal paese, sia per sensibilità patriottica, sia perché non avrebbero voluto che, estraniandosi dal paese in un’ora tragica, il partito socialista si precludesse la possibilità di collaborazioni politiche future. Serrati, Lazzari, Bombacci, al contrario, non ammettevano nessuna altra forma di resistenza se non contro il capitalismo e nessun’altra lotta che quella di classe.

A dividere, in fondo, le due tendenze del socialismo italiano era il diverso giudizio sull’“Ottobre rosso”. I riformisti ritenevano la rivoluzione d’Ottobre una sorta di tentativo blanquista, che non aveva niente a che fare con il socialismo e rischiava, in mancanza di basi oggettive, di trasformarsi in una immensa macchina militare. L’“Avanti!” e la Direzione socialista, all’opposto, leggevano il “febbraio” e l’“ottobre” russi nella sequenza ideologica rivoluzione-borghese-rivoluzione proletaria e consideravano abbreviati – e conclusi – i tempi dell’evoluzione storica56. In quest’ottica, ritennero di non dover cambiare l’atteggiamento d’intransigente avversione alla guerra e, congiuntamente alla frazione rivoluzionaria, riaffermarono le immutate direttive classiste internazionaliste delle conferenze di

52 Rino Alessi, Dall’Isonzo al Piave… cit., p. 211. 53 Si veda, a questo proposito, Piero Melograni, Storia politica della grande guerra… cit., pp. 464-465. 54 Traggo la citazione dalla relazione di Piero Melograni, Rivoluzione russa ed opinione pubblica italiana… cit., p. 31. 55 Cfr. Corrado Scibilia, Tra nazione e lotta di classe… cit., p. 111. 56 Si veda l’articolo di C. Bertani, L’esperimento socialista russo, “Avanti!”, 17 dicembre 1917.

Zimmerwald e Kiental57. Perché aderire alla guerra dal momento che la rivoluzione bolscevica avrebbe potuto determinare la pace generale e insieme la rivoluzione? La maggioranza del PSI non ebbe, perciò, esitazioni a schierarsi a fianco della rivoluzione d’Ottobre – anche se, in realtà, si trattava d’un colpo di Stato contro un governo formato dagli altri partiti socialisti – così come ad ergersi a difesa del socialismo di Lenin, dittatura d’una minoranza, contro il socialismo dei socialisti rivoluzionari e dei menscevichi, in maggioranza nell’Assemblea costituente. Il 17 dicembre l’“Avanti!” commentò polemicamente le dichiarazioni di Martov, che aveva accusato il carattere utopista del movimento leninista, offrendo un sostegno indiscusso all’esperimento bolscevico58. E censurò, con esplicita deliberazione della Direzione, le corrispondenze giornalistiche che Junior, cioè il socialista russo Sukomlin, spediva da Stoccolma e nelle quali criticava duramente l’operato di Lenin e compagni. Bombacci motivò la censura in questi termini: «Desideriamo che nulla di tutto ciò che può essere di danno ai bolscevichi parta da noi. Bisogna aiutare Lenin con tutte le forze senza polemiche, senza attenuazioni. Se il socialismo si consoliderà, come desideriamo, vedremo poi se vi furono atti e metodi riprovevoli. Oggi i socialisti che non difendono i commissari del popolo sono traditori dell’Internazionale»59 .

In conclusione, il partito socialista mancò ancora una volta l’occasione per “nazionalizzarsi”: nel 1914 per un’incrollabile fedeltà alle dottrine tradizionali; nel 1917 per intransigente passività, aspettando «che la rivoluzione internazionale e la pace perpetua arrivassero dalla Russia senza sforzo di pensiero e senza sacrificio di sangue in chi le aspettava»60 .

Eppure, come scrive Leo Valiani, «il solo istante in cui, durante la guerra, un moto rivoluzionario sarebbe stato obbiettivamente possibile in Italia si ebbe solo con Caporetto»61. La mano ferma del governo nel vietare, indagare, reprimere – nella seconda metà del gennaio 1918 Lazzari e Bombacci, Segretario e Vicesegretario del partito, furono arrestati con l’imputazione di attività disfattista, Serrati per la parte avuta nei fatti di Torino – ebbe certamente il suo peso nel bloccare la diffusione dell’esempio russo.

57 I documenti sono in Alberto Malatesta, I socialisti italiani... cit., pp. 271-272. Sulle ripercussioni della rivoluzione d’Ottobre sul socialismo italiano, si veda Stefano Caretti, La rivoluzione russa e il socialismo italiano, 1917-1921, Nistri-Lischi, Pisa 1974, pp. 97 sg. 58 Julius Martov, noto esponente menscevico, aveva smentito le voci d’un preteso accordo fra lui e Lenin, «accordo – precisò – reso impossibile a causa del carattere utopista del movimento leninista, che cerca di introdurre il collettivismo in una Russia arretrata economicamente, contro la volontà della maggioranza del popolo, con la forza armata dei soldati, stanchi della guerra e pronti a sostenere qualsiasi partito che prometta la pace immediata». Cfr. La lotta delle tendenze nel socialismo russo. Una dichiarazione di Martov, “Avanti!”, 25 dicembre 1917. All’“Avanti!” rispose Claudio Treves, Lenin, Martov e... noi, “Critica sociale”, 1-15 gennaio 1918, p. 4. La polemica, ampiamente rimbalzata sulla stampa “borghese”, è integralmente riprodotta in Guido Donnini, Il 1917 di Russia… cit., pp. 396-415. 59 La lettera di Nicola Bombacci, indirizzata a Gustavo Sacerdote, corrispondente dell’“Avanti!” da Zurigo e che fungeva da tramite con Junior, fu sequestrata dall’Ufficio militare di Milano. Il documento è nel già citato “Storia e Dossier”, inserto redazionale allegato al n. 16, marzo 1988, p. 50. 60 Gaetano Salvemini, Dal Patto di Londra alla Pace di Roma. Documenti della politica estera che non fu fatta, Piero Gobetti Editore, Torino 1925, p. XIV. 61 Leo Valiani, Il partito socialista italiano dal 1900 al 1918, “Rivista storica italiana”, n. 2 1963, p. 322.

Ma le misure prese dal governo non spiegano tutto. Il fatto è che le masse italiane non avevano una coscienza rivoluzionaria, né preparazione ideologica alla rivoluzione. Le manifestazioni popolari andavano verso la pace, non verso la rivoluzione. I bigliettini gettati dalle donne sui treni militari francesi in transito da Torino incitavano alla pace62. E anche l’impulso dei soldati sbandati in seguito alla rotta di Caporetto fu verso la pace e non verso la rivoluzione. Le testimonianze raccolte sono concordi: «nessun atto di violenza si verificò contro gli ufficiali; piuttosto si notò uno stranissimo comportamento: nella generale indisciplina, remissività e sostanziale rispetto, anche se non sempre manifestato con forme esteriori»63 .

Ha ragione Lucio Ceva quando osserva che fu solo una frazione minoritaria della cultura marxista «che a suo tempo si trastullò con l’dea di una Caporetto rivoluzione mancata per l’assenza di un partito cosciente in grado di guidare le masse»64. «La guerra italiana si decise militarmente sul Piave», ma dopo Caporetto si decise anche il dopoguerra?65 Renzo De Felice ne è convinto e lo afferma, recisamente, senza punto interrogativo. Certamente Caporetto prefigurò – e lo si poteva vedere già nel novembre 1917 – lo sfondo della futura guerra civile, dove si sarebbero scontrati, l’uno contro l’altro, un nuovo tipo di socialismo italiano, il massimalismo, e un nuovo tipo di antisocialismo, l’antibolscevismo. Tuttavia, il finale non era stato scritto. Soprattutto non era allora chiaro se lo scontro avrebbe portato soltanto a un cambiamento del sistema politico o se la parte vincente avrebbe assunto il potere totale.

L’impatto della rivoluzione d’Ottobre sulla politica estera dell’Italia

Nelle prime settimane che seguirono la rivoluzione d’Ottobre, le notizie inviate al Ministero degli Esteri dall’Incaricato d’Affari a Pietrogrado e gerente l’ambasciata, Giuseppe Catalani, e dal Console Cesare Majoni da Mosca riflettevano della situazione russa un quadro fluido ancora suscettibile di radicali mutamenti66. Il fatto che i bolscevichi esercitassero per alcune settimane il controllo solo su una piccola parte di territorio dette modo ai rappresentanti alleati a Pietrogrado di prender tempo e ignorare il nuovo governo.

Il 20 novembre, Trockij, fresco Commissario agli Esteri, prese possesso del Ministero e riuscì a farsi consegnare dai vecchi funzionari zaristi – con le buone o con le cattive – cifrari e archivi. Nello stesso giorno informò gli ambasciatori alleati dell’avvenuto cambio di governo, comunicò loro il decreto sulla pace e consegnò una Nota diretta a tutti i belligeranti. Essa conteneva la proposta di armistizio su tutti i fronti. Gli ambasciatori alleati, riunitisi

62 Sidney Sonnino, Diario 1916-1922. Vol. III, a cura di Piero Pastorelli, Laterza, Roma-Bari 1972, p. 205 (alla data del 3 novembre 1917). 63 Emilio Faldella, La grande guerra. Vol. II, cit., p. 330. 64 Lucio Ceva, Parliamo ancora di Caporetto, “Nuova Antologia”, n. 2206, aprile-giugno 1998, p. 103. 65 Si veda Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario, 1883-1920, Einaudi, Torino 1965, p. 365. 66 L’incertezza della situazione si può seguire attraverso i concisi telegrammi di Catalani pubblicati nei DDI, Serie V, Vol. IX, NN. 520, 529, 537, 550, 577, ecc. I riferimenti all’Italia contenuti nei discorsi di Trockij e le sue note dirette all’ambasciata italiana, si trovano in una serie di rapporti spediti a Roma da Catalani per corriere e non pubblicati nei DDI. E ad essi, in quanto più completi, si riferiscono le note archivistiche che seguono.

il 22 novembre a “conclave”, decisero di non rispondere alla Nota, ma di considerarla una semplice dichiarazione di partito, non un atto di governo. Decisero anche di non entrare in rapporti ufficiali con il Consiglio dei Commissari del popolo, non rappresentativo del popolo russo, ma di limitarsi a trasmettere ai propri governi le note ricevute. Catalani si adeguò alla decisioni dei suoi più esperti colleghi, l’inglese George Buchanan e il francese Joseph Noulens.

Sennonché lo stesso giorno Trockij, parlando al Comitato Centrale del Soviet, fece dichiarazioni che non potevano più essere ignorate. Egli dichiarò che i trattati segreti, stipulati durante la guerra dalle grandi potenze, erano ormai nelle mani del potere sovietico, che avrebbe cominciato a pubblicarli nei giorni seguenti. Proseguendo il discorso, parlò dello sconcerto e dell’ostilità con cui era stata accolta la rivoluzione bolscevica dai governi dei paesi belligeranti, ma non dai popoli. E venendo all’Italia così si espresse: «In Italia le notizie del nostro colpo di Stato [sic!] sono state accolte con entusiasmo, giacché in Italia la disillusione per la politica di conquista si accentua di giorno in giorno»67 .

In pratica Trockij presentò la situazione italiana come se la contrapposizione fra popolo e governo fosse sul punto d’esplodere. Il giorno dopo indirizzò al reggente dell’ambasciata italiana la Nota della sospensione delle operazioni militari per una settimana e, per una stessa durata di tempo, la sospensione delle trattative dell’armistizio con gli austro-tedeschi. Ancora una settimana venne concessa ai popoli e ai governi dell’Intesa, dopo di che «o dessero il loro consenso o il loro rifiuto a partecipare alle trattative per l’armistizio e per la pace; e in caso di rifiuto possano apertamente decisamente e fermamente dichiarare innanzi a tutta l’umanità in nome di quali intendimenti i popoli d’Europa debbano spargere sangue durante il quarto anno di guerra»68 .

Tre giorni prima, il 20 novembre, il Commissario alla Guerra, l’aspirante sottotenente Krylenko, aveva ordinato al comandante in capo dell’esercito russo, generale Dukhonin, di diramare alle truppe l’ordine di fraternizzare col nemico. Dukhonin si era rifiutato d’eseguire l’ordine, sostenuto dalle missioni militari alleate. Krylenko, allora, prese il suo posto; Dukhonin fu esautorato, poi arrestato e quindi linciato a morte dalla soldataglia a Mohilev, sede della Stavka (Comando Supremo). Falliti gli sforzi degli ambasciatori e delle missioni militari alleate di utilizzare la Stavka come base per la costituzione d’un contro-governo, Buchanan si risolse a faire bonne mine a mauvais jeu69. E aprì uno spiraglio al dialogo col nuovo governo. Senza impegnare l’Intesa in trattative di pace sulla base delle proposte sovietiche, suggerì al Foreign Office di lasciare la Russia libera d’accettare le pesantissime condizioni tedesche, oppure di continuare a combattere. In pratica consigliava di sciogliere la Russia dalla convenzione di Londra del 5 settembre 1914, che impegnava i firmatari a non concludere pace separata.

Lo spiraglio aperto da Buchanan venne subito richiuso dalla pubblicazione dei trattati segreti. Come è noto, tra la fine di novembre e i primi di dicembre 1917 uscirono sulle colonne della “Pravda”, delle “Izvestija” e della “Novaja Žizn” un centinaio di documenti

67 Catalani a Sonnino, Pietrogrado, 30 novembre 1917 (per corriere), N. 1712/438, in ASMAE, Russia Affari Politici, 1915-1918, b. 172. 68 Il Commissario del Popolo per gli affari esteri all’Ambasciatore d’Italia per visione, Pietrogrado, 23 novembre 1917, ivi. 69 George Buchanan, My Mission to Russia and Others Diplomatic Memories. Vol. II, Cassell and Company, London 1923, p. 225.

diplomatici. Lo smascheramento delle mire imperialistiche delle potenze belligeranti era parte della predicazione rivoluzionaria messa in campo da Lenin e Trockij per inquinare i rapporti tra i popoli e i governi, tra gli eserciti e i comandi, dei paesi belligeranti. «L’ingiustificata e ingiustificabile violazione di fede commessa dai bolscevichi»70 provocò la reazione dei governi dell’Intesa, che fino a quel momento erano «stati sul chi vive», in attesa degli eventi. Clemenceau considerò la pubblicazione dei trattati una vera e propria rottura dell’alleanza.

La reazione del governo italiano fu ritardata dalla crisi militare di Caporetto. La prima replica alla rivoluzione d’Ottobre si ebbe il 18 novembre con la nomina di Pietro Tomasi della Torretta a reggere l’ambasciata italiana a Pietrogrado. La scelta d’inviare in Russia un esponente della corrente filorussa della “carriera”, farebbe supporre «nonostante tutto, il convincimento di Sonnino che ancora fosse possibile conservare alle relazioni fra Roma e Pietrogrado un carattere amichevole»71. Tuttavia la pubblicazione dei trattati segreti impresse da subito una curvatura non “amichevole” alla missione della Torretta. La violazione del segreto diplomatico aveva messo in grande difficoltà la politica estera dell’Italia sul piano interno ed internazionale. La stessa posizione personale di Sonnino era uscita scossa dal dibattito parlamentare della Camera, riunita in dicembre in comitati segreti72 . Il 15 dicembre, quando della Torretta giunse a Pietrogrado, l’indirizzo della politica russa dell’Italia era ormai voltato nel senso della chiusura verso la Russia bolscevica.

L’intera vicenda della pubblicazione dei trattati segreti era stata seguita a Roma con particolare apprensione. Sonnino insistette con Catalani per avere la trascrizione precisa dei testi. Il 28 novembre uscì sulle “Izvestija” un primo lungo articolo che spiegava la genesi del Patto di Londra insieme ad altra corrispondenza segreta inviata dall’ambasciatore Girs da Roma73. Qualche giorno dopo fu pubblicato il testo completo. Il contenuto del trattato fu divulgato dai giornali tedeschi e austriaci per denunciare presso la propria opinione pubblica, ma soprattutto presso quella croata e slovena, le mire annessionistiche dell’Italia nei confronti degli slavi del Sud. E se ne servirono per inquinare la resistenza dei soldati italiani, facendo piovere dal cielo sulle loro trincee migliaia di opuscoli.

La stampa italiana dette ampiamente notizia della pubblicazione dei trattati, ma la censura impedì, per qualche mese almeno, che l’opinione pubblica sapesse dell’esistenza, fra i documenti divulgati, di un patto che riguardava l’Italia. Tuttavia il segreto non resistette a lungo. Il “Manchester Guardian” prese a pubblicare integralmente i singoli testi con metodo e regolarità dal mese di dicembre. Il testo integrale del Patto di Londra apparve

70 L’espressione è di Sidney Sonnino, Discorsi Parlamentari. Vol. III, cit., Tornata del 16 febbraio 1918, p. 581. 71 Mario Toscano, L’inizio della rivoluzione sovietica visto dall’ambasciata d’Italia a Pietrogrado, “Nuova Antologia”, n. 2 1968, p. 185. 72 Comitati segreti sulla Condotta della guerra… cit., Comitato segreto del 17 dicembre 1917, pp. 193 sg. 73 Catalani a Sonnino, rap. N. 1723/444, Pietrogrado, 30 novembre 1917, in ASMAE, Russia Affari Politici, 1915-1918, b. 172, fasc. rap. pol. Russia. Insieme alla traduzione dell’articolo, era anche tradotto il telegramma di Girs che, a nome di Sonnino, chiedeva con urgenza al proprio governo d’iniziare, se non un’offensiva, almeno «una dimostrazione militare sul fronte russo». E insisteva: l’Italia «ha posto tutte le sue maggiori speranze su di noi», perciò ha bisogno di essere sostenuta.

nell’edizione del 18 gennaio74. Venne così ad essere conosciuta anche la clausola relativa all’esclusione della Santa Sede dalla futura conferenza della Pace. «Il Vaticano la sospettava, ma non ne era sicuro. Altro bel servizio che la Russia ci rende»75 fu il commento di Ferdinando Martini.

Intanto, era bastata la notizia della pubblicazione dei trattati segreti perché la stampa diffondesse presso l’opinione pubblica l’immagine dei bolscevichi “agenti della Germania” e, in quanto tali, organizzatori del tradimento. Vladimiro Zabughin fu il primo in Italia a diffondere la teoria conosciuta come Revolutionierungspolitik (politica della sovversione). La diffuse prima negli ambienti di governo sotto forma di relazione riservata, poi al vasto pubblico in un apposito volume. Fu anche il primo testimone a tornare in Italia dalla Russia, dove era stato, dal 16 giugno al 15 novembre 1917, ad illustrare la guerra dell’Italia per conto dell’Ufficio della Propaganda76. Secondo la sua testimonianza – egli era a Pietrogrado in quei “dieci giorni che sconvolsero il mondo” – la presa del potere da parte dei bolscevichi si svolse «con un programma prestabilito, con un’accuratezza tedesca e con disciplina idem [...]. Verso sera s’iniziò l’assedio del Palazzo d’Inverno, condotto per circa sei ore, sembra, sotto il comando di ufficiali germanici»77. Nel volume, Zabughin avrebbe attenuato l’immagine di Lenin e Trockij «impiegati del Kaiser»78. Essi erano innanzitutto «paladini dell’Internazionale», che si servivano per i loro fini dei denari del Kaiser, ma confermò la partecipazione degli ufficiali tedeschi al colpo di Stato. D’altra parte anche Buchanan raccolse la voce che il colpo di Stato fosse pianificato da ufficiali tedeschi e che almeno sei di costoro facessero parte dello staff di Lenin allo Smolny79. Nelle cancellerie, insomma, la collusione, se non la cospirazione germano-bolscevica era data per scontata. L’opinione pubblica dell’Intesa non faceva questo distinguo: condannava sommariamente la lâcheté dei russi, il loro tradimento80. Il servizio d’informazioni americano intese accreditare la tesi della cospirazione al punto da documentarla attraverso la raccolta e la pubblicazione di 68 – sessantotto! – documenti probatori81 .

Si trattava d’illazioni – è bene sottolinearlo – nate insieme agli avvenimenti. Tuttavia l’esistenza d’un «fattore germanico nella rivoluzione bolscevica» è sempre stato oggetto

74 Tutti i trattati pubblicati dal “Manchester Guardian” furono raccolti in opuscolo da Charles Albert McCurdy, The Truth about the “Secret Treaties”, W.H. Smith & Son, London 1918. Il Patto di Londra è alle pp. 19-21. 75 Ferdinando Martini, Diario 1914-1918, cit., p. 1057 (alla data del 28 novembre). 76 L’Ufficio per la Propaganda all’estero e la stampa, istituito con decreto il 1° novembre 1917 e soppresso il 4 gennaio 1919, fu retto dal Sottosegretario all’Interno, Romeo Gallenga Stuart. Cfr. Luciano Tosi, La propaganda italiana all’estero nella prima guerra mondiale. Rivendicazioni territoriali e politica delle nazionalità, Del Bianco, Udine 1977, p. 138. 77 Vladimiro Zabughin, Rapporto sulla missione in Russia, a S. E. l’on. Gallenga, Ufficio Propaganda, Roma s.d. [ma dicembre 1917], p. 30, in ASMAE, Russia Affari Politici, 1915-1918, b. 175, fasc. Relazioni con la Russia. 78 Vladimiro Zabughin, Il gigante folle. Istantanee della rivoluzione russa, Prefazione di Vittorio Scialoja, Bemporad, Firenze 1918, pp. 185 sg. 79 George Buchanan, My Mission... cit., p. 232 (alla data del 7 dicembre 1917). 80 Annie Kriegel, L’opinion publique française et la révolution russe, ne La révolution d’Octobre et le mouvement ouvrier européen, a cura di Marc Ferro-Victor Fay et al., EDI, Paris 1967, p. 99. 81 The German-Bolshevik Conspiracy. A Report by Edgar Sisson, “The Committee on Public Information”, n. 20, October 1918.

di speculazione e la storiografia occidentale non ha mancato d’indagarlo con rigore scientifico82. Oggi su di esso si interroga anche la storiografia russa. Ed è quanto basta sapere su questo punto. Più rilevante ai nostri fini è sottolineare come Zabughin fosse tornato, dal suo lungo e istruttivo viaggio, convinto sostenitore, forse il primo in Italia, dell’intervento militare in Russia. Egli riteneva necessario, per combattere la Germania e rendere la Russia a se stessa, «un intervento rapido, energico compiuto d’accordo con le potenze dell’Intesa, ma soprattutto fra forze americane e giapponesi»83 .

Guerra alla Russia o al bolscevismo?

I Presidenti del Consiglio e i Ministri degli Esteri dell’Intesa si riunirono a Parigi il 29 novembre 1917. La conferenza interalleata, in origine, era stata programmata per il 10 novembre, su iniziativa di Kerenskij e Tereščenko. Entrambi avevano molto insistito per ridiscutere gli scopi di guerra dell’alleanza alla luce del programma del Soviet “pace senza annessioni e senza indennità”. Il 29 novembre, però, quando i capi politici dell’Intesa si ritrovarono nella capitale francese, la rivoluzione bolscevica aveva rovesciato l’ordine del giorno. La discussione sugli scopi di guerra era passata in secondo piano. Per i capi dell’Intesa la posta in palio si presentava più alta, più urgente anche della sfida rivoluzionaria lanciata all’Europa da Lenin e Trockij. La posta in palio era diventata, per essi, geopolitica. Germania e Austria-Ungheria, dopo aver rotto l’alleanza della Russia con l’Intesa, stavano per avviare i colloqui di pace a Brest-Litovsk, cioè per riconoscere il governo bolscevico. La Russia avrebbe potuto diventare subito una colonia tedesca, oppure, in futuro, un protettorato della Germania. Lloyd George illustrò la prospettiva dell’edificazione d’un blocco germano-sovietico come si trattasse d’una questione di vita o di morte non solo per l’Intesa, ma per l’Europa intera. Evidentemente egli parlava sotto la suggestione delle teorie di Alford John Mackinder84. Nel corso della sua esposizione lesse il telegramma di Buchanan, a noi già noto, nel quale l’ambasciatore inglese suggeriva che gli Alleati restituissero la parola ai russi. Lloyd George si dichiarò favorevole a sciogliere la Russia dalla convenzione del 5 settembre 1914. Era l’unica possibilità, secondo lui, che rimaneva all’Intesa per stabilire un modus vivendi se non amichevole, almeno non conflittuale con la Russia bolscevica, prima di lasciarla

82 Si veda, a questo proposito, Zbyněk Anthony Bohuslav Zeman (a cura di), Germany and the Revolution in Russia, 1915-1918. Documents from the Archives of the German Foreign Ministry, Oxford University Press, London 1958. La nota 3 dell’Introduzione (p. X) tratta dell’autenticità o della manipolazione dei “Sisson Documents”. 83 Vladimiro Zabughin, Rapporto sulla missione in Russia… cit., p. 33. 84 Alford John Mackinder, The Geographical Pivot of History, The London Geographical Society, London 1904 e 1969. Mackinder sosteneva che la storia era giunta alla sua terza fase, da lui definita post-colombiana, nella quale era ricomparsa la minaccia continentale. Il territorio caratterizzato dalla predominanza della forza continentale era costituito dalla Russia – Heartland – «stato pivot», e dal territorio a cavallo tra il continente e il mare – Germania, Austria-Ungheria Turchia, India e Cina – chiamato Inner crescent. Le potenze puramente marittime – Inghilterra, Stati Uniti, Canada, Australia e Giappone – formavano l’Outer crescent. Da qui la costruzione dell’equazione: «Chi governa l’Europa dell’Est comanda l’Heartland, chi governa l’Heartland comanda l’isola-mondo [World Island], chi governa l’isola-mondo comanda il mondo» (p. 150).

completamente in balìa della Germania. In altre parole proponeva di considerare la Russia bolscevica una nazione neutrale. Non era un’opinione isolata. Una soluzione simile era sostenuta in una piccola rivista italiana, “Il Monitore italo-russo”, da Achille Fumasoni Biondi, ex Console italiano in Russia, sposato a Marija Balakirsikova.

«Con la eventuale pace – scriveva l’ex Console – la Russia si trasforma, per noi, in una nazione neutrale: anche non giovandoci nel diretto senso bellico, la sua neutralità può avere ancora una importanza, e durante la guerra e specialmente nelle trattative di pace»85 . Era quella di Fumasoni Biondi una flebile voce, sommersa in Italia dal coro della stampa che inveiva contro i bolscevichi “traditori”. Lo stesso accadeva a Parigi. I rappresentanti delle potenze continentali, Francia e Italia, reagirono alla proposta di Lloyd George gonfiando le gote dallo sdegno. Sonnino alzò la voce quando replicò a Lloyd George: «Anche in Italia chi vede le cose andar male chiederà al governo: perché non fa come in Russia? Mi pare convenga non affrettarsi: vediamo ciò che accade in Russia». Clemenceau in preda all’ira ammonì i presenti – l’espressione colorita è riportata nel verbale italiano – «che se [anche] il cielo, la terra, i pianeti e le costellazioni saranno d’accordo nel rendere la sua parola alla Russia, dirò no!»86 .

Dopo quattro giorni di discussioni – 29 novembre-3 dicembre 1917 – in cui anche Maklakov, ambasciatore di Kerenskij a Parigi subito destituito da Trockij, dette ragione a Sonnino, la conferenza impartì agli ambasciatori l’ordine d’astenersi da ogni contatto col governo bolscevico e stabilì di rinviare la discussione sugli scopi di guerra al momento in cui in Russia ci fosse stato un governo rappresentativo di tutto il popolo russo.

Il governo italiano si attenne ad un’interpretazione scrupolosa dei deliberati della conferenza. Vietò a della Torretta sia di stabilire contatti diretti o indiretti col governo dei Commissari del popolo, sia di riconoscere ai corrieri del governo bolscevico le stesse immunità godute da quelli degli altri paesi87. Alle ambasciate italiane fu vietato di rilasciare passaporti a cittadini russi.

I governi francese, inglese e americano, invece, ci ripensarono. Considerarono un errore la mancanza di qualsiasi canale di comunicazione con il governo bolscevico. E rimediarono. Era successo che, subito dopo l’inizio dei colloqui di pace a Brest-Litovsk, Trockij si fosse reso conto che gli Imperi centrali non avrebbero trattato sulla base del principio “pace senza indennità né annessioni”. Allora cercò segretamente di conoscere l’atteggiamento dell’Intesa, nel caso fosse intervenuta una rottura delle trattative di pace. Tali sondaggi si dispersero nel vuoto diplomatico creato attorno ai Commissari del popolo. Ciò indusse Francia, Inghilterra e Stati Uniti a stabilire canali di comunicazione col governo bolscevico tramite agenti cosiddetti “irresponsabili”. Il capitano della missione militare francese Jaques Sadoul, Bruce Lockhart già Console generale inglese a Mosca, il colonnello

85 Achille Fumasoni Biondi, Con Berlino o contro?, “Il Monitore italo-russo”, a. II, 15 ottobre-15 dicembre 1917, p. 611. La rivista ebbe breve durata. Vi collaborarono esponenti di spicco dell’emigrazione russa non bolscevica. Ringrazio per le notizie la Prof.ssa Giuseppina Larocca, che si occupa da tempo di emigrazione russa in Italia. 86 ASMAE, Conferenze varie, 1917-1918, b. 3, Conferenza degli Alleati a Parigi, novembre-dicembre 1917, seduta del 30 novembre 1917, ore 16 al Quai d’Orsay. Ora in DDI, Serie V, vol. IX, N. 598. 87 Sidney Sonnino, Carteggio. Vol. 2: 1916-1922, cit., p. 355 (alla data del 25 dicembre 1917).

Raymond Robins capo della Croce rossa americana in Russia, svolsero questo ruolo con minore o maggiore affidabilità88 .

Anche il governo francese, nella prima metà di dicembre, ebbe un profondo ripensamento in merito alla sua politica russa, fondata su 25 anni d’alleanza con l’Impero zarista. La commissione “Russia”, appositamente creata dal Quai d’Orsay, arrivò alla conclusione che nel breve periodo il nemico principale della Francia non fosse né i bolscevichi, né il bolscevismo, ma la Germania. L’espansione tedesca in Russia minacciava gli interessi economici e strategici francesi in Russia in una misura assai più urgente ed immediata d’un futuro contagio del bolscevismo.

La questione russa, inquadrata da questa prospettiva, avvicinò il punto di vista francese a quello inglese, ragione che convinse Clemenceau a convocare una riunione franco-inglese per coordinare una comune politica in Russia. Il 23 dicembre 1917, il giorno dopo l’apertura delle trattative di Brest-Litovsk, Lord Milner, membro del War Cabinet e Lord Edgar Cecil, Segretario aggiunto del Foreign Office, si incontrarono a Parigi con Clemenceau, Pichon e il generale Foch. Al termine dell’incontro fu redatto un accordo segreto, conosciuto come Convention entre la France et l’Angleterre au sujet de l’action dans la Russie Meridionale, in base al quale la Russia meridionale fu divisa in sfere d’influenza. La zona d’azione francese includeva la parte settentrionale del Mar Nero: Bessarabia, Ucraina e Crimea; quella inglese la parte sud-est del Mar Nero: l’area dei Cosacchi del Don, il Caucaso e il Kurdistan. La convenzione, camuffata come war measure nel quadro del contenimento dell’espansione germanica in Russia, non era stricto sensu un accordo di spartizione, ma prefigurava la suddivisione in future zone d’influenza e in via di principio lo smembramento dell’Impero russo. L’integrità della Russia era percepita dal Quai d’Orsay come una minaccia potenziale per la Francia, nel senso che avrebbe avvantaggiato la Germania nel costruire il suo sistema continentale: la Mitteleuropa. La risposta dei geografi francesi, per ostacolare la formazione di questo blocco, piegò nel senso di sfruttare l’anarchia diffusasi in Russia e di favorire la nascita di Stati secessionisti, a cominciare dalla Polonia e dalla Finlandia.

La ricostituzione della Polonia, perciò, fu progettata come perno del sistema delle future alleanze francesi legate alla costituenda Cecoslovacchia e alla Romania ingrandita. Il sistema doveva essere esteso all’Ucraina89 e alla Lituania. E anche agli Stati frontalieri come la Finlandia, l’Estonia e la futura Jugoslavia. Questa cintura degli Stati nazionali nell’Europa centro-orientale fu progettata per impedire ogni contiguità territoriale fra la Germania e la Russia. Il recupero dell’archetipo “Polonia antemurale dell’Europa” conteneva anche una risposta alla sfida lanciata dal bolscevismo all’Europa. La geopolitica francese recuperava in questo modo anche la diagnosi di Jean-Jacques Rousseau. In contrasto con Voltaire, il filosofo ginevrino aveva sempre sostenuto che la Polonia avrebbe dovuto adempiere alla funzione di barriera contro la Russia. Era l’unico modo per salvaguardare l’Europa dalla

88 Per approfondire si veda John W. Weeler-Bennett, Brest-Litovsk. The Forgotten Peace. March 1918, MacMillan, London 1956, pp. 140 sg. 89 L’8 gennaio 1918, il governo francese autorizzò il generale Tabois a riconoscere la Rada di Kiev come autorità legittima in Ucraina. Veniva così stabilito, in realtà, un protettorato sotto forma di collaborazione economica, finanziaria e militare. Cfr. Anne Hogenhuis-Seliverstoff, Les relations franco-soviétiques, 1917-1924, Publications de la Sorbonne, Paris 1981, pp. 51-52.

minaccia del dispotismo russo90. In questo senso i termini “barrière de l’Est” e “cordon sanitaire” potrebbero apparire sinonimi, due facce della stessa politica orientale francese. Ma non è così. Ha ragione Kalervo Hovi, quando afferma che «the new French Eastern European alliance policy was thus during the First World War, indisputably a barrier policy, not a “cordon sanitaire” one»91 .

Il governo italiano venne a conoscenza dell’incontro franco-inglese del 23 dicembre a Parigi negli ultimi giorni di dicembre. Dalle frammentarie informazioni raccolte via Londra, Sonnino si rese conto che la Francia e la Gran Bretagna, con l’alibi di combattere il bolscevismo, stavano in realtà pianificando lo smembramento dell’Impero russo. La sua reazione, per usare un eufemismo, fu rabbiosa. Dopo aver visto crollare la sua interpretazione del “cordone sanitario”, sentì franare anche uno dei pilastri della politica estera italiana: l’unità della Russia. Naturalmente protestò e non approvò quella politica che il governo italiano non aveva concorso a definire. La concezione strategica dell’Italia, diversamente dalla geopolitica francese, contemplava per il dopoguerra l’integrità dell’Impero russo. E diversamente dalla strategia del governo inglese, che mirava ad indebolire la Russia, non a combattere il bolscevismo, il governo italiano puntava decisamente ad abbattere il bolscevismo, non a smembrare la Russia. Sonnino provava “orrore” alla prospettiva del vuoto geopolitico prodotto in Asia dalla frantumazione dell’Impero russo. E altrettanto catastrofico per l’equilibrio europeo considerava ogni suo smembramento: l’unità della Russia era necessaria per l’Italia onde impedire la preponderanza tedesca sul Baltico e in Europa centrale. Per quanto fu nelle sue possibilità, Sonnino cercò di contrastare la prospettiva della frantumazione della Russia. Non riconobbe la Finlandia de jure, né l’Ucraina de facto, come già aveva provveduto la Francia all’inizio del 1918. Acconsentì alla ricostituzione di una Polonia indipendente senza lo sbocco sul Baltico. E considerò il “corridoio polacco” che attraversava la Prussia una bomba ad orologeria posta nel cuore dell’Europa.

L’opposizione di Sonnino alla dissoluzione dell’Impero russo presentava, oltre a quello strategico, un risvolto ideologico: l’avversione al “principio di nazionalità”. Sonnino respingeva l’ideologia liberal-democratica in nome del principio conservatore e non riconosceva ad essa alcuna forza di resistenza nel confronto con il leninismo. Il pericolo bolscevico, per Sonnino, doveva essere represso là dove si manifestava, nella Russia sovietica, non diluendone le sfide in tanti e diversi contesti statuali. Inoltre, l’opposizione di Sonnino al principio di nazionalità, nell’accezione wilsoniana del national self-government, espressa nei “14 punti” – 8 gennaio 1918 – era animata dal timore che la prospettiva della pace democratica potesse compromettere gli scopi di guerra dell’Italia e così la politica della “delenda Russia” si sarebbe tirata dietro la campagna in favore della “delenda Austria”. Ma più profondi ancora erano i fondamenti “filosofici” di quella opposizione. Sonnino era convinto che l’accettazione di quel principio avrebbe sconvolto la geopolitica dell’Europa e l’ordine internazionale. Nel processo ormai messosi in moto in Russia tra la fine del 1917

90 Cfr. Dieter Groh, La Russia e l’autocoscienza d’Europa. Saggio sulla storia intellettuale d’Europa, tr. it., Einaudi, Torino 1980, pp. 60 sg. 91 Kalervo Hovi, Cordon Sanitaire or Barriere de l’Est? The Emergence of the new French Eastern European Alliance Policy 1917-1919, Turun Yliopisto, Turku 1975, p. 135. Ma tutto il libro è da leggere con attenzione.

e l’inizio del 191892, Sonnino intravide anche la spinta che avrebbe accelerato le singole nazionalità dell’Impero asburgico a reclamare ciascuna per sé la completa separazione. E dietro tutto ciò egli vide il frantumarsi degli elementi essenziali del concerto europeo, che garantivano all’Italia il suo status di grande potenza93 .

La posizione di Sonnino fu presto isolata in seno all’Intesa, e anche indebolita in patria dalla diplomazia del Presidente del Consiglio Orlando, una novità e un equivoco nella politica estera italiana. Lloyd George e Clemenceau avevano confezionato un pacchetto di politiche “progressiste”. Dicevano di parlare in nome dei diritti dei popoli e progettavano frontiere strategiche. In questo modo le speranze dei popoli oppressi, nell’interesse geopolitico della Francia, entrarono nel convegno interalleato di Versailles – 30 gennaio-1° febbraio 1918.

L’opposizione di Sonnino alla politica russa dell’Intesa spiega, al di là della scarsità dei mezzi e delle risorse di cui il governo poteva disporre, la partecipazione del tutto simbolica dell’Italia alla guerra civile russa. L’intervento italiano si dispiegò in due limitati settori dell’immenso fronte russo, nel Mar di Barents e in Siberia. Il 4° Battaglione del 67° Fanteria, più complementi, compagnia mitraglieri, carabinieri, genio, sussistenza, ospedale da campo, sbarcò a Murmansk nel settembre 1918 ed operò lungo la ferrovia murmanica, nella direzione di Pietrogrado, fino a Kern e a Soroka94. La cosiddetta Legione Redenti, formata da ex prigionieri giuliani e trentini in Russia raccolti nella concessione italiana di Tientsin, rafforzati da elementi metropolitani – poco più d’un migliaio di uomini – operò invece nel settore di Krasnojarsk. Il contingente collaborò con i cecoslovacchi a tenere sotto controllo le regioni tra lo Jenisej e il Kan. Il diario d’un oscuro geniere, Giuseppe Carrara, giunto in Siberia con i complementi, ci consente di guardare con l’ottica del soldato a quella strana guerra priva di battaglie, più simile a un’azione di polizia che ad un’operazione bellica, nei confronti d’un nemico di nuovo tipo: la banda partigiana, che si ritirava ma rimaneva sullo sfondo, evanescente ma presente95 .

L’ultimo – ed estremo – tentativo di Sonnino per colpire al cuore il bolscevismo e per salvare l’integrità dell’Impero russo fu da lui compiuto nella seduta del Consiglio dei Dieci

92 Per la disintegrazione dell’Impero russo – e la formazione dell’“impero” sovietico – si veda il classico volume di Richard Pipes, The Formation of the Soviet Union. Communism and Nationalism, 1917-1923, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1954. 93 Per la visione geopolitica di Sonnino, rinvio al volume di Giorgio Petracchi, La Russia rivoluzionaria nella politica italiana… cit., pp. 50 sg. Il volume di James Burgwyn, The Legend of the Mutilated Victory: Italy, the Great War, and the Paris Conference, 1915-1919, Greenwood Press, London 1993, non coglie la stretta connessione “delenda Russia” e “delenda Austria”, ossia come la rivoluzione russa e la politica della Francia e della Gran Bretagna, rivolta allo smembramento della Russia, avesse messo in crisi tutta l’impostazione della politica estera di Sonnino – anche perché ignora la storiografia italiana sull’argomento. Egli scorge la posizione di Sonnino scossa e ridimensionata solo in seguito alle dichiarazioni e degli scopi di guerra di Lloyd George e soprattutto di Wilson – cfr. Sonnino Upstaged?, ibid., pp. 138 sg. Qualche considerazione generale sul declino della politica sonniniana, causato dagli eventi del 1917, è in Luca Riccardi, Sonnino e l’Intesa durante la prima guerra mondiale, in Sonnino e il suo tempo (1914-1922), a cura di Pier Luigi Ballini, Rubbettino, Soveria Mannelli 2011, pp. 66-68. 94 Una pagina, tra la storia e la letteratura, dell’attività del corpo di spedizione si trova in Massimo Campigli, Soldati italiani in Russia, “La Lettura”, n. 1 1919, pp. 35-40. 95 Giuseppe Carrara, Diario, 1918-1920, Azienda Grafica Sanfeliciana, San Felice sul Panaro 1982.

della Conferenza della Pace. Era il 21 gennaio 1919. Fu in quella sessione che Sonnino, attraverso l’audizione di esperti e testimoni, introdotti in una successione che privilegiava i fautori dell’intervento – ciò che gli fu rimproverato – cercò di far prevalere la tesi secondo la quale il bolscevismo non sarebbe caduto da sé. Ma sarebbe stato possibile abbatterlo organizzando un corpo di spedizione forte di 100.000-150.000 volontari96. Soltanto poche voci si unirono alla sua. Tra queste, quella fragorosa di Winston Churchill, anche se fuori tempo. Egli fece la sua famosa apparizione al Consiglio supremo il 14 febbraio, in assenza di Lloyd George e Orlando, e mentre Wilson era sul piede di partenza.

Churchill prese la parola nel corso della sessione convocata d’urgenza alle ore 18.30 della sera. E rilanciò la proposta dell’intervento contro il bolscevismo con un corpo di volontari97. Il suo discorso non modificò l’indirizzo del Consiglio dei Dieci. Isolato Sonnino, e presa la decisione di chiudere la politica dell’intervento, si pensò di rispondere all’offensiva di pace lanciata da Čičerin, che aveva sostituito Trockij al Commissariato agli Esteri. Scartata la proposta di convocare i rappresentanti bolscevichi a Parigi, il Consiglio deliberò d’indire la Conferenza di Prinkipo; di far incontrare, cioè, i governi esistenti di fatto in Russia nella nota isoletta del Mar di Marmara, già luogo di villeggiatura della nobiltà russa. Ma, avendone già scontato in anticipo il fallimento, l’Intesa tornò al vecchio metodo delle iniziative unilaterali e alla spartizione delle sfere d’influenza. Nell’ambito dell’offensiva di pace rivolta a tutti i governi dell’Intesa, Čičerin indirizzò all’Italia un apposito memorandum. Le difficoltà di far pervenire al governo italiano il messaggio furono superate ricorrendo ad un espediente non infrequente per quei tempi. Čičerin liberò dalla condizione di ostaggio, in cui si trovava, il Viceconsole Pietro Sessa, gerente di fatto del Consolato italiano a Mosca, e gli affidò il compito di rimettere il memorandum nelle mani dello stesso Sonnino. Sessa raggiunse Parigi ai primi di marzo e consegnò il documento al Ministro degli Esteri, accompagnato dal racconto della sua liberazione e del suo viaggio avventuroso. Il memorandum, redatto in francese e datato Mosca 11 febbraio 1919, segna la nascita – si può ben dire – dei rapporti diplomatici italo-sovietici. Čičerin con grande senso della realtà aveva concepito l’incipit nel solco della continuità dei rapporti italo-russi che avevano segnato l’intesa tra Italia ed Impero zarista nel 1909 a Racconigi: «nessun contrasto d’interessi può sussistere tra la Russia e l’Italia, nulla divide il popolo russo dall’italiano». Malauguratamente, continuava il documento, la cronaca di quei giorni testimoniava il contrario e Čičerin ne attribuiva la responsabilità agli errori degli agenti italiani in Russia e soprattutto alla politica dell’Intesa a cui l’Italia era legata. Il Commissario agli Esteri non sbagliava a supporre l’esistenza di un’opposizione in seno alla Conferenza della Pace circa lo smembramento dell’ex Impero russo. Probabilmente aveva avuto riscontri che Sonnino, pur militando nella trincea del nemico del bolscevismo, aveva mostrato un interesse strategico coincidente con la battaglia che Lenin e la diploma-

96 John M. Thompson, Russia, Bolshevism, and the Versailles Peace, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 1966, p. 107. 97 A Churchill Letter in Support of the Anti-Bolshevik Forces in Russia in 1919, “The Russian Review”, Vol. 28, I 1969, pp. 77-82. Si veda anche Richard K. Debo, Survival and Consolidation. The Foreign Policy of Soviet Russia, 1918-1921, McGill-Queen’s University Press, Montreal-Buffalo 1992, pp. 40-41. La stessa vicenda, ma solo inserita in una visione d’insieme, in Margaret MacMillan, Peacemakers: the Paris Conference of 1919 and its attempt to end war, Murray, London 2001, pp. 82 e 86. Del volume esiste anche una traduzione italiana: Parigi 1919: sei mesi che cambiarono il mondo, Mondadori, Milano 2006.

zia sovietica conducevano per la salvaguardia dell’unità della Russia. Čičerin non avrebbe voluto rinunciare alla possibilità di sfruttare questa situazione per rompere il fronte dell’intervento.

Non si conoscono commenti o reazioni da parte di Sonnino. Una copia del documento, dattiloscritta in un francese scorretto, evidentemente passato per diverse mani, è stata rinvenuta tra le Carte Nitti e pubblicata98. Del documento, tuttavia, oltre ad alcuni passaggi pubblicati in inglese99, esiste anche una traduzione integrale italiana100. Indubbiamente, Sonnino non tenne in debita considerazione il documento. Ciò può ricondursi – ed è documentabile – al fatto che in quello stesso periodo il proposito di Sonnino di non riconoscere neppure de facto i governi sorti dalle ceneri dell’Impero russo, si stava piegando alla prospettiva che l’Italia potesse ottenere grandi concessioni in Transcaucasia. Infatti Lloyd George ai primi di marzo avanzò la proposta di conferire all’Italia un mandato nel Caucaso: in realtà, si trattava d’un «ingrato servizio» da rendere a Londra a copertura degli interessi britannici nella regione caucasica101. Il governo italiano accettò l’offerta e impartì allo Stato Maggiore la disposizione di studiare un piano d’occupazione della Georgia. 40.000 uomini, 1.000 quadrupedi, 100 cannoni e 500 automezzi si preparavano nel maggio 1919 nelle basi pugliesi per partire con destinazione Batum. Tuttavia, il corpo di spedizione non lasciò mai l’Italia. Il governo Orlando-Sonnino cadde un mese dopo, il 19 giugno, su una questione procedurale, dopo che, tra la fine d’aprile e la prima decade di maggio, era uscito sconfitto – e isolato – alla Conferenza della Pace.

Il governo Nitti-Tittoni che gli subentrò il 23 giugno – Tittoni fu sostituito nel novembre da Vittorio Scialoja – si trovò subito preso tra due fuochi. Da un lato era attaccato dalla retorica nazionalista e fascista in nome della “vittoria mutilata”; dall’altro era contestato in nome della “politica estera del proletariato”. Il PSI tesseva le fila dello sciopero internazionalista proclamato contro l’intervento militare in Russia e Ungheria. All’ultimo momento, però, Labour Party e SFIO si defilarono, per cui la manifestazione internazionalista ebbe luogo solo in Italia. La situazione fu davvero paradossale: Francia e Gran Bretagna, pesantemente coinvolte nella guerra civile russa, non furono lambite dallo sciopero, mentre si scioperò in Italia contro un governo che non manifestava nessuna intenzione di schiacciare le repubbliche socialiste. Il primo atto del governo Nitti fu di annullare la spedizione militare nel Caucaso e contestualmente di ritirare anche i contingenti italiani dai fronti dell’intervento alleato in Russia. Ma tale era lo spirito del tempo in Italia: bastava gridare “Viva Lenin!”, “tutto il potere ai soviet!”, il resto non contava. Aveva ragione Georges Sorel: lo sciopero generale era la creazione di un mito, non un’azione razionale per ottenere un obiettivo specifico.

Nitti era un economista, uno degli uomini di governo più preparati dell’Italia moderna. Egli concepiva come suo impegno principale la soluzione delle gravi questioni della poli-

98 Giorgio Petracchi, La Russia rivoluzionaria nella politica italiana… cit., pp. 265-273. 99 Extracts from a Note to the Italian Government on Russian-Italian Relations, in Soviet Documents on Foreign Policy. Vol. I: 1917-1924, a cura di Jane Tabrisky Degras, Oxford University Press, London 1951, pp. 139-145. Il documento porta la data, sbagliata, del 14 febbraio. 100 Nota dell’11 febbraio 1919 indirizzata al Governo Italiano, ne Le proposte di pace del governo russo. Documenti diplomatici, raccolti dal Dott. Gino Scarpa, Istituto Coloniale Italiano-Tip. Ditta F.lli Pallotta, Roma 1920, pp. 32-43. 101 Cfr. Marta Petricioli, L’occupazione italiana del Caucaso: “un ingrato servizio da rendere a Londra”, Istituto di Scienze politiche dell’Università di Pavia-Giuffré, Pavia-Milano 1972, p. 35.

tica interna: il problema del carovita, dell’approvvigionamento energetico, del tasso dei cambi, della conversione dell’economia di guerra nell’economia di pace. Si aspettava con ciò di ottenere l’appoggio dei socialisti e dei cattolici. In politica estera mirò a ricostruire gli elementi essenziali dell’equilibrio europeo, cominciando col recuperare al mercato europeo – nel solco della lezione di John Maynard Keynes – la Germania e la Russia sovietica. Scendendo nel dettaglio, cercò di portare l’Italia sulla via di Mosca – un passo avanti all’Inghilterra – passando per Berlino102 .

Il suo progetto combinava espansione economica e riconoscimento politico della Russia sovietica. Nitti doveva aver letto il memorandum di Čičerin. Induce a crederlo la versione che accreditò della politica italiana verso la Russia. Egli partiva dal presupposto che l’Italia non fosse mai stata in guerra con la Russia; neppure c’era stata una sospensione delle relazioni diplomatiche dopo l’arrivo dei bolscevichi al potere. E riduceva l’intervento italiano in Russia ad una presenza puramente di bandiera: «limitati reparti italiani che si sono trovati impegnati sul fronte di Arcangelo si sono limitati ad esplicare azione difensiva a tutela dei depositi accumulati in Arcangelo»103 . Per annodare i fili del suo progetto, Nitti aveva – per così dire – “appaltato” a Filippo Turati, ossia ai socialisti riformisti, la politica tedesca e a Giacinto Menotti Serrati, ossia ai socialisti massimalisti, la politica russa dell’Italia. Se la dimensione internazionale di questa politica attirò contro Nitti l’ostilità della Francia, le implicazioni interne della stessa gli sollevarono contro lo schieramento liberale, nazionalista e fascista. Il trionfo del PSI alle elezioni politiche del 1919 aumentò l’ipoteca socialista sulla politica russa e sbilanciò il sistema delle alleanze su cui Nitti aveva fondato il proprio governo. Nelle piazze i socialisti predicavano di voler “fare come in Russia”, in Parlamento premevano per ottenere l’immediato riconoscimento della Russia sovietica. L’intreccio tra aspetti internazionali e interni della politica russa espose il gabinetto Nitti a tutti i contraccolpi delle lotte interne fra i partiti. L’aperta ostilità del governo francese fece il resto nel provocarne la caduta: Camille Barrère, ambasciatore francese a Roma, e Alexandre Millerand, Presidente del Consiglio, lavorarono di conserva per rovesciare Nitti.

Il governo Giolitti-Sforza che gli succedette non poté non risentire, inizialmente, di questa eredità. Ma nell’autunno del 1920, quando la pressione del PSI sul governo e sull’opinione pubblica si allentò – sconfitta dell’Armata Rossa sulla Vistola, fallimento dell’occupazione delle fabbriche in Italia – la diplomazia poté riprendere il controllo sulla politica russa. Pochi giorni dopo la caduta del governo Nitti, era rientrato a Roma da Mosca Giovanni Amadori Virgili. Egli era il primo diplomatico dell’Intesa a visitare la Russia nella primavera del 1920. Aveva avuto, in via ufficiosa, l’incarico di svolgere un’indagine esplorativa sulle condizioni reali del “paese dei soviet”. Al Ministero degli Esteri si ignorava quasi tutto; non si avevano informazioni e quelle poche erano contraddittorie. Il rapporto redatto da Amadori Virgili consentì alla diplomazia di fornire a Sforza la base d’appoggio per tessere una “politica a rovescio” rispetto a quella di Nitti. Se il regime – come scriveva Amadori Virgili – non era vitale, non bisognava combatterlo, né riconoscerlo. Bisognava

102 Cfr. Giorgio Petracchi, Progetto d’intesa italo-tedesca per la ripresa commerciale con la Russia sovietica ai fini della pacificazione e del rinnovamento dell’Europa, ne La Conferenza di Genova e il trattato di Rapallo, 1922. Atti del Convegno italo-sovietico (Genova-Rapallo, 8-11 giugno 1972), Edizioni Italia-URSS, Roma 1974, pp. 215-269. 103 Ibid., p. 244.

aspettare. Perciò il governo si allineò alla Gran Bretagna sulla questione russa e sulla questione tedesca si riavvicinò alla Francia.

Recuperato il timone della politica russa, la diplomazia mise la barra sulla lunghezza d’onda della Gran Bretagna, mantenendola ferma fino alla presa del potere da parte del fascismo. Ma già montava in Italia, dopo la proclamazione della NEP in Russia, la cordata degli interessi industriali, mossa dalla prospettiva d’accaparrarsi, grazie al regime delle concessioni, l’unico mercato di materie prime non controllato dai gruppi anglo-francesi. Il 23 dicembre 1921 fu stipulato l’accordo preliminare della Torretta-Vorovskij, che dovette aspettare due anni per essere ratificato. Dovette, insomma, aspettare l’arrivo al potere di Mussolini, il quale riprese con nuovo vigore la politica russa di Nitti, e la portò a compimento riconducendola sotto il controllo delle strutture diplomatiche e statuali.

Mistica del soviet (in generale) e ingerenze dell’Internazionale comunista (nello specifico) nell’Italia del primo dopoguerra, 1919-1920

Nel fare il bilancio del ventesimo secolo, con l’obiettivo di comprendere come siano andate le cose, è significativo che uno storico comunista come Eric J. Hobsbawm, per il quale «la rivoluzione d’Ottobre rappresentò la speranza del mondo»104, riconosca che i «bolscevichi commisero ciò che può essere giudicato oggi un errore assai grave e cioè la divisione permanente del socialismo internazionale»105. Questo giudizio recupera, attualizzandola, la polemica sollevata nell’emigrazione da Giuseppe Emanuele Modigliani e Boris Nikolaevskij contro le massicce ingerenze degli emissari del Komintern in un momento decisivo della politica italiana106. Ritorneremo sulla questione. Preliminarmente, però, occorre interrogarci sulle circostanze storiche che conferirono a Lenin l’autorità di liquidare il movimento di Zimmerwald, d’incorporare nel Komintern la sinistra rivoluzionaria, eliminando centristi e pacifisti, componenti importanti della coscienza autocritica del socialismo europeo, di forgiare il nuovo movimento comunista internazionale sul movimento d’avanguardia leninista107 .

Il collegamento della rivoluzione d’Ottobre e del bolscevismo con la tradizione del socialismo occidentale fu dovuto al retaggio della Grande Guerra. Julij Martov l’aveva capito perfettamente108. L’azione livellatrice della guerra aveva annullato la percezione delle differenze esistenti nei diversi contesti e cancellato ogni estraneità geografica e sociale. La

104 Eric J. Hobsbawm, Anni interessanti. Autobiografia di uno storico, tr. it., Rizzoli, Milano 2002, p. 72. 105 Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve, 1914-1991, tr. it., BUR, Milano 2006, p. 88. 106 Cfr. Helmut König, Lenin e il socialismo italiano, 1915-1921, tr. it. e a cura di Giorgio Petracchi, Prefazione di Renzo De Felice, Vallecchi, Firenze 1972, p. 79, nonché pp. 247-248, nota 56. 107 Cfr. Robert Craig Nation, War on War. Lenin, The Zimmerwald Left, and the Origins of Communist International, Duke University Press, Durham 1989, pp. 218 sg. 108 Julij Martov, Bolscevismo mondiale. La prima critica marxista del leninismo al potere, Introduzione di Vittorio Strada, Prefazione di Födor Dan, Einaudi, Torino 1980, pp. 4 sg. «Mistica – scrive ancora Martov, p. 24 – è già l’idea stessa di una forma politica che racchiude in sé il mezzo per superare contraddizioni economiche, sociali e nazionali, in mezzo alle quali si muove la rivoluzione generata dalla guerra mondiale».

guerra liberò l’immaginazione rivoluzionaria dal retaggio delle leggi storiche elaborate dal socialismo teorico, con le sue distinzioni tra paesi avanzati e paesi arretrati.

L’intervento del giovane delegato austriaco al congresso di fondazione del Komintern nel marzo 1919 è paradigmatico di quanto detto. Karl Steinhardt, detto Gruber, giunse a Mosca dopo un viaggio di 17 giorni attraverso l’Europa devastata. Egli non trovò la Russia diversa – o meglio, diversamente distrutta – rispetto alle regioni dell’Europa che aveva attraversato. Non ebbe perciò esitazioni a promuovere la Russia da paese arretrato a nazione guida, a riconoscere il bolscevismo come il necessario sviluppo della Ragione storica, ad assumere il bolscevismo a modello del movimento comunista mondiale109 .

L’impatto della rivoluzione d’Ottobre nella crisi postbellica provocò in Germania, in Francia come in Italia un generale spostamento a sinistra del quadro politico. Più precisamente, promosse la disaggregazione delle componenti di sinistra dai vari partiti nazionali, la costituzione di un’estrema Sinistra e di frange ancora più estremiste. Perché tale frazionamento, si chiede Annie Kriegel? Perché la Sinistra europea – questa la sua risposta – «è il luogo teorico dove si mescolano le acque di due grandi fiumi ideologici del XIX secolo rivoluzionario: il marxismo e l’anarchismo»110 .

In Germania l’eco della rivoluzione d’Ottobre giunse come il segnale che poteva «far nascere la capacità d’azione storica del proletariato tedesco»111. La Germania era percorsa da fermenti di guerra civile. Gruppi e gruppuscoli si richiamavano all’esperienza sovietica: in primo luogo la Lega Spartakista, ricostituitasi il 3 gennaio 1919 sotto il nome di Partito Comunista di Germania (KPD) e la Sinistra dell’USPD – il Partito Social-Democratico Indipendente di Germania, fondato a Gotha nel 1917 dagli espulsi dalla SPD. Tuttavia il primo Congresso pantedesco dei Consigli operai e dei soldati – Berlino, 16-19 dicembre 1918 – aveva approvato a grande maggioranza la proposta d’indire le elezioni per l’Assemblea Costituente. Albert, il delegato tedesco al primo Congresso del Komintern, ricordò che il partito socialdemocratico tedesco (SPD) riportò 11 milioni di voti e 163 deputati alle elezioni per l’Assemblea nazionale del 19 gennaio 1919, mentre l’USPD ebbe solo 2 milioni di voti e 22 deputati112. Il proletariato tedesco aveva con ciò riconfermato di preferire la democrazia di tipo occidentale in alternativa a quella di tipo sovietico113 .

Il programma di Rosa Luxemburg teneva conto di questa situazione e combinava azione parlamentare e azione rivoluzionaria. La maggioranza degli spartakisti, invece, inchiodò Kautsky al suo determinismo – alla mancanza delle “condizioni oggettive” – e, appellandosi all’universalismo – al volontarismo – della rivoluzione d’Ottobre, volle raccogliere, prima delle elezioni dell’Assemblea Costituente, il segnale della rivoluzione mondiale.

109 Les Congrès de l’Internationale Communiste, textes intégraux publiés sous la direction de Pierre Broué. Le premier Congrès, 2-6 mars 1919, EDI, Paris 1974: cfr. il Rapport de Gruber alle pp. 140 sg. 110 Annie Kriegel, La crisi rivoluzionaria 1919-1920: ipotesi di un modello, in Problemi di storia dell’Internazionale comunista, 1919-1939. Relazioni tenute al Seminario di studi organizzato dalla Fondazione Luigi Einaudi (Torino 1972), a cura di Aldo Agosti, Fondazione Einaudi, Torino 1974, p. 29. 111 Rosa Luxemburg, Scritti politici, a cura di Lelio Basso, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 566. 112 Les Congrès de l’Internationale Communiste, cit, Rapport d’Albert, p. 62. 113 Cfr. Erich Eyck, Storia della Repubblica di Weimar, 1918-1933, tr. it., Einaudi, Torino 1966, pp. 55-65.

Rosa Luxemburg e Karl Liebkneckt non erano d’accordo, ma seguirono la maggioranza per non rimanere impigliati allo stesso chiodo di Kautsky.

Il ragionamento degli spartakisti, come quello di Lenin, era dialetticamente – e astrattamente – corretto: ammesso che la rivoluzione mondiale fosse ormai strutturalmente matura, poco importava da quale parte fosse cominciata. Davanti ad una prateria arida e secca poco importava stabilire dove fosse stato gettato il fiammifero, se a Nord o a Sud, per appiccare il fuoco. Anzi, in questa logica poteva risultare razionale cominciare proprio dalla Russia in quanto anello più debole, e vecchio bastione della reazione. Questo primo significato della rivoluzione sovietica, intesa quale segnale della rivoluzione mondiale, fu sostenuto dai comunisti tedeschi ancora per qualche anno, fino al 1923, allorché divenne chiaro che la Germania – come già l’Italia e la Francia – non era affatto alla vigilia dell’insurrezione.

In Francia, l’Ottobre russo ruppe per la seconda volta nel corso della guerra l’equilibrio del movimento operaio francese e provocò un generale spostamento a sinistra della SFIO – Sezione Francese dell’Internazionale Operaia – al Congresso di Parigi, tra il 6 e il 10 ottobre 1918. A sinistra stavano Loriot e Souvarine, esponenti della frazione zimmerwaldista; a cerniera tra la sinistra e i centristi c’era Pierre Brizon, pacifista, autore del giornale “Vague” che tirava 300.000 copie. Ma la conoscenza della rivoluzione sovietica rimaneva confinata in ambiti ristretti, sia intellettuali sia operai, ed era vista ora in versione anarchica e anarchizzante, quale trionfo dello spontaneismo e dell’azione diretta alla Raymond Pericat, ora in versione sindacalista rivoluzionaria, che identificava press’a poco i soviet con i sindacati114, e infine in versione giacobina, diffusa nella SFIO, partito a base largamente operaia, da intellettuali, professori universitari e avvocati.

Costoro cedettero spesso alla tentazione «di modellare l’interpretazione degli eventi sovietici, nel bene e nel male, sul precedente della rivoluzione francese»115. In questo senso il bolscevismo non apparve loro il primo fenomeno storico di tal genere, poiché teneva dietro al giacobinismo, il vero inventore della formula. La rivoluzione d’Ottobre fu posta così «nella discendenza della rivoluzione francese come un evento dello stesso ordine»116, il cui compito era di portare a termine la Rivoluzione. Quel capitolo, riaperto e non ancora concluso, sedusse gli intellettuali, i progressisti non meno dei rivoluzionari e, pur in diverso modo e misura, gli intellettuali radical-borghesi, socialisti e cattedratici, a motivo del ruolo storico che affidava loro. Tutti contribuirono a conferirle quel carattere di universalità, rinnovato ed arricchito sempre di nuovi contenuti.

In Italia, dove la Sinistra non aveva alle spalle questa grande tradizione rivoluzionaria, i massimalisti percepirono la rivoluzione d’Ottobre nello schema millenaristico di Thomas Müntzer: una sorta di miracolo intervenuto alla fine di un’epoca d’ingiustizia ad impedire la consumazione della rovina del mondo. Ma anche la risposta data dal giovane Gramsci, al perché la rivoluzione fosse scoppiata proprio in Russia, ruppe il delicato equilibrio fra vo-

114 Cfr. Annie Kriegel, Aux origines du communisme français, contribution à l’histoire du mouvement ouvrier français, Flammarion, Paris 1970, p. 61. 115 Sergio Luzzatto, La “Marsigliese” stonata. La sinistra francese e il problema storico della guerra giusta, Dedalo, Bari 1992, p. 104. 116 François Furet, Il passato di un’illusione. L’idea comunista nel XX secolo, tr. it. a cura di Marina Valensise, Mondadori, Milano 1995, p. 115.

lontarismo e determinismo, che caratterizza il marxismo117, e portò a galla l’aspetto idealistico e volontaristico delle rappresentazioni politico-psicologiche del socialismo italiano118 .

A livello popolare, poi, l’attrazione mitopoietica della rivoluzione d’Ottobre sollevò nelle masse socialiste una potente ondata di “plebeismo”. Intendo con ciò l’emersione d’un immaginario sociale che si risolveva in un repertorio di pratiche inadeguate, moralmente e politicamente, a trasformare la società secondo nuovi principii di legittimità. Plebeismo e immaturità politica, del resto, spiegano la scalata di Mussolini ai vertici del PSI. Lo sottolinea argutamente Antonio Graziadei: i fragorosi applausi che Mussolini socialista riscosse tra i lavoratori dal 1912 al 1914 «non erano rivolti ai suoi argomenti; andavano piuttosto alle frasi paradossali, andavano alla voce, ora alta, ora cavernosa, andavano agli occhi smisurati e roteanti»119 .

Non si può, tuttavia, comprendere appieno l’impatto che ebbe in Italia la rivoluzione d’Ottobre prescindendo dal fatto che tra il governo italiano, che aveva voluto la guerra, e il popolo, che l’aveva subita e fatta, vi erano meno mediazioni che in altri paesi occidentali. In questo senso non è azzardato pensare che il mito della rivoluzione d’Ottobre servisse più che altrove a riempire un vuoto: quel vuoto creato dai sacrifici compiuti, dalle speranze deluse, dalle crescenti difficoltà economiche, dalle mancate promesse governative.

Inoltre, alcuni tratti comuni alla tradizione politica italiana e russa facilitarono la ricezione del mito bolscevico in Italia. Entrambi i popoli erano caratterizzati da un’esperienza storica marcatamente antistatalista sboccata in atteggiamenti di ribellione “libertaria”. Basti pensare alla popolarità che ebbe in Italia, in un certo periodo, la figura di Bakunin. La diffusione dell’anarchismo in Italia, in parte d’ispirazione russa, nacque dalla convinzione che fosse impossibile, per via legale, migliorare in qualche maniera le condizioni di vita del popolo, se non a vantaggio della borghesia. E ancora, il mito sovietico nel suo più vero significato fu, in Italia, essenzialmente antiborghese, analogamente per certi aspetti all’esperienza russa. L’epiteto “borghese” nell’Italia dell’inizio del secolo – e anche oltre – ha lo stesso significato spregiativo del corrispettivo buržuj in Russia. E sarebbe un errore vedere nell’antistatalismo come nell’“antiborghesismo” un fenomeno tipico delle regioni più arretrate d’Italia. Come del resto anche Barcellona, la roccaforte anarchica della Spagna, non era certo la zona più arretrata di quel paese, né l’Ucraina, che espresse in certi momenti un imponente movimento libertario120 .

Tutto questo è importante per cercare di capire lo slogan “fare come in Russia”, che percorse l’Italia nel 1919. I tumulti annonari cominciati nella primavera-estate del 1919, prima in Toscana poi in Romagna, dilagati nell’Italia centrale e nei capoluoghi del Nord – ne furono coinvolte quasi tutte le province italiane – rimasero impressi nella memoria popolare toscana con il curioso – e significativo – appellativo di bocci-bocci, deformazione linguistica di “fare il bolscevismo”. Le squadre di requisizione e i componenti dei soviet

117 Si vedano, a questo proposito, le osservazioni di Robert Craig Nation, War on War… cit., pp. 228-229. 118 Antonio Gramsci, La rivoluzione contro il Capitale, in Opere di Antonio Gramsci. Vol. 8. Scritti giovanili, 1914-1918, Einaudi, Torino 1958, p. 150. 119 Antonio Graziadei, Memorie di trent’anni, 1890-1920, Edizioni Rinascita, Roma 1950, p. 116. 120 Per uno sguardo d’insieme si veda Giorgio Petracchi, Il mito della rivoluzione sovietica in Italia, 1917-1920, “Storia contemporanea”, n. 6 1990, pp. 1116 sg. E va ricordato il Prof. Giovanni Grassi che ha collaborato con l’Autore.

annonari indossavano bracciali rossi e berretti con la stella rossa, i segni distintivi dei bolscevichi. Il bocci-bocci rappresentò il modo concreto di “fare il bolscevismo”: mille episodi scoordinati e ripetitivi, senza che questa rivolta trovasse uno sbocco nazionale di tipo rivoluzionario121. Nei ricordi di Fosco Maraini, bambino, è rimasto impresso il passaggio d’un corteo interminabile per Via Ripoli, popolare rione fiorentino, di gente con le bandiere rosse che il vento agitava gagliardamente e soprattutto il commento di Martino, un suo famiglio: «Quello è il futuro [...]. Tra poco vi s’ammazza tutti, e poi si diventa noi e’ padroni, capito? La terra dev’essere di chi la coltiva, no di voialtri, capito?»122 .

Non diversamente si esprimeva l’on. socialista Pietro Abbo nei suoi applauditi comizi in Toscana. Il repertorio dell’agitazione plebea ricalcava, in salsa italiana, gli schemi della rivolta contadina russa di tipo anarcoide che in Russia annientò, prima e dopo l’Ottobre, tutto il vecchio mondo rurale. Lenin cavalcò l’ondata plebea, le torbide forze scatenate del bakuninismo sociale, prima di ricacciarle nella oscurità123. Non è un caso, però, che quel gigantesco fenomeno di militarizzazione e accentramento che fu il “comunismo di guerra” – frutto dell’ideologia bolscevica – continuò ad essere interpretato in Italia come il suo opposto e ispirò le istanze più libertarie. Mentre in Russia gli anarchici venivano emarginati – per essere dopo annientati – dai bolscevichi, in Italia l’anarchico Malatesta veniva acclamato dalle folle deliranti come il “Lenin d’Italia” e Lenin si presentava alle masse in Italia con volto anarchico.

L’Italia del 1919 era terra permeabile alla ricezione, alla permanenza e all’azione degli emissari di Mosca, i quali, confidando nella disponibilità dei compagni socialisti potevano percorrere il Paese in lungo e in largo in “libera” clandestinità124, con o senza il concorso degli esponenti filobolscevichi dell’emigrazione russa125. Alcuni di essi come Aron Wisner e Marc Šeftel entrarono in clandestinità e si impegnarono nell’attività cospirativa; qualche

121 Illuminante, a questo proposito, il volume di Roberto Bianchi, Bocci-Bocci. I tumulti annonari nella Toscana del 1919, L.S. Olschki, Firenze 2001. 122 Fosco Maraini, Case, amori, universi, Mondadori, Milano 1999, in particolare il cap I. 9, Martino e le bandiere rosse, pp. 64-65. 123 Si veda Ettore Cinnella, Storia universale. Vol. 22. La rivoluzione russa, Corriere della Sera, Milano 2005, pp. 103 sg. 124 In “libera” clandestinità. Ricordi del lavoro clandestino all’estero negli anni 1919-21, è il titolo del volume di Vladimir Dëgot’, uno degli emissari sovietici, stampato a Mosca nel 1923 dalla Gosudartvennoe Izdatelstvo (Casa Editrice di Stato). I capitoli che riguardano il ruolo da lui svolto in Italia si possono leggere in italiano ne “L’est”, n. 1, 31 marzo 1967, pp. 177-214. Egli racconta (p. 197), ma il suo racconto è del tutto inverosimile, d’aver sventato un colpo di Stato a favore della Costituente, intentato da Nitti in collaborazione col partito socialista. Intervenendo in nome del Komintern egli avrebbe sostenuto l’inutilità della manovra: che ci fosse il re o Nitti sarebbe stato indifferente dal punto di vista rivoluzionario. Avrebbe con ciò ripetuto il vecchio pensiero di Serrati, secondo il quale la Costituente era un «vecchio arnese, Lenin la getta via. E fa bene». Cfr. Tommaso Detti, Serrati e la formazione del Partito Comunista Italiano. Storia della frazione terzinternazionalista, 1921-1923, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 9. 125 Si vedano, a questo proposito, gli approfondimenti biografici contenuti nel volume di Agnese Accattoli, Rivoluzionari, intellettuali, spie. I russi nei documenti del Ministero degli Esteri italiano, Europa Orientalis, Salerno 2013, pp. 259-300. Oltre al pionieristico volume di Antonello Venturi, Rivoluzionari russi in Italia, 1917-1921, Feltrinelli, Milano 1979, è utile consultare il recente volume di Valentine Lomellini, La grande “paura rossa”. L’Italia delle spie bolsceviche (1917-1922), Prefazione di Georges-Henri Soutou, Franco Angeli, Milano 2015. La ricerca, condotta sulle fonti di

altro venne allo scoperto e divenne un influente pubblicista. È il caso dell’Ing. Michail/ Michele Vodovozov. Da una lettera scritta a Zinov’ev, si apprende che egli era in Italia già prima della guerra126. Si definiva un socialista convertito dalla guerra alla causa rivoluzionaria, e dall’inizio della rivoluzione russa aveva sostenuto in tutti i modi la causa dei bolscevichi nella loro lotta contro il regime di Kerenskij sulle pagine dell’“Avanti!”, firmandosi prima Ing., poi Nado con articoli redazionali. Viene così stabilita, senza ombra di dubbio, l’identità del collaboratore russo dell’“Avanti!” che si celava sotto quelle sigle.

Dopo il novembre 1917, Vodovozov cominciò a sostenere la rivoluzione d’Ottobre, il regime sovietico e la III Internazionale127. Dal 1919, la sua biografia salì di livello. Grazie alla politica di apertura del governo Nitti verso la Russia sovietica, ne divenne ascoltato consulente, al punto da accompagnare l’on. Bombacci a Copenhagen a trattare con Litvinov sia la ripresa dei traffici, sia l’accordo sul rimpatrio dei prigionieri; infine, nel 1920, nella prospettiva della ripresa degli scambi commerciali, assunse la qualifica di corrispondente per l’Italia della delegazione commerciale della Repubblica dei Soviet. Nel 1921, in seguito all’arrivo a Roma di Vorovskij, capo della delegazione commerciale, fu completamente esautorato.

Il primo degli agenti sovietici ad arrivare in Italia, però, fu Nikolaj Ljubarskij. Arrivò a Milano nell’agosto 1919 proveniente dall’Austria con un passaporto intestato a Carlo Niccolini. L’aveva comprato a Vienna corrompendo un’addetta al Consolato italiano. Era prassi degli agenti sovietici in missione corrompere i funzionari dell’“Occidente marcio”. A Máthyás Rákosi, in partenza per la Germania, Lenin raccomandò di tenere a portata di mano cinque o sei milioni di marchi. Gli sarebbero serviti a corrompere gli investigatori, nel caso fosse stato arrestato128 .

Niccolini, arrivato a Milano, fu ospitato direttamente in casa dal direttore dell’“Avanti!” Giacinto Menotti Serrati. Il quale col concorso finanziario del suo ospite fondò il quindicinale “Comunismo”; il primo numero uscì il 1° ottobre 1919, alla vigilia del Congresso di Bologna del PSI. Almeno dall’ottobre 1919 si trovava in Italia anche Mordko A. Heller, già studente universitario a Firenze prima della guerra, conosciuto col nome di Antonio Chiarini. Ciò che li contraddistingueva entrambi era la perfetta conoscenza della lingua italiana. All’inizio del 1920, dopo l’allentamento del blocco alla Russia, divenne ancora più facile agli emissari sovietici entrare in Italia. I passaporti, naturalmente falsi, li compravano corrompendo gli impiegati dei consolati italiani. Provenienti da Odessa arrivarono

pubblica sicurezza, evidenzia l’approssimazione, la contraddittorietà delle segnalazioni e anche lo scarso controllo degli organi preposti alla sorveglianza degli stessi segnalati. 126 Era giunto a Milano nel 1914, poi si era trasferito a Roma. Cfr. Agnese Accattoli, Rivoluzionari, intellettuali, spie… cit., p. 291. Ma non risulta però nella lista dei sudditi russi residenti a Roma, inviata dalla Prefettura al Ministero dell’Interno in data 29 maggio 1918, in Archivio Centrale dello Stato (ACS), Min. Int., Direz. Gen. PS, Div. A.G.R., b. 116. 127 Vodovozov a Zinov’ev a Pietroburgo, Roma, 18 ottobre 1920. La lettera, dattiloscritta in russo su carta intestata «Delegazione Commerciale della Repubblica Federativa dei Soviety in Italia. Il Corrispondente per l’Italia», è in Fondazione Gramsci, Roma, Archivio Partito Comunista, 19211943, Fondo 513-1-006. Ringrazio il Prof. Silvio Pons, per l’illustrazione del Fondo e per la liberalità concessami nella sua consultazione. 128 Mátyás Rákosi, Visszaemlékezések 1892-1925 [Memorie 1892-1925]. Vol. II, Napvilág Kiadó, Budapest 2002, p. 583. Ringrazio il Prof. Gianluca Volpi per la traduzione.

Daniel Ridel, Elena Sokolovskaja e Vladimir Dëgot’129. Ridel si avvicinò al gruppo degli ordinovisti di Torino e fu mallevadore di Gramsci presso Lenin.

Nell’imminenza del Congresso di Livorno arrivarono esponenti del Komintern di grosso calibro e di lungo corso: il bulgaro Christo Kabakčev, l’ungherese Máthiás Rákosi e, come osservatore, l’altro bulgaro Georgi Dimitrov. E ancora, nell’autunno del 1920, fecero la loro comparsa altri emissari che, circondati da un’atmosfera di mistero e intrigo, si dicevano comandati di “incarichi speciali”. Lo stesso Vodovozov, mezzo consulente commerciale dei Soviet e mezzo agente del Komintern, per la compenetrazione ancora persistente a Mosca tra diplomazia e rivoluzione, si sentì in dovere di chiedere spiegazioni a Zinov’ev, Presidente dell’Internazionale comunista:

da me si è presentato un compagno che ha detto di chiamarsi Georghij Granovskij. Mi ha dichiarato di far parte della CEKA e che è stato mandato in Italia per organizzarvi una sezione della CEKA insieme ad un altro compagno, tale Volkonskij. Costui non aveva con sé nessun mandato definitivo. Al posto della carta d’identità mi ha mostrato un certificato del burö polacco di propaganda e di agitazione presso il comitato centrale (del 17 agosto) senza indicazione dell’anno, con il N. 2050, in cui si parla di Georghij Granovskij che è un corriere per Bialistok. Lo stesso mi ha mostrato anche una composizione su un pezzo di stoffa indirizzata al compagno L. a Milano e firmata da un certo Entin con un segno [e sulla lettera è disegnato un triangolo] senza alcun timbro130 .

Lo stesso Vodovozov si permise di osservare, sommessamente, che gli sembrava prematuro impiantare una sezione della CEKA in Italia. L’osservazione toccava un punto sensibile della ramificazione – non ancora vera e propria organizzazione – kominternista in Europa. È noto che le 21 condizioni, approvate nel corso del II Congresso del Komintern – luglio-agosto 1920 – sovrapponevano un modello gerarchico alla diversità democratica delle varie sezioni nazionali. La terza condizione, quella che imponeva la creazione di organizzazioni clandestine accanto agli organismi legali, comportava la giustapposizione di organismi legali e organismi occulti, militarizzati. A quale dei due organismi sarebbe appartenuta l’autorità reale? Léon Blum sollevò la questione a Tours, nel Congresso nazionale del partito socialista francese – 25-30 dicembre 1920 – in cui fu fondato il Partito Comunista Francese (PCF).

Egli parlò nella sessione mattutina del 27 dicembre e rivolgendosi ai partigiani dell’Internazionale comunista li apostrofò:

Il vostro comitato occulto non potrà nascere da una deliberazione pubblica di un vostro congresso, bisogna che abbia un’altra origine. Bisogna che la sua costituzione provenga dall’esterno. Ciò equivale a dire che, nel Partito che si vuol creare, il potere centrale apparterrà in ultima analisi a un

129 I passaporti di questi ultimi erano intestati alla “falsa coppia” Vladimir ed Elena Cardoni. Cfr. Helmut König, Lenin e il socialismo italiano… cit., p. 66. 130 Nella stessa lettera chiedeva cosa fare del compagno Asev Michail, che da tre mesi stava a Roma senza che la sua presenza avesse alcun senso. Vodovozov a Zinove’v ad Halle, Roma, 18 ottobre 1920. La lettera, dattiloscritta in russo, molto più breve della precedente, è sempre scritta su carta intestata «Delegazione Commerciale della Repubblica Federativa dei Soviety in Italia. Il Corrispondente per l’Italia». Si trova in Fondazione Gramsci, Archivio Partito Comunista, 1921-1943, Fondo 513-1-006.

comitato occulto designato – non c’è altra ipotesi possibile – sotto il controllo del Comitato esecutivo dell’Internazionale stessa. Gli atti, anche quelli più impegnativi [graves] della vita del Partito, le sue decisioni saranno prese da chi? Da uomini che voi non conoscete assolutamente131 .

Negli stessi giorni gli fece eco Serrati. Al culmine della sua polemica puntò il dito contro Mosca e scrisse in tono d’accusa: «Si è costituita così nell’Internazionale comunista una specie di massoneria rossa, che opera nel silenzio e nel mistero e che giudica e manda all’infuori e al di sopra del partito; una specie di massoneria rossa tanto più pericolosa quanto è irresponsabile»132. Boris Souvarine, ripensando sessanta anni dopo alla nascita del PCF a Tours, arriva a sostenere che Lenin concepisse il Komintern come uno strumento militare. A questo proposito egli usa l’immagine che la III Internazionale fosse nata dalla testa di Lenin come un’«operazione mentale», alla stregua di Minerva, la dea armata, nata dalla testa di Zeus133. Il Komintern fu lo strumento voluto da Lenin per estendere all’Occidente l’Ottobre russo. Dai suoi quadri, gli apparati segreti sovietici reclutarono «fin dall’inizio i loro collaboratori internazionali più numerosi e degni di fiducia»134. Oramai era finito il tempo – aveva scritto Lenin nel 1919 – «del socialismo naif, utopico, fantastico, meccanicista, intellettuale in base al quale ci si figurava fosse sufficiente convincere la maggioranza della gente, tratteggiarle un gradevole quadro della società socialista in virtù del quale la maggioranza adotta il punto di vista del socialismo»135. Solo la dittatura del proletariato avrebbe fatto pervenire l’umanità al comunismo. La filosofia della prassi leninista si sovrappose, bruscamente, alla pedagogia socialista. Il caso dell’Italia fu in questo senso esemplare. In Italia, tutto il PSI aveva aderito alla III Internazionale: il 19 marzo 1919 il Comitato nazionale aveva votato l’adesione all’Internazionale comunista e il partito l’aveva riconfermata nel Congresso di Bologna dell’ottobre 1919. Tra i paesi capitalisti l’Italia offriva l’immagine d’essere sull’orlo della rivoluzione. Di più: era opinione corrente che un colpo di Stato di tipo bolscevico avrebbe avuto successo, ma non avrebbe lasciato i massimalisti al potere se non per pochi mesi in seguito al blocco navale anglo-francese. Lo stesso Lenin nell’ottobre 1919 aveva invitato i socialisti a non tentare avventure premature in attesa che la rivoluzione assumesse portata europea136 .

Sennonché nell’estate del 1920 l’andamento della guerra russo-polacca sembrò modificare il quadro internazionale e, con esso, la collocazione dell’Italia. Il “ponte rosso” che l’avanzata vittoriosa dell’Armata Rossa stava gettando tra Mosca e Berlino creava le condizioni per collegare l’Italia con la rivoluzione, e quindi favorire il suo slittamento di campo. In questa prospettiva, Lenin mise all’ordine del giorno lo scoppio della rivoluzione in Italia. Per favorirla, come scrisse a Stalin il 23 luglio 1920, si sarebbe dovuto sovietizzare

131 Déclaration de Léon Blum, ne Le Congrès de Tours (18° Congrès national du Parti socialiste). Texte Intégrale, a cura di Jean Charles et al., Éditions Sociales, Paris 1980, p. 417. 132 Giacinto Menotti Serrati, Di alcune altre nostre ragioni, “Comunismo”, a. II, n. 6, 15-31 dicembre 1920, p. 311. Traggo la citazione dal volume di Tommaso Detti, Serrati e la formazione del Partito Comunista Italiano… cit., p. 55. 133 Boris Souvarine, Autour du Congrès de Tours, Editions Champ Libre, Paris 1981, p. 17. 134 Ruth von Mayenburg, Hotel Lux, tr. it., Editoriale Nuova, Milano 1979, p. 113. 135 Traggo la citazione di Lenin dal volume di Leonid Heller e Michel Niqueux, Histoire de l’utopie en Russie, PUF Écriture, Paris 1995, p. 199. La citazione è tratta dall’edizione francese delle opere di Lenin, Vol. XXIX, p. 358. 136 La lettera fu pubblicata nell’“Avanti!” (ed. romana) del 5 dicembre 1919.

l’Ungheria, la Cecoslovacchia e anche la Romania137. Il verificarsi di questa congiuntura avrebbe annullato la pregiudiziale dei massimalisti, i quali avevano assicurato che la rivoluzione era matura, ma temevano di perdere il potere a causa dell’isolamento internazionale dell’Italia.

La geopolitica leniniana, prima d’infrangersi sotto le mura di Varsavia, trovò un ostacolo nella resistenza di Serrati a seguire le prescrizioni di Mosca. In una polemica protrattasi per mesi tra Mosca e Milano, tra il Komintern e l’“Avanti!”, Serrati rivendicò l’applicazione autonoma dei 21 punti, si oppose al cambiamento del nome del partito, e all’espulsione dei riformisti fino a quando non avessero infranto ufficialmente la disciplina di partito. Ma, in fondo, il nocciolo del contrasto fra Serrati e l’Internazionale comunista verteva sull’analisi della situazione italiana. L’Internazionale riteneva che l’Italia fosse più predisposta di altri paesi europei alla rivoluzione. I presupposti di questa diagnosi erano due: uno oggettivo, l’arretratezza economica del Paese e le condizioni sociali del sottosviluppo; l’altro soggettivo, il convincimento che il PSI fosse più rivoluzionario degli altri partiti fratelli a motivo dell’esiguità dello strato superiore dei lavoratori, l’aristocrazia operaia, base sociale del riformismo. Nel settembre 1920 l’Internazionale comunista, in una lettera firmata anche da Lenin, esortava il PSI all’azione: «Sussistono in Italia tutte le principali condizioni per una grande rivoluzione proletaria, autenticamente popolare. Bisogna rendersene conto. Bisogna assumerlo come punto di partenza. Riteniamo che da questo punto di vista il PSI abbia agito e ed agisca in modo troppo poco risoluto. Lo scontro decisivo si avvicina. L’Italia sarà sovietica»138. Serrati aveva fatto ritorno in Italia il 16 settembre, dopo aver visitato la Russia con la delegazione – politica ed economica – del movimento operaio italiano. Il giorno dopo il suo ritorno erano cominciate, sotto la presidenza di Giolitti, le trattative per lo sgombero delle fabbriche occupate. In Russia Serrati aveva osservato l’inadeguatezza dei bolscevichi nell’edificare il nuovo Stato139; tornato in Italia, subiva la loro pretesa di dettare al PSI i tempi della rivoluzione in un paese in cui – a suo giudizio – non esistevano più condizioni rivoluzionarie. Serrati lo afferma esplicitamente nella lunga lettera in italiano, su carta intestata «Comunismo» e diretta il 7 dicembre al partito comunista russo: «Certo la situazione in Italia non è più oggi quella che era mesi or sono. Noi abbiamo minacciato

137 Il telegramma, in versione inglese, è pubblicato nel volume di Richard Pipes, The Unknown Lenin. From the Secret Archive, Yale University Press, New Haven-London 1996, p. 90. Cfr. Aleksander Kolpakidi-Jaroslav Leontiev, Il peccato originale. Antonio Gramsci e la fondazione del PCdI, in P.C.I. La storia dimenticata, a cura di Sergio Bertelli e Francesco Bigazzi, Mondadori, Milano 2001, p. 35, con la data sbagliata del 23 giugno. Sull’incidenza della guerra russo-polacca riguardo allo spostamento di campo dell’Italia, si leggano le considerazioni di Giorgio Petracchi, Da San Pietroburgo a Mosca: la diplomazia italiana in Russia, 1861-1941, Bonacci, Roma 1993, pp. 279 sg. 138 La lettera fu pubblicata in “Comunismo”, a. II, n. 2-3, 15 ottobre-15 novembre 1920, pp. 69 sg.; ed anche in “Ordine Nuovo”, n. 19, 30 ottobre 1920. 139 Serrati non rese pubbliche le sue riserve, ma le espresse in una riunione del gruppo parlamentare socialista a Trieste il 5 ottobre 1920. Un cronista dell’“Avanti!” le riassunse sull’edizione piemontese del giornale, l’8 ottobre. L’articolo è riprodotto da Piero Melograni, La Russia del 1920 in un discorso di Serrati, “Mondo Operaio”, giugno 1976, pp. 82-85. Sul viaggio in Russia della delegazione economica politica socialista e sulle sue ripercussioni in Italia, si veda Antonello Venturi, Tra propaganda sovietica ed immaginario socialista. Le impressioni italiane del viaggio in Russia nell’estate del 1920, “Movimento operaio e socialista”, Vol. VIII (n.s.), n. 3 1985, pp. 363-391.

col fucile carico di stoppa. Ed il governo italiano – che ora è nelle mani di un uomo molto abile – ha saputo difendersi assai bene»140 .

Serrati riteneva perciò che il partito dovesse disporre di tutte le sue forze sia per contrastare la reazione, sia nel preparare le condizioni della rivoluzione. Serrati parlava il linguaggio della responsabilità e del realismo. L’Internazionale il linguaggio volontaristico e ideologico. E Serrati divenne il bersaglio degli agenti del Komintern. Il fine era di demolirne l’autorità agli occhi delle masse e minarne il morale. «Non è pericoloso», ma «ripugnante e suscettibile», scrisse Ljubarskij a Zinov’ev. E, avvalendosi del fatto che lo conosceva bene, spinse l’Internazionale, Lenin stesso, gli esponenti comunisti più eminenti a metterlo sotto pressione, sicuro che avrebbe cominciato a tergiversare e infine a cedere: «Teme l’isolamento attorno a lui», concluse141. Niccolini e Vitalij – altro pseudonimo di Heller? – fecero pressione sul Segretario del partito perché lo sollevasse dalla direzione dell’“Avanti!”. Ma Gennari, persona definita debole e indecisa da Vodovozov, e da Vitalj letteralmente trjapka – uno straccio, ossia uno smidollato – tergiversava142 .

Il linguaggio passò dalla critica all’ingiuria. C’è anche da aggiungere che l’attendismo del PSI sviluppava, a Mosca e negli agenti sovietici in Italia, fastidio psicologico, financo disprezzo per l’aspetto sentimentale e la “mentalità piccolo borghese” dei socialisti italiani. Il messaggio che arrivava al Komintern dagli “occhi di Mosca” in Italia era chiaro: bisognava che gli agenti sovietici prendessero la guida dell’ala sinistra del partito per approvare le 21 condizioni dell’Internazionale e vincere il congresso. «Noi, russi – scriveva Vodovozov a Zinov’ev – dobbiamo eliminare i difetti dei nostri compagni italiani con il nostro instancabile attivismo»143 .

Non aveva torto Serrati a lamentarsi che gli emissari russi in Italia non rappresentavano correttamente la situazione. Nella lettera al partito comunista russo, che abbiamo appena citato, Serrati riassunse le ragioni della sua posizione. Ricordò che il governo era ostaggio del PSI, grazie anche all’azione del gruppo parlamentare riformista, come si era visto nel corso della guerra russo-polacca. E precisò: «Doveva essere interesse nostro giocare in questa situazione particolare del governo italiano per fare dell’Italia una specie di pièd à terre della nostra azione in Europa occidentale. Perciò sarebbe stato necessario mandare

140 Lettera di Serrati al partito comunista russo sui rapporti tra l’Italia e la Russia, Milano 7 dicembre 1920, in Fondazione Gramsci, Roma, Archivio Partito Comunista, 1917-1923, fasc. 20. La lettera fu recapitata a Mosca da Boris Vax, l’agente sbarcato nell’agosto 1920 dal vapore Pietro Calvi nel suo viaggio di ritorno da Odessa. Lo stesso 7 dicembre, Serrati scrisse una lettera in francese a Zinov’ev, chiedendogli un abboccamento, senza risultato, a Reval [Tallin] per spiegargli la realtà della situazione italiana. Questa lettera, a differenza della prima che non viene citata, è pubblicata in Paolo Spriano, Storia del Partito Comunista Italiano. Vol. 1. Da Bordiga a Gramsci, Einaudi, Torino 1967, p. 104. 141 Nella stessa lettera, Ljubarskij batteva cassa. Le sue richieste d’aiuto non erano state accolte dal centro di Berlino e ciò lo aveva «molto offeso». Questa lettera, s.d. (ma ottobre 1920) si trova in Fondazione Gramsci, Roma, Archivio Partito Comunista, Fondo 513-1-006. La lettera, in un corsivo russo di difficile lettura, è stata trascritta e tradotta dalla D.ssa Irina Garjavina, mia allieva all’Università di Udine, che ringrazio anche per la collaborazione alla traduzione delle lettere in russo precedentemente citate. 142 Lettera ai “Cari compagni” [dell’Esecutivo del Komintern], scritta da Vitalj dopo il convegno della frazione comunista a Imola (28-29 novembre 1920), a cui egli aveva partecipato, ivi. 143 Vodovozov a Zinov’ev, a Pietroburgo, Roma, 18 ottobre 1920, cit.

subito qui un vostro rappresentante senza fare assolutamente questione di persone»144 . Ricordò che Sforza era pronto al riconoscimento della Russia sovietica, procrastinato solo dalla cocciutaggine di Mosca nel voler accreditare Litvinov: «Si giunse al punto di volere che il nostro gruppo parlamentare impegnasse Turati a recarsi da Giolitti per indurlo ad accettare Litvinoff, mentre si sapeva che il conte Sforza aveva a più riprese fatto intendere che egli non poteva accettare Litvinoff per non blesser la suscettibilità inglese e si concluse così col non concludere»145 .

Ricordò che le cooperative rosse detenevano il monopolio di tutti gli scambi economici con Mosca, e lamentò che tutto il traffico si fosse fermato. Perché rischiare tutto questo con la riedizione in Italia della Repubblica dei Consigli di Ungheria e di Baviera? Serrati questo non lo scrisse esplicitamente. Ma lo espresse implicitamente, sollecitando i compagni sovietici a non incorrere in altri errori, anzi ad imparare dagli errori commessi. La prospettiva di combinare guerra e rivoluzione, lungamente perseguita a Mosca e che sembrava a portata di mano nell’estate del 1920, era tramontata dopo la sconfitta dell’Armata Rossa sulla Vistola.

Nessuno degli emissari sovietici valutò allora il pericolo del fascismo? Rákosi nelle sue memorie accredita la tesi che lui e Kabakčev, che vedevano per la prima volta le bande fasciste all’opera, ne valutassero la pericolosità meglio dei compagni italiani. Bordiga e Serrati – precisa – si erano abituati ad esse e ne sottovalutavano il pericolo146. Rákosi può sostenere la sua tesi avvalendosi del vantaggio storico dell’osservazione a posteriori. Gli agenti dell’Internazionale – è vero – notarono che, dopo il fallimento dell’occupazione delle fabbriche, la reazione aveva alzato la testa. Ma non si accorsero del fascismo. Per essi Giolitti rimaneva l’ultimo atout della borghesia. Né Lenin, né gli agenti del Komintern in Italia capirono che la divisione del movimento socialista potesse favorire l’affermazione di regimi ancora più a Destra e assai meno indulgenti della democrazia borghese verso il comunismo. Alla luce delle catastrofiche conseguenze per tutte le Sinistre, prodotte dal fascismo in Italia, Modigliani e Nikolaevskij, ormai nell’emigrazione, avevano freschi ricordi e possedevano buoni motivi per riesumare – e deprecare – le massicce ed indebite interferenze dell’Internazionale comunista sul PSI, e che lo avevano prima indebolito, poi diviso.

144 Lettera di Serrati al partito comunista russo sui rapporti tra l’Italia e la Russia, Milano 7 dicembre 1920, cit. 145 Ivi. 146 Mátyás Rákosi, Visszaemlékezések 1892-1925. Vol. II, cit., p. 572.

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